ATLANTE_MEDITERRANEO

Atlante geopolitico del Mediterraneo 2024: la recensione.

di Claudio Bertolotti.

Abstract (Italian)

L’Atlante geopolitico del Mediterraneo 2024, giunto alla sua decima edizione, sottolinea l’importanza cruciale del Mediterraneo per Europa, Africa e Asia, evidenziando il ruolo chiave dell’Italia come ponte strategico nella regione. Esamina lo sviluppo della politica estera italiana dal dopoguerra, mostrando come la stabilità del Mediterraneo sia fondamentale per gli interessi del paese. Celebrando figure storiche italiane come Fanfani, Gronchi, La Pira e Mattei, il testo sottolinea l’importanza dell’Italia nella gestione delle risorse energetiche, sicurezza marittima e flussi migratori, promuovendo una collaborazione equa e sostenibile tra le nazioni mediterranee. L’Atlante affronta anche le attuali instabilità regionali, come le tensioni in Libia, la svolta autoritaria in Tunisia e il conflitto israelo-palestinese, proponendo la soluzione a due Stati come via per una pace duratura. La stabilizzazione del Mediterraneo è vista come essenziale per la crescita delle nazioni rivierasche. L’edizione esplora le dinamiche politiche e socio-economiche attuali e future del Mediterraneo, offrendo uno strumento per comprendere e affrontare le sfide della regione, enfatizzando il ruolo cruciale dell’Italia nella politica estera e nella gestione delle sfide regionali.

Atlante geopolitico del Mediterraneo 2024, a cura di Francesco Anghelone e Andrea Ungari; prefazione Di Paolo De Nardis; introduzione di Gianluigi Rossi, ed. Istituto di Studi Politici “S. Pio V”, Roma, pp. 570.

Keywords: Mediterraneo, Piano Mattei.

L’Atlante geopolitico del Mediterraneo 2024, giunto alla sua decime edizione, discute il ruolo cruciale del Mediterraneo nelle dinamiche geopolitiche globali, evidenziando la sua importanza storica, culturale ed economica per tre continenti: Europa, Africa ed Asia. In particolare sottolinea come l’Italia, grazie alla sua posizione strategica, giochi un ruolo chiave nella regione, agendo come ponte tra Nord e Sud, Est e Ovest. La decima edizione dell’Atlante Geopolitico del Mediterraneo esamina, in particolare, lo sviluppo della politica estera italiana dal dopoguerra, dimostrando come gli interessi dell’Italia siano strettamente legati alla stabilità della regione. Un’evoluzione storica che evoca il ruolo giocato dalla politica estera italiana nelle relazioni internazionali, richiamando i nomi di coloro che ne hanno definito le direttrici, oggi in parte non più così ben definite, da Amintore Fanfani a Giovanni Gronchi a Giorgio La Pira ed Enrico Mattei, il cui nome è oggi il punto di riferimento ideale di un importante e ambizioso progetto di cooperazione e collaborazione regionale particolarmente caro all’Italia.

Come storico non ho potuto che apprezzare lo sforzo degli autori – e dunque dei curatori – nel ricostruire il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo negli ultimi settant’anni, evidenziando l’importanza del paese in settori come la gestione delle risorse energetiche, la sicurezza marittima e i flussi migratori. Il testo sottolinea la necessità di superare le vecchie dinamiche coloniali per promuovere una collaborazione equa e sostenibile tra le nazioni mediterranee.

La regione, viene rilevato nel testo, è attualmente segnata da instabilità, come le tensioni in Libia, la svolta autoritaria in Tunisia e il conflitto israelo-palestinese. La soluzione a due Stati è vista come l’unica strada per la pace duratura in Medio Oriente. Stabilizzare il Mediterraneo è essenziale per la crescita delle nazioni rivierasche.

Questa edizione dell’Atlante mira a esplorare le attuali dinamiche politiche e socio-economiche del Mediterraneo e le prospettive future, offrendo uno strumento essenziale per comprendere e affrontare le sfide della regione. Il testo evidenzia l’importanza dell’Italia nel Mediterraneo, sottolineando il suo ruolo cruciale nella politica estera e nella gestione delle sfide regionali.

PARTE PRIMA: APPROFONDIMENTI

“La dimensione mediterranea della politica estera italiana fra Atlantico ed Europa (1949-1969)” (di Bruna Bagnato).

Nel suo saggio l’Autrice esamina le tre principali direttrici della politica estera italiana nel secondo dopoguerra: europea, atlantica e mediterranea. Queste direttrici non sono statiche ma si sono evolute in risposta ai cambiamenti geopolitici.

L’Italia, pur geograficamente europea e mediterranea, ha dovuto integrare la sua partecipazione all’alleanza atlantica (NATO) dal 1949, il che ha influenzato la sua politica estera, spingendola ad adattarsi ai contesti della Guerra Fredda e agli interessi occidentali. La divisione dell’Europa in blocchi orientale e occidentale e le tensioni Est-Ovest hanno complicato la politica mediterranea italiana, che ha dovuto affrontare le eredità coloniali e le sfide della decolonizzazione.

La politica italiana, influenzata dalle diverse stagioni politiche interne, ha oscillato tra strategie mediterranee e europee. Negli anni ’50, con l’avvento del “neo-atlantismo”, l’Italia ha cercato di coniugare l’impegno atlantico con una nuova politica mediterranea, adottando posizioni anticoloniali per allinearsi con gli Stati Uniti e differenziarsi dall’imperialismo anglo-francese.

Il testo, in particolare, sottolinea come il “neo-atlantismo” abbia cercato di dare all’Italia un ruolo più dinamico nel Mediterraneo, basato su una cooperazione con gli Stati Uniti e una maggiore attenzione alle aspirazioni dei paesi arabi. Tuttavia, questo approccio ha dovuto confrontarsi con le complessità della politica europea, soprattutto con la posizione francese riguardo ai territori d’oltremare e l’associazione dei paesi africani alla Comunità Economica Europea (CEE).

Con la crisi di Suez del 1956, l’Italia ha visto un’opportunità per consolidare la propria politica mediterranea in sintonia con l’orientamento anticoloniale americano. Italia che, negli anni ’60, ha dovuto affrontare le sfide del boom economico, della decolonizzazione e del cambiamento nelle dinamiche della Guerra Fredda. La politica estera italiana nel Mediterraneo ha dovuto adattarsi a un nuovo contesto internazionale, segnato dalla distensione tra Stati Uniti e Unione Sovietica e dall’evoluzione delle relazioni euro-arabe.

La politica mediterranea italiana si è quindi spostata verso un approccio multilaterale, integrando le istanze comunitarie europee e ponendo le basi per una collaborazione più stretta con i partner europei per la stabilizzazione politica ed economica della regione. Questo cambiamento ha rappresentato un allontanamento dalla precedente enfasi atlantica, con una maggiore enfasi sulla cooperazione europea nel Mediterraneo.

La politica estera italiana e il “Mediterraneo allargato” dalla crisi del centro-sinistra a oggi (di Antonio Varsori).

Premessa storica e contesto iniziale. Dalla fine della Seconda guerra mondiale alla metà degli anni Cinquanta, l’Italia, guidata dalla Democrazia Cristiana (DC), ha cercato di superare le difficoltà derivanti dalla sconfitta e dal trattato di pace, ricostruendo il proprio ruolo all’interno del sistema occidentale e del sottosistema europeo dominato dagli Stati Uniti. Questa fase è stata caratterizzata da una scelta “atlantica” ed “europea” che ha incluso l’adesione al Piano Marshall e al Patto Atlantico, oltre alla partecipazione al Consiglio d’Europa e al Piano Schuman.

La politica estera degli anni ’90. Con la crisi di “Tangentopoli” e la fine della Guerra fredda, l’Italia ha subito un ripiegamento sui problemi interni e un ridimensionamento del proprio ruolo nel Mediterraneo allargato. Le priorità si sono spostate verso la partecipazione all’Unione Europea e all’adozione dell’euro. Tuttavia, un tentativo significativo di mantenere un ruolo attivo nella regione è stato l’invio di un contingente militare in Somalia nel 1992 per partecipare a una missione di peacekeeping delle Nazioni Unite; una partecipazione importante sul piano delle relazioni internazionali che, per contro, ha avuto esiti complessi e drammatici.

L’era Berlusconi. Durante i governi Berlusconi, l’Italia ha affrontato diverse sfide nel Mediterraneo allargato. Un esempio è stato il controverso impegno militare in Iraq, che ha sollevato forti opposizioni interne e divergenze con le politiche di altri paesi europei come Francia e Germania. Berlusconi ha anche rafforzato i rapporti con la Libia di Gheddafi, culminati in un accordo che prevedeva riparazioni per il passato coloniale italiano e un maggiore controllo sui flussi migratori illegali.

La politica migratoria e le crisi recenti. L’immigrazione è diventata una questione centrale nella politica mediterranea italiana. Dagli anni Novanta, l’Italia ha visto un crescente flusso di immigrati provenienti dai Balcani, dal Maghreb e dall’Africa subsahariana. Questo ha portato a tensioni e accordi, come quello con la Libia per controllare l’immigrazione clandestina. La crisi libica del 2011 e le Primavere arabe hanno ulteriormente complicato la situazione, provocando instabilità e nuovi flussi migratorie.

Sfide contemporanee. La recente escalation della questione palestinese e la ricerca di nuovi partner energetici dopo l’interruzione dei rapporti con la Russia a causa della guerra in Ucraina, insieme all’aumento dei flussi migratori da Tunisia e Libia, rappresentano le attuali sfide per l’Italia. In questo contesto, il “Piano Mattei” e un nuovo attivismo mediterraneo sono stati proposti come soluzioni, ma i loro esiti rimangono incerti.

Conclusioni. Dal dopoguerra a oggi, la politica estera italiana nel Mediterraneo allargato ha attraversato diverse fasi, influenzate da cambiamenti interni e globali. Dalla costruzione iniziale di un ruolo nell’ambito del sistema occidentale, passando per le crisi politiche ed economiche degli anni ’90, fino alle sfide contemporanee legate alla migrazione e alla sicurezza energetica, l’Italia ha costantemente cercato di mantenere una presenza significativa nella regione, adattandosi ai mutamenti del contesto internazionale.

