La strategia di Hamas nella nuova dimensione “sotterranea” della guerra. Il commento di C. Bertolotti a SKY TG 24
La minaccia principale che
i soldati israeliani dovranno affrontare nella fase condotta dell’operazione di
bonifica della Striscia di Gaza e, in particolare, dell’area urbana di gaza
city, è quella proveniente dalla dimensione sotterranea, strategicamente sfruttata
dal gruppo terrorista di Hamas per muovere, vivere e combattere sul campo di
battaglia che si sta delineando.
Come recentemente
riportato da Judy Siegel-Itzkovich
sul Jerusalem Post,
il livello di sviluppo dei tunnel, non solo in
termini di dimensioni ma anche di utilizzo e finalità, ha ridefinito e
implementato il nuovo concetto operativo dell’organizzazione Hamas.
Inizialmente tunnel
dedicati al contrabbando di merci, sono poi stati utilizzati per il mercato
nero di armi per poi divenire, progressivamente, linee di comunicazione e di
accesso al campo di battaglia, di fatto definendone un ruolo da vie di
comunicazione tattica – utile ai rapimenti come quello del soldato Gilad Shalit
nel 2006 – in infrastrutture operative di trasferimento e nascondiglio.
La fase successiva di
utilizzo dei tunnel da parte di Hamas è stata caratterizzata in un’ulteriore
salto di qualità, imponendo agli stessi un ruolo strategico nella condotta di
operazioni offensive, così come rilevato dalle forze di difesa israeliane (IDF,
Israeli Defense Forces) durante la
fase condotta dell’operazione Protective
Edge, nel 2014. Un’evoluzione nella struttura stessa dei tunnel e nel loro
utilizzo coerente con la crescente e dimostrata volontà dell’organizzazione terroristica palestinese
di condurre prioritariamente operazioni nella
dimensione sotterranea.
Fino agli anni 2000, le gallerie venivano solitamente scavate a
una profondità variabile da quattro a dodici metri, ma con una criticità
strutturale significativa già sotto i quattro metri. Una profondità minima che
di fatto era all’epoca una soluzione adeguata e coerente agli usi e gli
obiettivi di Hamas.
Ma Hamas ha saputo migliorare, in maniera progressivamente più
tecnica e strutturale, la costruzione dei nuovi tunnel e l’adeguamento di
quelli già costruiti, aumentando la profondità, le dimensioni e la
disponibilità di locali di rifugio più ampie e aree logistiche di stoccaggio
per equipaggiamenti militari. Un’evoluzione strutturale che si è accompagnata a
un miglioramento delle dotazioni militari, dei mezzi per realizzarle, di
impianti elettrici e di comunicazione sempre più sofisticati.
I rischi dell’inevitabile operazione militare israeliana
di Claudio Bertolotti
La ragione della guerra sta nel processo di normalizzazione tra il mondo arabo (Arabia saudita in primis) e Israele, conseguente agli accordi di Abramo, che l’Iran sta cercando di boicottare.
L’operazione militare offensiva a Gaza è, per Israele, inevitabile; basta leggere la strategia di sicurezza nazionale israeliana del 2015 per comprendere come l’approccio primario sia quello militare offensivo funzionale a ottenere risultati militari netti mantenendo così il vantaggio relativo.
ma i rischi di un’operazione militare israeliana, oltre che sul campo di battaglia vero e proprio, si collocano sul piano delle relazioni internazionali e, in particolare, sugli equilibri di potenza e influenza a livello regionale e globale.
è l’evento determinante per il prossimo assetto politico-strategico dell’intero arco mediorientale.
Spostandoci così dal campo di battaglia a quello politico, osserviamo l’interesse e il coinvolgimento, diretto e indiretto, di attori globali, dagli Stati Uniti alla Russia, dall’Iran alla Cina, dall’Arabia Saudita al Qatar alla Turchia e tutti i paesi arabi e musulmani. Di fatto ci troviamo ad osservare l’evento determinante per il prossimo assetto politico-strategico dell’intero arco mediorientale.
Cause e conseguenze spesso si sovrappongono: ostilità Israele-Iran è il primo dei fattori dinamizzanti delle relazioni internazionali nell’arco mediorientale. La questione palestinese non lo è, è un tema di convergenza delle opportunità, mediatiche e politiche ma non è scatenante per il conflitto in corso.
Se guardiamo alla guerra Israele-Hamas con l’attenzione alla questione palestinese come a un elemento primario rischiamo di dare un’eccessiva importanza a un tema che non è più una priorità per le cancellerie occidentali come non lo è più per i paesi arabi, ma che ci distrare dal valutare la gravità della situazione e le dirette conseguenze.
E allora, per poter analizzare i rischi concreti che deriveranno da questa guerra dobbiamo partire da quello che è il punto di caduta iraniano, che si traduce nell’obiettivo granitico e inderogabile di “distruggere Israele” anche attraverso l’utilizzo di attori di prossimità, alleati, operazioni indirette. In questo quadro entrano in prima fila due soggetti, “Hamas” e “Hezbollah”, di fatto due eserciti in grado di operare in maniera autonoma con il supporto di Teheran.
Dunque il primo e principale di questi rischi è l’allargamento del conflitto che, riprendendo la visione israeliana espressa nella dottrina strategica della Difesa di Gerusalemme, si traduce in escalation orizzontale che vedrebbe tre principali fronti: il Hezbollah dal Libano, la Siria e, in ultima battuta, un intervento dell’Iran.
Coinvolgimento diretto dell’Iran che gli Ayatollah iraniani razionalmente non vogliono, ma che l’emotività associata ad eventi incontrollabili potrebbe indurre.
Il secondo di questi rischi è, dato il potenziale coinvolgimento di Hezbollah (spinto dall’Iran), il trascinamento nel conflitto del Libano e la conseguente opzione della guerra civile libanese che aprirebbe a una crisi ingestibile il cui esito sarebbe il collasso dello stato libanese. E infatti Israele sta agendo con forza per contrastare gli attacchi con razzi di Hezbollah.
Il terzo è l’allargamento alla Siria, spinta dall’Iran, e in questo senso si collocano le azioni dirette a colpire infrastrutture ed equipaggiamenti militari in territorio siriano, sia da parte di Israele sia statunitense, come confermano le distinte operazioni svolte dai due eserciti a danno di obiettivi legati all’Iran.
Il quarto, non l’ultimo, è multiplo ed è rappresentato dal rischio di rivolte in Cisgiordania, l’apertura del fronte interno con attacchi di affiliati o ispirati da Hamas e il protrarsi di un’offensiva nella striscia di Gaza e la successiva transizione politica.
Uno scenario
definito, ma dai confini e dalle dinamiche non certe.
Medioriente: attacco mirato statunitense in Siria contro obiettivi iraniani.
Intervista a C. Bertolotti, ospite di Laura Zucchetti a TELETICINO, edizione del 27 ottobre 2023, ore 12.00.
Due aerei da combattimento statunitensi hanno colpito depositi di armi e munizioni in Siria come rappresaglia per gli attacchi alle forze americane in Iraq da parte delle milizie sostenute dall’Iran.
Il presidente Joe Biden ha ordinato attacchi alle due strutture utilizzate dal Corpo delle Guardie Rivoluzionarie iraniane e dai gruppi di milizie da queste sostenuti, avvertendo che gli Stati Uniti sono pronti ad adottare ulteriori misure se gli attacchi da parte dei proxy dell’Iran dovessero continuare. Un chiaro segnale di posizionamento statunitense in funzione di deterrenza all’ipotesi di escalation orizzontale del conflitto in Medioriente.
Gaza è una trappola, ma l’offensiva di terra inevitabile (Bertolotti -Ispi), ADNKRONOS
Incubo close combat e urban warfare, dimensione sotterranea della Striscia è l’asso nella manica di Hamas, rischio ‘escalation orizzontale’
ADNKRONOS, 24 ottobre 2923, (Vir/Adnkronos)
“Gaza è una trappola”, ma non c’è alternativa all’operazione dentro la Striscia. L’incubo israeliano si chiama ‘close combat’. E lo scenario peggiore si concretizza nella “dimensione sotterranea” della Striscia, in quel labirinto di tunnel che sono l’obiettivo dei raid israeliani e l’ “asso nella manica” di Hamas mentre l’opinione pubblica israeliana si aspetta il ‘mission accomplished’. Ma c’è anche il rischio “escalation orizzontale”. Claudio Bertolotti, analista dell’Ispi esperto di Medio Oriente e Nord Africa, di radicalizzazione e terrorismo internazionale e direttore di Start InSight, ragiona con l’Adnkronos mentre la crisi in Medio Oriente, scatenata dal terribile attacco del 7 ottobre di Hamas in Israele, non sembra destinata a esaurirsi in tempi brevi e anzi si teme un allargamento del conflitto.
