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Gaza: attacco all’ospedale Kamal Adwan. Israele e il precedente di al-Shifa: nuovo standard umanitario.

di Claudio Bertolotti.

Articolo tratto dal libro di C. Bertolotti, Gaza underground. La guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas. ed. START InSight (2024).

Le Forze di difesa israeliane (IDF) nel raid all’ospedale Kamal Adwan nel nord di Gaza, utilizzato da Hamas come posto di Comando per l’organizzazione terrorista, ha eliminato 19 miliziani, tra i quali alcuni responsabili dell’attacco a Israele del 7 ottobre 2023.
Le IDF, in coordinamento con lo Shin Bet (Agenzia per la sicurezza israeliana), ha inoltre arrestato oltre 240 terroristi nell’operazione mirata a contrastare l’ultimo tentativo di Hamas di ricostituirsi nel nord di Gaza; un tentativo da parte del comando dei miliziani palestinesi che ha intenzionalmente sfruttato la struttura dell’ospedale Kamal Adwan a Jabaliya, utilizzando la nota strategia degli scudi umani, in questo casi cittadini ricoverati all’interno dell’ospedale. Un episodio che, da un lato conferma la volontà criminale di Hamas e, dall’altro, evidenzia come le forze armate israeliane stiano facendo il possibile per ridurre l’impatto della guerra sulla popolazione civile palestinese. Contrariamente a quanto il mainstream mediatico tenda a descrivere la condotta di una guerra che, seppur molto violenta, è storicamente l’evento con il più basso numero di vittime collaterali tra i non combattenti.

Operazione nell’ospedale al-Shifa: un nuovo standard umanitario?

La guerra Israele-Hamas ha dato modo alle forze israeliane di concettualizzare e implementare uno standard innovativo di guerra urbana che non trova precedenti nella storia militare. Nel marzo 2024, le Idf condussero un’operazione mirata nell’ospedale al-Shifa nella Striscia di Gaza – utilizzato come base logistica e operativa da Hamas – adottando precauzioni eccezionali per la protezione di civili nella fase di avvicinamento, accesso e gestione della struttura. Un approccio che vide l’impiego, unitamente a militari, di unità di medici e paramedici israeliani deputati all’assistenza dei pazienti civili palestinesi ricoverati nell’infrastruttura sanitaria, e squadre logistiche di supporto per il rifornimento di cibo, acqua e forniture mediche per gli stessi.[1]

Dunque, un approccio volto a limitare i danni causati dalla presenza di Hamas all’interno dell’infrastruttura sostenendo, al contempo, il massimo sforzo per andare incontro alle necessità dei pazienti ricoverati e per minimizzare le vittime civili. Primo esempio nella storia della guerra urbana, questo metodo rappresenta l’adozione di uno standard innovativo quanto oneroso, sia in termini di risorse impiegate sia per l’accettazione di un maggiore rischio intrinseco per il personale militare impegnato all’interno dell’infrastruttura. Dal punto di vista dottrinale, come su quello storico, è il primo caso di un esercito che abbia preso tali misure per occuparsi della popolazione civile avversaria, tenuto conto della concomitanza delle operazioni militari offensive all’interno dello stesso edificio. Secondo l’opinione dell’analista John Spencer, pubblicata nel suo articolo Israel has created a new standard for urban warfare. Why will no one admit it?, Israele avrebbe adottato «più precauzioni per prevenire danni ai civili di qualsiasi altro esercito nella storia, andando ben oltre ciò che richiede il diritto internazionale e più di quanto fatto dagli Stati Uniti nelle loro più recenti guerre in Iraq e Afghanistan».[2]

Un precedente, quello di al-Shifa, che si pone come caso studio per la gestione dello spazio urbano e la sicurezza dei civili in aree operative che, a fronte di un evidente svantaggio tattico, consente alle forze militari impegnate in operazioni dal potenziale forte impatto mediatico di prevenire accuse di violazioni dello jus in bello e delle convenzioni internazionali. Questo precedente apre doverosamente a una riflessione su tali applicazioni tattiche e sui limiti auto-imposti a tutela della popolazione civile, non solamente per ragioni prettamente umanitarie ma anche, e forse prevalentemente, in un’ottica difensiva sul piano della cognitive warfare e della propaganda avversaria che, da un lato e come abbiamo visto, utilizza infrastrutture civili per scopi militari e, dall’altro, strumentalizza a proprio favore le eventuali vittime civili in conseguenza dello scontro militare all’interno di quei siti (il law-fare).

