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Il valore dell’azione ucraina a Kursk: ma la Russia mantiene il vantaggio sul campo

di Claudio Bertolotti

Quella ucraina a Kursk non è un’offensiva né una controffensiva. È un atto tattico che ha permesso alle forze ucraine di prendere temporaneamente l’iniziativa sul campo di battaglia ma che, non potendo essere determinante ai fini della guerra, ha un duplice scopo: il primo alleggerire il fronte sud imponendo alla Russia di spostare e impegnare le proprie riserve altrimenti disponibili sul fronte di Zaporizhzhia– come fatto mesi fa dalla Russia aprendo il fronte di Karkiv –, mentre il secondo scopo è consentire a Zaleski di insistere sul piano politico in un momento di grande difficoltà, tenuto conto della prospettiva presidenziale statunitense del 2025 e del concomitante sostegno di Washington a Israele.

Questo però non significa che sia un atto improduttivo o inutile, al contrario, la Russia è stata così costretta a ripensare lo schieramento delle riserve e ad avviare un processo di pianificazione operativa che preveda la difesa dei confini russi da possibili ulteriori puntate offensive ucraine.

Detto in altri termini: l’operazione di Kursk, per quanto politicamente e mediaticamente rilevante, non cambia gli equilibri al fronte e ci ricorda ancora una volta che in termini di mezzi, uomini e materiali l’Ucraina non ha la capacità di condurre operazioni offensive su larga scala o comunque determinanti ai fini del conflitto.

Perché questo? In primo luogo cominciano a mancare gli uomini al fronte, e l’ipotesi di mobilitazione generale è un dilemma che sta assillando il presidente Zelensky poiché potrebbe rivelare una partecipazione inferiore alle aspettative. In secondo luogo l’aiuto occidentale, in primis statunitense e poi quello europeo, è sempre stato strutturato in modo tale da dare a Kiev lo stretto necessario per difendersi e sostenere il peso della guerra di logoramento russa ma non per cambiarne gli equilibri e dunque non per imporre una sconfitta a Mosca (la cui tenuta statale rimane un punto saldo nel sostegno occidentale all’Ucraina).


Chi è l’ultra radicale Yahya Sinwar, nuovo capo di Hamas: archiviato l’impossibile negoziato?

di Claudio Bertolotti

Estratto dal volume Gaza Underground. La guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas, ed START InSight.

Hamas è organizzata in una serie di organi direttivi che gestiscono diverse funzioni politiche, militari e sociali. L’autorità principale, che si occupa dell’agenda politica e strategica del movimento, è rappresentata dal consiglio della shura di Hamas, il vertice della leadership organizzativa, che opera in esilio. Tuttavia, le attività quotidiane del gruppo sono gestite dal bureau politico, mentre le operazioni militari sono sotto la responsabilità delle brigate Izz ad-Din al-Qassam, il braccio militare del gruppo, che gode di un’ampia autonomia operativa. I comitati locali gestiscono le questioni di base nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania.

Se fino ad oggi Hamas è stato caratterizzato da una dualità che ha visto contrapporsi l’anima politica esterna alla Striscia di Gaza a quella politico-militare a Gaza in un rapporto di sempre più accesa competizione, la nomina di Yahya Sinwar alla guida del movimento potrebbe aver di fatto archiviato l’opzione di un gruppo pragmatico – al netto delle posizioni radicali e violente – per lasciar posto in via esclusiva all’anima movimentista radicale, razionalmente violenta di orientamento jihadista votata alla causa massimalista: la distruzione di Israele, come premessa a qualunque opzione politica.

Chi è il nuovo capo di Hamas?

Fino al momento della sua morte, Ismail Haniyeh ha ricoperto il ruolo di capo politico mentre Yahya Sinwar ha gestito le questioni ordinarie a Gaza.

Conosciuto anche come Yahya Ibrahim Hasan al-Sinwar, dal 2017 è il capo di Hamas nella Striscia di Gaza e uno dei primi architetti del braccio armato di Hamas: è sospettato di essere una delle menti dietro gli attacchi del 7 ottobre 2023.[1]

Nato nel 1962 nel campo profughi di Khan Younis, Striscia di Gaza, da genitori sfollati da Ashkelon durante la guerra arabo-israeliana del 1948, dopo aver frequentato le scuole primarie grazie al sostegno dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione (Unrwa), all’inizio degli anni Ottanta si iscrisse all’Università islamica di Gaza, dove lo studio della lingua araba contribuì a plasmare la sua carismatica autopresentazione. Entrò all’università in un momento in cui molti giovani palestinesi della Striscia di Gaza guardavano all’islamismo come strumento di soluzione al conflitto israelo-palestinese, dopo decenni di panarabismo rivelatosi fallimentare. Nel 1982 fu arrestato per la sua partecipazione alle prime organizzazioni islamiste anti-israeliane.

