Guerra in Ucraina – l’analisi di C. Bertolotti (SKY TG24)

La trasmissione è andata in onda il 27 febbraio 2022


Ucraina: la possibile “exit strategy” di Putin (Adnkronos)

Putin ha commesso un azzardo strategico a cui potrebbe rimediare minacciando di occupare tutto il paese per poi ritirarsi forte di un accordo che potrebbe prevedere: un regime change e la ridefinizione dei confini ucraini con l’annessione delle repubbliche russofone appena riconosciute (opzione probabile), oppure la spartizione del paese in due – di qua e di la del confine naturale del fiume Dniepr. La prima è l’ipotesi più probabile, la seconda è possibile ma più difficile e meno vantaggiosa, sia per Mosca che per Kiev, sebbene, in entrambi i casi, il punto fermo di Mosca sarebbe un governo filorusso a Kiev quale condizione imprescindibile.

La prospettiva militare: tra azione, deterrenza e ipotesi operative

Russia vs Ucraina: ai complessivi 250.000 soldati ucraini, a cui si sommano le milizie nazionaliste, si contrappongono i 190.000 soldati russi, di cui una componente di riserva e una parte già impegnata sulle quattro direttrici terrestri convenzionali (principalmente aereo-terrestre-marittima): a Est (Kharkiv, Luhansk e Mariupol), a Sud (dalla Crimea e a Odessa), a Nord (dalla Bielorussia), a Ovest (con attacchi missilistici su Ivano-Frankivsk); un quinto fronte potrebbe aprirsi dalla Moldova (Transnistria) per alleggerire eventuali fronti impegnati da un’ipotetica controffensiva basata su un efficace contrasto dinamico e poi, auspicabilmente, una reazione dinamica da parte ucraina. Teoricamente i 250.000 ucraini sarebbero una forza sufficiente per fermare l’avanzata russa ma la superiore capacità operativa (impiego delle risorse militari e superiorità degli armamenti russi, anche in conseguenza dell’annientamento del sistema di difesa aerea e del sistema di controllo militare ucraino) e la potenziale riserva russa disponibile lasciano ben poche speranze alla riserva ucraina che potrebbe dare del filo da torcere a Mosca solo se si trasformassero in forze di guerriglia.

Dal campo di battaglia fisico a quello virtuale: la guerra ibrida

Ed è anche per prevenire una trasformazione del conflitto da convenzionale ad asimmetrico che la Russia, alla forza di manovra tradizionale affianca la manovra nella quinta dimensione: quella cibernetica e informativa dove ad attacchi cyber si sommano le info-ops contro gli appartenenti alle Forze armate ucraine e alle loro famiglie, attraverso l’invio di sms, wtsp, email. Una strategia, di fatto consolidata nella dottrina militare di Mosca nel 2015 e rivista recentemente nel 2021, che si basa sulla convinzione della minaccia rappresentata dall’Occidente. Lo stesso capo di stato maggiore generale delle forze armate, Valery Gerasimov, ribadiva le ragioni di questo pensiero nell’aprile 2019, ponendo l’accento sulla minaccia rappresentata dall’espansione della Nato verso la Russia, in particolare in Ucraina, e dai tentativi occidentali di spodestare il governo del presidente Putin attraverso l’uso della “guerra ibrida”. Una percezione rafforzata dalla consapevole debolezza delle proprie forze armate convenzionali, considerate non adeguate a far fronte a un possibile futuro scontro bellico con la Nato. È infatti convinzione, tra i vertici militari russi, che si debba accrescere la capacità operativa della dimensione cibernetica così da ottenere un equilibrio militare basato sull’asimmetria: un’opzione perseguita con convinzione dal Cremlino per assicurare al paese quel necessario e adeguato vantaggio militare funzionale a contrastare le ambizioni dell’Alleanza Atlantica, pur senza dover usare la forza cinetica. Quello russo è un approccio dottrinale di “dissuasione strategica” ma il concetto di base è forse meglio espresso nel termine usato dallo stesso Gerasimov di “strategia di difesa attiva”, diffuso in Occidente come “guerra ibrida” o “attività sotto soglia”.

La “exit strategy” di Vladimir Putin per l’Ucraina dopo “l’operazione militare speciale” (Adnkronos)

Una strategia che potrebbe “basarsi principalmente sull’instaurazione di un governo filo-russo”. Un “regime change, almeno in quella parte di Ucraina che verrà assoggettata al controllo russo e alle autoproclamate repubbliche popolari di Donetsk e Luhansk”, riconosciute solo dalla Russia, “anche se è improbabile una spartizione territoriale che vada oltre i territori russofoni”. Claudio Bertolotti, esperto dell’Ispi e direttore di Start InSight, ragiona con l’Adnkronos mentre i russi stringono su Kiev e dopo che la Russia si è detta pronta ad accogliere l’appello del presidente ucraino Volodymyr Zelensky inviando una delegazione a Minsk, in Bielorussia, per trattare con il governo di Kiev.

“L’Ucraina – dice – è stata lasciata sola a combattere una guerra contro la Russia che non volevano né Mosca né Kiev”. E “non sarà l’Afghanistan di Putin”. La “exit strategy” c’è stata fin dall’inizio perché “Putin ha ben chiaro quello che è l’esito di una guerra di lungo periodo” – in Afghanistan lo hanno visto prima i russi, poi gli Usa – e il rischio in assenza della “conquista di un obiettivo lampo” è una “guerra asimmetrica di logoramento”.

