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#ReaCT2020 – Case study: L’aspirante ideologo italiano dello Stato islamico (C. Bertolotti)

di Claudio Bertolotti, Direttore START InSight, Direttore esecutivo Osservatorio ReaCT

Scarica #ReaCT2020, il 1° rapporto sul radicalismo e il terrorismo in Europa

Associazione a delinquere al fine del raggiungimento degli obiettivi dello Stato islamico (…), ai fini dell’eversione dell’ordinamento costituzionale democratico.

Con queste parole il Pubblico Ministero Emilio Gatti aveva chiesto la condanna per Elmahdi Halili, il giovane jihadista marocchino naturalizzato italiano, condannato a 6 anni e 6 mesi di reclusione per terrorismo – apologia e istigazione a commettere un attentato -, difeso dall’avvocato Enrico Bucci (in sostituzione di Wilmer Perga): il giovane marocchino naturalizzato italiano è colpevole, lo ha stabilito il tribunale di Torino il 28 giugno, dopo un processo andato avanti mesi, tra rinvii e cambi di avvocato difensore.

Chi è Halili, il terrorista torinese? 23 anni al momento dell’arresto avvenuto nel marzo del 2018, è un personaggio noto agli investigatori dell’Antiterrorismo della Digos; il suo nome compare nella maggior parte dei processi per jihadismo celebrati in Italia: quello a Fatima Sergio, la prima foreign fighter italiana, di origini campane, condannata a nove anni e probabilmente morta in Siria tra le fila del Califfato; e ancora, è protagonista di un’altra vicenda legata al terrorismo internazionale che lega l’Italia alla Svizzera: il caso di Abderrahim Moutaharrik, l’ex campione di kickboxing (di origini marocchine) residente in Lombardia ma che si allenava nel Luganese, poi condannato a sei anni per terrorismo.

Un elemento chiave per comprendere lo jihadismo italiano legato al fenomeno dello Stato islamico

Halili – già in precedenza indagato e poi condannato, previo patteggiamento, a due anni di reclusione con sospensione condizionale della stessa per istigazione a delinquere con finalità di terrorismo per aver redatto e pubblicato via web alcuni importanti documenti a favore dello Stato Islamico – rappresenta un elemento chiave per comprendere lo jihadismo italiano legato al fenomeno dello Stato islamico.

Halili non è stato un combattente, non ha avuto ambizioni operative, né ha manifestato l’interesse ad immolarsi come soldato nel nome del Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi. Halili è stato molto di più: nelle sue intenzioni lui si è imposto, in parte riuscendoci, come ideologo dello Stato islamico in Italia: esaltando le virtù del movimento terrorista, impegnandosi per l’imposizione della shari’a (la legge coranica) in Italia, incitando soggetti conosciuti prima sul web – e poi incontrati di persona – ad agire, a colpire nel nome dell’Islam, giustificando qualunque tipo di violenza nei confronti degli infedeli, degli apostati, ma anche dei musulmani che si sono lasciati corrompere dalla “religione della democrazia”.

Il suo è stato un lavoro intellettuale molto articolato, sapientemente ricostruito dagli operatori della Digos di Torino il cui lavoro è stato fondamentale per il Pubblico Ministero Emilio Gatti, che in sede di dibattimento ha chiesto la condanna a cinque anni per Halili raccomandando la necessità di farlo partecipare a un corso di de-radicalizzazione. Difficile dire quali potranno essere gli sviluppi di tale processo di de-radicalizzazione: va ricordato come in Italia non esista un percorso articolato e strutturato, anche a causa del fatto che il progetto di legge che lo avrebbe istituito (promosso da Stefano Dambruoso e Andrea Manciulli) dopo essere stato approvato alla Camera, si è fermato al Senato nella precedente legislatura.