“La politica estera italiana e il Medio Oriente negli anni della Repubblica” (di Luca Riccardi).

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’Italia attraversò un periodo di ricostruzione economica e di riorganizzazione della propria politica estera. Questo periodo segnò il passaggio dall’ambizione di essere una grande potenza a una media potenza integrata nel sistema internazionale dominato dagli Stati Uniti.

Origini della politica mediorientale. Subito dopo la guerra, l’Italia si concentrò sul mantenimento della stabilità politica nel Mediterraneo orientale, sostenendo soluzioni accettabili sia per gli arabi che per gli ebrei. L’obiettivo principale era la stabilità, vista come necessaria per perseguire gli interessi economici italiani e proteggere le comunità italiane presenti nella regione.

Neo-atlantismo e rafforzamento dei legami con gli Stati Uniti

Negli anni Cinquanta, l’Italia sviluppò una politica chiamata “neo-atlantismo”, che mirava a rafforzare la presenza politica ed economica nel Mediterraneo e nel Medio Oriente. Questa politica cercava di conciliare gli interessi italiani con quelli americani, fungendo da collegamento tra gli Stati Uniti e il mondo arabo. Protagonisti di questa politica furono Amintore Fanfani, Giovanni Gronchi, Giorgio La Pira ed Enrico Mattei.

Gli anni Sessanta e Settanta. Durante gli anni Sessanta e Settanta, l’Italia, sotto la guida di Aldo Moro, cercò di stabilizzare la regione attraverso una politica di contatti e un crescente coordinamento con i paesi della Comunità Europea. Tuttavia, la crisi petrolifera del 1973 e le sue conseguenze economiche influenzarono negativamente la politica italiana, rendendo il paese dipendente dalle forniture di petrolio dai paesi arabi.

Gli anni Ottanta. Negli anni Ottanta, con Bettino Craxi come Presidente del Consiglio e Giulio Andreotti come Ministro degli Esteri, l’Italia mantenne una forte presenza nel Mediterraneo allargato. Craxi e Andreotti cercarono di promuovere il coinvolgimento dell’OLP nel processo di pace, sostenendo il diritto dei palestinesi a una patria propria, senza compromettere l’esistenza dello Stato di Israele. L’Italia cercò di bilanciare le relazioni tra gli Stati Uniti e il mondo arabo, mantenendo una posizione di equidistanza.

Declino e marginalizzazione. Verso la fine della Prima Repubblica, l’Italia iniziò a perdere rilevanza nella politica mediorientale, diventando sempre più allineata con le politiche degli Stati Uniti. La conferenza di Madrid del 1991 segnò un’ulteriore marginalizzazione dell’Italia e dell’Europa nel processo di pace in Medio Oriente.

In sintesi, la politica estera italiana verso il Medio Oriente è stata caratterizzata da tentativi di mantenere la stabilità nella regione, rafforzare i legami economici e politici con i paesi arabi, e bilanciare le relazioni tra gli Stati Uniti e il mondo arabo, pur affrontando periodi di crisi economica e declino politico.

PARTE SECONDA: SCHEDE PAESI

Marocco

La Storia. La storia del Marocco è caratterizzata da un lungo periodo di colonizzazione europea iniziata ufficialmente nel 1912 con il Trattato di Fez, che sanciva l’istituzione di un protettorato francese e spagnolo sul paese. Durante il periodo coloniale, il Marocco vide una vasta politica di modernizzazione, con la costruzione di infrastrutture e nuove città ad opera dei coloni francesi. La resistenza contro il dominio coloniale portò a frequenti rivolte, culminate nella “Rivoluzione del re e del popolo” del 1953, che contribuì all’indipendenza del paese, riconosciuta dalla Francia nel 1956. Mohammed V divenne re, avviando un processo di riforme che portarono alla modernizzazione del paese e alla creazione di una monarchia costituzionale.

Oggi. Negli ultimi decenni, il Marocco ha affrontato numerose sfide e trasformazioni. Sotto il regno di Mohammed VI, iniziato nel 1999, il paese ha intrapreso un percorso di riforme economiche e politiche, tra cui la promozione dei diritti umani e la modernizzazione delle istituzioni. Tuttavia, permangono criticità relative ai diritti umani e alla questione del Sahara Occidentale. Il Marocco ha anche consolidato il suo ruolo geopolitico nella regione, ristabilendo relazioni diplomatiche con Israele nel 2020 e giocando un ruolo chiave nella gestione delle migrazioni tra Africa ed Europa.

Algeria

La Storia. L’Algeria, colonizzata dalla Francia dal 1830, visse un periodo di modernizzazione nel primo dopoguerra. Tuttavia, la crescente consapevolezza nazionale portò alla guerra di indipendenza algerina (1954-1962), un conflitto sanguinoso che culminò con l’indipendenza del paese nel 1962. Il periodo post-indipendenza fu caratterizzato da una forte centralizzazione del potere sotto il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN), che governò in modo autoritario, affrontando periodi di instabilità politica e economica.

Oggi. L’Algeria contemporanea è una repubblica semipresidenziale con una popolazione di circa 44,9 milioni di abitanti. Il paese continua a confrontarsi con questioni di governance, diritti umani e diversificazione economica. Le elezioni del 2019 e del 2021 hanno portato Abdelmadjid Tebboune alla presidenza, con il governo che cerca di bilanciare le richieste di riforme politiche con la stabilità sociale. Le relazioni con il Marocco rimangono tese, specialmente a causa delle dispute territoriali e delle accuse reciproche di interferenze politiche.

Tunisia

La Storia. La Tunisia, anch’essa colonizzata dalla Francia, ottenne l’indipendenza nel 1956 sotto la guida di Habib Bourguiba, che instaurò un regime modernizzatore ma autoritario. Dopo il colpo di stato del 1987, Zine El Abidine Ben Ali salì al potere, governando fino alla Rivoluzione dei Gelsomini del 2011, che portò alla sua destituzione e avviò un processo di transizione democratica.

Oggi. La Tunisia è considerata una delle storie di successo della Primavera Araba, con un processo democratico ancora in corso. Tuttavia, il paese affronta sfide significative, tra cui instabilità politica, disoccupazione giovanile e minacce terroristiche. Le recenti elezioni e le riforme costituzionali mirano a consolidare un modello di democrazia fortemente presidenziale e uno stato consapevole del proprio ruolo all’interno dell’area geopolitica regionale.

Libia

La Storia. La storia moderna della Libia è segnata dalla colonizzazione italiana e dalla dittatura di Muammar Gheddafi, che governò dal 1969 fino alla sua deposizione nel 2011 durante la guerra civile libica. Il regime di Gheddafi era caratterizzato da politiche autoritarie e di centralizzazione del potere, con una forte retorica anti-occidentale.

Oggi. La Libia odierna è divisa e instabile, con vari gruppi armati e fazioni politiche che competono per il controllo del paese. Nonostante gli sforzi internazionali per stabilizzare la situazione, la Libia rimane in gran parte frammentata, con un governo di unità nazionale che lotta per affermare la propria autorità. La situazione umanitaria e la sicurezza continuano a essere problematiche.

Egitto

La Storia. L’Egitto ha una lunga storia di civiltà antiche e dominazioni straniere. Nel XX secolo, l’Egitto ottenne l’indipendenza dal Regno Unito nel 1922, ma rimase sotto un’influenza britannica significativa fino alla rivoluzione del 1952 che portò Gamal Abdel Nasser al potere. Nasser attuò politiche di nazionalizzazione e panarabismo. Successivamente, sotto Anwar Sadat e Hosni Mubarak, il paese si orientò verso politiche più aperte e relazioni con l’Occidente.

Oggi. L’Egitto contemporaneo, sotto il presidente Abdel Fattah al-Sisi, affronta sfide economiche e politiche significative. Le riforme economiche hanno portato a una crescita economica, ma anche a un aumento della povertà e delle disuguaglianze. La repressione politica rimane forte, con limitazioni alle libertà civili e politiche. L’Egitto continua a svolgere un ruolo chiave nella geopolitica del Medio Oriente, mantenendo relazioni strategiche con vari attori internazionali.

Israele

La Storia. Israele, fondato nel 1948, ha una storia complessa segnata da conflitti con i paesi vicini e tensioni interne. La guerra di indipendenza del 1948-49, le guerre arabo-israeliane e il conflitto israelo-palestinese hanno definito gran parte della sua storia. Israele ha anche vissuto periodi di crescita economica e tecnologica, affermandosi come una delle economie più avanzate della regione.

Oggi. Israele è una democrazia parlamentare con una popolazione diversificata. Le questioni di sicurezza nazionale, il conflitto con i gruppi palestinesi e le dinamiche politiche interne sono al centro dell’attenzione. Le recenti normalizzazioni delle relazioni con alcuni paesi arabi rappresentano sviluppi significativi, ma permangono tensioni e sfide sul fronte interno e regionale.

Autorità Nazionale Palestinese

La Storia. L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) è stata istituita nel 1994 a seguito degli Accordi di Oslo tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). L’ANP è responsabile del governo dei territori palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, ma ha affrontato numerose difficoltà, inclusi conflitti interni e tensioni con Israele.

Oggi. Oggi, l’ANP è divisa tra la Cisgiordania, controllata da Fatah, e Gaza, sotto il controllo di Hamas. La situazione politica ed economica è instabile, con frequenti tensioni e scontri con Israele. Gli sforzi per la riconciliazione interna e per una soluzione del conflitto con Israele continuano, ma le prospettive di pace rimangono incerte.

Libano

La Storia. Il Libano, indipendente dalla Francia dal 1943, ha una storia segnata da conflitti civili e interventi stranieri. La guerra civile libanese (1975-1990) ha devastato il paese, seguito da un periodo di ricostruzione e di tensioni politiche e settarie. La presenza di Hezbollah e l’influenza siriana hanno contribuito alla complessità politica del Libano.