Nel 1985, ancor prima della formazione di Hamas, Sinwar contribuì all’organizzazione di “al-Majd” (in arabo “gloria”, ma anche acronimo di Munazzamat al-Jihad wa al-Da’wah, “Organizzazione per il jihad e da’wah”). Al-Majd era una rete di giovani islamisti con il compito di smascherare il crescente numero di informatori palestinesi reclutati da Israele. Quando Hamas venne fondata nel 1987, al-Majd fu inglobata nei suoi quadri di sicurezza. Nel 1988 si scoprì che la rete era in possesso di armi e Sinwar fu detenuto da Israele per diverse settimane. L’anno successivo venne condannato a quattro ergastoli per l’omicidio di palestinesi accusati di collaborazionismo con Israele.

Durante la sua lunga incarcerazione, Sinwar mantenne una forte influenza sui suoi compagni di prigionia, usando tattiche di abuso e manipolazione e godendo del supporto dei suoi contatti al di fuori del carcere. Si impegnò a punire i compagni di prigionia che sospettava di essere informatori e una volta costrinse circa 1.600 prigionieri a intraprendere uno sciopero della fame. Trascorse anche gran parte del suo tempo libero studiando ciò che poteva sui suoi nemici israeliani, leggendo giornali israeliani e imparando l’ebraico.

Il rilascio di Sinwar avvenne nell’ambito dello scambio di prigionieri di alto profilo con Gilad Shalit, il soldato israeliano che era stato rapito da Hamas nel 2006 mentre era di stanza a un valico di frontiera. Dopo diversi tentativi falliti di mediare la libertà di Shalit, l’Egitto e la Germania si prodigarono per il suo rilascio nell’ottobre 2011. Il fratello di Sinwar, Mohammed, che era stato assegnato a sorvegliare Shalit, insistette affinché Sinwar fosse incluso nello scambio. Lo stesso giorno in cui Shalit venne rilasciato in Israele, Sinwar fu tra i primi prigionieri palestinesi a essere rimpatriati nella Striscia di Gaza.

Nell’aprile 2012, pochi mesi dopo il suo rilascio, Sinwar fu eletto membro dell’ufficio politico di Hamas nella Striscia di Gaza. Mise a frutto la sua esperienza come leader carcerario e si guadagnò velocemente un’ottima reputazione all’interno di Hamas per aver riunito le sue fazioni attraverso un compromesso. La retorica infuocata di Sinwar conquistò da subito gli elementi più oltranzisti del movimento; in tale cornice dinamica, pur prospettando l’avvio di un’era guidata dall’ala militante, nei suoi primi anni da leader Sinwar tenne un basso profilo e mostrò un lato pragmatico che gli consentì di alleggerire lo stato di isolamento di Hamas. Mesi dopo la sua ascesa come leader del movimento, Hamas strinse un accordo di riconciliazione con l’Anp e, per la prima volta dal 2007, cedette il controllo di gran parte della Striscia di Gaza all’Autorità Palestinese, seppur per un breve periodo. Anche le relazioni con l’Egitto tesero a migliorare, tanto da portare Il Cairo ad allentare le restrizioni al valico di frontiera.

Al contempo, a conferma di una visione estremamente razionale e pragmatica, il gruppo avviò una politica di dialogo e avvicinamento all’Iran che portò in breve al reinserimento di Hamas nella rete di alleati di Teheran e al conseguente sostegno militare e finanziario.

Sebbene alla fine del 2018, con l’avvio degli “Accordi di Abramo” sostenuti dagli Stati Uniti e volti alla normalizzazione dei rapporti tra Israele e gli Stati arabi, si prospettasse un periodo di calma frutto del possibile processo di reciproco riconoscimento tra Israele e uno stato palestinese, nel maggio 2021 ci fu un ritorno all’ostilità aperta di Hamas nei confronti di Gerusalemme. La popolarità di Sinwar aumentò con il conflitto, e la sua autorevolezza si rafforzò in maniera significativa.

L’operazione battezzata “alluvione Al-Aqsa” del 7 ottobre 2023, mostra i segni distintivi delle tattiche di Sinwar, e la presa di ostaggi rimanda all’importanza da lui data agli scambi di prigionieri. Sinwar, le cui immagini diffuse dalle Idf a febbraio 2024 confermano che si sia nascosto nella rete dei tunnel sotterranei di Gaza utilizzando la propria famiglia come “scudo umano”, è stato classificato come obiettivo primario di Israele e definito, secondo un portavoce militare israeliano, come “un morto che cammina”.


[1] C. Bertolotti (2024), Gaza Underground. La guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas, ed START InSight.