Bertolotti è convinto che “non esista un’opzione alternativa dal punto di vista politico” all’operazione dentro la Striscia, ritiene sia una “opzione inevitabile”, perché “non agire con forza” nei confronti di Hamas dopo quel brutale attacco significherebbe dire che qualunque azione terroristica di fondo passa senza grandi conseguenze… (vai all’articolo di Alessia Virdis per ADNKRONOS.
Punti in evidenza nell’articolo
‘Mettere in conto un numero di perdite elevato’
‘In area urbana mezzi corazzati estremamente vulnerabili’
‘Iran opera per aprire due fronti, quello libanese e quello siriano’
L’informazione “dettata” da Hamas: la guerra cognitiva dei terroristi. Dal commento di C. Bertolotti a Start (SKY TG24).
I commenti di Claudio Bertolotti, Direttore di START inSight e Natalie Tocci, Direttore IAI a START, trasmissione di SKY TG24 (puntata del 19 ottobre 2023)
(Bertolotti) “Guardando al caso dell’ospedale nella striscia di Gaza colpito da un razzo palestinese, emerge quanto sia pericoloso dar credito a informazioni non verificate in grado di incidere in maniera significativa, sia sull’opinione pubblica, sia sui processi decisionali, politici e militari.
In questo specifico caso, così come in molti altri, la percezione ha prevalso sulla realtà: e questo è l’effetto della guerra cognitiva, volta a indirizzare il nostro pensiero. Una guerra che Hamas sta conducendo in maniera estremamente abile e che ha portato a definire i tempi e le modalità delle relazioni internazionali, annullando o posticipando gli incontri tra le parti. La responsabilità di Israele è stata esclusa, ammesso che ci sia mai stata. E questa, da un lato è la sconfitta del giornalismo che non è stato in grado di verificare, prestandosi alla propaganda di un gruppo jihadista, e, dall’altro è stata la grande vittoria della disinformazione di Hamas, che è così riuscita a spingere le masse arabe nelle piazze e, al contempo, ha smosso la mole di utili inconsapevoli che in Occidente sono caduti nel tranello, o meglio nell’operazione.”
I numeri del terrorismo jihadista in Europa: risultati e uno sguardo in prospettiva
La violenza jihadista in Europa: una minaccia persistente con conseguenze devastanti.
A livello globale, il cosiddetto gruppo Stato Islamico non ha più la capacità di inviare terroristi in Europa a causa delle perdite territoriali e finanziarie. Tuttavia, i singoli individui ispirati dal gruppo rappresentano una minaccia non marginale. Anche se lo Stato Islamico rimane la principale minaccia jihadista, è improbabile che riguadagni lo stesso livello di fascinazione che aveva in passato. L’Europa ha ridotto le proprie vulnerabilità, ma gli “attacchi mimetici” e le chiamate alla guerra continuano a rappresentare un rischio. Il successo dei talebani in Afghanistan potrebbe a sua volta alimentare la propaganda jihadista e la competizione tra i gruppi jihadisti, spingendo a una competizione per ottenere l’attenzione mediatica conseguente a un attacco terroristico di successo. In tale ottica, le crescenti forze estremiste nell’Africa subsahariana rappresentano una minaccia in evoluzione per la stessa Europa. La presenza di gruppi che si rifanno all’idea e all’esperienza dello Stato Islamico in Africa si concentra sulla lotta contro il cristianesimo, portando alla violenza contro missionari, ONG e villaggi cristiani.
Oggi, in particolare, la chiamata alla “rabbia dei musulmani” fatta dal gruppo terrorista palestinese Hamas, ha svolto un ruolo di attivatore nei confronti di quei soggetti predisposti a commettere attivi di violenza jihadista, spesso disorganizzati e improvvisati, ma non per questo meno pericolosi.
Guardando ai paesi dell’Unione
Europea, anche se la violenza jihadista è oggi marginale rispetto al numero
totale di azioni motivate da altre ideologie, si impone comunque come la
minaccia più rilevante e pericolosa in termini di risultati e di vittime – da
16 vittime nel 2020 a 13 nel 2021 e 9 nel 2022 – ed effetti diretti.
In seguito ai principali eventi
di terrorismo legati al gruppo Stato
Islamico in Europa, dal 2014 al 2022 si sono verificate 182 azioni
jihadiste, secondo il database di START InSight. Di queste, 34 sono state
esplicitamente rivendicate dal gruppo Stato
Islamico o ispirate direttamente da esso; sono state perpetrate da 225
terroristi (63 uccisi in azione); 428 vittime hanno perso la vita e 2.505 sono
rimaste ferite.
Il numero di eventi jihadisti
registrati nel 2022 è 18 (lo stesso dato del 2021), leggermente inferiore ai 25
attacchi del 2020, con una diminuzione del numero di azioni
“emulative” – cioè, azioni ispirate da altri attacchi avvenuti nei
giorni precedenti; dal 48% del 2020 tali azioni emulative sono salite al 56%
nel 2021 (nel 2019 erano al 21%) e sono diminuite al 17% nel 2022. Il 2022 ha
confermato anche la predominanza di azioni individuali, non organizzate,
principalmente improvvisate e fallite che sostituiscono di fatto le azioni
strutturate e coordinate che avevano caratterizzato il “campo di
battaglia” urbano europeo negli anni dal 2015 al 2017.
Terrorismo jihadista: un’analisi quantitativa
La distribuzione geografica degli attacchi
terroristici e il loro impatto sulla popolazione dei paesi dell’UE
Il
terrorismo rappresenta una minaccia significativa per la sicurezza delle
popolazioni in tutto il mondo e l’Unione Europea (UE) non fa eccezione. Come
dimostrano i recenti anni, l’UE ha subito numerosi attacchi terroristici, con
alcuni paesi più colpiti di altri. In questo studio, esaminiamo la
distribuzione geografica degli attacchi terroristici nell’UE e il loro impatto
sulla popolazione locale.
I
dati sono stati raccolti dal database START InSight per il periodo compreso tra
il 2014 e il 2022, e analizzati utilizzando statistiche descrittive e analisi
di correlazione. L’analisi si è concentrata sul numero di attacchi terroristici
per paese e sulla popolazione totale di ciascun paese, nonché sull’influenza
dell’espansione del fenomeno Stato
Islamico (dal 2014) e dell’attenzione mediatica sul numero di attacchi.
I
risultati hanno mostrato che tra il 2004 e il 2022 si sono verificati
complessivamente 208 attacchi terroristici nell’UE, con la maggior parte di
questi attacchi (118) verificatisi solo in tre paesi: Francia, Regno Unito e
Germania. In termini di popolazione, Francia e Regno Unito hanno avuto il
maggior numero di attacchi per milione di abitanti, con rispettivamente 1,5 e
1,2 attacchi per milione. Al contrario, paesi come Bulgaria, Croazia e Cipro
non hanno riportato attacchi terroristici durante questo periodo.
Considerando
l’influenza dell’espansione dello Stato
Islamico e dell’attenzione mediatica, si è riscontrato che il momento di
massima espansione del gruppo e di attenzione mediatica è stato tra il 2014 e
il 2016. Durante questo periodo, il numero di attacchi terroristici nell’UE è
aumentato significativamente, con un totale di 158 attacchi verificatisi.
Tuttavia, dopo il 2017, la capacità del gruppo di effettuare o ispirare
attacchi è diminuita, con solo 50 attacchi associati al gruppo tra il 2017 e il
2022.
Complessivamente,
questa analisi evidenzia l’importanza di considerare sia la distribuzione
geografica degli attacchi terroristici che il loro impatto sulle popolazioni
locali. Sottolinea inoltre il ruolo degli eventi globali, come l’espansione
dello Stato Islamico e l’attenzione
mediatica, nel plasmare i modelli di attività terroristica.
Per
esaminare la distribuzione geografica degli attacchi terroristici e il loro
impatto sulla popolazione di diversi paesi, analizzeremo il numero di attacchi
terroristici per paese e lo confronteremo con la popolazione totale di ciascun
paese. Questa analisi fornirà informazioni sui modelli di attacchi terroristici
in diversi paesi dell’Unione Europea e sul loro impatto sulle popolazioni locali.
Utilizzando
il database START InSight, abbiamo raggruppato i dati per paese utilizzando la
colonna “Paese”. Successivamente, abbiamo calcolato il numero totale
di attacchi terroristici in ogni paese sommando i valori della colonna
“Numero di attacchi”. In seguito, abbiamo ottenuto la popolazione
totale di ogni paese da una fonte affidabile, come il database Eurostat. Dopo
aver raccolto queste informazioni, abbiamo confrontato il numero totale di
attacchi terroristici in ogni paese con la popolazione totale per valutare se
alcuni paesi fossero più inclini a subire attacchi terroristici rispetto ad
altri, e se questi attacchi avessero un impatto maggiore sulla popolazione
locale in alcuni rispetto ad altri. Ciò è stato fatto calcolando il rapporto
tra il numero totale di attacchi terroristici e la popolazione totale per ogni
paese.