Oggi.Il Libano contemporaneo è afflitto da una grave crisi economica, politica e sociale. Le proteste popolari, la corruzione diffusa e l’esplosione del porto di Beirut nel 2020 hanno aggravato la situazione. Il paese lotta per superare le divisioni settarie e per trovare stabilità politica ed economica.

Siria

La Storia. La Siria, indipendente dalla Francia nel 1946, ha una storia di instabilità politica e colpi di stato. Il regime di Hafez al-Assad, iniziato nel 1970, ha stabilito una dittatura che è stata portata avanti dal figlio Bashar al-Assad. La Siria ha giocato un ruolo centrale nella politica del Medio Oriente, spesso in conflitto con Israele e coinvolta nelle dinamiche regionali.

Oggi. La Siria è devastata da una guerra civile iniziata nel 2011, con milioni di rifugiati e sfollati interni. Il regime di Bashar al-Assad, con il sostegno di Russia e Iran, ha riconquistato gran parte del territorio, ma il paese rimane diviso e instabile. La ricostruzione e la riconciliazione sono sfide enormi, mentre la situazione umanitaria è critica.

Giordania

La Storia. La Giordania, creata dal mandato britannico nel 1921 e indipendente dal 1946, è stata governata dalla dinastia hashemita. Il paese ha mantenuto una relativa stabilità nonostante le turbolenze regionali, giocando un ruolo moderato nella politica mediorientale e ospitando un gran numero di rifugiati palestinesi.

Oggi. La Giordania continua ad affrontare sfide economiche e sociali, aggravate dall’afflusso di rifugiati siriani e dalle pressioni regionali. Il re Abdullah II guida il paese verso riforme economiche e politiche, cercando di mantenere la stabilità in un contesto regionale difficile.

Turchia

La Storia. La Turchia moderna, fondata da Mustafa Kemal Atatürk nel 1923, è stata costruita sui principi della laicità e del nazionalismo. Dopo decenni di governo secolare e militare, il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) di Recep Tayyip Erdoğan ha trasformato il paese con un mix di islamismo e nazionalismo, portando a una maggiore centralizzazione del potere.

Oggi. La Turchia è una potenza regionale con ambizioni internazionali, ma affronta problemi interni come la repressione dei diritti civili e le tensioni economiche. Le politiche di Erdoğan, sia interne che estere, hanno suscitato controversie e criticità, ma il paese continua a giocare un ruolo cruciale nella geopolitica del Medio Oriente e oltre.

PARTE TERZA: DIALOGHI MEDITERRANEI

“Italia e Tunisia: sfide e criticità nel più ampio contesto internazionale” (di Mario Savina).

Il testo tratta delle complesse relazioni tra i due paesi nel contesto del Mediterraneo, evidenziando i principali dossier di cooperazione e le sfide che caratterizzano il rapporto bilaterale.

Relazioni Bilaterali e Contesto Mediterraneo. Le relazioni tra Italia e Tunisia sono profondamente radicate nel contesto mediterraneo, caratterizzato da interessi comuni in vari settori, tra cui migrazione, energia, economia e dialogo con l’Unione Europea. Le turbolenze politiche ed economiche degli ultimi anni in Tunisia hanno creato sfide significative per i governi italiani e i decisori europei, ma Tunisi rimane un partner strategico sia per Roma che per Bruxelles.

Dossier Migratorio. Il tema migratorio è centrale nei colloqui tra Italia e Tunisia, specialmente dopo l’aumento delle partenze dalle coste tunisine negli ultimi due anni. Nel 2023, oltre 96.000 migranti sono arrivati in Italia dalla Tunisia, un numero triplicato rispetto all’anno precedente. La lotta ai migranti subsahariani in Tunisia, promossa dal presidente Kaïs Saïed, mira a distogliere l’attenzione dalla crisi socioeconomica interna. Gli accordi tra Roma e Tunisi sul controllo dei flussi migratori si basano su una logica di sicurezza, con l’Italia e l’UE che finanziano progetti per arginare i flussi migratori e facilitare i rimpatri.

Sfide Politico-Economiche e Relazioni Internazionali. La Tunisia affronta una perenne instabilità politica ed economica, con dinamiche internazionali complesse. Il paese sta cercando di diversificare le sue relazioni estere, coinvolgendo Russia e Cina, e considera l’adesione ai BRICS. Le relazioni con l’Unione Europea e gli Stati Uniti sono strategiche, specialmente in un contesto di rivalità con la Russia.

Cooperazione Energetica e Commerciale. L’Italia guarda alla Tunisia come a un partner fondamentale nel settore energetico, soprattutto per il gasdotto Transmed che collega l’Algeria all’Italia attraverso la Tunisia. La cooperazione commerciale è forte, con l’Italia che rappresenta il principale partner commerciale di Tunisi. Le imprese italiane sono ben radicate nel paese, contribuendo significativamente all’occupazione e all’economia locale.

Sfide Regionali e Sicurezza. Le relazioni tra Italia e Tunisia sono inserite in un contesto regionale complesso, con influenze di potenze come la Russia e la Cina. La stabilità del Nord Africa è cruciale per la sicurezza europea, e l’Italia è impegnata nel supportare la Tunisia attraverso accordi bilaterali e dialoghi internazionali. La collaborazione tra i due paesi è essenziale per affrontare le sfide comuni e promuovere la stabilità regionale.

In sintesi, il capitolo evidenzia la necessità di un impegno costante e di una strategia integrata per affrontare le sfide.

La Proiezione Futura dei Rapporti Energetici tra Algeria e Italia (di Laura Ponte).

Il capitolo esplora il futuro dei rapporti energetici tra Algeria e Italia nel contesto della guerra in Ucraina e delle conseguenti sanzioni imposte alla Russia. Con l’obiettivo di ridurre la dipendenza energetica dalla Russia, l’Italia ha cercato di diversificare le sue fonti di approvvigionamento energetico, puntando in particolare sull’Algeria, che è diventata un partner strategico fondamentale.

Contesto Storico e Relazioni Energetiche.Storicamente, le relazioni energetiche tra i due paesi sono solide, risalenti agli anni ’50 e ’60, quando Enrico Mattei sostenne il percorso di liberazione nazionale dell’Algeria, culminato con l’indipendenza del 1962. Questo ha portato alla firma del primo contratto di fornitura di gas nel 1973, stabilendo una lunga collaborazione energetica.

Sforzi Recenti e Progetti Futuri. Recentemente, gli sforzi italiani si sono intensificati per aumentare le importazioni di gas algerino e ridurre quelle russe. L’Italia ha firmato numerosi contratti con l’Algeria per aumentare la capacità di esportazione di gas, sia tramite gasdotti che GNL (gas naturale liquefatto). Nel 2022, Sonatrach ha incrementato le esportazioni di gas verso l’Italia, con l’obiettivo di raggiungere 9 miliardi di metri cubi all’anno entro il 2024.

Sfide Politiche e Tecniche. Nonostante le prospettive positive, esistono criticità sia politiche che tecniche. Politicamente, l’Italia ha scelto di non comprare gas dalla Russia a causa della sua inaffidabilità come partner commerciale. Tuttavia, l’Algeria è anch’essa considerata un paese “non libero” dal Freedom House, con bassi standard democratici, limitata trasparenza elettorale, corruzione e repressione delle proteste.

Possibili Rischi Geopolitici. C’è il timore che l’instabilità politica in Algeria possa influenzare i rapporti energetici, come già successo con la Spagna riguardo alla disputa del Sahara Occidentale. Inoltre, l’Algeria mantiene buone relazioni con la Russia, cooperando attivamente nel settore militare ed energetico, il che potrebbe complicare ulteriormente le dinamiche geopolitiche.

Progetti Integrativi e Energie Rinnovabili. Per mitigare i rischi e aumentare la sostenibilità, sarebbe utile che la cooperazione energetica tra Italia e Algeria includa anche le energie rinnovabili. L’Algeria ha il potenziale per diventare leader nella produzione di energia solare ed eolica, grazie al deserto del Sahara. Progetti come il South H2 Corridor, che collegherà l’Algeria alla Germania, potrebbero essere cruciali per trasformare l’Italia in un hub energetico, riducendo al contempo la dipendenza dai combustibili fossili.

Conclusioni. Il futuro dei rapporti energetici tra Algeria e Italia appare promettente ma non privo di sfide. La diversificazione delle fonti di approvvigionamento e l’inclusione delle energie rinnovabili sono passi fondamentali per garantire la sicurezza energetica e la sostenibilità a lungo termine.

“Nato e Ue al cospetto della crisi libica: dall’apice al tramonto del «crisis management» occidentale?” (di Stefano Marcuzzi).

Il capitolo analizza la gestione e le conseguenze della crisi libica da parte di Nato e Unione Europea, evidenziando i fallimenti e le lezioni apprese.

Contesto della crisi. Nel marzo 2011, una coalizione di paesi sotto l’ombrello dell’ONU e guidata militarmente dalla Nato lanciò una campagna aerea contro il regime di Gheddafi in Libia per fermare la repressione violenta contro i civili. Nonostante la caduta di Gheddafi e il collasso del suo regime, la Libia è rimasta intrappolata in una crisi pluridecennale, caratterizzata da conflitti interni ed esterni, che hanno visto la partecipazione di attori regionali e globali come Russia, Turchia, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Francia e Arabia Saudita​.


Hezbollah: next stop? Il rischio di una guerra con Israele. Il commento di C. Bertolotti

di Claudio Bertolotti

Dall’intervento di Claudio Bertolotti a SKY TG24 MONDO, ospite di Roberto Tallei (Puntata del 19 giugno 2024, h. 19.20.

L’intervento di C. Bertolotti a SKY TG 24, ospite di Roberto Tallei:
LINK ALLA PUNTATA Sky Tg24 Mondo, la puntata del 20 giugno | Video Sky

Quali differenze possiamo rilevare tra la guerra a Gaza e un’eventuale guerra in Libano?