A questo punto, secondo Bertolotti, “appare chiaro che Putin abbia commesso un azzardo strategico” e “potrebbe rimediare solo minacciando di occupare tutto il Paese per poi ritirarsi forte di un accordo”. Un’intesa che, prosegue, “potrebbe prevedere la spartizione del Paese in due, di qua e di là dal confine naturale del fiume Dniepr”, un “regime change”, appunto, e “la ridefinizione dei confini ucraini con l’annessione delle repubbliche russofone appena riconosciute”, Donetsk e Luhansk. In ogni caso, “il punto fermo di Mosca sarebbe un governo filo-russo a Kiev”, una “condizione imprescindibile” secondo l’esperto, “anche forzando l’attuale governo ad accettare un accordo negoziale a vantaggio di Mosca”.

Bertolotti invita a non dimenticare “il punto di vista russo”, gli “aspetti storici”, la “percezione politica fermamente radicata all’interno della leadership russa di fortezza assediata”.

Negoziare, mentre in campo – spiega l’esperto – ci sono “complessivi 250.000 soldati ucraini contro i 190.000 soldati russi, una parte dei quali nella riserva” e “teoricamente i 250.000 ucraini sarebbero una forza sufficiente per fermare l’avanzata russa”. Ma “la superiore capacità operativa e la potenziale riserva russa disponibile lasciano ben poche speranze alla difesa ucraina”, che “potrebbe dare del filo da torcere a Mosca solo se si trasformasse in forze di guerriglia”.

“C’è da chiedersi – osserva – se vi sia l’opportunità e la necessità di aiutare militarmente la resistenza ucraina” perché “implicherebbe una prosecuzione del conflitto, quindi un aumento dei morti, distruzione e danni bellici molto rilevanti”. E “aiutare la resistenza” significherebbe “trasformare la guerra da convenzionale ad asimmetrica con le tecniche della guerriglia” e conseguenze “molto dolorose” per la Russia e l’Ucraina. Secondo Bertolotti, la comunità internazionale non è interessata questo, “a meno che ciò non sia inserito nell’obiettivo di indebolire Putin, non tanto di aiutare l’Ucraina”. Qui è “fondamentale il ruolo statunitense” che “potrebbe fare la differenza” in un'”ottica di contenimento della politica russa e di Putin”.

“Marginale e scarsamente rilevante”, rimarca, il ruolo di Ue e Nato. Un’Alleanza “che non può essere coinvolta direttamente per Statuto”, l’Ucraina non è un alleato, e che “potrebbe essere interessata per opportunità, ma al momento non è così e non lo sarà”.

E, conclude, “sul lungo periodo bisogna interpretare l’ambizione nazionale della Russia, basata su una volontà di stabilire gli equilibri che si erano consolidati durante la Guerra fredda”, sia “dal punto di vista dell’influenza che della presenza fisica in quello che era l’antico blocco sovietico”. E “aggiungere l’espansione dell’interesse della Russia anche in aree dove non era presente o fortemente limitato”. Il Mediterraneo, i Paesi che dal Nordafrica al medio oriente vi si affacciano sul Mediterraneo. A cominciare da Libia e Siria.


SAVE THE DATE: 24.02.2022 Comprendere, contrastare e prevenire i “radicalismi” e i “terrorismi”. Il 3° rapporto #ReaCT2022 in diretta su Formiche.net

Link all’evento streaming (video attivo dalle ore 16.30 del 24 febbraio 2022)

Urso, Pagani e Perego di Cremnago, Parente, Bertolotti, Sulmoni, Molle, e Bressan. Sono loro i protagonisti della presentazione dell’Osservatorio React 2022. In diretta su questa pagina, giovedì 24 febbraio alle ore 16:30, il punto sul radicalismo e terrorismo in Europa e sugli strumenti legislativi per prevenirli e contrastarli.

Com’è cambiata la minaccia terroristica dopo la pandemia? E quali strumenti legislativi è necessario mettere in campo per contrastarla? Queste le domande a cui rispondono gli esperti dell’Osservatorio sul radicalismo e il contrasto al terrorismo nel loro terzo e ultimo rapporto (#ReaCT2022). Le riviste Formiche e Airpress ospiteranno l’evento di presentazione giovedì 24 febbraio dalle ore 16:30.

Interverranno insieme al direttore dell’Osservatorio ReaCT, Claudio Bertolotti, l’esperto e docente della Sioi Matteo Bressan (membro di ReaCT), la giornalista e analista di Start InSight e membro di ReaCT, Chiara Sulmoni, l’assistant professor alla Chapman University della California, Andrea Molle e il dirigente generale della Polizia di Stato Diego Parente. Con loro, ci saranno Alberto Pagani (Pd) e Matteo Perego di Cremnago (FI), membri della Commissione Difesa della Camera, e il presidente del Comitato parlamentare per la Sicurezza della Repubblica (Copasir), Adolfo Urso. La diretta sarà moderata dal direttore di Formiche e Airpress Flavia Giacobbe.

Risultato della sinergia tra soggetti pubblici e privati per la sicurezza della Repubblica e dell’interessa nazionale, l’osservatorio React, nato nel 2019, è un tavolo tecnico-accademico che analizza l’estremismo di matrice islamista. Il terrorismo infatti non è stato sconfitto, e rappresenta ancora una minaccia che si adatta e si evolve. Seguendo i trend del 2021 si possono cercare di anticipare gli scenari di quest’anno che vedranno da una parte la persistenza della pandemia, le cui conseguenze sociali saranno in grado di esaltare la violenza associata a movimenti complottisti e aderenti a ideologie estremiste. Dall’altra vi è la vittoria dei talebani in Afghanistan, che ha funzionato da leit motiv della narrativa jihadista a livello internazionale. Questi e non solo i temi da affrontare durante il live talk di giovedì 24 febbraio.