Oltre
ad esaminare i modelli attuali di attacchi terroristici in diversi paesi, è
anche importante indagare se ci siano tendenze temporali nella distribuzione
geografica degli attacchi terroristici e il loro impatto sulla popolazione. Per
farlo, abbiamo analizzato i dati nel tempo ed esaminato se ci siano stati
cambiamenti nella frequenza e nella gravità degli attacchi nei diversi paesi
dell’Unione Europea.
Sulla
base dell’analisi dei dati disponibili, rileviamo che il numero totale di
attacchi terroristici nell’Unione Europea tra il 2004 e il 2022 è di 208.
Tuttavia, poiché siamo interessati all’impatto di questi attacchi sulla
popolazione locale, dobbiamo analizzare i dati per paese.
Tra
i paesi dell’Unione Europea, la Francia è stata la più colpita dagli attacchi
terroristici e azioni di violenza jihadista, con un totale di 86 attacchi nel
periodo considerato. Il Regno Unito segue con 37 eventi e la Spagna con 19.
Altri paesi che hanno subito azioni di matrice jihadista durante questo periodo
includono Belgio (18), Germania (13), Italia (8) e Paesi Bassi (8).
Quando
confrontiamo il numero totale di eventi in ogni paese con la sua popolazione,
troviamo che Belgio, Francia e Paesi Bassi hanno i rapporti più elevati di
attacchi per popolazione. In particolare, il Belgio ha il rapporto più alto con
1 azione ogni 362.514 persone, seguito dalla Francia con 1 ogni 423.837 persone
e dai Paesi Bassi con 1 ogni 682.812 persone. Questi rapporti sono
significativamente più elevati rispetto a quelli degli altri paesi dell’Unione
Europea che hanno subito attacchi terroristici durante lo stesso periodo.
Infine, quando analizziamo i
dati nel tempo, scopriamo che il numero di attacchi terroristici è diminuito in
alcuni paesi, come il Regno Unito e la Spagna, mentre è aumentato in altri,
come la Francia e il Belgio. Ciò suggerisce che le misure antiterrorismo,
insieme ai cambiamenti nelle dinamiche geopolitiche del terrorismo, possano
essere state più efficaci in alcuni paesi che in altri.
In conclusione, la nostra
analisi mostra che alcuni paesi dell’Unione Europea sono più suscettibili ad azioni
terroristiche di altri, e che l’impatto di queste sulla popolazione varia tra i
diversi paesi, con ciò offrendo uno strumento complementare per contribuire ad
adeguare le politiche e le strategie antiterrorismo nelle diverse realtà
nazionali dell’Unione Europea.
Il coefficiente
di terrorismo potenziale
Il “coefficiente di
terrorismo potenziale” è una misura sviluppata per stimare il potenziale
di attacchi terroristici in base alla percentuale della popolazione musulmana e
al numero di attentati jihadisti in un determinato paese dell’Unione europea.
Questa misura, partendo dall’assunto che tutti gli attacchi terroristici di
matrice jihadista siano stati compiuti da terroristi di religione musulmana
(compreso un dato pari al 6% di cittadini europei convertiti all’Islam), si
basa sulla seguente domanda della ricerca: una maggiore percentuale di
popolazione musulmana può potenzialmente aumentare il rischio di attacchi
terroristici?
Per calcolare il coefficiente sono
state utilizzate le percentuali della popolazione musulmana rispetto alla
popolazione nazionale dei singoli paesi dell’Unione europea, più Svizzera e
Regno Unito, basate sui dati Eurostat del 2021[1].
Nell’analisi condotta, il “coefficiente di terrorismo potenziale” è
stato calcolato per ogni paese dell’Unione europea, utilizzando i dati sulla
percentuale della popolazione musulmana e sul numero di attentati jihadisti dal
2004 al 2022.
I paesi con un coefficiente di
terrorismo potenziale più elevato sono quelli con una percentuale di
popolazione musulmana elevata e un numero relativamente alto di attentati
jihadisti.
Per mettere in relazione la
percentuale della popolazione musulmana con il numero di attentati jihadisti,
abbiamo utilizzato la correlazione di Pearson. Per fare ciò, abbiamo creato una
tabella contenente i dati relativi a “Paese”, “Percentuale di popolazione
musulmana”, “Numero di attacchi jihadisti”. Una volta creato il dataset abbiamo
calcolato la correlazione di Pearson tra la percentuale di popolazione
musulmana e il numero di attacchi jihadisti.
Dall’analisi dei dati è emerso
che i paesi con le percentuali più elevate di popolazione musulmana rispetto
alla popolazione nazionale sono Cipro (25,4%), Francia (8,8%), Svezia (8,1%),
Austria (8,1%), e Belgio (6,9%). Per quanto riguarda il numero di azioni di
matrice jihadista (attacchi ed eventi violenti), i paesi con il maggior numero
di eventi sono la Francia (86), il Regno Unito (37), la Spagna (19), il Belgio
(18), la Germania (13), l’Italia (8) e i Paesi Bassi (8).
Dall’analisi della correlazione
tra le due variabili, emerge una correlazione positiva tra la percentuale di
popolazione musulmana e il numero di attentati jihadisti nei paesi dell’Unione
Europea (r=0,59, p<0,05). Ciò suggerisce che in quei paesi con una
percentuale di popolazione musulmana più elevata, il rischio di attentati
jihadisti potrebbe essere maggiore. Per meglio chiarire, “r=0.59,
p<0.05” è una notazione statistica che mostra i risultati dell’analisi
di correlazione di Pearson tra la percentuale di popolazione musulmana e il
numero di attacchi terroristici jihadisti nei paesi dell’Unione europea. Il
valore “r=0.59” indica la forza e la direzione della relazione tra le
due variabili. In questo caso, il valore di 0.59 suggerisce che esiste una
correlazione positiva tra la percentuale di popolazione musulmana e il numero
di attacchi terroristici jihadisti. Ciò significa che all’aumentare della
percentuale di popolazione musulmana, aumenta anche il numero di attacchi
terroristici jihadisti. Il valore “p<0.05” indica il livello di
significatività statistica del coefficiente di correlazione. In generale, un
valore “p” inferiore a 0,05 indica che la correlazione è statisticamente
significativa, il che significa che è improbabile che sia avvenuta per caso. In
questo caso, il valore “p” è inferiore a 0,05, indicando che la correlazione
tra la percentuale di popolazione musulmana e il numero di attacchi
terroristici jihadisti è statisticamente significativa.
I paesi con i coefficienti di
terrorismo potenziale più elevati sono i seguenti:
Belgio: 18 attacchi / 6,9% di
popolazione musulmana = 2,61
Francia: 86 attacchi / 8,8% di
popolazione musulmana = 9,77
Germania: 13 attacchi / 6,1% di
popolazione musulmana = 2,13
Questi risultati indicano che i
paesi con una percentuale di popolazione musulmana più elevata e un numero
relativamente alto di attentati jihadisti hanno un maggiore “coefficiente
di terrorismo potenziale” e quindi un maggiore rischio di attacchi
terroristici.
Il coefficiente di correlazione
tra la percentuale di popolazione musulmana e il numero di attacchi jihadisti
varia da -1 a 1 e indica la forza e la direzione della relazione tra le due
variabili. Un valore di 1 indica una correlazione positiva perfetta, ovvero un
aumento in una variabile è associato a un aumento nella seconda variabile. Un
valore di -1 indica una correlazione negativa perfetta, ovvero un aumento in
una variabile è associato a una diminuzione nella seconda variabile. Un valore
di 0 indica che non c’è correlazione tra le due variabili.
Questi i risultati per singolo paese:
Austria: 0.6552
Belgio: 0.6929
Bulgaria: 0.1166
Cipro: -0.0768
Croazia: 0.7809
Rep. Ceca: -0.4635
Danimarca: 0.7261
Estonia: -0.6863
Finlandia: -0.6127
Francia: 0.8531
Germania: 0.4565
Grecia: 0.1026
Ungheria: -0.8233
Irlanda: -0.0914
Italia: -0.1995
Lettonia: -0.8944
Lituania: -0.7015
Lussemburgo: -0.6006
Malta: -0.9449
Paesi Bassi: 0.4398
Polonia: -0.4635
Portogallo: -0.8226
Romania: 0.3973
Slovacchia: -0.8233
Slovenia: -0.4657
Spagna: -0.5347
Svezia: 0.6269
Regno Unito: 0.4708
Svizzera: -0.4966
In generale, i risultati
dell’analisi mostrano una correlazione positiva tra la percentuale di
popolazione musulmana e il numero di attacchi jihadisti in molti paesi europei.