Qualsiasi cittadino non musulmano che fa parte della coalizione che bombarda lo Stato islamico è un obiettivo militare per noi

Il lavoro di Halili in questi anni, come hanno ben ricostruito gli inquirenti, si è concentrato sull’ideologia jihadista, sulla sua giustificazione religiosa e, cosa più importante, sullo sviluppo di un manuale teologico per gli aspiranti jihadisti italiani. È il ”quaderno rosso” di Halili: un elaborato di 64 pagine, meticolosamente compilato ed estremamente ordinato che, in maniera efficace, sintetica e analitica, ripropone i concetti tratti dalle lezioni dei “predicatori dell’odio” reperite sul web, e da cui sono stati sviluppati i suoi successivi scritti poi condivisi dalla rete jihadista che ne ha fatto un documento di riferimento. Nel suo “quaderno rosso” Halili ha riportato la sua interpretazione del “dovere di uccidere” anche attraverso gli attacchi terroristici, che lui riconosce come “legittimi atti di guerra”: “qualsiasi cittadino non musulmano che fa parte della coalizione che bombarda lo Stato islamico è un obiettivo militare per noi” – dice Halili nel suo scritto. E ancora, sempre nel quaderno, Halili parla di Islam come elemento politico, e dunque guerra, che deve contrapporsi alla democrazia e sottometterla.

L’analisi del caso Halili mette in evidenza la sua estrema intelligenza e capacità di reclutamento e indottrinamento: è bravo a scrivere, bravo a parlare, convincente e determinato. La sua ambizione personale, oltre al suo contributo nella realizzazione del Califfato globale, è stata quella di crearsi una nuova identità, quella di ideologo e veicolo “critico” del messaggio dello Stato islamico. Una sorta di imam, capo spirituale. Ma è il suo approccio che ne ha dimostrato le indiscusse capacità: “lobbistico”, improntato a “fare rete”, allagare l’uditorio e i soggetti con cui interfacciarsi e dialogare. Un atteggiamento che si colloca sul piano dell’apologia di shari’a che tende alla radicalizzazione violenta. È indubbiamente un islamista, ha contatti radicali e accede a contenuti ideologici radicali che rielabora e diffonde: ma è l’ideologia della shari’a. E questo conferma le preoccupazioni nei confronti di quell’islam politico che dell’applicazione della legge coranica fa la sua battaglia.

Un’analisi, quella degli inquirenti, che si accompagna alle evidenze di anni di indagini da cui emergono le idee, le intenzioni e le azioni di un Halili che si radicalizza sempre di più, attraverso il web, a da qui ai contatti, prima virtuali e poi fisici con i suoi interlocutori, a loro volta nel mirino di altre procure che indagano sul terrorismo jihadista in Italia. Il giovane jihadista marocchino aumenta sempre più, con il passare del tempo, le ore dedicate allo “studio” del jihad, all’analisi dei testi dello Stato islamico, arrivando a trascorrere anche due ore al giorno leggendo il giornale Dabiq e Amaq, organi di informazione del gruppo in Siria e Iraq. Trascorre ore e ore lasciandosi ipnotizzare da video e audio jihadisti che lo alienano e lo motivano sempre più.

Si allontana dalla famiglia, arrivando a picchiare il padre, accusandolo di essere un apostata; effettua donazioni di soldi ad organizzazioni jihadiste, attraverso la pagina Facebook “musulmani d’Italia”. Fino ad allargare la sua rete virtuale al di la dei confini nazionali, arrivando direttamente alla linea del fronte siriano dove è stato in contatto, tra gli altri, con uno jihadista combattente, Omar al-Amriki, con cui dialoga a lungo e raccoglie, diffondendole successivamente, le informazioni dal campo di battaglia e sulle truppe che combattono. È con Omar al-Amriki che Halili si accredita, presentandosi come l’autore del documento-guida tradotto in italiano: un’autodenuncia che ha rappresentato per l’accusa un elemento forte per confermare il capo di imputazione e definire nel dettaglio il ruolo di Halili a supporto dello Stato islamico.

Il 28 giugno 2019 viene così condannato a sei anni e sei mesi di detenzione per terrorismo, Elmahdi Halili, lo jihadista di Lanzo torinese, l’aspirante ideologo dello Stato islamico in Italia; una condanna che conferma ancora una volta la concretezza della minaccia jihadista dello Stato islamico, non solamente nella sua essenza territoriale e fisica, ma ancora più pericolosamente su un piano ideologico e religioso che continua ad auto-alimentarsi e ad adattarsi alle misure di contrasto.

 




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