L’Atlante geopolitico del Mediterraneo 2024, giunto alla sua decima edizione, sottolinea l’importanza cruciale del Mediterraneo per Europa, Africa e Asia, evidenziando il ruolo chiave dell’Italia come ponte strategico nella regione. Esamina lo sviluppo della politica estera italiana dal dopoguerra, mostrando come la stabilità del Mediterraneo sia fondamentale per gli interessi del paese. Celebrando figure storiche italiane come Fanfani, Gronchi, La Pira e Mattei, il testo sottolinea l’importanza dell’Italia nella gestione delle risorse energetiche, sicurezza marittima e flussi migratori, promuovendo una collaborazione equa e sostenibile tra le nazioni mediterranee. L’Atlante affronta anche le attuali instabilità regionali, come le tensioni in Libia, la svolta autoritaria in Tunisia e il conflitto israelo-palestinese, proponendo la soluzione a due Stati come via per una pace duratura. La stabilizzazione del Mediterraneo è vista come essenziale per la crescita delle nazioni rivierasche. L’edizione esplora le dinamiche politiche e socio-economiche attuali e future del Mediterraneo, offrendo uno strumento per comprendere e affrontare le sfide della regione, enfatizzando il ruolo cruciale dell’Italia nella politica estera e nella gestione delle sfide regionali.
Atlante geopolitico del Mediterraneo 2024, a cura di Francesco Anghelone e Andrea Ungari; prefazione Di Paolo De Nardis; introduzione di Gianluigi Rossi, ed. Istituto di Studi Politici “S. Pio V”, Roma, pp. 570.
Keywords: Mediterraneo, Piano Mattei.
L’Atlante geopolitico del Mediterraneo 2024, giunto alla
sua decime edizione, discute il ruolo cruciale del Mediterraneo nelle dinamiche
geopolitiche globali, evidenziando la sua importanza storica, culturale ed
economica per tre continenti: Europa, Africa ed Asia. In particolare sottolinea
come l’Italia, grazie alla sua posizione strategica, giochi un ruolo chiave
nella regione, agendo come ponte tra Nord e Sud, Est e Ovest. La decima
edizione dell’Atlante Geopolitico del Mediterraneo esamina, in particolare, lo
sviluppo della politica estera italiana dal dopoguerra, dimostrando come gli
interessi dell’Italia siano strettamente legati alla stabilità della regione.
Un’evoluzione storica che evoca il ruolo giocato dalla politica estera italiana
nelle relazioni internazionali, richiamando i nomi di coloro che ne hanno
definito le direttrici, oggi in parte non più così ben definite, da Amintore
Fanfani a Giovanni Gronchi a Giorgio La Pira ed Enrico Mattei, il cui nome è
oggi il punto di riferimento ideale di un importante e ambizioso progetto di
cooperazione e collaborazione regionale particolarmente caro all’Italia.
Come storico non ho potuto che apprezzare lo sforzo degli
autori – e dunque dei curatori – nel ricostruire il ruolo dell’Italia nel
Mediterraneo negli ultimi settant’anni, evidenziando l’importanza del paese in settori
come la gestione delle risorse energetiche, la sicurezza marittima e i flussi migratori.
Il testo sottolinea la necessità di superare le vecchie dinamiche coloniali per
promuovere una collaborazione equa e sostenibile tra le nazioni mediterranee.
La regione, viene rilevato nel testo, è attualmente
segnata da instabilità, come le tensioni in Libia, la svolta autoritaria in
Tunisia e il conflitto israelo-palestinese. La soluzione a due Stati è vista
come l’unica strada per la pace duratura in Medio Oriente. Stabilizzare il
Mediterraneo è essenziale per la crescita delle nazioni rivierasche.
Questa edizione dell’Atlante mira a esplorare le attuali
dinamiche politiche e socio-economiche del Mediterraneo e le prospettive
future, offrendo uno strumento essenziale per comprendere e affrontare le sfide
della regione. Il testo evidenzia l’importanza dell’Italia nel Mediterraneo,
sottolineando il suo ruolo cruciale nella politica estera e nella gestione
delle sfide regionali.
PARTE
PRIMA: APPROFONDIMENTI
“La
dimensione mediterranea della politica estera italiana fra Atlantico ed Europa
(1949-1969)” (di Bruna Bagnato).
Nel suo saggio l’Autrice
esamina le tre principali direttrici della politica estera italiana nel secondo
dopoguerra: europea, atlantica e mediterranea. Queste direttrici non sono
statiche ma si sono evolute in risposta ai cambiamenti geopolitici.
L’Italia, pur
geograficamente europea e mediterranea, ha dovuto integrare la sua
partecipazione all’alleanza atlantica (NATO) dal 1949, il che ha influenzato la
sua politica estera, spingendola ad adattarsi ai contesti della Guerra Fredda e
agli interessi occidentali. La divisione dell’Europa in blocchi orientale e
occidentale e le tensioni Est-Ovest hanno complicato la politica mediterranea italiana,
che ha dovuto affrontare le eredità coloniali e le sfide della
decolonizzazione.
La politica italiana,
influenzata dalle diverse stagioni politiche interne, ha oscillato tra
strategie mediterranee e europee. Negli anni ’50, con l’avvento del “neo-atlantismo”,
l’Italia ha cercato di coniugare l’impegno atlantico con una nuova politica
mediterranea, adottando posizioni anticoloniali per allinearsi con gli Stati
Uniti e differenziarsi dall’imperialismo anglo-francese.
Il testo, in
particolare, sottolinea come il “neo-atlantismo” abbia cercato di
dare all’Italia un ruolo più dinamico nel Mediterraneo, basato su una
cooperazione con gli Stati Uniti e una maggiore attenzione alle aspirazioni dei
paesi arabi. Tuttavia, questo approccio ha dovuto confrontarsi con le complessità
della politica europea, soprattutto con la posizione francese riguardo ai
territori d’oltremare e l’associazione dei paesi africani alla Comunità
Economica Europea (CEE).
Con la crisi di Suez
del 1956, l’Italia ha visto un’opportunità per consolidare la propria politica
mediterranea in sintonia con l’orientamento anticoloniale americano. Italia
che, negli anni ’60, ha dovuto affrontare le sfide del boom economico, della decolonizzazione e del cambiamento nelle
dinamiche della Guerra Fredda. La politica estera italiana nel Mediterraneo ha
dovuto adattarsi a un nuovo contesto internazionale, segnato dalla distensione
tra Stati Uniti e Unione Sovietica e dall’evoluzione delle relazioni
euro-arabe.
La politica
mediterranea italiana si è quindi spostata verso un approccio multilaterale,
integrando le istanze comunitarie europee e ponendo le basi per una
collaborazione più stretta con i partner europei per la stabilizzazione
politica ed economica della regione. Questo cambiamento ha rappresentato un
allontanamento dalla precedente enfasi atlantica, con una maggiore enfasi sulla
cooperazione europea nel Mediterraneo.
La politica estera italiana e il
“Mediterraneo allargato” dalla crisi del centro-sinistra a oggi (di Antonio Varsori).
Premessa storica e contesto iniziale. Dalla fine della
Seconda guerra mondiale alla metà degli anni Cinquanta, l’Italia, guidata dalla
Democrazia Cristiana (DC), ha cercato di superare le difficoltà derivanti dalla
sconfitta e dal trattato di pace, ricostruendo il proprio ruolo all’interno del
sistema occidentale e del sottosistema europeo dominato dagli Stati Uniti.
Questa fase è stata caratterizzata da una scelta “atlantica” ed
“europea” che ha incluso l’adesione al Piano Marshall e al Patto
Atlantico, oltre alla partecipazione al Consiglio d’Europa e al Piano Schuman.
La politica estera degli anni ’90.Con la crisi di “Tangentopoli” e la fine della
Guerra fredda, l’Italia ha subito un ripiegamento sui problemi interni e un
ridimensionamento del proprio ruolo nel Mediterraneo allargato. Le priorità si
sono spostate verso la partecipazione all’Unione Europea e all’adozione
dell’euro. Tuttavia, un tentativo significativo di mantenere un ruolo attivo
nella regione è stato l’invio di un contingente militare in Somalia nel 1992
per partecipare a una missione di peacekeeping
delle Nazioni Unite; una partecipazione importante sul piano delle relazioni
internazionali che, per contro, ha avuto esiti complessi e drammatici.
L’era Berlusconi.Durante i governi
Berlusconi, l’Italia ha affrontato diverse sfide nel Mediterraneo allargato. Un
esempio è stato il controverso impegno militare in Iraq, che ha sollevato forti
opposizioni interne e divergenze con le politiche di altri paesi europei come Francia
e Germania. Berlusconi ha anche rafforzato i rapporti con la Libia di Gheddafi,
culminati in un accordo che prevedeva riparazioni per il passato coloniale
italiano e un maggiore controllo sui flussi migratori illegali.
La politica migratoria e le crisi recenti.L’immigrazione è
diventata una questione centrale nella politica mediterranea italiana. Dagli
anni Novanta, l’Italia ha visto un crescente flusso di immigrati provenienti
dai Balcani, dal Maghreb e dall’Africa subsahariana. Questo ha portato a
tensioni e accordi, come quello con la Libia per controllare l’immigrazione
clandestina. La crisi libica del 2011 e le Primavere arabe hanno ulteriormente
complicato la situazione, provocando instabilità e nuovi flussi migratorie.
Sfide contemporanee.La recente escalation
della questione palestinese e la ricerca di nuovi partner energetici dopo
l’interruzione dei rapporti con la Russia a causa della guerra in Ucraina,
insieme all’aumento dei flussi migratori da Tunisia e Libia, rappresentano le
attuali sfide per l’Italia. In questo contesto, il “Piano Mattei” e
un nuovo attivismo mediterraneo sono stati proposti come soluzioni, ma i loro
esiti rimangono incerti.
Conclusioni.Dal dopoguerra a oggi,
la politica estera italiana nel Mediterraneo allargato ha attraversato diverse
fasi, influenzate da cambiamenti interni e globali. Dalla costruzione iniziale
di un ruolo nell’ambito del sistema occidentale, passando per le crisi politiche
ed economiche degli anni ’90, fino alle sfide contemporanee legate alla
migrazione e alla sicurezza energetica, l’Italia ha costantemente cercato di
mantenere una presenza significativa nella regione, adattandosi ai mutamenti
del contesto internazionale.