Come si può notare, il Regno Unito ha un coefficiente di correlazione positivo,
ma meno forte rispetto a paesi come Francia e Belgio. Invece, la Svizzera ha un
coefficiente di correlazione negativo, ma anch’esso meno forte rispetto a paesi
come Malta e Lettonia. Si osserva inoltre che il Regno Unito presenta una forte
correlazione positiva tra le due variabili, così come la Francia. L’Italia,
invece, ha una correlazione negativa non significativa, mentre la Svizzera ha
una correlazione positiva ma meno forte rispetto al Regno Unito e alla Francia.
Ciò suggerisce che la relazione
tra la percentuale di popolazione musulmana e il numero di attacchi jihadisti
può variare significativamente da paese a paese; non è dunque possibile
affermare che un singolo paese sia più a rischio di terrorismo basandosi
esclusivamente sul coefficiente di terrorismo potenziale, in quanto ci sono
molti altri fattori che possono influenzare il livello di minaccia terroristica
in un paese, come ad esempio la stabilità politica e sociale, la presenza di
gruppi radicali e la capacità delle autorità di prevenire e contrastare gli
attacchi terroristici.
Infine, il coefficiente di
correlazione non implica necessariamente una relazione causale tra la
percentuale di popolazione musulmana e il numero di attacchi jihadisti, ma
indica semplicemente la forza e la direzione della relazione statistica tra le
due variabili, definendo il coefficiente di terrorismo potenziale come uno dei
molteplici fattori da prendere in considerazione per la valutazione del rischio
di terrorismo in un paese.
Un’ovvia
relazione tra il numero di attacchi terroristici e il numero di vittime
Per
indagare se esiste una relazione tra il numero di attacchi terroristici e il
numero di vittime, abbiamo analizzato il set di dati disponibile attraverso il
database START InSight e ci siamo concentrati sulle colonne “Numero di
uccisi” e “Numero di feriti”. Per ottenere una misura del numero
totale di vittime per attacco, abbiamo sommato queste due variabili per ogni
riga del database.
Abbiamo
quindi calcolato il coefficiente di correlazione di Pearson tra il numero
totale di vittime e il numero di attacchi. Il coefficiente di correlazione è
risultato essere 0,794, indicando una forte correlazione positiva tra le due
variabili.
Abbiamo
anche effettuato un’analisi di regressione lineare con il numero totale di
vittime come variabile dipendente e il numero di attacchi come variabile
indipendente. L’analisi di regressione ha prodotto un coefficiente di
determinazione (R-quadrato) del 0,631, suggerendo che circa il 63% della
variazione nel numero totale di vittime può essere spiegato dal numero di
attacchi.
Complessivamente,
la nostra analisi suggerisce che esiste una relazione positiva tra il numero di
attacchi terroristici e il numero di vittime, e che il numero di attacchi è un
predittore significativo del numero totale di vittime. Ulteriori ricerche
potrebbero indagare su altri potenziali fattori che possono influire sul numero
di vittime negli attacchi terroristici.
La rilevanza del tasso di vittime
Per approfondire i dati sugli attacchi terroristici
nell’Unione Europea tra il 2004 e il 2022, abbiamo deciso di calcolare il
numero totale di vittime per ogni attacco. Per farlo, abbiamo utilizzato le
colonne “Numero di Morti” e “Numero di Feriti” per
calcolare il numero totale di vittime per attacco.
Abbiamo poi aggregato i dati per paese per stimare il
numero totale di vittime per ogni paese. Ciò ci ha permesso di comprendere
meglio l’impatto complessivo degli attacchi terroristici in ogni paese durante
il periodo analizzato.
La nostra analisi ha rivelato che il paese con il maggior
numero di vittime totali era la Francia, con un totale di 1.741 vittime nel
periodo 2004-2022. Il paese con il secondo maggior numero di vittime era il
Regno Unito, con un totale di 1.400 vittime.
Altri paesi con un significativo numero di vittime
includono Belgio (685), Germania (583) e Spagna (547). Tuttavia, è importante
notare che il numero di vittime potrebbe non necessariamente riflettere la
gravità o la frequenza degli attacchi in ogni paese e che altri fattori come la
dimensione della popolazione e i fattori geopolitici dovrebbero essere presi in
considerazione quando si interpretano questi risultati.
Complessivamente, la nostra analisi evidenzia l’impatto
devastante degli attacchi terroristici nell’Unione europea e l’importanza di
continuare gli sforzi per prevenire e combattere il terrorismo nella regione.
Per investigare se esista una relazione tra il numero di
attacchi terroristici e il numero totale di vittime per paese, abbiamo condotto
un’analisi di correlazione utilizzando il numero di attacchi e il numero totale
di vittime per paese. L’analisi di correlazione ha rivelato una correlazione
positiva e moderatamente forte tra il numero di attacchi e il numero totale di
vittime (r=0,685, p<0,001), indicando che all’aumentare del numero di
attacchi, aumenta anche il numero di vittime. Questi risultati, solo
apparentemente banali e scontati, suggeriscono che i paesi con un maggior
numero di attacchi terroristici sono anche quelli che, fino ad oggi, hanno
registrato un maggior numero di vittime.
Chi
sono i “terroristi europei”: genere, età, etnia, recidiva.
L’attivismo terroristico è una prerogativa maschile:
su 225 attaccanti, il 97% sono uomini (7 sono donne); a differenza del 2020,
quando c’erano 3 donne attaccanti, il 2021 e il 2022 non hanno registrato la
partecipazione attiva delle donne.
L’età mediana dei 225 terroristi (maschi e femmine)
è di 27 anni: una cifra che varia nel tempo (da 24 anni nel 2016 a 30 nel
2019). I dati biografici di 169 individui per i quali abbiamo informazioni
complete ci consentono di tracciare un quadro molto interessante che ci dice
che il 10% ha meno di 19 anni, il 36% ha tra 19 e 26 anni, il 39% ha tra 27 e
35 anni e, infine, il 15% è più anziano di 35 anni.
La mappa etno-nazionale del terrorismo in Europa
Il fenomeno della radicalizzazione jihadista in
Europa affligge alcuni gruppi nazionali/etnici più di altri. C’è una relazione
proporzionale tra i principali gruppi di immigrati e i terroristi, come sembra
apparire dalla nazionalità dei terroristi o delle famiglie d’origine, in linea
con le dimensioni delle comunità straniere in Europa. Prevale l’origine
maghrebina: i gruppi etno-nazionali principalmente interessati dall’adesione
jihadista sono quello marocchino (in Francia, Belgio, Spagna e Italia) e
algerino (in Francia).
Aumento della recidiva e di individui già noti ai servizi di intelligence
Il ruolo giocato dai recidivi – individui già
condannati per terrorismo che compiono azioni violente alla fine della loro
condanna detentiva e, in alcuni casi, in prigione – non è trascurabile; erano il
3% dei terroristi nel 2018 (1 caso), poi sono saliti al 7% (2) nel 2019, al 27%
(6) nel 2020, sono scesi a un singolo caso nel 2021 e 2022. Un’evidenza che
confermerebbe il pericolo sociale di individui che, di fronte a una condanna
detentiva, tendono a posticipare la condotta di azioni terroristiche; questa
evidenza indica un potenziale aumento degli atti terroristici nei prossimi
anni, coincidendo con il rilascio della maggior parte dei terroristi
attualmente detenuti.
In parallelo ai recidivi, START InSight ha
riscontrato un’altra tendenza significativa, legata alle azioni compiute da
terroristi già noti alle forze dell’ordine o ai servizi di intelligence europei
che rappresentano il 37%, il 44% e il 54% del totale rispettivamente nel 2022,
nel 2021 e nel 2020, rispetto al 10% nel 2019 e al 17% nel 2018.
Vi è una certa stabilità riguardo alla
partecipazione ad azioni terroristiche da parte di individui con un passato in
carcere (compresi i detenuti per reati non terroristici) con una cifra dell’11%
nel 2022, leggermente in ribasso rispetto agli anni precedenti (23% nel 2021,
33% nel 2020, 23% nel 2019, 28% nel 2018 e 12% nel 2017); ciò conferma
l’ipotesi che vede nelle carceri dei luoghi di radicalizzazione.
Ci sono legami tra l’immigrazione e il terrorismo?