#ReaCT2022: il 3° Rapporto sul terrorismo e il radicalismo in Europa. Online il 24 febbraio

Disponibile dal 24 febbraio, in italiano e inglese, su osservatorioreact.it e su startinsight.eu (link diretto): presentazione, in collaborazione con Formiche.net, giovedì 24 febbraio 2022 sul canale web di Formiche.

È disponibile dal 24 febbraio in formato digitale e cartaceo #ReaCT2022 – La Rivista, il 3° Rapporto sul terrorismo e il radicalismo in Europa, che offre al lettore uno studio sulla sua evoluzione, le sue tendenze ed effetti, attraverso un approccio quantitativo, qualitativo e comparativo. Curato dall’Osservatorio ReaCT, il documento è composto da 15 contributi d’analisi su jihadismo e altre forme di estremismo violento che caratterizzano il panorama attuale e che durante la pandemia hanno acquisito ulteriore forza e visibilità, proponendo nel contempo casi studio, prospettive e riflessioni volte a portare un contributo concreto e a intavolare un dialogo continuativo con tutte quelle realtà -accademiche e istituzionali- che si occupano della questione e delle sue problematiche pratiche. #ReaCT2022 vuole essere uno strumento utile messo a disposizione di operatori per la sicurezza, sociali ed istituzionali, di giornalisti, studenti e del più ampio pubblico.

I numeri del terrorismo jihadista. Come ogni anno, il Rapporto si apre con la fotografia aggiornata del terrorismo di matrice jihadista in Europa, grazie alle informazioni raccolte nel database di START InSight, curato da Claudio Bertolotti, direttore esecutivo di ReaCT. Se la violenza di matrice jihadista può essere considerata marginale in termini assoluti, rispetto cioè al totale delle azioni portate avanti da gruppi e militanti di varie ideologie, essa continua ad essere rilevante sia per le conseguenze, che per il numero di vittime. La minaccia rimane dunque significativa ed è rappresentata oggi in particolar modo dagli attacchi da parte di individui che agiscono in modo autonomo, indipendente, spesso senza un legame diretto con l’organizzazione terroristica ma mobilitati da narrative jihadiste globali.

Nel 2021 gli eventi jihadisti sono stati 18, in lieve flessione rispetto ai 25 attacchi dell’anno precedente ma con un aumento di azioni di tipo “emulativo”, ossia ispirate da altri attacchi nei giorni precedenti: dal 48% del totale di azioni emulative nel 2020 al 56% nel 2021 (erano il 21% nel 2019). Il 2021 ha inoltre confermato la predominanza delle azioni individuali, non organizzate, in genere improvvisate e fallimentari che hanno progressivamente sostituito le azioni strutturate e coordinate caratterizzanti il “campo di battaglia” urbano europeo negli anni 2015-2017. Il terrorismo si conferma inoltre un fenomeno prevalentemente maschile: su 207 attentatori (dal 2014), il 97% sono uomini mentre l’età media è di 26 anni. Di rilievo negli ultimi anni è stato anche il ruolo di recidivi, attentatori già noti alle forze dell’ordine o con precedenti detentivi. Infine, va ricordato che anche quando fallimentare, un attacco terroristico ottiene un risultato favorevole che consiste nell’imporre costi economici e sociali alla collettività e nel condizionarne i comportamenti nel tempo. La limitazione della libertà dei cittadini è un risultato misurabile, che il terrorismo ottiene attraverso le proprie azioni: questo è il “blocco funzionale”, ottenuto nell’82% dei casi: un risultato che conferma il vantaggioso rapporto costo-beneficio a favore del terrorismo.

Estremismi violenti, radicalizzazione e casi studio. I contenuti del Rapporto. I contenuti complessivi del Rapporto 2022 spaziano dalla presentazione dei numeri e profili dei terroristi jihadisti in Europa, alla discussione sul Nuovo Terrorismo Insurrezionale (NIT), che trae ulteriore vigore e motivazione anche dal ritorno dei Talebani in Afghanistan; dall’esame del contesto sub-sahariano, dove operano organizzazioni jihadiste caratterizzate da una retorica globalista ma che restano profondamente connesse a dinamiche locali, all’impegno europeo nella prevenzione del radicalismo violento nei Balcani Occidentali; dai processi per terrorismo di cui si è occupato il Tribunale Penale Federale in Svizzera dal 2001 ad oggi, alle dinamiche delle comunità jihadiste online; dai nuovi orizzonti della radicalizzazione, che si sono allargati ulteriormente durante la pandemia e richiedono che si presti maggiore  attenzione alle dinamiche di gruppo e ai problemi sociali collegati alla violenza; ai focus sull’estrema destra, l’anti-semitismo di ritorno, il cospirazionismo, il movimento NoVax; fino ai casi studio sul reinserimento sociale dei minori radicalizzati e la deradicalizzazione nel contesto neo-nazista, che mettono in evidenza anche l’approccio e il  lavoro portato avanti dalle autorità italiane. Infine, il documento include considerazioni riguardo l’aggiornamento dei Terrorism Risk Assessment Instruments (TRA-I), che sono sviluppati con lo scopo di poter meglio valutare la minaccia rappresentata dai processi di radicalizzazione e dalle attività ad essi affini; riflessioni sugli scenari delle guerre future; la recensione del volume “Understanding radicalisation, terrorism and de-radicalisation. Historical, socio-political and educational perspectives from Algeria, Azerbaijan and Italy”.