La teoria occidentale predominante nella gestione delle operazioni militari, così come abbiamo descritto in apertura di questo capitolo, si basa sul concetto di “guerra di manovra”, tesa a cercare di frantumare moralmente e fisicamente un nemico con forza e velocità sorprendenti e schiaccianti, colpendo i centri di gravità, politici e militari, affinché il nemico sia distrutto o si arrenda rapidamente. Questo è stato il caso nelle invasioni di Panama nel 1989, dell’Afghanistan nel 2001, dell’Iraq nel 2003 e del tentativo della Russia di prendere in tempi rapidi l’Ucraina nel 2022. In tutti questi casi, non è stato dato nessun preavviso o tempo sufficiente ai civili per evacuare le città, con ciò provocando la morte di un significativo numero di non combattenti. Israele ha abbandonato questo consolidato “approccio da manuale”, e lo ha fatto nell’ottica primaria di prevenire danni ai civili. Le Idf hanno annunciato con anticipo quasi ogni azione affinché i non combattenti potessero trasferirsi, così rinunciando quasi sempre all’elemento sorpresa. Ciò ha permesso a Hamas di riposizionare in aree sicure i propri vertici militari e i leader politici (e con essi anche gli ostaggi israeliani) attraverso il tessuto urbano, nascondendoli tra i civili durante le evacuazioni o sfruttando i tunnel sotterranei.[3] I combattenti di Hamas, a differenza delle Idf, non indossano uniformi, e questo è un vantaggio tattico che ha consentito loro di colpire nascosti tra i civili e, con i civili, lasciare il campo di battaglia. La conseguenza è che Hamas è riuscito nella sua duplice strategia, da un lato, di generare sofferenza alla popolazione palestinese e, dall’altro, di creare una narrazione distruttiva attraverso le immagini, funzionale a ottenere una pressione internazionale su Israele affinché interrompesse le sue operazioni.


[1] Spenser J., Israel Has Created a New Standard for Urban Warfare. Why Will No One Admit It?, Opinion, Newsweek, 25 marzo 2024, in https://www.newsweek.com/israel-has-created-new-standard-urban-warfare-why-will-no-one-admit-it-opinion-1883286.

[2] Ibidem.

[3] Ibidem.

Articolo tratto dal libro di C. Bertolotti, Gaza underground. La guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas. ed. START InSight (2024).


Tensioni settarie in Siria e scontro USA-Turchia.

a cura di Claudio Bertolotti.

Il conflitto in Siria ha esacerbato le tensioni tra Stati Uniti e Turchia, entrambi membri della NATO con interessi strategici divergenti. La recente proposta di sanzioni da parte dei senatori statunitensi Chris Van Hollen e Lindsey Graham, in risposta a una possibile operazione turca contro le Forze Democratiche Siriane (SDF) nel nord della Siria, evidenzia l’approfondirsi di questo divario.

Quale la proposta di Sanzioni Statunitensi?

I senatori Van Hollen e Graham hanno presentato il “Countering Türkiye’s Aggression Act 2024”, mirato a impedire operazioni turche contro le SDF, considerate dagli Stati Uniti partner chiave nella lotta contro l’ISIS. La proposta include l’istituzione di una zona demilitarizzata lungo il confine siriano per facilitare un cessate il fuoco. Van Hollen ha sottolineato che gli attacchi delle forze sostenute dalla Turchia contro i partner curdi siriani compromettono la sicurezza regionale e ha avvertito che, in assenza di un accordo, potrebbero essere imposte sanzioni simili a quelle del 2019 legate all’acquisto turco dei sistemi russi S-400.