“La politica estera
italiana e il Medio Oriente negli anni della Repubblica” (di Luca
Riccardi).
Dopo la Seconda Guerra
Mondiale, l’Italia attraversò un periodo di ricostruzione economica e di
riorganizzazione della propria politica estera. Questo periodo segnò il
passaggio dall’ambizione di essere una grande potenza a una media potenza
integrata nel sistema internazionale dominato dagli Stati Uniti.
Origini della politica mediorientale.Subito dopo la guerra,
l’Italia si concentrò sul mantenimento della stabilità politica nel
Mediterraneo orientale, sostenendo soluzioni accettabili sia per gli arabi che
per gli ebrei. L’obiettivo principale era la stabilità, vista come necessaria
per perseguire gli interessi economici italiani e proteggere le comunità italiane
presenti nella regione.
Neo-atlantismo e rafforzamento dei legami con gli Stati Uniti
Negli anni Cinquanta,
l’Italia sviluppò una politica chiamata “neo-atlantismo”, che mirava
a rafforzare la presenza politica ed economica nel Mediterraneo e nel Medio
Oriente. Questa politica cercava di conciliare gli interessi italiani con
quelli americani, fungendo da collegamento tra gli Stati Uniti e il mondo
arabo. Protagonisti di questa politica furono Amintore Fanfani, Giovanni
Gronchi, Giorgio La Pira ed Enrico Mattei.
Gli anni Sessanta e Settanta.Durante gli anni Sessanta e Settanta, l’Italia,
sotto la guida di Aldo Moro, cercò di stabilizzare la regione attraverso una
politica di contatti e un crescente coordinamento con i paesi della Comunità
Europea. Tuttavia, la crisi petrolifera del 1973 e le sue conseguenze
economiche influenzarono negativamente la politica italiana, rendendo il paese
dipendente dalle forniture di petrolio dai paesi arabi.
Gli anni Ottanta.Negli anni Ottanta, con
Bettino Craxi come Presidente del Consiglio e Giulio Andreotti come Ministro
degli Esteri, l’Italia mantenne una forte presenza nel Mediterraneo allargato.
Craxi e Andreotti cercarono di promuovere il coinvolgimento dell’OLP nel processo
di pace, sostenendo il diritto dei palestinesi a una patria propria, senza
compromettere l’esistenza dello Stato di Israele. L’Italia cercò di bilanciare
le relazioni tra gli Stati Uniti e il mondo arabo, mantenendo una posizione di
equidistanza.
Declino e marginalizzazione.Verso la fine della Prima Repubblica, l’Italia
iniziò a perdere rilevanza nella politica mediorientale, diventando sempre più
allineata con le politiche degli Stati Uniti. La conferenza di Madrid del 1991
segnò un’ulteriore marginalizzazione dell’Italia e dell’Europa nel processo di
pace in Medio Oriente.
In sintesi, la politica
estera italiana verso il Medio Oriente è stata caratterizzata da tentativi di
mantenere la stabilità nella regione, rafforzare i legami economici e politici
con i paesi arabi, e bilanciare le relazioni tra gli Stati Uniti e il mondo
arabo, pur affrontando periodi di crisi economica e declino politico.
PARTE SECONDA: SCHEDE PAESI
Marocco
La Storia. La storia del
Marocco è caratterizzata da un lungo periodo di colonizzazione europea iniziata
ufficialmente nel 1912 con il Trattato di Fez, che sanciva l’istituzione di un
protettorato francese e spagnolo sul paese. Durante il periodo coloniale, il
Marocco vide una vasta politica di modernizzazione, con la costruzione di
infrastrutture e nuove città ad opera dei coloni francesi. La resistenza contro
il dominio coloniale portò a frequenti rivolte, culminate nella
“Rivoluzione del re e del popolo” del 1953, che contribuì
all’indipendenza del paese, riconosciuta dalla Francia nel 1956. Mohammed V
divenne re, avviando un processo di riforme che portarono alla modernizzazione
del paese e alla creazione di una monarchia costituzionale.
Oggi. Negli ultimi
decenni, il Marocco ha affrontato numerose sfide e trasformazioni. Sotto il
regno di Mohammed VI, iniziato nel 1999, il paese ha intrapreso un percorso di
riforme economiche e politiche, tra cui la promozione dei diritti umani e la
modernizzazione delle istituzioni. Tuttavia, permangono criticità relative ai
diritti umani e alla questione del Sahara Occidentale. Il Marocco ha anche
consolidato il suo ruolo geopolitico nella regione, ristabilendo relazioni
diplomatiche con Israele nel 2020 e giocando un ruolo chiave nella gestione
delle migrazioni tra Africa ed Europa.
Algeria
La Storia. L’Algeria,
colonizzata dalla Francia dal 1830, visse un periodo di modernizzazione nel
primo dopoguerra. Tuttavia, la crescente consapevolezza nazionale portò alla
guerra di indipendenza algerina (1954-1962), un conflitto sanguinoso che
culminò con l’indipendenza del paese nel 1962. Il periodo post-indipendenza fu
caratterizzato da una forte centralizzazione del potere sotto il Fronte di
Liberazione Nazionale (FLN), che governò in modo autoritario, affrontando
periodi di instabilità politica e economica.
Oggi. L’Algeria
contemporanea è una repubblica semipresidenziale con una popolazione di circa
44,9 milioni di abitanti. Il paese continua a confrontarsi con questioni di governance, diritti umani e diversificazione
economica. Le elezioni del 2019 e del 2021 hanno portato Abdelmadjid Tebboune
alla presidenza, con il governo che cerca di bilanciare le richieste di riforme
politiche con la stabilità sociale. Le relazioni con il Marocco rimangono tese,
specialmente a causa delle dispute territoriali e delle accuse reciproche di
interferenze politiche.
Tunisia
La Storia. La Tunisia,
anch’essa colonizzata dalla Francia, ottenne l’indipendenza nel 1956 sotto la
guida di Habib Bourguiba, che instaurò un regime modernizzatore ma autoritario.
Dopo il colpo di stato del 1987, Zine El Abidine Ben Ali salì al potere,
governando fino alla Rivoluzione dei Gelsomini del 2011, che portò alla sua
destituzione e avviò un processo di transizione democratica.
Oggi. La Tunisia è considerata una delle storie di successo della Primavera Araba, con un processo democratico ancora in corso. Tuttavia, il paese affronta sfide significative, tra cui instabilità politica, disoccupazione giovanile e minacce terroristiche. Le recenti elezioni e le riforme costituzionali mirano a consolidare un modello di democrazia fortemente presidenziale e uno stato consapevole del proprio ruolo all’interno dell’area geopolitica regionale.
Libia
La Storia. La storia moderna
della Libia è segnata dalla colonizzazione italiana e dalla dittatura di
Muammar Gheddafi, che governò dal 1969 fino alla sua deposizione nel 2011
durante la guerra civile libica. Il regime di Gheddafi era caratterizzato da
politiche autoritarie e di centralizzazione del potere, con una forte retorica
anti-occidentale.
Oggi. La Libia odierna
è divisa e instabile, con vari gruppi armati e fazioni politiche che competono
per il controllo del paese. Nonostante gli sforzi internazionali per
stabilizzare la situazione, la Libia rimane in gran parte frammentata, con un
governo di unità nazionale che lotta per affermare la propria autorità. La
situazione umanitaria e la sicurezza continuano a essere problematiche.
Egitto
La Storia. L’Egitto ha una
lunga storia di civiltà antiche e dominazioni straniere. Nel XX secolo,
l’Egitto ottenne l’indipendenza dal Regno Unito nel 1922, ma rimase sotto
un’influenza britannica significativa fino alla rivoluzione del 1952 che portò
Gamal Abdel Nasser al potere. Nasser attuò politiche di nazionalizzazione e
panarabismo. Successivamente, sotto Anwar Sadat e Hosni Mubarak, il paese si
orientò verso politiche più aperte e relazioni con l’Occidente.
Oggi. L’Egitto
contemporaneo, sotto il presidente Abdel Fattah al-Sisi, affronta sfide
economiche e politiche significative. Le riforme economiche hanno portato a una
crescita economica, ma anche a un aumento della povertà e delle disuguaglianze.
La repressione politica rimane forte, con limitazioni alle libertà civili e
politiche. L’Egitto continua a svolgere un ruolo chiave nella geopolitica del
Medio Oriente, mantenendo relazioni strategiche con vari attori internazionali.
Israele
La Storia. Israele, fondato
nel 1948, ha una storia complessa segnata da conflitti con i paesi vicini e
tensioni interne. La guerra di indipendenza del 1948-49, le guerre
arabo-israeliane e il conflitto israelo-palestinese hanno definito gran parte
della sua storia. Israele ha anche vissuto periodi di crescita economica e
tecnologica, affermandosi come una delle economie più avanzate della regione.
Oggi. Israele è una
democrazia parlamentare con una popolazione diversificata. Le questioni di
sicurezza nazionale, il conflitto con i gruppi palestinesi e le dinamiche
politiche interne sono al centro dell’attenzione. Le recenti normalizzazioni
delle relazioni con alcuni paesi arabi rappresentano sviluppi significativi, ma
permangono tensioni e sfide sul fronte interno e regionale.
Autorità Nazionale Palestinese
La Storia. L’Autorità
Nazionale Palestinese (ANP) è stata istituita nel 1994 a seguito degli Accordi
di Oslo tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP).
L’ANP è responsabile del governo dei territori palestinesi della Cisgiordania e
della Striscia di Gaza, ma ha affrontato numerose difficoltà, inclusi conflitti
interni e tensioni con Israele.
Oggi. Oggi, l’ANP è
divisa tra la Cisgiordania, controllata da Fatah, e Gaza, sotto il controllo di
Hamas. La situazione politica ed economica è instabile, con frequenti tensioni
e scontri con Israele. Gli sforzi per la riconciliazione interna e per una
soluzione del conflitto con Israele continuano, ma le prospettive di pace
rimangono incerte.
Libano
La Storia. Il Libano,
indipendente dalla Francia dal 1943, ha una storia segnata da conflitti civili
e interventi stranieri. La guerra civile libanese (1975-1990) ha devastato il
paese, seguito da un periodo di ricostruzione e di tensioni politiche e
settarie. La presenza di Hezbollah e l’influenza siriana hanno contribuito alla
complessità politica del Libano.