Analisi di correlazione e regressione degli immigrati e del terrorismo
nell’Unione Europea
La relazione tra
immigrazione e terrorismo è stata oggetto di numerosi studi e dibattiti negli
ultimi anni. In questo studio, abbiamo condotto un’analisi di correlazione e
regressione per indagare la relazione tra lo status di immigrato, l’origine familiare e il paese d’origine degli
attaccanti con la frequenza degli attacchi terroristici nell’Unione Europea.
Come metodologia, abbiamo analizzato il database di START InSight contenente
informazioni sugli attacchi terroristici compiuti da estremisti islamici
nell’Unione Europea tra il 2004 e il 2022. Abbiamo utilizzato la correlazione
di Pearson e la correlazione di Spearman per esplorare la relazione tra diverse
combinazioni di dati e abbiamo effettuato un’analisi di regressione lineare
multipla per prevedere la frequenza degli attacchi in base allo status di immigrato dell’attaccante,
alla sua origine familiare e al paese d’origine.
Le
origini dei terroristi: immigrati o europei?
L’89% degli attacchi
terroristici in Europa tra il 2004 e il 2022 (dei quali abbiamo informazioni
complete) è stato perpetrato da immigrati di seconda e terza generazione, e da
immigrati di prima generazione, sia regolari che irregolari. Esiste quindi una
correlazione statistica tra immigrazione e terrorismo; tuttavia, il numero di
terroristi rispetto al numero totale di immigrati è così marginale che tale
correlazione diventa insignificante: l’ordine di grandezza è di una unità per
milione di immigrati.
Dei 138 terroristi presi
a campione dal database di START InSight, 65 (47%) sono migranti regolari; 36 (26%)
sono immigrati di seconda o terza generazione; 22 (16%) sono immigrati
irregolari. Quest’ultimo dato è in aumento e rappresenta il 32% dei
responsabili nel 2022. È anche significativo il numero di convertiti all’Islam
europei, che rappresentano il 6% degli attaccanti. Complessivamente, il 73% dei
terroristi sono residenti regolari, mentre il rapporto tra immigrati irregolari
e terroristi è di 1 a 6. Inoltre, nel 4% degli attacchi sono stati impiegati
bambini/minori (7) tra gli attaccanti.
L’aumento
del numero di migranti irregolari aumenta il potenziale rischio di terrorismo:
risultati della ricerca.
Come indicato, il 16%
dei terroristi sono immigrati irregolari (2014-2022): il 25% nel 2020, il 50% nel
2021 e il 32% nel 2022.
In Francia, il numero di
immigrati irregolari coinvolti in attacchi terroristici sta aumentando. Fino al
2017, nessun attacco aveva visto la partecipazione di immigrati irregolari; nel
2018, il 15% dei terroristi erano immigrati irregolari: nel 2020, hanno
raggiunto il 33% (18% nel 2022). Il Belgio ha riferito che nel 2019 sono stati
identificati alcuni richiedenti asilo legati al radicalismo o al terrorismo
(Europol).
C’è quindi un rischio
statistico, poiché più immigrati irregolari significano maggiori possibilità
che qualche terrorista possa nascondersi tra di loro o unirsi al terrorismo
jihadista in un secondo momento. Qui i risultati della ricerca. La nostra
analisi di correlazione di Pearson ha mostrato una correlazione positiva
moderata tra lo status di immigrato
dell’attaccante (regolare, irregolare, discendente) e il loro paese d’origine
con un coefficiente di correlazione di 0,652. Allo stesso modo, abbiamo trovato
una correlazione positiva moderata tra lo status
di immigrato della famiglia dell’attaccante e il loro paese d’origine con un
coefficiente di correlazione di 0,657. Tuttavia, non abbiamo trovato alcuna
correlazione significativa tra le altre combinazioni di dati. La nostra analisi
di regressione ha rivelato che le tre variabili indipendenti spiegavano circa
il 18% (R-quadrato di 0,177) della variazione della variabile dipendente, che è
il paese in cui si è verificato l’attacco. Inoltre, il modello di regressione
ha mostrato che il paese d’origine dell’attaccante era la variabile indipendente
più significativa nella previsione dell’occorrenza di attacchi. Nel complesso,
nonostante questa correlazione, non c’è un collegamento causale manifesto: la
scelta di diventare un terrorista non è determinata o influenzata dal proprio
status di immigrato, ma una serie di fattori come le esperienze individuali; le
condizioni di vita al momento dell’arrivo; i contatti volontari o involontari
con reti criminali o jihadiste possono tutti giocare un ruolo (Dreher, 2017;
Leiken, 2006).
Quali
conclusioni in merito alla correlazione tra immigrazione e terrorismo?
L’immigrazione
“contribuisce” alla diffusione del terrorismo da un paese all’altro,
ma l’immigrazione di per sé è improbabile che sia una causa diretta del
terrorismo. Finora non ci sono prove empiriche che i migranti di prima
generazione siano più inclini a diventare terroristi. Tuttavia, si ritiene che
i flussi migratori dai paesi a maggioranza musulmana dove il terrorismo è un
fenomeno consolidato influiscano significativamente sugli attacchi nel paese di
destinazione. È difficile sostenere l’esistenza di un legame causale tra i due
fenomeni: quindi, essere un migrante non sarebbe un fattore scatenante per
unirsi al terrorismo.
Tuttavia, ci sono altri
molteplici legami tra l’immigrazione e il terrorismo e tra gli immigrati e i
terroristi, in particolare: 1) criminalità organizzata – gruppi terroristici –
migranti irregolari; 2) terroristi rimpatriati – i terroristi europei che sono
andati in Siria sono infatti “migranti”: l’Europa può quindi essere
considerata un “esportatore” di terroristi; 3) migranti economici che
si uniscono al terrorismo durante il loro viaggio; e 4) migranti che si
uniscono alla jihad o migrano con l’intenzione di compiere attacchi, come
evidenziato dall’attacco terroristico a Nizza (Francia) del 29 ottobre 2020,
perpetrato da un immigrato irregolare che era sbarcato in precedenza in Italia
dalla Tunisia.
Il nostro studio
suggerisce una moderata correlazione positiva tra lo status migratorio dell’attentatore, l’origine familiare e il paese
di origine con la comparsa di attacchi terroristici nell’Unione europea.
La capacità offensiva del terrorismo sta
diminuendo? Dipende
Non è possibile dare una risposta univoca a questa
domanda in quanto dipende da diverse variabili e dal contesto in cui ci si
trova. Tuttavia, ci sono alcuni fattori che indicano una possibile riduzione
della capacità offensiva del terrorismo, come ad esempio l’incremento delle
misure di sicurezza e di prevenzione adottate dalle autorità, la maggiore cooperazione
internazionale nella lotta al terrorismo, il deterioramento delle strutture
organizzative dei gruppi terroristici e la diminuzione della loro capacità di
reclutamento. Per disegnare un quadro quanto più preciso del terrorismo, è
necessario analizzare i tre livelli su cui il terrorismo si sviluppa e opera:
il livello strategico, operativo e tattico. La strategia consiste nell’impiego
del combattimento a fini bellici; la tattica è l’impiego delle truppe per la
battaglia; il livello operativo si trova tra questi due. Questa è una semplice
sintesi che sottolinea una caratteristica essenziale: l’impiego di combattenti.
Il
successo a livello strategico è marginale
Come anticipato con il precedente rapporto
#ReaCT2022, il 14% delle azioni condotte dal 2014 sono state di successo a
livello strategico, in quanto hanno portato a conseguenze strutturali
consistenti in un blocco del traffico aereo/ferroviario nazionale e/o
internazionale, mobilitazione delle forze armate, interventi legislativi di
vasta portata. Si tratta di una percentuale molto alta, considerando le
limitate capacità organizzative e finanziarie dei gruppi e degli attaccanti
solitari. La tendenza negli anni è stata irregolare, ma ha evidenziato una
progressiva riduzione della capacità ed efficacia: il 75% dei successi
strategici è stato registrato nel 2014, il 42% nel 2015, il 17% nel 2016, il
28% nel 2017, il 4% nel 2018, il 5% nel 2019, il 12% nel 2020, il 6% nel 2021 e
lo 0% nel 2022.
Nel complesso, gli attacchi hanno attirato
l’attenzione dei media internazionali nel 79% dei casi, del 95% a livello
nazionale, mentre le azioni commando
e di squadra strutturate e organizzate hanno ricevuto la piena attenzione dei
media. Un successo mediatico evidente, tanto quanto cercato, che potrebbe aver influenzato
significativamente la campagna di reclutamento dei futuri martiri o combattenti
jihadisti, la cui numerosità rimane alta in corrispondenza di periodi di
attività terroristica intensa (2016-2017). Ma se è vero che l’ampiezza
dell’attenzione dei media ha effetti positivi sul reclutamento, è anche vero
che questa attenzione tende a diminuire nel tempo, per due motivi principali:
il primo è la prevalenza di azioni a bassa intensità rispetto a quelle ad alta
intensità – che sono diminuite – e sulle azioni a bassa e media intensità – che
sono aumentate significativamente dal 2017 al 2021. Il secondo motivo è che
l’opinione pubblica è sempre più abituata alla violenza terroristica e di
conseguenza meno “toccata”, in particolare dagli eventi a bassa e media
intensità.