Possiamo considerare i due conflitti, quello combattuto a Gaza e quello ipotetico contro Hezbollah molto differenti. Il primo, quello di Gaza si inserisce in un contesto politico-sociale e religioso omogeneo dove Hamas, di fatto governa un popolo e un territorio. In Libano, al contrario, abbiamo un attore, Hezbollah, che rappresenta una delle minoranze che compongono il Paese e che potrebbe doversi scontrare – in caso di guerra con Israele – anche con i competitor interni, dai gruppi di potere sunniti a quelli cristiani. Insomma, a Gaza l’ipotesi peggiore è quella di una guerra urbana e sotterranea, così come la stiamo osservando da 8 mesi, che potrebbe trasformarsi in guerra insurrezionale. E questo sarebbe lo scenario peggiore per Israele. In Libano, al contrario, lo scenario peggiore è quello della guerra civile, dove Hezbollah potrebbe dover affrontare anche uno o più fronti interni oltre a quello con Israele aprendo così all’ipotesi di un allargamento regionale del conflitto.

Israele ha le forze per tenere aperti entrambi i fronti?

Ha le forze, la capacità militare e la dottrina strategica israeliana prevede l’organizzazione e la struttura adeguata per gestire un’escalation orizzzontale che preveda la partecipazione di tutti i competitor a livello regionale: dai piccoli eserciti di Hezbollah e Hamas, allo scontro aperto con l’Iran. Essere preparati a farlo impone però un sostegno indiscusso e costante da parte statunitense. Un sostegno che lo stesso Biden ha dimostrato di non voler far venire meno e che un’ipotetica amministrazione Trump non avrebbe difficolatà a garantire.

Netanyahu in polemica con gli USA per mancata fornitura di alcune armi. Quanto Israele dipende dagli USA?

le Forze di Difesa Israeliane sono una delle forze armate più capaci ed efficaci del mondo, ma dipendono in maniera rilevante dalle armi statunitensi, a partire dalle armi individuali, fucili leggeri, al rifornimento di bombe aeree di precisione, colpi di artiglieria, motori dei carri armati, il sistema di difesa aerea Iron Dome, fino agli aerei F-35. Di fatto è un contributo strategico, senza il quale Israele non può condurre una campagna militare estesa nello spazio e nel tempo.

Hezbollah come è equipaggiato? E’ perseguibile l’obiettivo di cancellare Hezbollah?

Miglior esercito di fanteria leggera a livello regionale, dopo quello israeliano ovviamente. Con una prolungata esperienza di guerra in Siria al fianco del regime di Bashar al-Assad e delle Guardie rivoluzionarie iraniane. Conta circa 20.000 effettivi e altrettanti miliziani part-time e un arsenale con più di 100.000 tra razzi e missili con cui minaccia Israele. È una minaccia, si, ma non esistenziale per lo stato di Israele, almeno sul piano militare.

Finora Nasrallah, il leader di Hezbollah, abbaia ma non morde. Perché?

È il timore di uno scontro diretto con Israele e il rischio di precipitare il Libano in una guerra civile, dove potrebbe trascinare i gruppi politico-religiosi libanesi in uno scenario simile a quello degli anni 80, ossia quello di una guerra civile devastante che potrebbe portare alla fine dello stesso Stato libanese così come lo conosciamo oggi, basato su precari equilibri interni a rischio di collasso.

Un eventuale conflitto con Hezbollah sarebbe la pietra tombale sul possibile accordo per il cessate il fuoco a Gaza?

Non è detto. E comunque l’ipotesi potrebbe non incidere sulla volontà di Hamas di proseguire il conflitto; questo perché il gruppo palestinese non vuole nessun accordo, così come dimostrato sino ad oggi, nei fatti e nelle parole dei suoi leader politico-militari – da Sinwar a Haniyeh.

Al contrario, è vero che un maggior impegno militare potrebbe indurre Israele a concedere qualcosa di più in caso di dialogo negoziale, ma a fare gli accordi occorre essere in due e le posizioni, nonostante le ultime aperture israeliane, sembrano abbastanza definite da parte di Hamas che, coerentemente con la sua storia e i suoi obiettivi, perseguirà lo scopo principale: indebolire Israele per mirare alla sua distruzione.


Hostile Environment First Aid Training: il War Report Training Camp dedicato a fotografi e inviati di guerra

Anche quest’anno torna il War Reporting Training Camp, il corso HEFAT (Hostile Environment First Aid Training) che dal 2015 si occupa di formare gli operatori dell’informazione in aree di crisi. Un training creato da fotografi e giornalisti con esperienza ventennale nelle aree più calde del mondo e che, nel corso del tempo, si è arricchito di professionisti provenienti da differenti settori.

lI corso si svolgerà dal 10 al 14 luglio a Poggio Mirteto, in provincia di Rieti, su un terreno di circa 35 ettari immerso nelle campagne laziali. Un addestramento multidisciplinare che spazia dalla medicina di guerra alla gestione psicologica dello stress, dal diritto internazionale umanitario alla cybersecurity, passando per le manovre salvavita in ambiente tattico, la conoscenza della cartografia e tanto, tanto altro ancora.

Un corso full immersion di 5 giorni, suddiviso tra pratica e teoria, in cui saranno presenti anche collegamenti con chi la guerra la vive veramente (come i soldati di una unità droni dell’esercito ucraino, che spiegheranno le nuove tecnologie sul campo di battaglia) e durante il quale verranno illustrate anche le tecniche di disinformazione, guerra ibrida e propaganda dai massimi esperti italiani del settore. Con noi Croce Rossa Italiana, il Club Alpino Italiano e i paramedici svizzeri di Hunpa, appena rientrati da una missione umanitaria in Ucraina.

Durante il training si terrà anche un panel dedicato a etica e giornalismo in zona di guerra con Riccardo Venturi (World Press Photo 2011), Micol Flammini, (inviata del ‘Foglio’) e Cristiano Tinazzi (giornalista freelance, radio/tv producer per Rsi e Today.it). Per informazioni www.imagopress.it


IL RAN: ieri, oggi e domani. La rete europea per le pratiche di prevenzione e l’Italia: un bilancio tra luci ed ombre

di Luca Guglielminetti, RAN Ambassador for Italy

QUESTO ARTICOLO APPARIRÀ NEL RAPPORTO #REACT2024 SUL TERRORISMO E IL RADICALISMO IN EUROPA, ATTUALMENTE IN CORSO DI LAVORAZIONE. VIENE QUI ANTICIPATO IN OCCASIONE DELLA CHIUSURA DELLE ATTIVITÀ DEL RADICALISATION AWARENESS NETWORK (RAN).

Quest’anno terminerà l’attività del “Radicalisation Awareness Network – RAN”, la rete europea per le pratiche di prevenzione istituita nel 2011 della DG Home della Commissione Europea, che sarà sostituito dall’ “EU Knowledge Hub on Prevention of Radicalisation”. È quindi tempo per un bilancio di questa esperienza, in particolare nel nostro paese, e di aprire un dibattito sul futuro e il consolidamento di queste politiche e pratiche atte a prevenire e contrastare la radicalizzazione che porta all’estremismo violento e al terrorismo (P/CVE). Politiche e pratiche che implicano una impegnativa e fattiva collaborazione tra attori, ambiti e approcci diversi, come quelli della sicurezza e della resilienza, della repressione e della costruzione di fiducia, della segretezza e della trasparenza, della giustizia retributiva e di quella riparativa, delle istituzioni statali e della società civile, delle autorità nazionali e di quelle locali, dei mass-media e dell’accademia, degli ex terroristi e delle vittime. Esemplificativi binomi che già singolarmente rappresentano delle sfide tutt’altro che risolte e che talvolta, in tutta Europa, hanno indotto dispute, anche aspre, verso queste politiche e pratiche. Tuttavia, almeno le pratiche di P/CVE, sono ormai sedimentate anche in Italia. Il punto è se in futuro si riuscirà a passare dall’attuale stato di frammentazione a quello di una loro valorizzazione strategica.

1. COSA È IL RAN

Poiché l’Italia, come vedremo nel secondo capitolo, è uno di pochissimi Stati Membri dell’Unione Europea (EU) a non aver adottato una strategia o una legislazione nazionale in materia di P/CVE, è opportuno iniziare presentando cosa sia e come funzioni il Radicalisation Awareness Network (RAN), a beneficio di chi non lo conoscesse[1].

Il Radicalization Awareness Network, in breve RAN, è una rete europea orientata alla pratica per la prevenzione dei fenomeni di estremismo violento e terrorismo con oltre 6.000 partecipanti. Il RAN è stato lanciato nel 2011 dalla Commissione Europea ed è da questa finanziata al 100%. Dal punto di vista organizzativo, ha sede presso il Dipartimento per la Migrazione e gli Affari Interni (DG HOME) della Commissione Europea, ma la sua attività è implementata e coordinata, per conto della Commissione EU, da un consorzio che ogni 4 anni è stato rinnovato con gara d’appalto.