E quale la posizione della Turchia?

Preoccupazioni di Sicurezza da parte di Ankara: la Turchia considera le Unità di Protezione Popolare (YPG), componente principale delle SDF, come un’estensione del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), classificato come organizzazione terroristica. Ankara teme che il sostegno statunitense alle milizie curde possa portare alla formazione di uno stato curdo indipendente lungo i suoi confini, scenario inaccettabile per la sicurezza nazionale turca. In risposta alle sue preoccupazioni, la Turchia ha intensificato la presenza militare nel nord della Siria, mirando a prevenire l’espansione dell’influenza curda e a stabilire una zona cuscinetto lungo il confine.

Proposta delle SDF: una zona demilitarizzata: il comandante delle SDF, Mazloum Abdi, ha suggerito l’istituzione di una zona demilitarizzata controllata dagli Stati Uniti a Kobani, area di preparazione per un’operazione da parte dell’Esercito Nazionale Siriano (SNA) sostenuto dalla Turchia. Abdi ha indicato che, in caso di cessate il fuoco, i combattenti non siriani potrebbero essere rimossi dal paese.

Implicazioni Geopolitiche

  • Relazioni USA-Turchia: Il sostegno continuo degli Stati Uniti alle milizie curde, nonostante le obiezioni turche, ha creato una frattura significativa tra i due alleati della NATO, complicando ulteriormente le dinamiche regionali.
  • Stabilità Regionale: La possibilità di sanzioni statunitensi contro la Turchia e le operazioni militari turche nel nord della Siria sollevano preoccupazioni riguardo alla stabilità della regione e al futuro delle relazioni tra gli attori coinvolti.

In sintesi, le divergenze tra Stati Uniti e Turchia riguardo al sostegno alle milizie curde in Siria hanno intensificato le tensioni, con potenziali implicazioni per la sicurezza regionale e le relazioni bilaterali.

La Crescita delle tensioni settarie in Siria.
La Siria si trova a un bivio che rischia di portare a un conflitto etno-settario su larga scala. La situazione è aggravata dagli omicidi e rapimenti perpetrati da individui affiliati a Hayat Tahrir al Sham (HTS) contro membri della comunità alawita e altri accusati di legami con il regime di Assad. Queste azioni, condotte al di fuori di processi giudiziari formali, rischiano di intensificare le tensioni tra la maggioranza sunnita e la minoranza alawita.

Strategie di Mediazione e Riconciliazione
Il governo transitorio guidato da Ahmed al Shara ha tentato di placare le paure degli alawiti, ma le misure concrete per proteggere le minoranze restano limitate. Un programma di amnistia per gli ex membri del regime è stato istituito, ma la sua trasparenza è messa in discussione, alimentando ulteriori sospetti di vendette settarie.

L’Influenza Iraniana e il Rischio di Escalation
L’Iran continua a esercitare una forte influenza retorica, incitando alla ribellione giovanile in Siria e provocando divisioni settarie simili a quelle osservate in Iraq. Queste dichiarazioni hanno incontrato la ferma opposizione del ministro degli Esteri siriano, Asaad Hassan al Shaibani, il quale ha avvertito Teheran del rischio di destabilizzazione.

Nomina Controversia e Scontri Interni
La nomina di Anas Hasan Khattab, ex membro di al-Qaeda, come capo dell’intelligence siriana da parte del governo provvisorio HTS riflette la tendenza a favorire alleati leali e rischia di compromettere ulteriormente la stabilità interna. Contestualmente, scontri tra forze pro-Assad e milizie HTS hanno causato vittime, alimentando il ciclo di violenza.