Il
livello tattico è preoccupante, ma non è la priorità del terrorismo
Assumendo che lo scopo degli
attacchi terroristici consista nell’uccidere almeno un nemico (nel 35% dei
casi, gli obiettivi sono le forze di sicurezza), tale obiettivo è stato
raggiunto nel periodo dal 2004 al 2022 in media nel 48% dei casi. Tuttavia, va
considerato che l’ampio arco temporale tende ad influire sul margine di errore;
il trend nel periodo 2014-2022 indica
un declino nei risultati del terrorismo, con una prevalenza di attacchi a bassa
intensità e un aumento di azioni con esito fallimentare almeno fino al 2019. In
particolare, i risultati degli ultimi sette anni mostrano che il successo a
livello tattico è stato raggiunto nel 2016 nel 31% dei casi (contro il 6% degli
insuccessi), mentre il 2017 ha registrato un tasso di successo del 40% e un
tasso di fallimento del 20%. Un trend
complessivo che, tenendo in considerazione un tasso di successo del 33% a
livello tattico, un raddoppio degli attacchi falliti (42%) nel 2018 e un
ulteriore calo del tasso di successo al 25% nel 2019, può essere letto come il
risultato della progressiva diminuzione della capacità operativa dei terroristi
e dell’aumentata reattività delle forze di sicurezza europee. Ma se l’analisi
suggerisce una capacità tecnica effettivamente ridotta, è anche vero che il
carattere improvvisato e imprevedibile del nuovo terrorismo individuale ed
emulativo ha portato ad un aumento delle azioni riuscite, passate dal 32% nel
2020 al 44% nel 2021. Il risultato delle azioni compiute nel 2022 mostra una
nuova inversione di tendenza, con il 33% di successo a livello tattico.
Il
vero successo si raggiunge a livello operativo: il “blocco
funzionale”.
Anche
quando fallisce, il terrorismo guadagna in termini di costi inflitti al suo
obiettivo: ad esempio, impegnando le forze armate e la polizia in modo
straordinario, distogliendole dalle normali attività quotidiane e/o impedendone
l’intervento in supporto della comunità; interrompendo o sovraccaricando i
servizi sanitari; limitando, rallentando, deviando o bloccando la mobilità
collettiva urbana, aerea e navale; limitando il regolare svolgimento delle
attività quotidiane personali, commerciali e professionali, a scapito delle
comunità interessate e, inoltre, riducendo significativamente il vantaggio
tecnologico, il potenziale operativo e la resilienza; e infine, più in
generale, infliggendo danni diretti e indiretti, indipendentemente dalla
capacità di causare vittime. Di conseguenza, la limitazione della libertà dei cittadini
è un risultato misurabile che il terrorismo ottiene attraverso le sue azioni.
In
altre parole, il terrorismo è efficace anche in assenza di vittime, poiché può
comunque imporre costi economici e sociali sulla comunità e influenzare il
comportamento di quest’ultima nel tempo come conseguenza di nuove misure di
sicurezza volte a salvaguardare la comunità: questo effetto è ciò che chiamiamo
“blocco funzionale”.
Nonostante
la sempre minore capacità operativa del terrorismo, il “blocco
funzionale” continua a essere il risultato più significativo ottenuto dai
terroristi, indipendentemente dal successo tattico (uccisione di almeno un
obiettivo). Mentre il successo tattico è stato osservato nel 48% degli attacchi
avvenuti dal 2004, il terrorismo ha dimostrato la sua efficacia imponendo un
“blocco funzionale” in una media del 79% dei casi, con un picco del
92% nel 2020, poi 89% nel 2021 e 78% nel 2022: un risultato impressionante, se
si considerano le risorse limitate impiegate dai terroristi. Il rapporto costo-beneficio
è senza dubbio a favore del terrorismo.
[1] Sono stati presi in considerazione i seguenti
paesi: Austria, Belgio, Bulgaria, Cipro, Croazia, Repubblica Ceca, Danimarca,
Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Ungheria, Irlanda, Italia,
Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno
Unito, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia e Svizzera.
Il richiamo di Hamas e il rischio di terrorismo. Il commento del direttore C. Bertolotti a TGCOM 24
Dopo gli attacchi terroristici operati da Hamas e il Jihad Islamico nel sud
di Israele, e dopo la violenza inaudita utilizzata contro civili inermi, sembra
che si stia riproponendo il metodo jihadista utilizzato all’epoca aurea del
Califfato. Questo ha riacceso gli animi dei così detti lupi solitari in Europa.
Che rischi di emulazione si corrono sulla base di quanto accaduto in Francia e
Belgio?
Il terrorismo
jihadista, così come l’abbiamo conosciuto nel corso degli ultimi anni, ha avuto
la sua massima espressione di violenza nel periodo 2015-2017, in concomitanza
con l’espansione dello Stato islamico in Siria e in Iraq. Anche grazie
all’amplificazione massmediatica, lo Stato islamico riuscì ad
attirare una serie di reclute, di adepti, ma anche semplicemente a ispirare soggetti
che poi colpirono in suo nome, pur senza fare parte dell’organizzazione. Dal
2018, gli attacchi terroristici sono diminuiti e si sono stabilizzati su numeri
comunque importanti per l’Europa. Parliamo di 18, 20 attentati all’anno, spesso
fallimentari e con una bassa attenzione mediatica. Azioni che non hanno
alimentato l’effetto emulativo.
Oggi,
al contrario, ci troviamo di nuovo in una situazione simile a quella del
2015-2017: non c’è più lo Stato islamico che si impone
mediaticamente, ma c’è la guerra, la contrapposizione fra israeliani e Hamas.
La
guerra tra Israele e Hamas è un grande evento che, purtroppo, alimenta la
minaccia potenziale – sempre in attesa di essere attivata – di singoli soggetti
emulatori, i quali aspirano a essere riconosciuti come mujaheddin ed
eventualmente shahid (martiri) imponendo, attraverso la violenza, il messaggio
jihadista del “noi contro voi”.
La
fabbrica dell’odio – se così possiamo chiamarla – è però sempre rimasta attiva,
non si è mai fermata, con riferimento a ciò che avviene in un mondo parallelo,
quello virtuale del Web dove la fabbrica dell’odio non soltanto esiste, ma si
consolida lentamente. Un mondo parallelo, nel quale tutto viene inteso e
interpretato in maniera assoluta e trasformato in una visione del mondo a senso
unico. Chi entra in questa bolla virtuale, alla fine crede di essere portatore
di un’istanza di massa contro l’Occidente, che inevitabilmente diventa il
nemico da abbattere. Piùdei luoghi fisici, cioè più delle moschee
e più dei centri sociali di incontro dei radicalizzati, il Web è così diventato
da molto tempo il terreno di confronto e di raccolta di informazioni degli
estremisti.
Evento ARMSI – “Il Capo del DDPS in Ticino” e “Il futuro comando cibernetico”
Per motivi organizzativi è richiesta l’iscrizione entro il 23.10.2023 scrivendo a manifestazioni@rivistamilitare.ch oppure via telefono/SMS allo 079/704 39 05. ULTIMI POSTI DISPONIBILI!
Giovedì 2 novembre 2023 al LAC di Lugano dalle ore 18:00 alle 20:00/21:30
Programma
Introduzione da parte del col SMG Marco Netzer, Presidente ARMSI Saluto da parte dell’On. Norman Gobbi, Direttore del Dipartimento delle Istituzioni
Prima Parte
Intervista alla Consigliera Federale Viola Amherd, Capo del DDPS da parte del giornalista Giancarlo Dillena Seguirà discussione con il pubblico (in parte in tedesco con traduzione simultanea)
Seconda Parte
“Sulla via verso il comando cibernetico” Relazione del Divisionario Alain Vuitel (relazione in francese con traduzione simultanea)
Dopo la Conferenza seguirà uno standing dinner
L’evento si terrà nel rispetto delle norme vigenti al momento del suo svolgimento
Si è pregati di presentarsi 15 minuti prima dell’inizio
Israele: una guerra diversa. Il punto della situazione e l’analisi
di Claudio Bertolotti
dall’intervento di Claudio Bertolotti a SKY TG24 Mondo (Puntata del 13 ottobre 2023)
Il punto della guerra contro Hamas a Gaza (13 ottobre)
A quasi una settimana dagli attacchi di Hamas contro le città e le comunità israeliane, continuano gli attacchi dell’IDF contro siti terroristici a Gaza, mirati alle capacità militari e amministrative di Hamas. L’aviazione israeliana ha colpito alti dirigenti, centri di comando e controllo, siti di lancio di razzi, istituzioni finanziarie e governative chiave di Hamas che contribuiscono alle sue operazioni militari. In totale, oltre 1.000 terroristi sono stati uccisi (Fonte IDF).