Oggi.Il Libano contemporaneo è afflitto da
una grave crisi economica, politica e sociale. Le proteste popolari, la
corruzione diffusa e l’esplosione del porto di Beirut nel 2020 hanno aggravato
la situazione. Il paese lotta per superare le divisioni settarie e per trovare
stabilità politica ed economica.
Siria
La Storia. La Siria,
indipendente dalla Francia nel 1946, ha una storia di instabilità politica e
colpi di stato. Il regime di Hafez al-Assad, iniziato nel 1970, ha stabilito
una dittatura che è stata portata avanti dal figlio Bashar al-Assad. La Siria
ha giocato un ruolo centrale nella politica del Medio Oriente, spesso in
conflitto con Israele e coinvolta nelle dinamiche regionali.
Oggi. La Siria è
devastata da una guerra civile iniziata nel 2011, con milioni di rifugiati e
sfollati interni. Il regime di Bashar al-Assad, con il sostegno di Russia e
Iran, ha riconquistato gran parte del territorio, ma il paese rimane diviso e
instabile. La ricostruzione e la riconciliazione sono sfide enormi, mentre la
situazione umanitaria è critica.
Giordania
La Storia. La Giordania,
creata dal mandato britannico nel 1921 e indipendente dal 1946, è stata
governata dalla dinastia hashemita. Il paese ha mantenuto una relativa
stabilità nonostante le turbolenze regionali, giocando un ruolo moderato nella
politica mediorientale e ospitando un gran numero di rifugiati palestinesi.
Oggi. La Giordania
continua ad affrontare sfide economiche e sociali, aggravate dall’afflusso di
rifugiati siriani e dalle pressioni regionali. Il re Abdullah II guida il paese
verso riforme economiche e politiche, cercando di mantenere la stabilità in un
contesto regionale difficile.
Turchia
La Storia. La Turchia
moderna, fondata da Mustafa Kemal Atatürk nel 1923, è stata costruita sui
principi della laicità e del nazionalismo. Dopo decenni di governo secolare e
militare, il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) di Recep Tayyip
Erdoğan ha trasformato il paese con un mix di islamismo e nazionalismo,
portando a una maggiore centralizzazione del potere.
Oggi. La Turchia è una
potenza regionale con ambizioni internazionali, ma affronta problemi interni
come la repressione dei diritti civili e le tensioni economiche. Le politiche
di Erdoğan, sia interne che estere, hanno suscitato controversie e criticità,
ma il paese continua a giocare un ruolo cruciale nella geopolitica del Medio
Oriente e oltre.
PARTE TERZA: DIALOGHI
MEDITERRANEI
“Italia e Tunisia: sfide e
criticità nel più ampio contesto internazionale” (di Mario Savina).
Il testo tratta delle complesse relazioni tra i due paesi nel contesto del
Mediterraneo, evidenziando i principali dossier di cooperazione e le sfide che
caratterizzano il rapporto bilaterale.
Relazioni Bilaterali e Contesto Mediterraneo.Le relazioni tra Italia e Tunisia sono
profondamente radicate nel contesto mediterraneo, caratterizzato da interessi
comuni in vari settori, tra cui migrazione, energia, economia e dialogo con
l’Unione Europea. Le turbolenze politiche ed economiche degli ultimi anni in
Tunisia hanno creato sfide significative per i governi italiani e i decisori
europei, ma Tunisi rimane un partner strategico sia per Roma che per Bruxelles.
DossierMigratorio. Il tema migratorio è centrale nei colloqui tra
Italia e Tunisia, specialmente dopo l’aumento delle partenze dalle coste
tunisine negli ultimi due anni. Nel 2023, oltre 96.000 migranti sono arrivati
in Italia dalla Tunisia, un numero triplicato rispetto all’anno precedente. La
lotta ai migranti subsahariani in Tunisia, promossa dal presidente Kaïs Saïed,
mira a distogliere l’attenzione dalla crisi socioeconomica interna. Gli accordi
tra Roma e Tunisi sul controllo dei flussi migratori si basano su una logica di
sicurezza, con l’Italia e l’UE che finanziano progetti per arginare i flussi
migratori e facilitare i rimpatri.
Sfide Politico-Economiche e Relazioni Internazionali. La Tunisia affronta
una perenne instabilità politica ed economica, con dinamiche internazionali
complesse. Il paese sta cercando di diversificare le sue relazioni estere,
coinvolgendo Russia e Cina, e considera l’adesione ai BRICS. Le relazioni con
l’Unione Europea e gli Stati Uniti sono strategiche, specialmente in un
contesto di rivalità con la Russia.
Cooperazione Energetica e Commerciale.
L’Italia guarda alla Tunisia come a un partner fondamentale nel settore
energetico, soprattutto per il gasdotto Transmed che collega l’Algeria
all’Italia attraverso la Tunisia. La cooperazione commerciale è forte, con
l’Italia che rappresenta il principale partner commerciale di Tunisi. Le
imprese italiane sono ben radicate nel paese, contribuendo significativamente
all’occupazione e all’economia locale.
SfideRegionalieSicurezza. Le relazioni tra
Italia e Tunisia sono inserite in un contesto regionale complesso, con
influenze di potenze come la Russia e la Cina. La stabilità del Nord Africa è
cruciale per la sicurezza europea, e l’Italia è impegnata nel supportare la
Tunisia attraverso accordi bilaterali e dialoghi internazionali. La
collaborazione tra i due paesi è essenziale per affrontare le sfide comuni e
promuovere la stabilità regionale.
In sintesi, il capitolo
evidenzia la necessità di un impegno costante e di una strategia integrata per
affrontare le sfide.
La Proiezione Futura dei
Rapporti Energetici tra Algeria e Italia (di Laura Ponte).
Il capitolo esplora il
futuro dei rapporti energetici tra Algeria e Italia nel contesto della guerra
in Ucraina e delle conseguenti sanzioni imposte alla Russia. Con l’obiettivo di
ridurre la dipendenza energetica dalla Russia, l’Italia ha cercato di
diversificare le sue fonti di approvvigionamento energetico, puntando in
particolare sull’Algeria, che è diventata un partner strategico fondamentale.
Contesto Storico e Relazioni Energetiche.Storicamente, le
relazioni energetiche tra i due paesi sono solide, risalenti agli anni ’50 e
’60, quando Enrico Mattei sostenne il percorso di liberazione nazionale
dell’Algeria, culminato con l’indipendenza del 1962. Questo ha portato alla
firma del primo contratto di fornitura di gas nel 1973, stabilendo una lunga
collaborazione energetica.
Sforzi Recenti e Progetti Futuri. Recentemente, gli sforzi italiani si sono
intensificati per aumentare le importazioni di gas algerino e ridurre quelle
russe. L’Italia ha firmato numerosi contratti con l’Algeria per aumentare la
capacità di esportazione di gas, sia tramite gasdotti che GNL (gas naturale
liquefatto). Nel 2022, Sonatrach ha incrementato le esportazioni di gas verso
l’Italia, con l’obiettivo di raggiungere 9 miliardi di metri cubi all’anno
entro il 2024.
Sfide Politiche e Tecniche. Nonostante le prospettive positive, esistono criticità sia politiche che tecniche. Politicamente, l’Italia ha scelto di non comprare gas dalla Russia a causa della sua inaffidabilità come partner commerciale. Tuttavia, l’Algeria è anch’essa considerata un paese “non libero” dal Freedom House, con bassi standard democratici, limitata trasparenza elettorale, corruzione e repressione delle proteste.
Possibili Rischi Geopolitici. C’è il timore che l’instabilità politica in Algeria possa influenzare i rapporti energetici, come già successo con la Spagna riguardo alla disputa del Sahara Occidentale. Inoltre, l’Algeria mantiene buone relazioni con la Russia, cooperando attivamente nel settore militare ed energetico, il che potrebbe complicare ulteriormente le dinamiche geopolitiche.
Progetti Integrativi e Energie
Rinnovabili. Per mitigare i rischi e aumentare la sostenibilità,
sarebbe utile che la cooperazione energetica tra Italia e Algeria includa anche
le energie rinnovabili. L’Algeria ha il potenziale per diventare leader nella
produzione di energia solare ed eolica, grazie al deserto del Sahara. Progetti
come il South H2 Corridor, che collegherà l’Algeria alla Germania, potrebbero
essere cruciali per trasformare l’Italia in un hub energetico, riducendo al
contempo la dipendenza dai combustibili fossili.
Conclusioni. Il futuro dei
rapporti energetici tra Algeria e Italia appare promettente ma non privo di
sfide. La diversificazione delle fonti di approvvigionamento e l’inclusione
delle energie rinnovabili sono passi fondamentali per garantire la sicurezza
energetica e la sostenibilità a lungo termine.
“Nato e Ue al cospetto
della crisi libica: dall’apice al tramonto del «crisis management»
occidentale?” (di Stefano Marcuzzi).
Il capitolo analizza la
gestione e le conseguenze della crisi libica da parte di Nato e Unione Europea,
evidenziando i fallimenti e le lezioni apprese.
Contesto della crisi. Nel marzo 2011, una coalizione di paesi sotto l’ombrello dell’ONU e guidata militarmente dalla Nato lanciò una campagna aerea contro il regime di Gheddafi in Libia per fermare la repressione violenta contro i civili. Nonostante la caduta di Gheddafi e il collasso del suo regime, la Libia è rimasta intrappolata in una crisi pluridecennale, caratterizzata da conflitti interni ed esterni, che hanno visto la partecipazione di attori regionali e globali come Russia, Turchia, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Francia e Arabia Saudita.
Hezbollah: next stop? Il rischio di una guerra con Israele. Il commento di C. Bertolotti
di Claudio Bertolotti
Dall’intervento di Claudio Bertolotti a SKY TG24 MONDO, ospite di Roberto Tallei (Puntata del 19 giugno 2024, h. 19.20.
Quali differenze possiamo rilevare tra la guerra a Gaza e un’eventuale guerra in Libano?