ReaCT nasce su iniziativa di una ‘squadra’ composta da esperti e professionisti della società svizzera di ricerca e produzione editoriale START InSight di Lugano, del Centro di ricerca ITSTIME dell’Università Cattolica di Milano, del Centro di Ricerca CEMAS dell’Università La Sapienza e della SIOI sempre a Roma. A ReaCT hanno anche aderito come partner Europa Atlantica e il Gruppo Italiano Studio Terrorismo (GRIST).

L’Osservatorio ReaCT è composto da una Direzione, un Comitato Scientifico di indirizzo ed editoriale, un Comitato Parlamentare e un Gruppo di lavoro permanente.

Tutte le informazioni sul sito www.osservatorioreact.it info@startinsight.eu


“La Deterrenza nel XXI secolo”: il nuovo libro di N. Petrelli

Disponibile in formato Kindle e stampa su Amazon

Dall’Introduzione di N. Petrelli al suo libro “La Deterrenza nel XXI secolo” ed. START InSight

Nel corso degli ultimi anni la nozione di deterrenza, da tempo quasi completamente scomparsa dal vocabolario della politica internazionale, è riemersa in numerosi documenti strategici di paesi Europei (inclusa l’Italia essendo il concetto menzionato nel Libro Bianco della Difesa 2015), e non. Il concetto è stato altresì impiegato da esperti e giornalisti per spiegare la logica alla base della prassi strategica di importanti attori internazionali, in primis la Russia di Putin

Tale “rinascita” potrebbe ingenerare l’impressione di un ritorno al passato, a pratiche strategiche caratteristiche di quella che è nota come “la prima età nucleare” nel quadro di quell’assetto geopolitico straordinariamente stabile che è stato la Guerra Fredda. Non è così. La deterrenza del XXI secolo è sia concetto, che fenomeno profondamente differente da quello che è stato in quelli che potremmo definire i suoi “anni d’oro” i 50 e 60 del XX secolo. L’obiettivo di questa ricerca è quello di far comprendere tale diversità ed il ruolo che la deterrenza potrebbe svolgere negli affari internazionali negli anni a venire attraverso uno studio dell’evoluzione storica della sua teoria e della pratica. Come evidenziato da uno dei più importanti studiosi contemporanei di deterrenza, Alex Wilner, innovazioni nella pratica della deterrenza hanno generalmente fatto seguito a significativi sviluppi teorici.

Con il termine ‘teoria della deterrenza’ ci si riferisce in genere ad un corpus di studi accademici che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, è arrivato a dominare la letteratura sugli studi di sicurezza negli Stati Uniti ed in Europa occidentale. Circa quella che potrebbe essere chiamata la storiografia o l’evoluzione della teoria della deterrenza, esistono due scuole di pensiero. Da una parte coloro che, sviluppando un’idea originariamente coniata da Robert Jervis, vedono la teoria della deterrenza evolversi attraverso distinte “ondate”. Ognuna di queste sarebbe caratterizzata da un particolare framework analitico, interpretazione del processo della deterrenza, e focus sui mezzi della stessa influenzati (principalmente ma non solo) dai problemi strategici più salienti del momento. Dall’altra, una seconda scuola di pensiero sostiene al contrario che tale periodizzazione sottovaluti i significativi elementi di continuità esistenti tra le varie fasi di sviluppo della teoria, e che la letteratura sulla deterrenza possa in gran parte, sino circa ai primi anni 2000, essere classificata come una singola teoria, con circoscritte sub-variazioni. Secondo tale approccio significative discontinuità nella teoria della deterrenza si sono manifestate solo nel momento in cui il focus analitico si è spostato dallo studio della deterrenza fra stati a quello delle relazioni di deterrenza tra attori statali e non-statali.

L’approccio adottato in questa ricerca sintetizza i punti di vista delle due scuole. Infatti, nel fornire una periodizzazione dell’evoluzione della teoria della deterrenza basata sulla nozione di “ondate” successive, parte dall’assunto che, sebbene diverse sotto molti profili differenti, esse possano essere considerate tutte esplorazioni di un’unica teoria. In ciò la ricerca si ispira all’autorevole opinione secondo cui esiste una sola teoria generale della deterrenza, intesa come un insieme coerente di ipotesi logicamente connesse circa il fenomeno, la cui valenza e applicabilità sono eterne e universali. Tale teoria generale espone la natura della deterrenza come concetto, funzione, e processo e spiega gli elementi che influenzano e guidano specifiche strategie di deterrenza.

Nel mettere insieme le parti costitutive della teoria della deterrenza sparse nella letteratura lo scopo di questo elaborato è euristico, il lavoro è in altre parole finalizzato ad illuminare sia eventuali cambiamenti nell’ontologia del fenomeno della deterrenza, così come evidenziati da modifiche analitiche ed epistemologiche nella teoria, sia evoluzioni concettuali intervenute nel tempo.

La comprensione di tali cambiamenti è a sua volta essenziale per la formazione di coloro che hanno compiti e responsabilità inerenti lo sviluppo della politica estera e di sicurezza a livello nazionale. Sotto questo punto di vista, parafrasando Colin Gray, la teoria generale può essere paragonata a un passepartout in grado di arricchire concettualmente coloro che sviluppano e attuano la politica estera e di sicurezza, aprendo una porta su una componente essenziale delle interazioni nell’attuale sistema internazionale.