Lo scopo delle varie attività e offerte dal RAN è quello di creare reti e scambiare informazioni tra esperti provenienti da diversi settori della pratica di prevenzione e da diversi paesi per prevenire e combattere l’estremismo violento. L’obiettivo è raccogliere conoscenze empiriche e pratiche, insieme a nuove scoperte scientifiche, e renderle disponibili agli operatori professionali, attraverso i seguenti nove gruppi di lavoro:

Comunicazione e narrazioni (RAN C&N) è focalizzato sugli sviluppi e le tendenze nella comunicazione estremista online e offline, nonché sui modi per contrastarle

Gioventù ed educazione (RAN Y&E) è incentrato sul rafforzamento degli insegnanti e del settore dell’istruzione nella gestione della radicalizzazione

Riabilitazione (RAN REHABILITATION) si concentra sui programmi di deradicalizzazione e di uscita, nonché sui servizi di risocializzazione all’interno e all’esterno del carcere

Famiglie, comunità e assistenza sociale (RAN FC&S) affronta il modo migliore per sostenere i giovani, le famiglie e i gruppi etnici o religiosi che si trovano ad affrontare la radicalizzazione o che potrebbero essere particolarmente vulnerabili

Autorità Locali (RAN LOCAL) è focalizzato sullo scambio di approcci e strategie che coinvolgono diversi attori locali che perseguono il coordinamento della prevenzione nella sicurezza urbana

Carcere (RAN PRISONS) è incentrato sull’analisi dell’impatto dei sistemi carcerari, dei programmi di reinserimento e d’intervento mirati ai terroristi condannati

Polizia e forze dell’ordine (RAN POL) identifica approcci di polizia efficaci, tra cui la formazione, l’uso dei social media e la creazione di fiducia e approcci basati sulle relazioni per lavorare con famiglie, comunità, ambienti e quartieri

Vittime/sopravvissuti al terrorismo (RAN VoT) mantiene una rete di vittime del terrorismo interessate alle attività di P/CVE e organizza la Giornata europea della memoria e del ricordo delle vittime del terrorismo l’11 marzo di ogni anno

• Salute mentale (RAN HEALTH) sensibilizza gli operatori sanitari e sociali sul loro ruolo nell’identificazione e nel sostegno delle persone a rischio di radicalizzazione

La partecipazione ai gruppi di lavoro funziona attraverso pubblici bandi ai quali gli interessati possono candidarsi e la loro selezione avviene sulla base della competenza, dell’esperienza operativa e del paese d’origine. Gli incontri sono sempre interattivi, orientati all’esempio, all’esperienza e alla pratica. Dopo ogni incontro vengono pubblicati i cosiddetti documenti conclusivi con i risultati principali.

Il RAN pubblica non solo i risultati degli incontri ma anche paper che forniscono informazioni sulle novità della ricerca e delle politiche sui temi della radicalizzazione, dell’estremismo, del terrorismo e della prevenzione. In questo modo divulga le conoscenze pratiche, anche attraverso una collezione di pratiche nei vari paesi europei, agli esperti ed operatori, coinvolti o meno nella rete, aiutandoli a migliorare il proprio lavoro.

I focus tematici principali della rete e gli argomenti dei gruppi di lavoro sono sviluppati nel Comitato di Pilotaggio del RAN in combinazione con sondaggi online inviati ai partecipanti e alla all’incontro plenario annuale del RAN.

Nel corso del tempo si sono aggiunte ulteriori articolazione della rete: nel 2016 “RAN Young”, dedicato giovani europei coinvolti delle attività di prevenzione; il “Poll of Experts” per la scrittura dei “RAN papers” e la revisione delle pratiche collezionate; il programma CSEP indirizzato a finanziare campagne di comunicazione della società civile per contrastare le propagande estremiste. Nel 2021, è stata creata una seconda sezione della rete, “RAN Policy Support”, dedicata principalmente ai decisori politici e ai responsabili negli Stati membri, differenziandosi da “RAN Practitioners” che ha mantenuto la pregressa natura di rete di operatori professionali che lavorano sul campo. Inoltre, sempre nel 2021, una ulteriore articolazione è costituita da “RAN in the Western Balkans” con l’obiettivo di sostenere la prevenzione della radicalizzazione in una regione particolarmente vulnerabile. Infine, sono stati nominati dei “RAN Ambassador”, per alimentare la conoscenza della rete negli Stati Membri della UE.

Anche la comunicazione del RAN si è sviluppata nel tempo. Dal solo sito web di presentazione con i gruppi di lavoro, i paper e la raccolta di “Inspiring Practices”, si sono aggiunti via via i canali sui principali social network, la newsletter, i video e i podcast, le infografiche, i webinar e una rivista trimestrale, “RAN Spotlight”, che in ogni numero presenta un argomento diverso.

2. IL RAN E L’ITALIA: EVOLUZIONI E PRIME VALUTAZIONI

Questa seconda parte è in gran parte in forma di testimonianza perché il sottoscritto si è trovato, come unico italiano, ad aver seguito il RAN fin dalla sua fase di progettazione, quando cioè la DG HOME stava svolgendo incontri con gli stakeholders nella prima metà del 2011.  Ero allora parte interessata allo sviluppo di questa nuova rete in quando, nei cinque anni precedenti, avevo seguito i lavori di un’altra rete promossa dalla Commissione Europea: quella delle associazioni delle vittime del terrorismo (NAVT)[2].

Nel 2005 le strategie europee di lotta al terrorismo iniziarono a inserire in agenda il tema della radicalizzazione violenta e la sua prevenzione. Queste strategie, e in particolare il Programma di Stoccolma per il periodo 2010-2014[3], pur riconoscendo che le azioni contro la radicalizzazione e il terrorismo rientrano principalmente nelle competenze e le responsabilità degli Stati membri dell’Unione europea, rilevava l’importanza e il valore aggiunto sia di creare una struttura a livello Europeo, sia di sviluppare un ruolo attivo della società civile, delle comunità e amministrazioni locali. Tale struttura prese la forma del RAN che nel settembre 2011 a Bruxelles fu pubblicamente lanciata alla presenza della Commissaria europea per gli affari interni, Cecilia Malmström. Era l’anno dell’incerta Primavera araba, ma in sala era ancora forte l’eco delle stragi di Anders Breivik a Oslo e sull’isola di Utøya.

Nell’occasione fu subito chiaro il principale iato esistente tra paesi europei nell’approccio culturale alla sicurezza. I paesi nordici puntavano sul fatto di prevenire che un individuo giungesse a forme di devianza sociale che lo portasse a diventare un criminale; mentre nei paesi del sud Europa, come il nostro, l’approccio era incentrato sul fatto di prevenire che un certo crimine avvenisse. Fu il Regno Unito e le politiche del suo programma “Prevent”[4], maturato in seguito agli attentati di Londra del 7 luglio 2005, a fornire alla Commissione Europea il know-how per un approccio ‘olistico’ che integrasse la prevenzione della radicalizzazione con la prevenzione dell’atto terroristico.

PRIMO CICLIO: 2012-2015

Nel corso del primo ciclo del RAN, tra il 2012 e il 2015, coordinai, con un collega francese[5], il gruppo di lavoro sulla “voce delle vittime del terrorismo”, partecipando anche agli incontri del Comitato di Pilotaggio, a quelli di altri gruppi di lavoro, alle plenarie annuali e alle due Conferenze di alto livello che allora la DG HOME organizzava per promuovere i risultati del RAN ai decisori politici degli Stati membri della Ue.

Nel corso del primo Comitato di Pilotaggio del RAN, fummo informati che la Commissione Europea avrebbe inserito il tema della prevenzione della radicalizzazione in pressoché tutti i sui programmi e bandi a progetto: da quelli educativi e culturali, a quelli di ricerca e sviluppo, da quelli su sicurezza e giustizia, a quelli per la cittadinanza e la promozione sociale.

Una prima valutazione giunge da questa scelta che fu veramente strategica perché, almeno in Italia, da quel periodo in poi, le opportunità di finanziamento dei bandi europei portò il tema della prevenzione della radicalizzazione all’attenzione di università, di autorità nazionali e locali, e delle organizzazioni della società civile, con una modalità forse più efficace del RAN[6].

L’aspetto certamente più innovativo del RAN fu il suo modus operandi. L’intento della Commissione era quello di far delineare le politiche e le pratiche in materia di P/CVE agli operatori che lavorano sui terreni della prevenzione, tramite i “RAN paper” e la collezione di pratiche del RAN, per poi promuoverli ai vertici politici degli Stati membri in occasione delle conferenze “High Level”. Un circolo virtuoso dal basso verso l’alto per ottimizzare l’efficacia di politiche e pratiche di cui beneficiarono molto paesi europei che in quegli anni si andarono dotando di strategie nazionali in materia di P/CVE.

Il numero di partecipanti italiani al RAN era allora di poche decine, a fronte dei 2000 raggiuti nel primo ciclo in tutta la Ue. Del resto, in quel periodo, lo stesso termine radicalizzazione, nell’accezione qui utilizzata[7], era riservato agli addetti del comparto sicurezza, ma completamente alieno ai mezzi di comunicazione italiani, così come ai nostri decisori politici.  Ciò nonostante, in occasione del seminario finale del primo progetto italiano di prevenzione nelle scuole, “Counter-narrative to Counter-terrorism (C4C)”, che organizzai a Torino del Novembre 2014[8], con gli italiani del RAN provammo a gettare le basi di un “RAN Italia”, stilando un documento e aprendo interlocuzioni con il Ministero della Giustizia, il cui Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria aveva avviato da qualche anno l’attività di formazione del personale penitenziario in tema di radicalizzazione[9]. Il RAN allora offriva, infatti, assistenza e supporto agli Stati Membri della Ue per la creazione di reti nazionali sul tema, dietro semplice richiesta via email di un ministero. Quell’email non fu mai inviata.

SECONDO CICLIO: 2016-2019

Il secondo ciclo del RAN, tra il 2016 e il 2020, sembrò aprire una svolta per l’Italia. Il conflitto siro-irakeno stava raggiungendo il culmine di ripercussioni anche sul terreno europeo, a partire dall’attentato alla redazione di Charlie Hebdo e poi, al suo declino, avrebbe lasciato il gravoso problema dei foreign-fighters e le loro famiglie di ritorno in Europa.

L’eco dell’attentato parigino del 7 gennaio 2015 aprì anche in Italia il tema della prevenzione della radicalizzazione e per la prima volta mi capitò di rilasciare un’intervista sul RAN e i finanziamenti europei relativi. Non penso sia causale il fatto che sia stato il quotidiano cattolico Avvenire a prendere l’iniziativa[10]. Allora non coordinavo più un gruppo di lavoro, ma ero entrato nel Pool di esperti del RAN e il titolo, annunciato dall’occhiello “Gli esperti denunciano”, era: “La Rete Ue anti-radicalismo. Ma l’Italia è in ritardo”[11]. Nell’intervista sottolineai come nel nostro paese il terrorismo restasse una questione solo securitaria di polizia ed intelligence, senza aprirsi all’uso del “soft power” delle politiche europee di P/CVE. Seguirono altre interviste e interventi sui media nazionali, ma questa prima mi condusse a Stefano Dambruoso, a sua volta intervisto nello stesso articolo.