Possiamo considerare i due conflitti, quello combattuto a
Gaza e quello ipotetico contro Hezbollah molto differenti. Il primo, quello di
Gaza si inserisce in un contesto politico-sociale e religioso omogeneo dove
Hamas, di fatto governa un popolo e un territorio. In Libano, al contrario,
abbiamo un attore, Hezbollah, che rappresenta una delle minoranze che
compongono il Paese e che potrebbe doversi scontrare – in caso di guerra con
Israele – anche con i competitor interni, dai gruppi di potere sunniti a quelli
cristiani. Insomma, a Gaza l’ipotesi peggiore è quella di una guerra urbana e
sotterranea, così come la stiamo osservando da 8 mesi, che potrebbe
trasformarsi in guerra insurrezionale. E questo sarebbe lo scenario peggiore
per Israele. In Libano, al contrario, lo scenario peggiore è quello della
guerra civile, dove Hezbollah potrebbe dover affrontare anche uno o più fronti
interni oltre a quello con Israele aprendo così all’ipotesi di un allargamento
regionale del conflitto.
Israele ha le forze per tenere aperti entrambi i fronti?
Ha le forze, la capacità militare e la dottrina strategica
israeliana prevede l’organizzazione e la struttura adeguata per gestire
un’escalation orizzzontale che preveda la partecipazione di tutti i competitor
a livello regionale: dai piccoli eserciti di Hezbollah e Hamas, allo scontro
aperto con l’Iran. Essere preparati a farlo impone però un sostegno indiscusso
e costante da parte statunitense. Un sostegno che lo stesso Biden ha dimostrato
di non voler far venire meno e che un’ipotetica amministrazione Trump non
avrebbe difficolatà a garantire.
Netanyahu in polemica con gli USA per mancata fornitura di alcune armi. Quanto Israele dipende dagli USA?
le Forze di Difesa Israeliane sono una delle forze armate
più capaci ed efficaci del mondo, ma dipendono in maniera rilevante dalle armi
statunitensi, a partire dalle armi individuali, fucili leggeri, al rifornimento
di bombe aeree di precisione, colpi di artiglieria, motori dei carri armati, il
sistema di difesa aerea Iron Dome, fino agli aerei F-35. Di fatto è un
contributo strategico, senza il quale Israele non può condurre una campagna
militare estesa nello spazio e nel tempo.
Hezbollah come è equipaggiato? E’ perseguibile l’obiettivo di cancellare Hezbollah?
Miglior esercito di fanteria leggera a livello regionale,
dopo quello israeliano ovviamente. Con una prolungata esperienza di guerra in
Siria al fianco del regime di Bashar al-Assad e delle Guardie rivoluzionarie
iraniane. Conta circa 20.000 effettivi e altrettanti miliziani part-time e un
arsenale con più di 100.000 tra razzi e missili con cui minaccia Israele. È una
minaccia, si, ma non esistenziale per lo stato di Israele, almeno sul piano
militare.
Finora Nasrallah, il leader di Hezbollah, abbaia ma non morde. Perché?
È il timore di uno scontro diretto con Israele e il rischio
di precipitare il Libano in una guerra civile, dove potrebbe trascinare i
gruppi politico-religiosi libanesi in uno scenario simile a quello degli anni
80, ossia quello di una guerra civile devastante che potrebbe portare alla fine
dello stesso Stato libanese così come lo conosciamo oggi, basato su precari
equilibri interni a rischio di collasso.
Un eventuale conflitto con Hezbollah sarebbe la pietra tombale sul possibile accordo per il cessate il fuoco a Gaza?
Non è detto. E comunque l’ipotesi potrebbe non incidere
sulla volontà di Hamas di proseguire il conflitto; questo perché il gruppo
palestinese non vuole nessun accordo, così come dimostrato sino ad oggi, nei
fatti e nelle parole dei suoi leader politico-militari – da Sinwar a Haniyeh.
Al contrario, è vero che un maggior impegno militare
potrebbe indurre Israele a concedere qualcosa di più in caso di dialogo
negoziale, ma a fare gli accordi occorre essere in due e le posizioni,
nonostante le ultime aperture israeliane, sembrano abbastanza definite da parte
di Hamas che, coerentemente con la sua storia e i suoi obiettivi, perseguirà lo
scopo principale: indebolire Israele per mirare alla sua distruzione.
Hostile Environment First Aid Training: il War Report Training Camp dedicato a fotografi e inviati di guerra
Anche quest’anno torna il War Reporting Training Camp, il corso HEFAT (Hostile Environment First Aid Training) che dal 2015 si occupa di formare gli operatori dell’informazione in aree di crisi. Un training creato da fotografi e giornalisti con esperienza ventennale nelle aree più calde del mondo e che, nel corso del tempo, si è arricchito di professionisti provenienti da differenti settori.
lI corso si svolgerà dal 10 al 14 luglio a Poggio Mirteto, in provincia di Rieti, su un terreno di circa 35 ettari immerso nelle campagne laziali. Un addestramento multidisciplinare che spazia dalla medicina di guerra alla gestione psicologica dello stress, dal diritto internazionale umanitario alla cybersecurity, passando per le manovre salvavita in ambiente tattico, la conoscenza della cartografia e tanto, tanto altro ancora.
Un corso full immersion di 5 giorni, suddiviso tra pratica e teoria, in cui saranno presenti anche collegamenti con chi la guerra la vive veramente (come i soldati di una unità droni dell’esercito ucraino, che spiegheranno le nuove tecnologie sul campo di battaglia) e durante il quale verranno illustrate anche le tecniche di disinformazione, guerra ibrida e propaganda dai massimi esperti italiani del settore. Con noi Croce Rossa Italiana, il Club Alpino Italiano e i paramedici svizzeri di Hunpa, appena rientrati da una missione umanitaria in Ucraina.
Durante il training si terrà anche un panel dedicato a etica e giornalismo in zona di guerra con Riccardo Venturi (World Press Photo 2011), Micol Flammini, (inviata del ‘Foglio’) e Cristiano Tinazzi (giornalista freelance, radio/tv producer per Rsi e Today.it). Per informazioni www.imagopress.it
IL RAN: ieri, oggi e domani. La rete europea per le pratiche di prevenzione e l’Italia: un bilancio tra luci ed ombre
di Luca Guglielminetti, RAN Ambassador for Italy
QUESTO ARTICOLO APPARIRÀ NEL RAPPORTO #REACT2024 SUL TERRORISMO E IL RADICALISMO IN EUROPA, ATTUALMENTE IN CORSO DI LAVORAZIONE. VIENE QUI ANTICIPATO IN OCCASIONE DELLA CHIUSURA DELLE ATTIVITÀ DEL RADICALISATION AWARENESS NETWORK (RAN).
Quest’anno terminerà l’attività del “Radicalisation Awareness Network – RAN”, la rete europea per le pratiche di prevenzione istituita nel 2011 della DG Home della Commissione Europea, che sarà sostituito dall’ “EU Knowledge Hub on Prevention of Radicalisation”. È quindi tempo per un bilancio di questa esperienza, in particolare nel nostro paese, e di aprire un dibattito sul futuro e il consolidamento di queste politiche e pratiche atte a prevenire e contrastare la radicalizzazione che porta all’estremismo violento e al terrorismo (P/CVE). Politiche e pratiche che implicano una impegnativa e fattiva collaborazione tra attori, ambiti e approcci diversi, come quelli della sicurezza e della resilienza, della repressione e della costruzione di fiducia, della segretezza e della trasparenza, della giustizia retributiva e di quella riparativa, delle istituzioni statali e della società civile, delle autorità nazionali e di quelle locali, dei mass-media e dell’accademia, degli ex terroristi e delle vittime. Esemplificativi binomi che già singolarmente rappresentano delle sfide tutt’altro che risolte e che talvolta, in tutta Europa, hanno indotto dispute, anche aspre, verso queste politiche e pratiche. Tuttavia, almeno le pratiche di P/CVE, sono ormai sedimentate anche in Italia. Il punto è se in futuro si riuscirà a passare dall’attuale stato di frammentazione a quello di una loro valorizzazione strategica.
1. COSA È IL RAN
Poiché l’Italia, come vedremo nel secondo
capitolo, è uno di pochissimi Stati Membri dell’Unione Europea (EU) a non aver
adottato una strategia o una legislazione nazionale in materia di P/CVE, è
opportuno iniziare presentando cosa sia e come funzioni il Radicalisation
Awareness Network (RAN), a beneficio di chi non lo conoscesse[1].
Il Radicalization Awareness Network, in breve
RAN, è una rete europea orientata alla pratica per la prevenzione dei fenomeni
di estremismo violento e terrorismo con oltre 6.000 partecipanti. Il RAN è stato
lanciato nel 2011 dalla Commissione Europea ed è da questa finanziata al 100%.
Dal punto di vista organizzativo, ha sede presso il Dipartimento per la
Migrazione e gli Affari Interni (DG HOME) della Commissione Europea, ma la sua
attività è implementata e coordinata, per conto della Commissione EU, da un
consorzio che ogni 4 anni è stato rinnovato con gara d’appalto.
Lo scopo delle varie attività e offerte dal RAN è quello di creare reti e scambiare informazioni tra esperti provenienti da diversi settori della pratica di prevenzione e da diversi paesi per prevenire e combattere l’estremismo violento. L’obiettivo è raccogliere conoscenze empiriche e pratiche, insieme a nuove scoperte scientifiche, e renderle disponibili agli operatori professionali, attraverso i seguenti nove gruppi di lavoro:
• Comunicazione e narrazioni (RAN C&N) è focalizzato sugli sviluppi e le tendenze nella comunicazione estremista online e offline, nonché sui modi per contrastarle
• Gioventù ed educazione (RAN Y&E) è incentrato sul rafforzamento degli insegnanti e del settore dell’istruzione nella gestione della radicalizzazione
• Riabilitazione (RAN REHABILITATION) si concentra sui programmi di deradicalizzazione e di uscita, nonché sui servizi di risocializzazione all’interno e all’esterno del carcere
• Famiglie, comunità e assistenza sociale (RAN FC&S) affronta il modo migliore per sostenere i giovani, le famiglie e i gruppi etnici o religiosi che si trovano ad affrontare la radicalizzazione o che potrebbero essere particolarmente vulnerabili
• Autorità Locali (RAN LOCAL) è focalizzato sullo scambio di approcci e strategie che coinvolgono diversi attori locali che perseguono il coordinamento della prevenzione nella sicurezza urbana
• Carcere (RAN PRISONS) è incentrato sull’analisi dell’impatto dei sistemi carcerari, dei programmi di reinserimento e d’intervento mirati ai terroristi condannati
• Polizia e forze dell’ordine (RAN POL) identifica approcci di polizia efficaci, tra cui la formazione, l’uso dei social media e la creazione di fiducia e approcci basati sulle relazioni per lavorare con famiglie, comunità, ambienti e quartieri
• Vittime/sopravvissuti al terrorismo (RAN VoT) mantiene una rete di vittime del terrorismo interessate alle attività di P/CVE e organizza la Giornata europea della memoria e del ricordo delle vittime del terrorismo l’11 marzo di ogni anno
• Salute mentale (RAN HEALTH) sensibilizza gli operatori sanitari e sociali sul loro ruolo nell’identificazione e nel sostegno delle persone a rischio di radicalizzazione
La partecipazione ai gruppi di lavoro funziona
attraverso pubblici bandi ai quali gli interessati possono candidarsi e la loro
selezione avviene sulla base della competenza, dell’esperienza operativa e del
paese d’origine. Gli incontri sono sempre interattivi, orientati all’esempio,
all’esperienza e alla pratica. Dopo ogni incontro vengono pubblicati i
cosiddetti documenti conclusivi con i risultati principali.