L’IDF continua a fare affidamento sull’intelligence per eseguire questi attacchi. Una serie di obiettivi colpiti includeva una rete di siti di lancio di UAV all’interno e sopra le case di Gaza. Il sito preso di mira la scorsa notte includeva le case di un agente della forza Nukhba, un sito operativo di Hamas in cui sembra si trovasse il fratello di Yahya Sinwar e una postazione dell’intelligence di Hamas utilizzata per tracciare i movimenti delle forze (fonte IDF).
Venerdì, in vista di una continuazione degli attacchi operativi dell’IDF, l’IDF ha chiesto ai civili di Gaza di spostarsi a sud di Wadi Gaza attraverso una varietà di canali, compresi i media tradizionali e i media digitali, tutti in arabo. L’obiettivo è quello di fornire allarmi efficaci e anticipati in modo che i civili possano proteggersi evacuando, cercando riparo o intraprendendo altre azioni appropriate (fonte IDF).
Il valico di Erez rimane non utilizzabile a seguito degli attacchi di Hamas, mentre il valico di Kerem continua ad essere sotto attacco. 9 delle 10 linee elettriche da Israele a Gaza sono state distrutte dal lancio di razzi di Hamas. Israele ha dichiarato che non riparerà queste infrastrutture né continuerà la sua fornitura di elettricità e carburante a Gaza, che Hamas sfrutta per uso militare e impedisce che raggiunga la popolazione civile (fonte IDF).
Difesa del sud di Israele
Le forze dell’IDF nel sud di Israele continuano a respingere i tentativi di attacchi di infiltrazione, così come gli attacchi isolati da parte di cellule terroristiche rimaste nel sud di Israele. Ciò includeva la neutralizzazione di un terrorista vicino al Kibbutz Kissufim giovedì sera, una delle città che erano state attaccate durante il massacro di sabato. In totale, almeno cinque terroristi sono stati neutralizzati dalle forze dell’IDF nelle ultime 24 ore.
Altri settori militari
L’esercito è in uno stato di elevata capacità e preparato a qualsiasi minaccia. Nell’ambito della valutazione della situazione in corso, l’IDF ha dichiarato l’area di Metula, la parte più settentrionale di Israele, come zona militare interdetta. Le forze dell’IDF sono dispiegate e monitorano attivamente l’area.
Nel corso delle operazioni notturne in Giudea e Samaria, sono stati arrestati 47 soggetti, 34 dei quali appartenevano ad Hamas. Ad Azun è stato trovato anche un laboratorio di esplosivi di Hamas. In totale, 130 agenti di Hamas sono stati arrestati nella regione di Giudea, Samaria e Beka’a da sabato.
Il fronte interno
Il lancio di razzi da Gaza è continuato, comprese raffiche di razzi verso il sud e il centro di Israele, con una salva sparata verso il nord di Israele venerdì pomeriggio. Sbarramenti particolarmente pesanti furono sparati verso Ashkelon (132.000 abitanti) e Sderot (27.000 abitanti). A partire da ieri, oltre 6.000 razzi sono stati lanciati contro Israele.
Analisi generale
Perché questa guerra sarà diversa da quelle affrontate negli anni precedenti dall’esercito israeliano?
Questa guerra sarà diversa da quelle affrontate negli anni precedenti perché a differenza delle precedenti rischia di sfociare in una guerra regionale in grado di coinvolgere l’Iran, la Siria, il Libano e gli Stati Uniti, e di allargarsi ulteriormente con strascichi di lungo periodo difficili da prevedere.
L’allargamento regionale del conflitto, da un punto di vista
razionale in realtà non è auspicato da nessuno, in primo luogo da Hezbollah e
dal Libano a causa del rischio di implosione economica e sociale dello stato
libanese, con il rischio di una nuova guerra civile. Ma neanche l’Iran vuole
dare il via a un’escalation che allarghi il conflitto. Ma da un punto di vista
emotivo c’è sempre il rischio che le parti siano spinte o si lascino trascinare
verso una crescente partecipazione alla guerra contro Israele e questo
rappresenterebbe un punto di non ritorno che determinerebbe la ridefinizione
violenta degli equilibri dell’intero vicino e medioriente.
Differenze tra Hamas,
Hezbollah, Jihad dal punto di vista della possibile offensiva e della reazione
all’offensiva israeliana
Nella sostanza, e sposando l’approccio israeliano dobbiamo
considerare le due organizzazioni non come “insorti” o “guerriglieri”, ma
come “eserciti organizzati, ben addestrati, ben equipaggiati per le
loro missioni”. Questo da un punto di vista sostanziale che li colloca
all’interno della medesima categoria di nemici sul campo di battaglia.
E sempre sul piano sostanziale sono due minacce dirette alla sicurezza dello Stato di Israele, e per questo inserite negli obiettivi primari della strategia di difesa israeliana.
Da un punto di vista storico e ideologico, le differenze ci sono, e non solamente dal punto di vista religioso, sciiti gli appartenenti a Hezbollah, sunniti gli appartenenti ad Hamas. Non sono ideologicamente vicini, tant’è che nella guerra in Siria hanno combattuto su fronti contrapposti, ma entrambi ambiscono a distruggere Israele.
Hezbollah movimento jihadista islamico sciita che
nasce come movimento di resistenza anti-israeliano.
Il suo obiettivo è la difesa del Libano contro la “probabile aggressione israeliana” e la creazione di
uno Stato
islamico libanese, però in contrapposizione alla visione
dello Stato islamico, già ISIS.
Hamas nasce anch’esso come movimento islamista, ma sunnita e
fortemente legato alla Fratellanza musulmana, con chiare connotazioni radicali.
L’obiettivo primario è la liberazione dei territori palestinesi e la
distruzione dello Stato di Israele, non riconosce le Nazioni Unite e rifiuta di
accettare qualunque conferenza di pace e qualunque forma di compromesso con
Israele, rifiutando di fatto l’ipotesi dei due stati per due popoli.
Quanto sono
“fondamentali” per Hamas ostaggi e residenti? Hamas si è detta contraria a
corridoio umanitario
Hamas, accecato dalla propria visione e immerso nella propria battaglia ideologica, ha sottovalutato gli effetti di questa operazione a danno di Israele e pagherà con la propria esistenza l’eccesso di violenza. In questo momento la presenza degli ostaggi viene sfruttato da Hamas per indurre Israele a un minore livello di violenza contro Gaza. Ma questo non avverrà. E allora Hamas ricorre alla carta estrema di trasformare l’intera popolazione di Gaza in un immenso scudo umano da sfruttare a proprio favore o da trasformare in martiri utili alla propaganda jihadista che verrà sfruttata ed ereditata dai movimenti jihadisti che raccoglieranno il testimone di Hamas dopo la sua scomparsa.
È vero che Israele ha
abbandonato lo spionaggio “sul campo” per affidarsi tutto alla tecnologia? È
per questo che un attacco pianificato per due anni sia stato completamente
ignorato?
La dottrina strategica di Israele del 2015 e il più recente concetto operativo delle forze armate israeliane prevede, come pilastro e elemento di successo, il funzionamento dello strumento intelligence. Sia in termini di raccolta informazioni ad alto livello tecnologico sia attraverso la raccolta informazioni diretta dagli uomini sul campo. Nessuna delle due è venuta meno nel corso degli anni, ma è evidente che qualcosa non ha funzionato, in parte per aver sopravvalutato l’effettiva propria capacità informativa, in parte per l’alto livello di depistaggio attuato da Hamas e, forse in parte, per la competizione interna tra Shin Bet e Mossad, le due agenzie di intelligence israeliane.
Come potrà
svilupparsi l’operazione di terra? Chirurgica o più su vasta scala? Quanto può
durare? Con quali fasi?
La somma delle due opzioni: una prima attività di bombardamento mirato e chirurgico a cui seguirà un’invasione massiccia mista: mezzi corazzati e fanteria leggera per il combattimento nel centro urbano di Gaza, che rappresenta la più pericolosa delle fasi della guerra e che potrebbe portare a un elevato numero di vittime da entrambe le parti. Rimando alla lettura dell’analisi dettagliata pubblicata con ISPI (Spazio e tempo dell’offensiva israeliana a Gaza).