L’allora ex magistrato di prestigio internazionale per la sua inchiesta su al Qaeda in Europa già prima dell’11 Settembre, e parlamentare al lavoro sul nuovo decreto antiterrorismo – poi convertito nella legge 17 aprile 2015, n. 43 – era convito sostenitore che, insieme all’inasprimento penale, servisse far seguire anche il lavoro educativo di prevenzione della radicalizzazione. Convincimento che ebbe esito in una proposta di legge intitolata “Misure per la prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista”[12], di cui fu primo firmatario insieme all’on. Andrea Manciulli.

Nell’estate del 2016 iniziarono parallelamente, da una parte, la discussione e poi le audizioni della proposta di legge Dambruoso-Manciulli alla commissione Affari Costituzionali della Camera; e dell’altra, ad agosto, fu istituita, promossa dall’allora Sottosegretario agli Interni, Marco Minniti, una commissione di studio indipendente sul fenomeno della radicalizzazione jihadista presieduta da Lorenzo Vidino, cioè il primo ricercatore ad aver lavorato sulla dimensione italiana del fenomeno jihadista[13].

Ho avuto occasione di collaborare con entrambe le commissioni e quindi osservare gli eventi da vicino. L’inizio del 2017 si aprì – il 5 gennaio – con la conferenza stampa da Palazzo Chigi del nuovo presidente del Consiglio dei Ministri, Paolo Gentiloni, del ministro agli Interni Minniti e da Lorenzo Vidino che presentarono il risultato dei lavori della Commissione. Il paradosso di quell’operazione è che non ci furono documenti pubblici. La relazione finale della Commissione, che contiene, nella sua seconda parte operativa e per la prima volta in italiano, la descrizione dettagliata delle politiche e degli approcci promosse dal RAN, comprese le poche attività svolte a livello locale dai suoi membri italiani, viene secretata e, i giorni seguenti, venne distribuito per i giornalisti solo un breve sunto assai generico. Si giunse così al paradosso che, mentre la Camera dei Deputati nei mesi a venire avrebbe discusso e approvato una proposta di legge in materia, il documento governativo che avrebbe potuto informare i parlamentari sull’argomento fu loro precluso, essendo stato fatto divieto ai membri della Commissione Vidino di distribuirla a chicchessia, poiché, nella sua prima parte, conteneva dati ministeriali riservati.

Come noto, la proposta di legge Dambruoso-Manciulli fu approvato solo alla Camera dei Deputati e la fine di quella legislatura avvenne poco prima della sua approvazione al Senato. Nella legislatura successiva (2018-2022), il testo riproposto a prima firma dell’on. Fiano nel 2018 – poi unificato ad analoga proposta a firma dell’on. Perego di Cremnago nel testo unificato: “Misure per la prevenzione dei fenomeni eversivi di radicalizzazione violenta, inclusi i fenomeni di radicalizzazione e di diffusione dell’estremismo violento di matrice jihadista (A.C. 243​-3357-A)[14] – non ebbe miglior fortuna.

L’esito delle vicende legate a queste proposte di legge è stato quello di rendere l’Italia uno dei pochissimi paesi europei senza una legislazione nazionale o una strategia in materia di prevenzione della radicalizzazione. Tuttavia, il dibattito intorno a quel tentativo si è fin da subito posto, tra gli addetti ai lavori, in termini di merito. La proposta di legge aveva dei limiti, a partire dal parziale recepimento dei risultati della Commissione Vidino, che inducevano alcuni, tra i quali il sottoscritto, a domandarsi se la sua approvazione fosse utile o meno. Uno dei limiti principali era il fatto che il testo fosse focalizzato solo sulla radicalizzazione di matrice jihadista[15]. Il secondo che avesse comunque un impianto securitario che ancorava le attività al Ministero degli Interni e alle Prefetture in sede locale; quando, in quasi tutta Europa, il perno operativo delle attività di P/CVE più efficaci erano le autorità locali, a partire dal famoso modello della città danese di Aarhus, per passare alle “safety-house” delle città olandesi, o ai centri di prevenzione dei lander tedeschi e quelli cittadini di Belgio e Regno Unito. Fu da questa considerazione, e dall’impasse nel 2014 di avviare una rete nazionale (“RAN Italia”) con i ministeri, che nel 2016 ebbero origine i tentativi di avviare delle reti di prevenzione locali nelle città di Torino, Milano ed Udine da parte dei partecipanti italiani del RAN. Delle tre città solo a Torino, dopo alcuni anni di incontri informali tra amministrazione cittadina, forze dell’ordine, amministrazione penitenziaria e organizzazioni della società civile, si giunse nel 2020 all’istituzione di un Tavolo di lavoro sulla prevenzione degli estremismi violenti e all’approvazione di linee guida operative[16] che seguivano gli approcci del RAN.

I quegli anni l’attenzione sui temi si diffuse, come già sottolineato, grazie soprattutto ai progetti europei, condotti o partecipati da partner italiani, nei vari ambiti di prevenzione della radicalizzazione: dalle scuole alle carceri; dai settori della sicurezza urbana, a quelli della resilienza delle comunità religiose; dallo sviluppo di campagne di comunicazione contro la propaganda on line, a quello delle competenze alla cittadinanza delle nuove generazioni. L’esito di questi progetti europei, oltre a un moltiplicarsi di convegni, seminari e pubblicazioni anche in lingua italiana[17], è stato un’ampia attività di formazione verso i tutti settori coinvolti nel fenomeno: le polizie locali, i docenti delle scuole, gli attivisti e i volontari del terzo settore, gli operatori penitenziari, i garanti dei diritti dei detenuti, le guide spirituali religiose.

Ci fu poi un incremento significativo di partecipanti italiani al RAN e quando nel 2016 viene lanciato “RAN Young”, il sottoscritto può segnalare decine di giovani italiani interessati a parteciparvi.

Anche l’ambito accademico italiano sviluppò un interesse per il tema sempre più ampio. Nascono alla fine dello scorso decennio due master universitari a Bergamo e Bari focalizzati sui fenomeni di terrorismo e radicalizzazione[18]. Sia i progetti europei del programma Horizon che quello del Ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca, come PriMED[19], avvicinano decine di professori e ricercatori di diverse discipline alle riflessioni e alle pratiche di prevenzione e contrasto della radicalizzazione.

TERZO CICLIO: 2020-2023

Il terzo ciclo del RAN, tra il 2020 e il 2023, è stato caratterizzato principalmente dallo sviluppo degli strumenti di comunicazione esterna del RAN e dalla creazione del secondo ramo dedicato al supporto ai decisori politici. Naturalmente sono entrati in agenda i nuovi temi legati alle forme di radicalizzazioni connesse alla pandemia da Covid19 e le relative derive estremiste, populiste e antisistema dalle cornici ideologiche sempre più fluide.

Il numero di partecipanti, anche italiani, è continuato a crescere, ma molti incontri si svolgevano ormai a distanza via “call-conference”, con una minore efficacia in termini di networking. Inoltre, la separazione troppo netta tra le attività dell’ambito operativo (“RAN Practitioners”) e quello politico (“RAN Policy Support”) creava uno iato di comunicazione e coordinazione piuttosto controproducente. In questo quadro è significativo il cortocircuito verificatosi con l’introduzione nel 2020 dei “RAN Ambassadors” per alcuni Stati membri. Selezionati, come il sottoscritto per l’Italia, tra i “practitioners” per diffondere i risultati del RAN, ma inabilitati a mantenere relazioni con il contesto politico-istituzionale nel proprio paese.

Infine, l’esempio torinese del Tavolo di lavoro e delle Linee guida per un approccio locale alla P/CVE, ufficializzato nel 2020, non diventerà mai operativo per mancanza di fondi.

3.VALUTAZIONI FINALI E PROSPETTIVE

UN KNOW-HOW A RISCHIO

Abbiamo visto come le politiche europee in materia di prevenzione e contrasto all’estremismo violento abbiano avuto due strumenti principali: il RAN e i programmi con i loro bandi di finanziamento a progetti.

Oltre quanto già evidenziato in termini di ricadute sul nostro paese, vanno considerate e valutati ancora alcuni aspetti cruciali relativi allo scarso impatto che i progetti europei hanno avuto in Italia. Infatti, il profluvio di fondi sul tema nei vari programmi europei ha certamente permesso una buona disseminazione delle tematiche di P/CVE tra i vari stakeholders italiani. Tuttavia, lo scarso impatto dei risultati espressi dalla maggior parte di tali progetti si presta a diverse valutazioni a più livelli. In generale, il limite maggiore alla possibilità di produrre un impatto duraturo, risiede sicuramente nel vulnus creato dall’assenza di legislazione o strategie nazionali. Infatti, come evidenziato fin del 2019[20], il carattere pilota delle esperienze e dei risultati pratici o teorici dei progetti europei in Italia restava tale perché non si potevano evolvere, come un’economia di scala, in politiche e programmi di sistema. Quanto, allora, resta come dato inconfutabile è il fatto che la formazione di centinaia di operatori e ricercatori italiani nei vari ambiti della P/CVE, durante lo scorso decennio, sia un know-how che rischia di restare in gran parte svilito, privo di prospettive e valorizzazione.

IL MONDO CATTOLICO

Il ruolo del mondo cattolico italiano e il suo interesse per la P/CVE, a cui ho accennato in merio alla mia prima intervista sul RAN ad Avvenire, merita una valutazione particolare perché esso ha sempre svolto un ruolo nelle vicende di terrorismo fin dagli anni di piombo, seppur sottotraccia e poco studiato[21]. Come avevo potuto osservare durante la mia quindicennale collaborazione con l’associazionismo delle vittime del terrorismo, la chiesa e il mondo cattolico si erano sostanzialmente disinteressata a loro, con l’eccezione del Cardinal Martini, per oltre trent’anni, per concentrarsi sulla salvezza dei terroristi, cioè sul loro percorso riabilitativo passato per la riforma Gozzini e la cosiddetta ‘legislatura premiale’. Un percorso che di fatto anticipava il concetto di deradicalizzazione, come osserva Dambruoso: “…è bene precisare che il primo timido tentativo di formalizzare il concetto giuridico di deradicalizzazione risale alla legge 18 febbraio 1987, n. 34, incentrata sulla disciplina delle condotte di dissociazione dal terrorismo, definite all’articolo 1 come «il comportamento di chi, imputato o condannato per reati aventi finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale, ha definitivamente abbandonato l’organizzazione o il movimento terroristico o eversivo cui ha appartenuto, tenendo congiuntamente le seguenti condotte: ammissione delle attività effettivamente svolte, comportamenti oggettivamente e univocamente incompatibili con il permanere del vincolo associativo, ripudio della violenza come metodo di lotta politica»”[22].