Il Concetto di Deterrenza: Aree di Consenso e Criteri Analitici

Il primo passo per sviluppare un framework adeguato ad analizzare l’evoluzione della teoria della deterrenza è ricapitolare i principali elementi di consenso all’interno della stessa circa l’oggetto di riferimento al fine di identificare le dimensioni fondamentali di variazione del concetto. Esse verranno quindi impiegate per delineare una serie di criteri tra essi correlati che aiutino a cogliere le principali differenze tra le varie “ondate” della teoria dalla fine degli anni 40 ad oggi.

Esiste un consenso piuttosto ampio circa la definizione di deterrenza come: la manipolazione, da parte di un attore, del calcolo costi/benefici di un avversario/competitore circa una determinata azione. Riducendo i benefici o aumentando i costi potenziali (o entrambi), è possibile far desistere un avversario/competitore dall’intraprendere un’azione considerata dannosa. Concettualmente, la deterrenza è una forma di influenza coercitiva basata principalmente su incentivi negativi; in termini colloquiali potrebbe essere definita come l’arte del ricatto e della generazione della paura. La deterrenza può considerarsi una forma di influenza in quanto non tenta di controllare l’avversario/competitore, ad esempio cercando di eliminare la sua capacità di agire o di stabilire su di esso una qualche forma di controllo fisico. La deterrenza, al contrario, lascia al “bersaglio”, l’attore che ne è fatto oggetto, la possibilità di esercitare una scelta, mirando ad influenzarla. In secondo luogo, la deterrenza può considerarsi coercitiva in quanto utilizza prevalentemente minacce, incentivi negativi. La necessità della deterrenza sorge infatti quando un attore si aspetta che il corso d’azione intrapreso da un avversario/competitore possa condurre ad un esito dannoso. Per tale ragione tende ad incentrare il proprio tentativo di influenza sulla minaccia, pur associandola nella maggioranza dei casi a determinati messaggi o incentivi positivi. L’essenza della deterrenza è quindi la generazione nel bersaglio della convinzione che il proprio corso d’azione porterà a un risultato negativo per i propri interessi o obiettivi. Da ultimo è importante notare che, per quanto radicato in un calcolo razionale, il concetto di deterrenza consta anche di una componente emotiva. Chiunque scelga di sviluppare una strategia di deterrenza non può fondarla solo su elementi tangibili e misurabili da parte del “bersaglio”, poiché il suo calcolo non sarà basato esclusivamente su una valutazione di input noti. Al contrario le strategie di deterrenza presuppongono l’introduzione di un elemento imponderabile al fine di generare incertezza, dubbio, in chi è fatto oggetto di minacce, circa come la forza potrebbe essere utilizzata contro di lui e circa l’impatto che potrebbe avere sui suoi interessi. Tale componente della deterrenza ed il suo funzionamento sono stati magistralmente sintetizzati da Schelling nell’espressione: “la minaccia che lascia qualcosa al caso”.

La letteratura distingue tra “situazione di deterrenza”, in cui un attore è dissuaso dal compiere determinate azioni senza che nessuno abbia deliberatamente tentato di inviare un messaggio di dissuasione, e “strategia di deterrenza”, quando tale comportamento fa seguito a un segnale deliberatamente elaborato e inviato. Idealmente, nel momento in cui un attore opta per una “strategia di deterrenza”, si procede a sviluppare un programma di deterrenza guidato da un particolare obiettivo politico e fondato su ipotesi di intelligence relative alle intenzioni e capacità dell’avversario e su una stima della correlazione di forze o “net assessment”. Teoricamente, nella prima fase di questo programma, i pianificatori della deterrenza delineano la percezione di minaccia dell’avversario/competitore e identificano i “valori” strategici che possono essere effettivamente minacciati e messi a rischio; in una fase successiva, cercano modi e mezzi per sfruttare queste paure nel modo più efficace, al fine di modellare il calcolo strategico dell’avversario. In questa ultima fase, i pianificatori comunicano minacce inequivocabili che segnalano intenzioni e capacità credibili. Ogni strategia di deterrenza consiste in altre parole in tre elementi: capacità; minaccia; comunicazione.

La deterrenza dipende quindi in primo luogo dalla presenza di effettive capacità di mettere in atto la minaccia che si intende comunicare. Tali capacità, di qualsiasi tipo esse siano, devono necessariamente trovarsi in una condizione di “prontezza operativa”, ovvero devono poter essere rapidamente impiegate e devono, almeno in una certa misura, essere visibili al soggetto verso cui si indirizza la minaccia deterrente. Per esempio, durante la crisi di Kargil tra India e Pakistan del 1999, il Pakistan attivò le proprie capacità nucleari con il solo scopo di mandare un messaggio a Nuova Delhi. Islamabad era infatti consapevole che gli USA avrebbero monitorato attentamente ogni attività relativa all’arsenale nucleare e sfruttò la circostanza per cercare di “deterrere” l’India. La componente capacitiva della deterrenza ne costituisce la fondamentale base materiale, ovvero l’elemento in grado di condizionare la componente razionale del calcolo strategico dell’avversario.