Il RAN pubblica non solo i risultati degli incontri ma anche paper che forniscono informazioni sulle novità della ricerca e delle politiche sui temi della radicalizzazione, dell’estremismo, del terrorismo e della prevenzione. In questo modo divulga le conoscenze pratiche, anche attraverso una collezione di pratiche nei vari paesi europei, agli esperti ed operatori, coinvolti o meno nella rete, aiutandoli a migliorare il proprio lavoro.
I focus tematici principali della rete e gli
argomenti dei gruppi di lavoro sono sviluppati nel Comitato di Pilotaggio del
RAN in combinazione con sondaggi online inviati ai partecipanti e alla
all’incontro plenario annuale del RAN.
Nel corso del tempo si sono aggiunte ulteriori
articolazione della rete: nel 2016 “RAN Young”, dedicato giovani europei
coinvolti delle attività di prevenzione; il “Poll of Experts” per la scrittura
dei “RAN papers” e la revisione delle pratiche collezionate; il programma CSEP
indirizzato a finanziare campagne di comunicazione della società civile per
contrastare le propagande estremiste. Nel 2021, è stata creata una seconda
sezione della rete, “RAN Policy Support”, dedicata principalmente ai decisori
politici e ai responsabili negli Stati membri, differenziandosi da “RAN
Practitioners” che ha mantenuto la pregressa natura di rete di operatori
professionali che lavorano sul campo. Inoltre, sempre nel 2021, una ulteriore
articolazione è costituita da “RAN in the Western Balkans” con l’obiettivo di
sostenere la prevenzione della radicalizzazione in una regione particolarmente
vulnerabile. Infine, sono stati nominati dei “RAN Ambassador”, per alimentare
la conoscenza della rete negli Stati Membri della UE.
Anche la comunicazione del RAN si è sviluppata nel tempo. Dal solo sito web di presentazione con i gruppi di lavoro, i paper e la raccolta di “Inspiring Practices”, si sono aggiunti via via i canali sui principali social network, la newsletter, i video e i podcast, le infografiche, i webinar e una rivista trimestrale, “RAN Spotlight”, che in ogni numero presenta un argomento diverso.
2. IL RAN E L’ITALIA: EVOLUZIONI E PRIME VALUTAZIONI
Questa seconda parte è in gran parte in forma
di testimonianza perché il sottoscritto si è trovato, come unico italiano, ad
aver seguito il RAN fin dalla sua fase di progettazione, quando cioè la DG HOME
stava svolgendo incontri con gli stakeholders nella prima metà del 2011. Ero allora parte interessata allo sviluppo di
questa nuova rete in quando, nei cinque anni precedenti, avevo seguito i lavori
di un’altra rete promossa dalla Commissione Europea: quella delle associazioni
delle vittime del terrorismo (NAVT)[2].
Nel 2005 le strategie europee di lotta al
terrorismo iniziarono a inserire in agenda il tema della radicalizzazione
violenta e la sua prevenzione. Queste strategie, e in particolare il Programma
di Stoccolma per il periodo 2010-2014[3],
pur riconoscendo che le azioni contro la radicalizzazione e il terrorismo
rientrano principalmente nelle competenze e le responsabilità degli Stati
membri dell’Unione europea, rilevava l’importanza e il valore aggiunto sia di
creare una struttura a livello Europeo, sia di sviluppare un ruolo attivo della
società civile, delle comunità e amministrazioni locali. Tale struttura prese
la forma del RAN che nel settembre 2011 a Bruxelles fu pubblicamente lanciata
alla presenza della Commissaria europea per gli affari interni, Cecilia
Malmström. Era l’anno dell’incerta Primavera araba, ma in sala era ancora forte
l’eco delle stragi di Anders Breivik a Oslo e sull’isola di Utøya.
Nell’occasione fu subito chiaro il principale
iato esistente tra paesi europei nell’approccio culturale alla sicurezza. I
paesi nordici puntavano sul fatto di prevenire che un individuo giungesse a
forme di devianza sociale che lo portasse a diventare un criminale; mentre nei
paesi del sud Europa, come il nostro, l’approccio era incentrato sul fatto di
prevenire che un certo crimine avvenisse. Fu il Regno Unito e le politiche del
suo programma “Prevent”[4],
maturato in seguito agli attentati di Londra del 7 luglio 2005, a fornire alla
Commissione Europea il know-how per un approccio ‘olistico’ che integrasse la
prevenzione della radicalizzazione con la prevenzione dell’atto terroristico.
PRIMO CICLIO: 2012-2015
Nel corso del primo ciclo del RAN, tra il 2012
e il 2015, coordinai, con un collega francese[5],
il gruppo di lavoro sulla “voce delle vittime del terrorismo”, partecipando
anche agli incontri del Comitato di Pilotaggio, a quelli di altri gruppi di
lavoro, alle plenarie annuali e alle due Conferenze di alto livello che allora
la DG HOME organizzava per promuovere i risultati del RAN ai decisori politici
degli Stati membri della Ue.
Nel corso del primo Comitato di Pilotaggio del
RAN, fummo informati che la Commissione Europea avrebbe inserito il tema della
prevenzione della radicalizzazione in pressoché tutti i sui programmi e bandi a
progetto: da quelli educativi e culturali, a quelli di ricerca e sviluppo, da
quelli su sicurezza e giustizia, a quelli per la cittadinanza e la promozione
sociale.
Una prima valutazione giunge da questa scelta
che fu veramente strategica perché, almeno in Italia, da quel periodo in poi,
le opportunità di finanziamento dei bandi europei portò il tema della
prevenzione della radicalizzazione all’attenzione di università, di autorità
nazionali e locali, e delle organizzazioni della società civile, con una
modalità forse più efficace del RAN[6].
L’aspetto certamente più innovativo del RAN fu
il suo modus operandi. L’intento della Commissione era quello di far delineare
le politiche e le pratiche in materia di P/CVE agli operatori che lavorano sui
terreni della prevenzione, tramite i “RAN paper” e la collezione di pratiche
del RAN, per poi promuoverli ai vertici politici degli Stati membri in
occasione delle conferenze “High Level”. Un circolo virtuoso dal basso verso
l’alto per ottimizzare l’efficacia di politiche e pratiche di cui beneficiarono
molto paesi europei che in quegli anni si andarono dotando di strategie
nazionali in materia di P/CVE.
Il numero di partecipanti italiani al RAN era
allora di poche decine, a fronte dei 2000 raggiuti nel primo ciclo in tutta la
Ue. Del resto, in quel periodo, lo stesso termine radicalizzazione,
nell’accezione qui utilizzata[7],
era riservato agli addetti del comparto sicurezza, ma completamente alieno ai
mezzi di comunicazione italiani, così come ai nostri decisori politici. Ciò nonostante, in occasione del seminario
finale del primo progetto italiano di prevenzione nelle scuole,
“Counter-narrative to Counter-terrorism (C4C)”, che organizzai a Torino del
Novembre 2014[8], con gli
italiani del RAN provammo a gettare le basi di un “RAN Italia”, stilando un
documento e aprendo interlocuzioni con il Ministero della Giustizia, il cui
Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria aveva avviato da qualche anno l’attività di formazione
del personale penitenziario in tema di radicalizzazione[9].
Il RAN allora offriva, infatti, assistenza e supporto agli Stati Membri della
Ue per la creazione di reti nazionali sul tema, dietro semplice richiesta via
email di un ministero. Quell’email non fu mai inviata.
SECONDO CICLIO: 2016-2019
Il secondo ciclo del RAN, tra il 2016 e il 2020,
sembrò aprire una svolta per l’Italia. Il conflitto siro-irakeno stava
raggiungendo il culmine di ripercussioni anche sul terreno europeo, a partire
dall’attentato alla redazione di Charlie Hebdo e poi, al suo declino, avrebbe
lasciato il gravoso problema dei foreign-fighters e le loro famiglie di ritorno
in Europa.
L’eco dell’attentato parigino del 7 gennaio
2015 aprì anche in Italia il tema della prevenzione della radicalizzazione e
per la prima volta mi capitò di rilasciare un’intervista sul RAN e i
finanziamenti europei relativi. Non penso sia causale il fatto che sia stato il
quotidiano cattolico Avvenire a prendere l’iniziativa[10].
Allora non coordinavo più un gruppo di lavoro, ma ero entrato nel Pool di
esperti del RAN e il titolo, annunciato dall’occhiello “Gli esperti
denunciano”, era: “La Rete Ue anti-radicalismo. Ma l’Italia è in ritardo”[11].
Nell’intervista sottolineai come nel nostro paese il terrorismo restasse una
questione solo securitaria di polizia ed intelligence, senza aprirsi all’uso
del “soft power” delle politiche europee di P/CVE. Seguirono altre interviste e
interventi sui media nazionali, ma questa prima mi condusse a Stefano Dambruoso,
a sua volta intervisto nello stesso articolo.