Come è risultato poi chiaro dalla prime ricerche scientifiche in merito, l’interesse all’uscita degli anni di piombo fu centrale per il mondo cattolico «per promuovere il disimpegno dal terrorismo e nell’influenzare le politiche pubbliche in questo settore»[23], così come completo il disinteresse per le vittime[24].

Nel 2016 la situazione era decisamente cambiata. Il primo decennio del XXI secolo aveva sancito la centralità alle vittime del terrorismo nel discorso pubblico. Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, aveva favorito un compromesso tra le vittime del terrorismo rosso e nero, intorno alla figura di Aldo Moro e la data del 9 Maggio, per celebrare il Giorno della Memoria[25]. Inoltre, nel 2015 era uscito, con vasta eco, il Libro dell’incontro[26]: il resoconto dell’esperienza del gruppo composto da vittime, ex terroristi e mediatori, patrocinata dalla chiesa e dall’università cattolica milanese, che diventerà il testo d’innesto all’introduzione della giustizia riparativa in Italia, fino alla recente riforma Cartabia in materia di mediazione penale[27].

Questo sintetico excursus ritengo spieghi come il fatto che le vittime del terrorismo siano state le prime a introdurre in Italia delle attività esplicitamente indirizzate alla prevenzione della radicalizzazione violenta[28], abbiano attirato l’interesse del mondo cattolico. Dai terroristi dissociatisi dalla lotta armata che si riabilitavano e ‘deradicalizzavano’ attraverso l’impegno sociale nelle organizzazioni del volontariato cattolico, e non solo, dalla metà degli ’80 del XX secolo, si stava integrando un paradigma nei quali erano presenti anche le vittime che si impegnavano sul terreno educativo per prevenire il formarsi di nuovi terroristi e che dialogavano con gli ‘ex’ per provare a riparare e restaurare relazioni riumanizzate e pacificate[29].

Inoltre, tra i molti progetti che ho potuto osservare o analizzare da vicino, non posso qui non citare quella ‘best practice’ nella prevenzione secondaria – indirizzato ai detenuti mussulmani nella Casa circondariale “Dozza” di Bologna – intitolata “Diritti, Doveri, Solidarietà”. Ideata da Ignazio De Francesco – monaco della Piccola Famiglia dell’Annunziata e fine islamologo, con l’appoggio dell’Assemblea legislativa della regione Emilia-Romagna e del Garante dei detenuti[30] – è probabilmente quando di meglio il mondo cattolico abbia espresso in termini progettuali nelle pratiche di P/CVE nello scorso decennio[31].

POLITICHE FRAMMENTATE

Occorre ora precisare cosa abbia inteso nello scrivere mancanza di una strategia nazionale di P/CVE. Al netto del fallito percorso della proposta di legge Dambruoso-Manciulli, nel 2017, presentando alla stampa la relazione della sua commissione, Lorenzo Vidino dichiarava che: «la comunità dell’antiterrorismo ha capito che un approccio basato solo sulla repressione non è più sufficiente», occorre affiancargli «strumenti di prevenzione, misure soft che vanno a prevenire processi di radicalizzazione in fase embrionale»[32]. Parole che non rimasero senza conseguenze.

Se non una vera e propria strategia, almeno dal 2016 furono attivate alcune iniziative istituzionali lungo tre linee d’intervento: quella delle contro-narrative, quella educativa nelle scuole e quella di deradicalizzazione di singoli soggetti. Al netto dell’attività del Ministero della Giustizia, e il suo Dipartimento d’Amministrazione Penitenziaria (DAP), che continuava a implementare le attività di formazione del personale penitenziario, da una parte, e ad affinare gli strumenti di valutazione del rischio radicalizzazione nella popolazione incarcerata, dall’altra, come nei progetti europei “Rasmorad” e “Train Training”, si sono potute osservare le seguenti iniziative:

1)  quelle della RAI, come del resto prevedeva la proposta di legge, che ha prodotto una serie di servizi di approfondimento relati al mondo islamico e carcerario, con una funzione di contro-narrativa verso il vittimismo della propaganda jihadista[33];

2) quelle dell’Ufficio Regionale Scolastico della Lombardia che, con il programma di formazione verso gli insegnati e gli studenti dei poli scolastici di quella regione oggi intitolato “Educazione alle differenze nell’ottica della prevenzione e contrasto ad ogni forma di estremismo violento”, dal 2016 a oggi ha sistematicamente implementato con continuità nelle scuole tale attività di prevenzione primaria[34];

3) quelle di deradicalizzazione, cioè di prevenzione terziaria, che sono state presentate nel numero speciale sul tema del 2018, della rivista dell’intelligence italiana Gnosis, con i primi due casi italiani a Bari e a Trieste, che prefigurano una forma di collaborazione tra l’organo istituzionale preposto all’“Analisi Strategica Antiterrorismo”, il C.A.S.A., e due realtà della società civile: la cooperativa sociale Exit e l’università di Bari.

Sicuramente, sul delicato terreno della deradicalizzazione, ci sono state altre iniziative con esiti incerti o inconclusi, in particolare quelle verso soggetti detenuti nei circuiti di alta sicurezza. Inoltre, nel quado della prevenzione primaria, l’amministrazione penitenziaria si è distinta con l’iniziativa pilota d’introduzione degli imam nelle carceri italiane per garantire il culto ai detenuti mussulmani e così prevenendo un pretesto di vittimizzazione che poteva portare questi a radicalizzarsi. L’accordo tra il DAP e UCOII del 2015[35], e la collaborazione con altre comunità islamiche italiane, è un buon esempio di prevenzione primaria e del carattere frammentato delle iniziative istituzionali messe in campo negli ultimi anni. Il limite, in questo caso, non è costituito tanto dall’assenza di strategie di P/CVE, quanto dall’assenza di una intesa tra lo Stato italiano e le comunità islamiche che definisca un ampio quadro di diritti e doveri reciproci, come avviene per le altre comunità religiose; e di rispetto dei diritti minimi previsti dalla Convezione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) nelle carceri italiane[36].

L’APPROCCIO MULTIAGENZIA E LA SOCIETÀ CIVILE

Si può aggiungere che nel corso di questa fioritura di pratiche di P/CVE in Italia, tra quelle europee, quelle nazionali e quelle locali, tra quelle promosse da enti istituzionale e quelle promosse dalla società civile, ci siano state forme di competizione o di mancata collaborazione che hanno non solo contribuito a creare un quadro frammentato, ma soprattutto hanno limitato quello che nelle politiche europee del RAN viene chiamato approccio multi-agenzia. Cioè una collaborazione fattiva tra gli stakeholder che, in queste pratiche, afferiscono ad ambiti diversi, così come diversi sono gli approcci utilizzati e, pure, le loro competenze e responsabilità. Mentre la comunità dell’antiterrorismo ha una lunga e sedimentata collaborazione tra i suoi elementi (governo, forze dell’ordine, intelligence, magistratura e amministrazioni penitenziarie); l’attività di prevenzione della radicalizzazione determina un setting multi-agenzia allargato ai sistemi educativi formali e informali, il welfare pubblico e privato, le comunità e le autorità locali. L’intento della proposta di legge italiana, infatti, per usare le parole di Dambruoso, era quello: «di trovare una risposta al terrorismo che coniughi misure repressive e un approccio preventivo di collaborazione con attori della società civile e con le comunità di riferimento»[37].

Il ruolo delle società civile nelle pratiche di P/CVE è stato uno dei fulcri delle politiche del RAN e, non a caso, la grande maggioranza dei circa 150 partecipanti italiani ai lavori del RAN è sempre giunta dal terzo settore[38], erede di quelle organizzazioni caritatevoli del volontariato cattolico che, fin dal XIX secolo, in Italia si prendevano cura della marginalità sociale provocata della nascente industrializzazione. Un ruolo, quello delle organizzazioni della società civile, focalizzato su una cura della devianza sociale basata sulla (ri)costruzione di relazioni sociali fiduciarie[39].

Così, soprattutto intorno alla prevenzione terziaria di un fenomeno come il processo di radicalizzazione violenta che ha come esito reati di terrorismo, il setting allargato multi-agenzia può ben riflettere visioni e funzioni non facilmente conciliabili: come quelle tra le esigenze delle autorità statali competenti a prevenire gli attacchi terroristici attraverso il sistema penale e repressivo, da una parte; e quelle della società civile e delle istituzioni socio-educative competenti alla riabilitazione dell’ex terrorista – la funzione costituzionalmente definita ‘rieducativa’ della pena, e quanto nell’ambito della P/CVE è stato definito di volta in volta ‘deradicalizzazione’, ‘disimpegno’ o ‘uscita’ – dall’altra.

Si può quindi dire che l’approccio multi-agenzia delle politiche e pratiche promosse dal RAN sottende implicitamente un lungo elenco di sfide, che ripercorre le dicotomie presenti nella storia della criminologia, della giurisprudenza e, in ultima analisi, di tutte le scienze umane in merito alla riformabilità o meno dalla natura umana, la possibilità o meno che questa possa essere preventivamente educata o ex-post redenta. Alle quali si aggiungono le sfide relative al delicato equilibrio tra i doveri di repressione e controllo della sicurezza dello Stato, da una parte, e le libertà e i diritti civili degli individui, dei gruppi o dei movimenti sociali, dall’altra.