In secondo luogo, la deterrenza dipende da una percezione di credibilità della minaccia formulata che, come la letteratura ha evidenziato, può divergere, in maniera anche significativa, dalla realtà oggettiva. Essa è infatti in primo luogo influenzata dalla situazione specifica in cui viene comunicata: la minaccia di un attacco nucleare in risposta a una “provocazione” grave è certamente più credibile di una minaccia analoga in risposta a un’aggressione “minore”. Esiste tuttavia anche un’altra componente della credibilità, che è inerente al soggetto che formula la minaccia, non alla situazione. In circostanze identiche, la minaccia di un attore può essere credibile laddove quella di un altro non lo sarebbe. In parte, come pocanzi asserito, ciò deriva dalle capacità di attuare la minaccia nonché da quella di difendersi dalla risposta dell’altro. Ma c’è di più; è stato infatti chiaramente dimostrato che la credibilità è legata alla “reputazione”, alla percezione di risolutezza rispetto al prezzo da pagare per impedire una determinata azione da parte di un avversario. Ciò spiega in parte come mai tanti — tra cui l’allora Segretario della Difesa Chuck Hagel — abbiano criticato l’amministrazione di Barack Obama quando, dopo aver tracciato linee rosse circa l’uso di armi chimiche in Siria, decise poi di non intervenire per sanzionare il comportamento di Bashar al-Assad. Parimenti, il fatto che dopo la guerra  del 2006 tra Israele ed Hezbollah, non vi siano più stati conflitti tra i due attori suggerisce quanto la strategia israeliana abbia avuto dei meriti, come in parte ha poi ammesso lo stesso leader di Hezbollah anni dopo. Hassan Nasrallah infatti, in una intervista concessa qualche tempo dopo la fine della guerra, ha infatti dichiarato che la sua organizzazione non si aspettava una tale reazione da parte di Israele. Reazione che ha certamente contribuito ad evitare scontri diretti da ormai molti anni a questa parte. Il dato è interessante se si pensa che, da un punto di vista di strategia militare e operativo, Israele uscì perdente da quella guerra il cui valore, assumendo che la nostra interpretazione sia corretta, può dunque essere compreso solo nel medio-lungo termine.

La deterrenza consiste in una richiesta nei confronti di un altro attore di astenersi dal fare qualcosa, ed è una relazione iterativa che richiede significative capacità di comunicazione. L’attore che intende esercitare deterrenza deve far sì che l’avversario che intende scoraggiare da un certo corso d’azione comprenda chiaramente i contorni della minaccia. Fare in modo che un avversario/competitore comprenda il messaggio deterrente attraverso “il frastuono e il rumore” della politica internazionale richiede significativi sforzi pubblici e privati ​​di comunicazione. E’ utile precisare che con l’espressione “chiarezza di comunicazione” si intende chiarezza rispetto all’evento o azione che si vuole evitare, le cosiddette “linee rosse”, ma non necessariamente si implica chiarezza rispetto alla minaccia. La politica statunitense e, per estensione quella della NATO, durante la Guerra fredda è un ottimo esempio: qualunque tentativo di invadere la Germania dell’Ovest da parte Sovietica avrebbe portato ad una immediata e spropositata reazione. Le minacce di deterrenza possono però anche essere (e spesso sono deliberatamente) ambigue per numerose ragioni, inclusa la convinzione che una minaccia troppo specifica possa rivelarsi controproducente in alcune circostanze o rispetto ad alcune categorie di attori.

Da questa descrizione del consenso accademico e professionale circa la natura della deterrenza discende il nostro argomento generale secondo cui è possibile identificare quattro dimensioni fondamentali di variazione del concetto: Attori; Capacità; Meccanismo; Processo.

La prima dimensione si riferisce al numero di attori il cui calcolo la strategia di deterrenza adottata intende influenzare. Come nella teoria dei giochi, il numero degli attori coinvolti nella relazione di deterrenza incide in maniera significativa sulle dinamiche di interazione tra gli stessi. La seconda dimensione riguarda il tipo di capacità impiegate nel tentativo di far desistere uno o più avversari/competitori da una determinata azione, capacità che possono variare tra “cinetiche” e “non-cinetiche”. Il terzo criterio di variazione riguarda il “meccanismo” di funzionamento della deterrenza, dunque fondamentalmente il tipo di minaccia che si formula nei confronti di un avversario o competitore. L’ultima dimensione di variazione concerne invece la prevalenza della componente fisica o psicologica nel processo attraverso cui il meccanismo dispiega il suo effetto.

Disponibile in formato Kindle e stampa su Amazon

#ReaCT2022: pubblicato il 3° rapporto sul radicalismo e il terrorismo

I terrorismi tra pandemia, disagio sociale ed esaltazione jihadista

In qualità di Direttore Esecutivo dell’Osservatorio ReaCT, ho l’onore di presentare #ReaCT2022, il 3° Rapporto sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo in Europa (www.osservatorioreact.it: vai al report #ReaCT2022 n. 3, Anno 3).

Il Covid-19 e i talebani alimentano nuove minacce di terrorismo

Il terrorismo si adatta, si evolve e viene condizionato da eventi che hanno la capacità di stimolare la condotta di azioni violente nel nome di un’ideologia che ne giustifica metodi, obiettivi e finalità. I trend del 2021 hanno evidenziato aspetti coerenti con le dinamiche degli ultimi anni e anticipato un possibile scenario per il 2022, che continuerà ad essere influenzato da due sviluppi che in modo diverso andranno ad allargare il panorama della minaccia. Da un lato, la pandemia di COVID-19, le cui conseguenze sociali saranno in grado di accrescere forme radicali eterogenee ed esaltare la violenza associata a movimenti complottisti e aderenti a ideologie estremiste; d’altro lato, la vittoria dei talebani in Afghanistan, il cui grande risultato si è imposto quale leit motiv della narrativa jihadista a livello globale.