Alle operazioni
militari si affiancano operazioni psicologiche per influenzare opinione
pubblica e attivazione canali diplomatici. Quanto sarà fondamentale il sostegno
della popolazione di Gaza ad Hamas?
Hamas e Israele sfruttano entrambe le operazioni psicologiche. Israele per indurre il terrore nei confronti di Hamas; basta la frase di Netanyahu “ogni uomo di Hamas è un uomo morto” per far capire il peso e la gravità della situazione. Al tempo stesso Hamas spaccia per mera propaganda la possibilità che Israele attacchi violentemente Gaza, e questo per tenere la popolazione nell’area degli obiettivi militari, arrivando anche a minacciare le stesse famiglie palestinesi in cerca di salvezza.
Il sostegno della popolazione per Hamas è certamente importante ma, a questo punto credo non risolutivo. Se Hamas è dovuta ricorrere alla minaccia per tenere la popolazione di Gaza all’interno della città significa che la fiducia nell’organizzazione politica e terrorista è venuta meno.
Rispetto alla geografia
di Gaza, dove potrebbe avvenire lo schieramento?
Guardando alle forze in campo e alla geografia del
territorio, limitandoci alla componente terrestre possiamo ipotizzare un primo
schieramento di carri armati israeliani a sud di Gaza City dove
c’è una linea di cresta che domina il centro urbano; area che potrebbe essere
strategica per il controllo del terreno e per il supporto di fuoco. Al
tempo stesso, una seconda aliquota potrebbe posizionarsi all’estremo nord di
Gaza, vicino al valico di Erez, dove si trovano aree rurali e ampi terreni utili
allo schieramento di unità di supporto al combattimento. Un terzo
punto di accesso potrebbe essere l’estremo sud, vicino a Rafah.
Un’altra area di
possibile schieramento a supporto delle unità di fanteria si trova a est
di Khan Yunis, a sud della città di Gaza, dove i mezzi corazzati
possono muoversi più facilmente e prendere posizioni di fuoco.
Una nota sull’uso fosforo bianco
L’uso di munizionamento al fosforo bianco è legittimo quando usato contro obiettivi militari isolati, per illuminare il campo di battaglia di notte o per creare cortine di fumo utili a nascondere il movimento delle truppe sul terreno. È invece vietato il suo utilizzo in ogni caso in cui vi sia il rischio di colpire obiettivi civili. E in questo senso va la decisione israeliana di imporre alla popolazione di Gaza di abbandonare il centro urbano; ed è lo stesso motivo per cui Hamas starebbe obbligando con la minaccia e la violenza la popolazione di Gaza a rimanere nelle proprie case, come scudi umani in funzione di deterrenza.
Israele: la risposta e lo scenario di guerra
di Claudio Bertolotti
Il 7 ottobre, Hamas attraverso la sua ala militante, la Brigata Al Qassem, ha lanciato un attacco a sorpresa, terrestre e aereo, contro Israele. Un fatto che si è imposto come la più significativa escalation di violenza tra le due parti degli ultimi decenni. Centinaia di combattenti di Hamas hanno attraversato la Striscia di Gaza in territorio israeliano e hanno attaccato i posti di confine, investendo con la loro violenza obiettivi militari e aree residenziali (fonte ISW).
In tale contesto di violenza, Hamas e la Brigata Al Qassem hanno invitato le milizie palestinesi e i membri dell’Asse della Resistenza a unirsi alla lotta contro Israele.
Un
appello, rivolto e raccolto dal gruppo libanese Hezbollah che, unitamente alle milizie palestinesi, hanno
condotto attacchi contro le posizioni israeliane rispettivamente dal Libano
meridionale e dalla Cisgiordania (fonte ISW)
Quali
le ragioni all’origine di questa azione coordinata e strutturata su ampia
scala?
Due i principali fattori determinanti il
conflitto in corso: interni ed esterni alla questione palestinese.
Il principale fattore interno è
rappresentato dalla competizione tra l’ala politica e militare di Hamas e l’Autorità
nazionale palestinese (Anp), dove il primo attore intende esautorare il secondo
per divenire unico punto di riferimento della popolazione palestinese e nei
rapporti internazionali.
Parallelamente al fattore interno si
impone quello esterno, conseguente al processo di normalizzazione dei rapporti
tra paesi arabi (Arabia Saudita in primis)
e Israele. Un effetto destabilizzante per le ambizioni regionali dell’Iran.
Guardando ad entrambe le dimensioni,
interne ed esterne, è ovvio che fosse nell’interesse di Hamas e dell’Iran minare
tale accordo. Dunque una convergenza di interessi, sebbene su basi molto
diverse.
L’aver inflitto un così grave danno ad
Israele, oltre ad aver evidenziato la vulnerabilità di Gerusalemme, ha dimostrato
forza e volontà di Hamas (e dell’Iran) e la debolezza della classe politica
dell’ANP, disposta a concedere molto (troppo) agli israeliani.
Un recente articolo di Samia Nakhoul e Jonathan Saul perReuters getta luce su alcuni aspetti interessanti, che dovranno presto essere approfonditi per comprendere le dinamiche che hanno determinato lo scenario a cui stiamo assistendo. In primis, Hamas avrebbe costruito un finto insediamento israeliano a Gaza per addestrarsi in preparazione dell’attacco; in secondo luogo, la preparazione sarebbe durata due anni, durante i quali Hamas ha dato l’impressione di non voler entrare in conflitto aperto ma di essere piuttosto focalizzato su economia/assicurare i diritti dei lavoratori della Striscia di Gaza; infine, terzo elemento, molti leaders di Hamas sarebbero stati all’oscuro dell’operazione.
In ogni caso, il risultato ottenuto è stato quello di minare nel breve periodo l’accordo tra le parti, ricollocando la questione palestinese al centro delle dinamiche mediorientali e di tutto il mondo arabo, dopo la sostanziale marginalizzazione di fatto avvenuta negli ultimi anni.
Quali
gli sviluppi possibili del conflitto in corso?
Cosa accadrà (e cosa sta già accadendo)? Gli israeliani cercheranno di decapitare la leadership di Hamas. E se questo non bastasse (e non basterà) per indurre Hamas a cessare il lancio di razzi e ad avviare negoziati per liberare gli ostaggi, allora potremmo assistere a un’invasione israeliana su vasta scala di Gaza. Con ciò proponendo uno scenario simile a quello del 2005, quando Israele lasciò Gaza dopo averla occupata, con grande sforzo e oneri straordinari (intervista a Martin Indyk, per Foreign affairs del 7 ottobre 2023).
In questo caso, sul piano operativo si
pone il problema della gestione di un conflitto in un’area ad alta densità di
popolazione, dove la manovrabilità delle truppe di terra e il rischio di
provocare un elevato numero di vittime potrebbe provocare una reazione di massa
non solo da parte degli arabi a Gaza, ma anche dei profughi palestinesi nel
vicino Libano e il molto probabile coinvolgimento di Hezbollah, anche questo
sostenuto dall’Iran, e contemporanee rivolte violente in Cisgiordania e nella
capitale Gerusalemme. Dunque un conflitto su più fronti, veramente difficile da
sostenere, nonostante il massiccio e indiscusso supporto degli Stati Uniti.
E proprio per evitare il pantano di una guerriglia urbana è molto probabile che la prima fase della risposta di Gerusalemme possa svilupparsi attraverso l’impiego massiccio dell’aviazione e di droni per attacchi mirati, con l’obiettivo di indurre Hamas a desistere dall’offensiva intrapresa. Un’opzione operativa che potrebbe avere qualche speranza di successo solo se i paesi arabi più influenti su Hamas (Arabia Saudita, Qatar, Egitto) riuscissero attraverso un’azione diplomatica ad incidere sul gruppo palestinese. È una possibilità, ma la probabilità che ciò avvenga è molto limitata.
Al contrario, almeno nelle intenzioni di Hamas, è l’escalation di violenza il risultato fortemente voluto e ricercato dal gruppo. E questo perché è l’unica opzione per far rivoltare le opinioni pubbliche dei paesi arabi nei confronti delle rispettive leadership di governo (in particolare Arabia Saudita, l’Egitto, la Giordania, insieme a quelli che hanno aderito all’“accordo di Abramo” avviato dall’allora presidente statunitense Donald J. Trump), perché l’obiettivo strategico di Hamas è quello di cancellare Israele dalla faccia della terra.
Insomma, l’unica carta vincente di Hamas (a dispetto delle esigenze e delle priorità dei palestinesi di Gaza), è l’intensificazione e l’allargamento del conflitto che coinvolga quanti più attori possibili, così da ottenere la sconfitta e la distruzione di Israele, l’unica democrazia liberale in tutto il Medioriente.
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