Il passaggio quest’anno dal RAN al “EU Knowledge Hub on Prevention of Radicalisation”, sicuramente manterrà l’approccio multi-agenzia e mi pare capire, dalla documentazione disponibile, che tra i suoi intenti più rilevanti ci sia quello di saldare gli ambiti degli operatori professioni con quello dei decisori politici e della ricerca scientifica, le cui pregresse separazioni ha probabilmente nuociuto all’efficacia del RAN. In ogni caso, quest’anno si aprirà una fase nuova in Europa verso la quale gli stakeholder italiani sono chiamati a riflettere e confrontarsi.

Per concludere. La lezione del RAN è in qualche modo erede della ‘exit strategy’ italiana dagli anni di piombo. Se allora la fase repressiva di inasprimento penale fu seguita da quella premiale di riabilitazione[40], la sfida sottesa alla proposta del RAN è quella di costruire un percorso non diviso in fasi successive, ma parallele e concomitanti, attraverso le quali provare a costruire un equilibrio tra necessità dicotomiche. Un’antinomia o un gioco cooperativo[41] che è certamente una sfida da accettare se si vuol valorizzare il patrimonio di esperienze e di know-how italiano cresciuto nel nostro paese in questi anni, per giungere a una strategia, magari flessibile, ma non più frammentata. Non dimentichiamo mai che tali politiche e pratiche hanno al centro la coesione delle comunità e la convivenza pacifica del nostro tessuto sociale. Inoltre, scommettere sulla prevenzione è anche economicamente più sostenibile che non gestire future emergenze con lunghe e tragiche conseguenze.


[1] Per approfondire quanto segue, si veda il sito web del RAN, https://home-affairs.ec.europa.eu/networks/radicalisation-awareness-network-ran_en

[2] Tale network era nato a seguito di quello che resta il maggior attentato terrorista sul suolo europeo a Madrid l’11 marzo 2004 e dell’attenzione che seguì da parte delle istituzioni europee verso le vittime del terrorismo, in particolare quella dell’allora Commissario europeo alla Giustizia, Libertà e Sicurezza, Franco Frattini.

[3] Si veda il capitolo “4.5. Terrorismo” del programma: https://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:C:2010:115:0001:0038:it:PDF

[4] Parte integrata della sua strategia per contrastare il terrorismo (CONTEST). Si vedano le varie versioni di CONTEST a partire dal 2011: https://www.gov.uk/government/publications/counter-terrorism-strategy-contest

[5] Guillaume Denoix de Saint Marc, in rappresentanza delle due associazioni l’italiana AIVITER e la francese AfVT.

[6] Lo scarso impatto del RAN in Italia di quel periodo è addebitabile all’allora debole comunicazione esterna del RAN, ma anche della scarsa attenzione dei vertici ministeriali italiani inviatati alle “High Level Conference”.

[7] Termine che in verità è sempre rimasto oggetto di dispute sul significato. Qui è inteso come processo cognitivo/comportamentale e sottende (anche se omesso) l’aggettivazione “violenta”.

[8] Si vedano articoli, relazioni e materiali del progetto C4C promosso da AIVITER qui: https://hommerevolte2.blogspot.com/search/label/C4C e qui https://www.vittimeterrorismo.it/?s=C4C

[9] Nella dimensione formativa del suo personale penitenziario e nel monitoraggio del proselitismo tra la popolazione carceraria. Si veda: Cascini F. (2012). Il Fenomeno del proselitismo in carcere con riferimento ai detenuti stranieri di culto islamico, in “La radicalizzazione del terrorismo islamico. Elementi per uno studio del fenomeno di proselitismo in carcere”, Quaderni ISSP n. 9 (giugno 2012)

[10] Sul tema torno nella parte nelle conclusioni del cap.3 sul mondo cattolico.

[11] Si veda il testo dell’articolo di Avvenire del 15 gennaio 2015 a firma Vincenzo R. Spagnolo qui: https://hommerevolte2.blogspot.com/2015/01/europa-ed-italia-di-fronte-al.html

[12] Proposta di Legge 3558 presentata il 26 gennaio 2016.

[13] Vidino L. (2014). Il jihadismo autoctono in Italia. Nascita, sviluppo e dinamiche di radicalizzazione. ISPI

[14] Si veda il Dossier n° 301/2 – Elementi per l’esame in Assemblea 14 marzo 2022: https://documenti.camera.it/leg18/dossier/pdf/AC0367b.pdf

[15] Lo stesso programma ‘Prevent’ fu ampiamente criticato e dibattuto nel Regno Unito in quegli anni per la scelta di limitarsi ad affrontare la sola radicalizzazione jihadista, e fu quindi revisionato per includere altre forme di estremismo violento. Si veda ad es. l’articolo di Luciano Pollichieni su Limes del 2017: https://www.limesonline.com/limesplus/la-miopia-dell-antiterrorismo-di-sua-maesta-14681306/

[16] Si vedano le “Linee Guida del Tavolo di lavoro multi-agenzia della Città di Torino per la prevenzione degli estremismi violenti” elaborata dal Comitato scientifico istituito dalla città di Torino nel 2018 e approvate dal consiglio comunale nel 2020: http://www.comune.torino.it/cittagora/wp-content/uploads/2020/07/Linee-guida-istituzione-tavolo.pdf

[17] Si veda la raccolta di testi dal sottoscritto per gli operatori italiani del RAN: https://drive.google.com/drive/folders/0Bz7ceziVCVmBV0ZkQUJuNU5YMXc?resourcekey=0-A5HTj1-XheJgKyXqOn0pCQ&usp=drive_link

[18] Rispettivamente diretti dal Prof. Michele Brunelli e dalla Prof.ssa Sabrina Martucci.

[19] Si veda https://primed-miur.it/

[20] Berardinelli D., Guglielminetti L. (2018). Preventing Violent Radicalisation: The Italian Case Paradox. In “7th International Conference on Multidisciplinary Perspectives in the Quasi-Coercive Treatment of Offenders (SPECTO)”, pp 28-33, Filodiritto Publisher

[22] Dambruoso S. (2018). Prevenzione e repressione. La via italiana nel contrasto alla radicalizzazione jihadista. In «Gnosis», speciale Deradicalizzazione, edito dall’AISI.

[23] Cento Bull A., Cooke P. (2013). Ibid.

[24] Si vedano in particolare: Galfré M. (2014). La guerra è finita: L’Italia e l’uscita dal terrorismo 1980-1987. Bari: Laterza; e Guglielminetti L. (2017). La percezione sociale delle vittime del terrorismo. In “Rassegna Italiana di Criminologia” (RIC), n. 4, pp. 269-276

[25] In questo caso un percorso parallelo con quanto occorreva nelle politiche europee dopo l’attentato di Madrid del 2004, che porterà l’11 Marzo ad assurgere a giornata europea del ricordo delle vittime del terrorismo.

[26] Bertagna G., Ceretti A., Mazzucato C. (2015), Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto. Milano: Il Saggiatore.

[27] Tra le novità introdotte con il d. lgs. 10 ottobre 2022, n.150, di attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134 (c.d. “riforma Cartabia”) si segnala in particolare l’introduzione di una disciplina organica della giustizia riparativa, contenuta negli artt. 42-67.

[28] Per un quadro esaustivo di quelle attività si veda: Guglielminetti L. (2018). P/CVE, lavorare coi giovani e le vittime del terrorismo: esperienze, criticità e prospettive in Italia. In “The Prevention of Radicalisation of Young People”, European Project “YEIP”

[29] Per un’analisi storica e dettaglia si veda Bull A. (2018). Reconciliation through Agonistic Engagement? Victims and Former Perpetrators in Dialogue in Italy Several Decades after Terrorism. In “Victimhood and Acknowledgement”, De Gruyter

[30] Si veda la descrizione e i due volumi sul progetto qui: https://www.assemblea.emr.it/garante-detenuti/iniziative/progetti/diritti-doveri-solidarieta/diritti-doveri-solidarieta

[31] Per la sua valorizzazione in ambito formativo si veda: Guglielminetti, L. (a cura di) (2019). Stato di diritto e prevenzione dell’estremismo violento: tra politiche e pratiche nei ristretti orizzonti italiani. Progetto “FAIR”, Ravenna: Fondazione Nuovo Villaggio del Fanciullo

[32] Spagnolo R. V. (2017). Terrorismo. «Rischio di radicalizzazione sul web e nelle carceri», Avvenire del 5 Gennaio 2017

[33] Significativa in questo senso la collaborazione dell’allora Direttrice della Direzione Editoriale per l’Offerta Informativa della RAI, Monica Maggioni, con l’ISPI che cura nel 2015 il volume Twitter e jihad: la comunicazione dell’Isis.

[34] Si veda la convenzione tra Regione Lombardia e Ufficio Scolastico Regionale https://usr.istruzionelombardia.gov.it/wp-content/uploads/2023/11/m_pi.AOODRLO.REGISTRO-UFFICIALEU.0005448.10-03-2022-5.pdf

[35] “Protocollo d’intesa per favorire l’accesso di mediatori culturali e di ministri di culto negli istituti penitenziari”, sottoscritto il 5 novembre 2015, tra il ministero della Giustizia, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e l’Unione delle comunità ed organizzazioni islamiche in Italia (UCOII)

[36] Ravagnani L., Romano C. A.  (2017). Il radicalismo estremo in carcere: una ricerca empirica. In “Rassegna

Italiana di Criminologia” (RIC), n. 4, pp. 277-296. Si veda anche Guglielminetti, L. (2019). Ibid.

[37] Dambruoso S. (2018). Ibid.

[38] Dati ricavati del database dei partecipanti al RAN: https://home-affairs.ec.europa.eu/networks/radicalisation-awareness-network-ran/participant-database_en

[39] Si veda il mio contributo nel precedente numero di #REACT 2023 n.4 – Anno 4. Il ruolo delle organizzazioni della società civile nella prevenzione e nel contrasto all’estremismo violento. p. 37-38.

[40] Cento Bull A., Cooke P. (2013). Ibid.

[41] Definizione dal teorico della teoria dei giochi, il matematico statunitense John Nash, citato da De Mutiis C. (2018). Caso di studio. Verso una strategia italiana di prevenzione della radicalizzazione: una sfida globale che si vince a livello locale. Edito dalla Scuola dell’amministrazione dell’Interno.