Lo scenario del terrorismo che sfida l’Europa nel 2022

I dati presentati in questa analisi provengono dal database di START InSight, che traccia i trend annuali per ciò che riguarda il terrorismo jihadista in Europa. In generale, l’Occidente guarda oggi con preoccupazione all’esaltazione jihadista, dall’Africa all’Afghanistan. Lo Stato Islamico non è più in grado di dirigere terroristi verso l’Europa poiché la perdita di territorio, risorse finanziarie e reclute ha ridotto notevolmente le sue capacità operative. La minaccia comunque rimane significativa ed è dovuta alla disponibilità e alle azioni di lone actors e self-starters senza un legame diretto con l’organizzazione ma mobilitati da narrative jihadiste globali. I rischi connessi agli attacchi emulativi sono alti: il 56% degli eventi nel 2021 rientra in questa categoria, secondo il database di START InSight. Il trend è in aumento. Negli ultimi tre anni, da un punto di vista quantitativo, la frequenza degli attacchi terroristici è rimasta lineare. Secondo Europol, 43% sono attribuiti a movimenti della sinistra radicale, il 24% a gruppi separatisti ed etno-nazionalisti, il 7% a gruppi di estrema destra, il 26% sono azioni di matrice jihadista. Se la violenza jihadista è marginale in termini assoluti, tuttavia continua ad essere la più rilevante per le conseguenze e il numero di vittime. Il database di START InSight ha registrato 18 eventi jihadisti in Europa nel 2021. 

Due decenni di processi per terrorismo: il caso svizzero

Nonostante la Svizzera non abbia subito attacchi su vasta scala come quelli che hanno colpito altre nazioni europee nell’ultimo decennio, il fenomeno della violenza politico-ideologica di matrice jihadista è tuttavia presente. Dal 2004 al novembre 2021, il Tribunale Penale Federale si è occupato di un totale di 17 procedimenti penali legati al terrorismo jihadista. Ahmed Ajil rileva che la maggior parte di questi ha avuto luogo dopo lo scoppio della guerra civile siriana e la conseguente espansione territoriale del gruppo Stato Islamiconel giugno del 2014. L’attività ha avuto luogo principalmente nell’ambito digitale, mentre gli atti “concreti” sono consistiti in tentativi di recarsi in aree di conflitto o attività legate ai combattimenti all’estero.

Il rischio africano

Come rilevano Enrico Casini e Luciano Pollichieni, dagli anni duemila sono emerse in Africa numerose organizzazioni jihadiste caratterizzate da una retorica globalista ma che restano profondamente connesse a dinamiche locali, sia di carattere politico, etnico o di natura criminale, con il coinvolgimento in traffici illeciti di diverso tipo (dal contrabbando alla tratta di esseri umani alla pirateria). In virtù della contiguità con il Mediterraneo, le vicende socio-politiche e l’instabilità generata dai gruppi jihadisti in Africa, hanno un effetto immediato sulla sicurezza di tutta la regione, come dimostrato dalle diverse crisi migratorie degli ultimi anni.

Verso nuovi orizzonti della radicalizzazione jihadista e della sua prevenzione

Le comunità virtuali che avevano preso avvio sotto forma di estensioni dirette di un’organizzazione specifica come il gruppo terrorista Stato islamico, suggerisce Michael Krona, si intrecciano progressivamente con degli orientamenti ideologici più ampi, piuttosto che trasmettere esclusivamente la propaganda ufficiale dell’organizzazione terroristica. Chiara Sulmoni sottolinea come l’ecosistema dell’estremismo violento sia oggi caratterizzato da forte competizione ma anche da maggiore esposizione a strategie e narrative di gruppi diversi. I profili di radicalizzati e terroristi sembrano spesso rivelare una propensione alla violenza piuttosto che una solida convinzione ideologica. L’autrice ritiene utile prestare attenzione agli aspetti sociologici e psicologici insiti nei processi di radicalizzazione, con l’obiettivo di migliorare la prevenzione.  

A riguardo del fenomeno osservato nei Balcani occidentali, rileva Matteo Bressan che la prevenzione della radicalizzazione che conduce all’estremismo violento e al terrorismo è una priorità fondamentale per gli Stati membri dell’Unione europea. In questo senso, la Commissione, da un lato, sosterrà la regione nella prevenzione e nella lotta a tutte le forme di radicalizzazione; dall’altro lato, la Commissione mobiliterà le competenze dei professionisti nell’ambito della rete di sensibilizzazione in materia di radicalizzazione (RAN) per sostenere il lavoro di prevenzione e facilitare gli scambi tra professionisti.

I minori radicalizzati: l’approccio italiano

La propaganda jihadista e in genere le ideologie estremiste hanno come target anche i minori di 18 anni, che possono essere coinvolti in vario modo come vittime inconsapevoli delle scelte degli adulti (in genere, i genitori) o come destinatari diretti di un’ideologia che sfrutta il loro bisogno di appartenenza. Nel suo case study Alessandra Lanzetti spiega che la Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione (DCPP) della Polizia di Stato ha maturato una forte esperienza in questo campo, sperimentando un protocollo di intervento sui child returnee, improntato a criteri di tempestività e multi-disciplinarietà.

Nuovi radicalismi e altri terrorismi alimentati dall’effetto pandemico. Estrema destra, sinistra radicale, antisemitismo: dal complottismo alla violenza

Il fenomeno NoVax rappresenta la punta di lancia del complottismo militante che sta rapidamente sostituendo il radicalismo religioso come prima causa di preoccupazione per la sicurezza nazionale. Nel suo contributo, Andrea Molle ne analizza alcuni elementi di base mettendone in luce il rischio di radicalizzazione di massa. Mattia Caniglia spiega come una delle tendenze più preoccupanti del 2021 sia stato l’aumento dell’attrazione esercitata dall’estremismo violento di destra sulle generazioni più giovani. Tale sviluppo è probabilmente legato al fatto che la propaganda estremista di destra viene diffusa principalmente online e che le piattaforme di gioco sono sempre più utilizzate per diffondere narrative estremiste e terroristiche. Le evidenze emerse dalle indagini e dalle attività di ricerca degli ultimi anni suggeriscono come, in alcuni casi, gruppi estremisti di destra abbiano la tendenza a emulare gruppi estremisti di matrice islamista per quanto attiene a tecniche di reclutamento, modi operandi e strategie di propaganda. Inoltre, attacchi terroristici di alto profilo, siano questi di matrice islamista o di estrema destra, sembrano aver acquisito la potenzialità di aumentare il rischio di processi di radicalizzazione reciproca, attivando una “dinamica a ciclo continuo”.