L’allora ex magistrato di prestigio
internazionale per la sua inchiesta su al Qaeda in Europa già prima dell’11
Settembre, e parlamentare al lavoro sul nuovo decreto antiterrorismo – poi convertito
nella legge 17 aprile 2015, n. 43 – era convito sostenitore che, insieme all’inasprimento
penale, servisse far seguire anche il lavoro educativo di prevenzione della
radicalizzazione. Convincimento che ebbe esito in una proposta di legge
intitolata “Misure per la prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo
jihadista”[12], di cui
fu primo firmatario insieme all’on. Andrea Manciulli.
Nell’estate del 2016 iniziarono
parallelamente, da una parte, la discussione e poi le audizioni della proposta
di legge Dambruoso-Manciulli alla commissione Affari Costituzionali della
Camera; e dell’altra, ad agosto, fu istituita, promossa dall’allora Sottosegretario
agli Interni, Marco Minniti, una commissione di studio indipendente sul fenomeno
della radicalizzazione jihadista presieduta da Lorenzo Vidino, cioè il primo
ricercatore ad aver lavorato sulla dimensione italiana del fenomeno jihadista[13].
Ho avuto occasione di collaborare con entrambe
le commissioni e quindi osservare gli eventi da vicino. L’inizio del 2017 si
aprì – il 5 gennaio – con la conferenza stampa da Palazzo Chigi del nuovo
presidente del Consiglio dei Ministri, Paolo Gentiloni, del ministro agli Interni
Minniti e da Lorenzo Vidino che presentarono il risultato dei lavori della
Commissione. Il paradosso di quell’operazione è che non ci furono documenti
pubblici. La relazione finale della Commissione, che contiene, nella sua
seconda parte operativa e per la prima volta in italiano, la descrizione dettagliata
delle politiche e degli approcci promosse dal RAN, comprese le poche attività
svolte a livello locale dai suoi membri italiani, viene secretata e, i giorni
seguenti, venne distribuito per i giornalisti solo un breve sunto assai generico.
Si giunse così al paradosso che, mentre la Camera dei Deputati nei mesi a
venire avrebbe discusso e approvato una proposta di legge in materia, il
documento governativo che avrebbe potuto informare i parlamentari
sull’argomento fu loro precluso, essendo stato fatto divieto ai membri della
Commissione Vidino di distribuirla a chicchessia, poiché, nella sua prima
parte, conteneva dati ministeriali riservati.
Come noto, la proposta di legge
Dambruoso-Manciulli fu approvato solo alla Camera dei Deputati e la fine di
quella legislatura avvenne poco prima della sua approvazione al Senato. Nella
legislatura successiva (2018-2022), il testo riproposto a prima firma dell’on.
Fiano nel 2018 – poi unificato ad analoga proposta a firma dell’on. Perego di
Cremnago nel testo unificato: “Misure per la prevenzione dei fenomeni eversivi
di radicalizzazione violenta, inclusi i fenomeni di radicalizzazione e di
diffusione dell’estremismo violento di matrice jihadista (A.C. 243-3357-A)[14]
– non ebbe miglior fortuna.
L’esito delle vicende legate a queste proposte
di legge è stato quello di rendere l’Italia uno dei pochissimi paesi europei
senza una legislazione nazionale o una strategia in materia di prevenzione della
radicalizzazione. Tuttavia, il dibattito intorno a quel tentativo si è fin da
subito posto, tra gli addetti ai lavori, in termini di merito. La proposta di
legge aveva dei limiti, a partire dal parziale recepimento dei risultati della
Commissione Vidino, che inducevano alcuni, tra i quali il sottoscritto, a
domandarsi se la sua approvazione fosse utile o meno. Uno dei limiti principali
era il fatto che il testo fosse focalizzato solo sulla radicalizzazione di
matrice jihadista[15].
Il secondo che avesse comunque un impianto securitario che ancorava le attività
al Ministero degli Interni e alle Prefetture in sede locale; quando, in quasi
tutta Europa, il perno operativo delle attività di P/CVE più efficaci erano le
autorità locali, a partire dal famoso modello della città danese di Aarhus, per
passare alle “safety-house” delle città olandesi, o ai centri di prevenzione
dei lander tedeschi e quelli cittadini di Belgio e Regno Unito. Fu da questa
considerazione, e dall’impasse nel 2014 di avviare una rete nazionale (“RAN
Italia”) con i ministeri, che nel 2016 ebbero origine i tentativi di avviare
delle reti di prevenzione locali nelle città di Torino, Milano ed Udine da
parte dei partecipanti italiani del RAN. Delle tre città solo a Torino, dopo
alcuni anni di incontri informali tra amministrazione cittadina, forze
dell’ordine, amministrazione penitenziaria e organizzazioni della società civile,
si giunse nel 2020 all’istituzione di un Tavolo di lavoro sulla prevenzione degli
estremismi violenti e all’approvazione di linee guida operative[16]
che seguivano gli approcci del RAN.
I quegli anni l’attenzione sui temi si diffuse,
come già sottolineato, grazie soprattutto ai progetti europei, condotti o
partecipati da partner italiani, nei vari ambiti di prevenzione della
radicalizzazione: dalle scuole alle carceri; dai settori della sicurezza urbana,
a quelli della resilienza delle comunità religiose; dallo sviluppo di campagne
di comunicazione contro la propaganda on line, a quello delle competenze alla
cittadinanza delle nuove generazioni. L’esito di questi progetti europei, oltre
a un moltiplicarsi di convegni, seminari e pubblicazioni anche in lingua
italiana[17], è
stato un’ampia attività di formazione verso i tutti settori coinvolti nel
fenomeno: le polizie locali, i docenti delle scuole, gli attivisti e i
volontari del terzo settore, gli operatori penitenziari, i garanti dei diritti
dei detenuti, le guide spirituali religiose.
Ci fu poi un incremento significativo di
partecipanti italiani al RAN e quando nel 2016 viene lanciato “RAN Young”, il
sottoscritto può segnalare decine di giovani italiani interessati a parteciparvi.
Anche l’ambito accademico italiano sviluppò un
interesse per il tema sempre più ampio. Nascono alla fine dello scorso decennio
due master universitari a Bergamo e Bari focalizzati sui fenomeni di terrorismo
e radicalizzazione[18].
Sia i progetti europei del programma Horizon che quello del Ministero
dell’Istruzione, dell’università e della ricerca, come PriMED[19],
avvicinano decine di professori e ricercatori di diverse discipline alle
riflessioni e alle pratiche di prevenzione e contrasto della radicalizzazione.
TERZO CICLIO: 2020-2023
Il terzo ciclo del RAN, tra il 2020 e il 2023,
è stato caratterizzato principalmente dallo sviluppo degli strumenti di
comunicazione esterna del RAN e dalla creazione del secondo ramo dedicato al
supporto ai decisori politici. Naturalmente sono entrati in agenda i nuovi temi
legati alle forme di radicalizzazioni connesse alla pandemia da Covid19 e le
relative derive estremiste, populiste e antisistema dalle cornici ideologiche
sempre più fluide.
Il numero di partecipanti, anche italiani, è continuato
a crescere, ma molti incontri si svolgevano ormai a distanza via “call-conference”,
con una minore efficacia in termini di networking. Inoltre, la separazione
troppo netta tra le attività dell’ambito operativo (“RAN Practitioners”) e
quello politico (“RAN Policy Support”) creava uno iato di comunicazione e
coordinazione piuttosto controproducente. In questo quadro è significativo il
cortocircuito verificatosi con l’introduzione nel 2020 dei “RAN Ambassadors”
per alcuni Stati membri. Selezionati, come il sottoscritto per l’Italia, tra i “practitioners”
per diffondere i risultati del RAN, ma inabilitati a mantenere relazioni con il
contesto politico-istituzionale nel proprio paese.
Infine, l’esempio torinese del Tavolo di lavoro e delle Linee guida per un approccio locale alla P/CVE, ufficializzato nel 2020, non diventerà mai operativo per mancanza di fondi.
3.VALUTAZIONI FINALI E PROSPETTIVE
UN KNOW-HOW A RISCHIO
Abbiamo visto come le politiche europee in
materia di prevenzione e contrasto all’estremismo violento abbiano avuto due
strumenti principali: il RAN e i programmi con i loro bandi di finanziamento a
progetti.
Oltre quanto già evidenziato in termini di
ricadute sul nostro paese, vanno considerate e valutati ancora alcuni aspetti
cruciali relativi allo scarso impatto che i progetti europei hanno avuto in
Italia. Infatti, il profluvio di fondi sul tema nei vari programmi europei ha
certamente permesso una buona disseminazione delle tematiche di P/CVE tra i
vari stakeholders italiani. Tuttavia, lo scarso impatto dei risultati espressi
dalla maggior parte di tali progetti si presta a diverse valutazioni a più
livelli. In generale, il limite maggiore alla possibilità di produrre un
impatto duraturo, risiede sicuramente nel vulnus creato dall’assenza di
legislazione o strategie nazionali. Infatti, come evidenziato fin del 2019[20],
il carattere pilota delle esperienze e dei risultati pratici o teorici dei
progetti europei in Italia restava tale perché non si potevano evolvere, come
un’economia di scala, in politiche e programmi di sistema. Quanto, allora, resta
come dato inconfutabile è il fatto che la formazione di centinaia di operatori
e ricercatori italiani nei vari ambiti della P/CVE, durante lo scorso decennio,
sia un know-how che rischia di restare in gran parte svilito, privo di
prospettive e valorizzazione.
IL MONDO CATTOLICO
Il ruolo del mondo cattolico italiano e il suo
interesse per la P/CVE, a cui ho accennato in merio alla mia prima intervista
sul RAN ad Avvenire, merita una valutazione particolare perché esso ha sempre
svolto un ruolo nelle vicende di terrorismo fin dagli anni di piombo, seppur
sottotraccia e poco studiato[21].