Una somiglianza che, come evidenzia Luca Guglielminetti, porta ad adottare analoghi strumenti di recupero e sostegno all’abbandono della violenza. In tale quadro si inserisce un persistente e diffuso sentimento antisemita; Sarah Ibrahimi Zijno pone in evidenza la estrema e facile diffusione di punti di vista sostanzialmente antisemiti nelle destre alternative americana ed europea, in particolare nella parte ex comunista del continente, e il sostanziale avvicinamento di certa stampa orientata a sinistra verso il medesimo algoritmo complottista già della destra alternativa, con il silenzioso progressivo abbandono della distinzione – già di per se fragile e discutibile – tra antisionismo e antisemitismo.

Negli utimi anni, con l’avanzare in Europa e negli Stati Uniti di forme di estremismo più o meno organizzato di estrema destra e di suprematismo bianco, rileva Barbara Lucini, i Terrorism Risk Assessment Instruments (TRA-I) sono oggetto di una nuova riflessione rispetto alla loro capacità adattativa, di resilienza e di valutazione efficace dei molteplici e variegati percorsi di radicalizzazione ai quali si sta assistendo.

Per finire, uno sguardo alle «guerre future»: nella sua analisi, Marco Lombardi condivide le sue riflessioni su alcuni aspetti emergenti del warfare, dell’intelligence e del ruolo del terrorismo. Lo scenario della guerra futura sembra sottolineare il mantenimento, anzi il rafforzamento delle modalità operative del terrorismo di questi ultimi anni, che ha trovato il suo successo proprio per la capacità di penetrazione comunicativa e per l’utilizzo innovativo (cioè sorprendente) delle tecnologie. Sembra quasi che il terrorismo del primo ventennio del nuovo secolo abbia sperimentato le nuove opportunità del warfare, che poi si sono consolidate in pratiche diffuse tra tutti gli attori in conflitto. In conclusione, Andrea Carteny e Elena Tosti Di Stefano hanno recensito per noi “Understanding radicalisation, terrorism and de-radicalisation. Historical, socio-political and educational perspectives from Algeria, Azerbaijan and Italy”, a cura di M. Brunelli.

Grazie a tutti gli Autori che, con il loro encomiabile lavoro, hanno contribuito ancora una volta alla realizzazione di #ReaCT2022. Un ringraziamento speciale va all’Editore Chiara Sulmoni, Presidente di START InSight, che ha consentito la pubblicazione e la distribuzione internazionale del nostro rapporto annuale.

Scarica il volume completo: #ReaCT2022 n. 3, Anno 3.

Indice

Claudio Bertolotti (ITA), Introduzione del Direttore: I terrorismi tra pandemia, disagio sociale ed esaltazione jihadista

Claudio Bertolotti (ITA), Terrorismo jihadista in Europa: minaccia lineare in evoluzione e partecipazione individuale

Ahmed Ajil (ITA), Due decenni di processi per terrorismo. Una panoramica dei casi di cui si è occupato il Tribunale Penale Federale svizzero dall’11 settembre 2001

Claudio Bertolotti (ITA), Dall’Afghanistan, alla Siria, al Sahel: il virus di un “Nuovo Terrorismo Insurrezionale” (NIT). È rivoluzionario, sovversivo, utopistico e guarda a Occidente

Enrico Casini, Luciano Pollichieni (ITA), Califfi, traffici e malcontento: convergenze e prospettive del terrorismo jihadista in Africa Subsahariana

Michael Krona (ITA), Le comunità jihadiste online costruiscono i loro brand ed espandono l’universo terrorista creando nuove entità

Chiara Sulmoni (ITA), I nuovi orizzonti della radicalizzazione

Alessandra Lanzetti (ITA), Caso studio – I minori radicalizzati: il modello italiano, tra tutela della sicurezza e reinserimento sociale

Matteo Bressan (ITA), Il contributo europeo alla prevenzione del radicalismo violento nei Balcani Occidentali

Barbara Lucini (ITA), I TRA-I e i processi di radicalizzazione: considerazioni attuali e prospettive future

Mattia Caniglia (ITA), L’estremismo violento di destra nel 2021: una minaccia crescente per l’Europa?

Sarah Ibrahimi Zijno (ITA), Nuovi antisemitismi: principali fattori e tendenze dopo la pandemia

Luca Guglielminetti (ITA), Caso studio – Estremismo neonazista e de-radicalizzazione: il primo caso studio in Italia

Andrea Molle (ITA), Il complottismo dalla cultura pop alla militanza violenta: il pericolo NoVax

Marco Lombardi (ITA), Guerre future: la nuova centralità dell’intelligence e la ridefinizione dello spazio cibernetico

Andrea Carteny, Elena Tosti Di Stefano (ITA), Recensione – Understanding radicalisation, terrorism and de-radicalisation. Historical, socio-political and educational perspectives from Algeria, Azerbaijan and Italy. M. Brunelli (a cura di).