Come avevo potuto osservare durante la mia quindicennale collaborazione con
l’associazionismo delle vittime del terrorismo, la chiesa e il mondo cattolico
si erano sostanzialmente disinteressata a loro, con l’eccezione del Cardinal
Martini, per oltre trent’anni, per concentrarsi sulla salvezza dei terroristi,
cioè sul loro percorso riabilitativo passato per la riforma Gozzini e la cosiddetta
‘legislatura premiale’. Un percorso che di fatto anticipava il concetto di
deradicalizzazione, come osserva Dambruoso: “…è bene precisare che il primo
timido tentativo di formalizzare il concetto giuridico di deradicalizzazione
risale alla legge 18 febbraio 1987, n. 34, incentrata sulla disciplina delle
condotte di dissociazione dal terrorismo, definite all’articolo 1 come «il
comportamento di chi, imputato o condannato per reati aventi finalità di
terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale, ha definitivamente
abbandonato l’organizzazione o il movimento terroristico o eversivo cui ha
appartenuto, tenendo congiuntamente le seguenti condotte: ammissione delle
attività effettivamente svolte, comportamenti oggettivamente e univocamente
incompatibili con il permanere del vincolo associativo, ripudio della violenza
come metodo di lotta politica»”[22].
Come è risultato poi chiaro dalla prime ricerche
scientifiche in merito, l’interesse all’uscita degli anni di piombo fu centrale
per il mondo cattolico «per promuovere il disimpegno dal terrorismo e
nell’influenzare le politiche pubbliche in questo settore»[23],
così come completo il disinteresse per le vittime[24].
Nel 2016 la situazione era decisamente
cambiata. Il primo decennio del XXI secolo aveva sancito la centralità alle
vittime del terrorismo nel discorso pubblico. Il Presidente della Repubblica,
Giorgio Napolitano, aveva favorito un compromesso tra le vittime del terrorismo
rosso e nero, intorno alla figura di Aldo Moro e la data del 9 Maggio, per
celebrare il Giorno della Memoria[25].
Inoltre, nel 2015 era uscito, con vasta eco, il Libro dell’incontro[26]:
il resoconto dell’esperienza del gruppo composto da vittime, ex terroristi e
mediatori, patrocinata dalla chiesa e dall’università cattolica milanese, che
diventerà il testo d’innesto all’introduzione della giustizia riparativa in
Italia, fino alla recente riforma Cartabia in materia di mediazione penale[27].
Questo sintetico excursus ritengo spieghi come
il fatto che le vittime del terrorismo siano state le prime a introdurre in
Italia delle attività esplicitamente indirizzate alla prevenzione della
radicalizzazione violenta[28],
abbiano attirato l’interesse del mondo cattolico. Dai terroristi dissociatisi
dalla lotta armata che si riabilitavano e ‘deradicalizzavano’ attraverso
l’impegno sociale nelle organizzazioni del volontariato cattolico, e non solo,
dalla metà degli ’80 del XX secolo, si stava integrando un paradigma nei quali
erano presenti anche le vittime che si impegnavano sul terreno educativo per
prevenire il formarsi di nuovi terroristi e che dialogavano con gli ‘ex’ per
provare a riparare e restaurare relazioni riumanizzate e pacificate[29].
Inoltre, tra i molti progetti che ho potuto
osservare o analizzare da vicino, non posso qui non citare quella ‘best
practice’ nella prevenzione secondaria – indirizzato ai detenuti mussulmani nella
Casa circondariale “Dozza” di Bologna – intitolata “Diritti, Doveri,
Solidarietà”. Ideata da Ignazio De Francesco – monaco della Piccola Famiglia
dell’Annunziata e fine islamologo, con l’appoggio dell’Assemblea legislativa
della regione Emilia-Romagna e del Garante dei detenuti[30]
– è probabilmente quando di meglio il mondo cattolico abbia espresso in termini
progettuali nelle pratiche di P/CVE nello scorso decennio[31].
POLITICHE FRAMMENTATE
Occorre ora precisare cosa abbia inteso nello
scrivere mancanza di una strategia nazionale di P/CVE. Al netto del fallito
percorso della proposta di legge Dambruoso-Manciulli, nel 2017, presentando alla
stampa la relazione della sua commissione, Lorenzo Vidino dichiarava che: «la
comunità dell’antiterrorismo ha capito che un approccio basato solo sulla
repressione non è più sufficiente», occorre affiancargli «strumenti di
prevenzione, misure soft che vanno a prevenire processi di radicalizzazione in
fase embrionale»[32]. Parole
che non rimasero senza conseguenze.
Se non una vera e propria strategia, almeno dal
2016 furono attivate alcune iniziative istituzionali lungo tre linee
d’intervento: quella delle contro-narrative, quella educativa nelle scuole e
quella di deradicalizzazione di singoli soggetti. Al netto dell’attività del Ministero
della Giustizia, e il suo Dipartimento d’Amministrazione Penitenziaria (DAP),
che continuava a implementare le attività di formazione del personale
penitenziario, da una parte, e ad affinare gli strumenti di valutazione del
rischio radicalizzazione nella popolazione incarcerata, dall’altra, come nei
progetti europei “Rasmorad” e “Train Training”, si sono potute osservare le
seguenti iniziative:
1) quelle
della RAI, come del resto prevedeva la proposta di legge, che ha prodotto una
serie di servizi di approfondimento relati al mondo islamico e carcerario, con
una funzione di contro-narrativa verso il vittimismo della propaganda jihadista[33];
2) quelle dell’Ufficio Regionale Scolastico
della Lombardia che, con il programma di formazione verso gli insegnati e gli
studenti dei poli scolastici di quella regione oggi intitolato “Educazione alle
differenze nell’ottica della prevenzione e contrasto ad ogni forma di
estremismo violento”, dal 2016 a oggi ha sistematicamente implementato con
continuità nelle scuole tale attività di prevenzione primaria[34];
3) quelle di deradicalizzazione, cioè di prevenzione terziaria, che sono state presentate nel numero speciale sul tema del 2018, della rivista dell’intelligence italiana Gnosis, con i primi due casi italiani a Bari e a Trieste, che prefigurano una forma di collaborazione tra l’organo istituzionale preposto all’“Analisi Strategica Antiterrorismo”, il C.A.S.A., e due realtà della società civile: la cooperativa sociale Exit e l’università di Bari.
Sicuramente, sul delicato terreno della deradicalizzazione, ci sono state altre iniziative con esiti incerti o inconclusi, in particolare quelle verso soggetti detenuti nei circuiti di alta sicurezza. Inoltre, nel quado della prevenzione primaria, l’amministrazione penitenziaria si è distinta con l’iniziativa pilota d’introduzione degli imam nelle carceri italiane per garantire il culto ai detenuti mussulmani e così prevenendo un pretesto di vittimizzazione che poteva portare questi a radicalizzarsi. L’accordo tra il DAP e UCOII del 2015[35], e la collaborazione con altre comunità islamiche italiane, è un buon esempio di prevenzione primaria e del carattere frammentato delle iniziative istituzionali messe in campo negli ultimi anni. Il limite, in questo caso, non è costituito tanto dall’assenza di strategie di P/CVE, quanto dall’assenza di una intesa tra lo Stato italiano e le comunità islamiche che definisca un ampio quadro di diritti e doveri reciproci, come avviene per le altre comunità religiose; e di rispetto dei diritti minimi previsti dalla Convezione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) nelle carceri italiane[36].
L’APPROCCIO MULTIAGENZIA E LA SOCIETÀ CIVILE
Si può aggiungere che nel corso di questa
fioritura di pratiche di P/CVE in Italia, tra quelle europee, quelle nazionali
e quelle locali, tra quelle promosse da enti istituzionale e quelle promosse
dalla società civile, ci siano state forme di competizione o di mancata
collaborazione che hanno non solo contribuito a creare un quadro frammentato,
ma soprattutto hanno limitato quello che nelle politiche europee del RAN viene
chiamato approccio multi-agenzia. Cioè una collaborazione fattiva tra gli
stakeholder che, in queste pratiche, afferiscono ad ambiti diversi, così come
diversi sono gli approcci utilizzati e, pure, le loro competenze e
responsabilità. Mentre la comunità dell’antiterrorismo ha una lunga e
sedimentata collaborazione tra i suoi elementi (governo, forze dell’ordine,
intelligence, magistratura e amministrazioni penitenziarie); l’attività di
prevenzione della radicalizzazione determina un setting multi-agenzia allargato
ai sistemi educativi formali e informali, il welfare pubblico e privato, le comunità
e le autorità locali. L’intento della proposta di legge italiana, infatti, per
usare le parole di Dambruoso, era quello: «di trovare una risposta al
terrorismo che coniughi misure repressive e un approccio preventivo di
collaborazione con attori della società civile e con le comunità di riferimento»[37].
Il ruolo delle società civile nelle pratiche
di P/CVE è stato uno dei fulcri delle politiche del RAN e, non a caso, la
grande maggioranza dei circa 150 partecipanti italiani ai lavori del RAN è
sempre giunta dal terzo settore[38],
erede di quelle organizzazioni caritatevoli del volontariato cattolico che, fin
dal XIX secolo, in Italia si prendevano cura della marginalità sociale
provocata della nascente industrializzazione. Un ruolo, quello delle
organizzazioni della società civile, focalizzato su una cura della devianza
sociale basata sulla (ri)costruzione di relazioni sociali fiduciarie[39].
Così, soprattutto intorno alla prevenzione
terziaria di un fenomeno come il processo di radicalizzazione violenta che ha
come esito reati di terrorismo, il setting allargato multi-agenzia può ben riflettere
visioni e funzioni non facilmente conciliabili: come quelle tra le esigenze delle
autorità statali competenti a prevenire gli attacchi terroristici attraverso il
sistema penale e repressivo, da una parte; e quelle della società civile e delle
istituzioni socio-educative competenti alla riabilitazione dell’ex terrorista –
la funzione costituzionalmente definita ‘rieducativa’ della pena, e quanto
nell’ambito della P/CVE è stato definito di volta in volta
‘deradicalizzazione’, ‘disimpegno’ o ‘uscita’ – dall’altra.
Si può quindi dire che l’approccio
multi-agenzia delle politiche e pratiche promosse dal RAN sottende
implicitamente un lungo elenco di sfide, che ripercorre le dicotomie presenti
nella storia della criminologia, della giurisprudenza e, in ultima analisi, di
tutte le scienze umane in merito alla riformabilità o meno dalla natura umana,
la possibilità o meno che questa possa essere preventivamente educata o ex-post
redenta. Alle quali si aggiungono le sfide relative al delicato equilibrio tra i
doveri di repressione e controllo della sicurezza dello Stato, da una parte, e le
libertà e i diritti civili degli individui, dei gruppi o dei movimenti sociali,
dall’altra.
Il passaggio quest’anno dal RAN al “EU
Knowledge Hub on Prevention of Radicalisation”, sicuramente manterrà l’approccio
multi-agenzia e mi pare capire, dalla documentazione disponibile, che tra i
suoi intenti più rilevanti ci sia quello di saldare gli ambiti degli operatori
professioni con quello dei decisori politici e della ricerca scientifica, le
cui pregresse separazioni ha probabilmente nuociuto all’efficacia del RAN. In
ogni caso, quest’anno si aprirà una fase nuova in Europa verso la quale gli
stakeholder italiani sono chiamati a riflettere e confrontarsi.
Per concludere. La lezione del RAN è in
qualche modo erede della ‘exit strategy’ italiana dagli anni di piombo. Se
allora la fase repressiva di inasprimento penale fu seguita da quella premiale
di riabilitazione[40],
la sfida sottesa alla proposta del RAN è quella di costruire un percorso non
diviso in fasi successive, ma parallele e concomitanti, attraverso le quali
provare a costruire un equilibrio tra necessità dicotomiche. Un’antinomia o un gioco
cooperativo[41] che è
certamente una sfida da accettare se si vuol valorizzare il patrimonio di
esperienze e di know-how italiano cresciuto nel nostro paese in questi anni,
per giungere a una strategia, magari flessibile, ma non più frammentata. Non
dimentichiamo mai che tali politiche e pratiche hanno al centro la coesione
delle comunità e la convivenza pacifica del nostro tessuto sociale. Inoltre,
scommettere sulla prevenzione è anche economicamente più sostenibile che non gestire
future emergenze con lunghe e tragiche conseguenze.
[1] Per approfondire quanto segue, si veda il sito web del RAN, https://home-affairs.ec.europa.eu/networks/radicalisation-awareness-network-ran_en
[2] Tale network era nato a seguito di quello che resta il maggior
attentato terrorista sul suolo europeo a Madrid l’11 marzo 2004 e
dell’attenzione che seguì da parte delle istituzioni europee verso le vittime
del terrorismo, in particolare quella dell’allora Commissario europeo alla
Giustizia, Libertà e Sicurezza, Franco Frattini.
[3] Si veda il capitolo “4.5. Terrorismo” del programma: https://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:C:2010:115:0001:0038:it:PDF
[4] Parte integrata della sua strategia per contrastare il terrorismo
(CONTEST). Si vedano le varie versioni di CONTEST a partire dal 2011: https://www.gov.uk/government/publications/counter-terrorism-strategy-contest
[5] Guillaume Denoix de Saint Marc, in rappresentanza delle due associazioni
l’italiana AIVITER e la francese AfVT.
[6] Lo scarso impatto del RAN in Italia di quel periodo è addebitabile
all’allora debole comunicazione esterna del RAN, ma anche della scarsa
attenzione dei vertici ministeriali italiani inviatati alle “High Level
Conference”.
[7] Termine che in verità è sempre rimasto oggetto
di dispute sul significato. Qui è inteso come processo
cognitivo/comportamentale e sottende (anche se omesso) l’aggettivazione
“violenta”.
[8] Si vedano articoli, relazioni e materiali del progetto C4C promosso da
AIVITER qui: https://hommerevolte2.blogspot.com/search/label/C4C e qui https://www.vittimeterrorismo.it/?s=C4C
[9] Nella dimensione formativa del suo personale penitenziario e nel
monitoraggio del proselitismo tra la popolazione carceraria. Si veda: Cascini
F. (2012). Il Fenomeno del proselitismo in carcere con riferimento ai
detenuti stranieri di culto islamico, in “La radicalizzazione del
terrorismo islamico. Elementi per uno studio del fenomeno di proselitismo in
carcere”, Quaderni ISSP n. 9 (giugno 2012)
[10] Sul tema torno nella parte nelle conclusioni del cap.3 sul mondo
cattolico.
[11] Si veda il testo dell’articolo di Avvenire del 15 gennaio 2015 a firma
Vincenzo R. Spagnolo qui: https://hommerevolte2.blogspot.com/2015/01/europa-ed-italia-di-fronte-al.html
[12] Proposta di Legge 3558 presentata il 26 gennaio 2016.
[13] Vidino L. (2014). Il jihadismo autoctono in Italia. Nascita,
sviluppo e dinamiche di radicalizzazione. ISPI
[14] Si veda il Dossier n° 301/2 – Elementi per l’esame in Assemblea 14
marzo 2022: https://documenti.camera.it/leg18/dossier/pdf/AC0367b.pdf
[15] Lo stesso programma ‘Prevent’ fu ampiamente criticato e dibattuto nel
Regno Unito in quegli anni per la scelta di limitarsi ad affrontare la sola
radicalizzazione jihadista, e fu quindi revisionato per includere altre forme
di estremismo violento. Si veda ad es. l’articolo di Luciano Pollichieni su
Limes del 2017: https://www.limesonline.com/limesplus/la-miopia-dell-antiterrorismo-di-sua-maesta-14681306/
[16] Si vedano le “Linee Guida del Tavolo di lavoro multi-agenzia della
Città di Torino per la prevenzione degli estremismi violenti” elaborata dal
Comitato scientifico istituito dalla città di Torino nel 2018 e approvate dal
consiglio comunale nel 2020: http://www.comune.torino.it/cittagora/wp-content/uploads/2020/07/Linee-guida-istituzione-tavolo.pdf
[17] Si veda la raccolta di testi dal sottoscritto per gli operatori
italiani del RAN: https://drive.google.com/drive/folders/0Bz7ceziVCVmBV0ZkQUJuNU5YMXc?resourcekey=0-A5HTj1-XheJgKyXqOn0pCQ&usp=drive_link
[18] Rispettivamente diretti dal Prof. Michele Brunelli e dalla Prof.ssa
Sabrina Martucci.
[20] Berardinelli D., Guglielminetti L.
(2018). Preventing Violent Radicalisation: The Italian Case Paradox. In
“7th International Conference on Multidisciplinary Perspectives in the
Quasi-Coercive Treatment of Offenders (SPECTO)”, pp 28-33, Filodiritto
Publisher
[22] Dambruoso S. (2018). Prevenzione e repressione. La via italiana nel
contrasto alla radicalizzazione jihadista. In «Gnosis», speciale
Deradicalizzazione, edito dall’AISI.
[24] Si vedano in particolare: Galfré M. (2014). La guerra è finita:
L’Italia e l’uscita dal terrorismo 1980-1987. Bari: Laterza; e Guglielminetti
L. (2017). La percezione sociale delle vittime del terrorismo. In
“Rassegna Italiana di Criminologia” (RIC), n. 4, pp. 269-276
[25] In questo caso un percorso parallelo con quanto occorreva nelle
politiche europee dopo l’attentato di Madrid del 2004, che porterà l’11 Marzo
ad assurgere a giornata europea del ricordo delle vittime del terrorismo.
[26] Bertagna G., Ceretti A., Mazzucato C. (2015), Il libro
dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto.
Milano: Il Saggiatore.
[27] Tra le novità introdotte con il d. lgs. 10 ottobre 2022, n.150, di
attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134 (c.d. “riforma Cartabia”) si
segnala in particolare l’introduzione di una disciplina organica della
giustizia riparativa, contenuta negli artt. 42-67.
[28] Per un quadro esaustivo di quelle attività si veda: Guglielminetti L.
(2018). P/CVE, lavorare coi giovani e le vittime del terrorismo: esperienze,
criticità e prospettive in Italia. In “The Prevention of Radicalisation of Young
People”, European Project “YEIP”
[29] Per un’analisi storica e dettaglia si veda Bull A. (2018). Reconciliation through Agonistic
Engagement? Victims and Former Perpetrators in Dialogue in Italy Several
Decades after Terrorism. In “Victimhood and Acknowledgement”, De Gruyter
[30] Si veda la descrizione e i due volumi sul progetto qui: https://www.assemblea.emr.it/garante-detenuti/iniziative/progetti/diritti-doveri-solidarieta/diritti-doveri-solidarieta
[31] Per la sua valorizzazione in ambito formativo si veda: Guglielminetti,
L. (a cura di) (2019). Stato di diritto e prevenzione dell’estremismo
violento: tra politiche e pratiche nei ristretti orizzonti italiani.
Progetto “FAIR”, Ravenna: Fondazione Nuovo Villaggio del Fanciullo
[32] Spagnolo R. V. (2017). Terrorismo. «Rischio di
radicalizzazione sul web e nelle carceri», Avvenire del 5 Gennaio 2017
[33] Significativa in questo senso la collaborazione dell’allora Direttrice
della Direzione Editoriale per l’Offerta Informativa della RAI, Monica
Maggioni, con l’ISPI che cura nel 2015 il volume Twitter e jihad: la
comunicazione dell’Isis.
[34] Si veda la convenzione tra Regione Lombardia e Ufficio Scolastico
Regionale https://usr.istruzionelombardia.gov.it/wp-content/uploads/2023/11/m_pi.AOODRLO.REGISTRO-UFFICIALEU.0005448.10-03-2022-5.pdf
[35] “Protocollo d’intesa per favorire l’accesso di mediatori culturali e
di ministri di culto negli istituti penitenziari”, sottoscritto il 5 novembre
2015, tra il ministero della Giustizia, Dipartimento dell’amministrazione
penitenziaria e l’Unione delle comunità ed organizzazioni islamiche in Italia
(UCOII)
[36] Ravagnani L., Romano C. A.
(2017). Il radicalismo estremo in carcere: una ricerca empirica.
In “Rassegna
Italiana di Criminologia” (RIC), n. 4,
pp. 277-296. Si veda anche Guglielminetti, L. (2019). Ibid.
[38] Dati ricavati del database dei partecipanti al RAN: https://home-affairs.ec.europa.eu/networks/radicalisation-awareness-network-ran/participant-database_en
[39] Si veda il mio contributo nel precedente numero di #REACT 2023 n.4 –
Anno 4. Il ruolo delle organizzazioni della società civile nella prevenzione
e nel contrasto all’estremismo violento. p. 37-38.
[41] Definizione dal teorico della teoria dei giochi, il matematico
statunitense John Nash, citato da De Mutiis C. (2018). Caso di studio. Verso
una strategia italiana di prevenzione della radicalizzazione: una sfida globale
che si vince a livello locale. Edito dalla Scuola dell’amministrazione
dell’Interno.
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