Conflitto tra Turchia e SDF
Nel nord della Siria, la Turchia sostiene la formazione di un esercito siriano unificato che esclude le Forze Democratiche Siriane (SDF). Gli scontri tra l’esercito nazionale siriano (SNA) e l’SDF continuano, con Ankara che cerca di consolidare la propria influenza a Manbij e oltre.

Prospettive
La complessità della situazione siriana, con l’intreccio di tensioni settarie, rivalità geopolitiche e interessi stranieri, suggerisce che senza un intervento diplomatico efficace, il paese rischia di scivolare ulteriormente nel conflitto.


MDHM nell’era digitale: il doppio volto dell’Intelligenza Artificiale tra minaccia e soluzione per la democrazia.

di Claudio Bertolotti.

Abstract

La diffusione di informazioni false, fuorvianti o manipolate – riassunta nell’acronimo MDHM (misinformation, disinformation, malinformation e hate speech) – rappresenta una delle sfide più critiche dell’era digitale, con conseguenze profonde sulla coesione sociale, la stabilità politica e la sicurezza globale. Questo studio analizza le caratteristiche distintive di ciascun fenomeno e il loro impatto interconnesso, evidenziando come alimentino l’erosione della fiducia nelle istituzioni, la polarizzazione sociale e l’instabilità politica.

L’intelligenza artificiale emerge come una risorsa cruciale per contrastare il MDHM, offrendo strumenti avanzati per il rilevamento di contenuti manipolati e il monitoraggio delle reti di disinformazione. Tuttavia, la stessa tecnologia alimenta nuove minacce, come la creazione di deepfake e la generazione di contenuti automatizzati che amplificano la portata e la sofisticazione della disinformazione. Questo paradosso evidenzia la necessità di un uso etico e strategico delle tecnologie emergenti.

Il lavoro propone un approccio multidimensionale per affrontare il MDHM, articolato su tre direttrici principali: l’educazione critica, con programmi scolastici e campagne pubbliche per rafforzare l’alfabetizzazione mediatica; la regolamentazione delle piattaforme digitali, mirata a bilanciare la rimozione dei contenuti dannosi con la tutela della libertà di espressione; la collaborazione globale, per garantire una risposta coordinata a una minaccia transnazionale.

In conclusione, l’articolo sottolinea l’importanza di un impegno concertato tra governi, aziende tecnologiche e società civile per mitigare gli effetti destabilizzanti del MDHM e preservare la democrazia, la sicurezza e la fiducia nelle informazioni.

Definizioni e Distinzioni

La diffusione di informazioni false, fuorvianti o manipolate costituisce una delle sfide più complesse e pericolose dell’era digitale, con ripercussioni significative sull’equilibrio sociale, politico e culturale. I fenomeni noti come misinformation,disinformation, malinformatione hate speech, sintetizzati nell’acronimo MDHM, rappresentano manifestazioni distinte ma strettamente interconnesse di questa problematica. Una comprensione approfondita delle loro specificità è imprescindibile per sviluppare strategie efficaci volte a contenere e contrastare le minacce che tali fenomeni pongono alla coesione sociale e alla stabilità delle istituzioni.

Misinformation: Informazioni false diffuse senza l’intenzione di causare danno. Ad esempio, la condivisione involontaria di notizie non verificate sui social media.

Disinformation: Informazioni deliberatamente create per ingannare, danneggiare o manipolare individui, gruppi sociali, organizzazioni o nazioni. Un esempio è la diffusione intenzionale di notizie false per influenzare l’opinione pubblica o destabilizzare istituzioni.

Malinformation: informazioni basate su fatti reali, ma utilizzate fuori contesto per fuorviare, causare danno o manipolare. Ad esempio, la divulgazione di dati personali con l’intento di danneggiare la reputazione di qualcuno.

Hate Speech: espressioni che incitano all’odio contro individui o gruppi basati su caratteristiche come razza, religione, etnia, genere o orientamento sessuale. Questo tipo di discorso può fomentare violenza e discriminazione.

Impatto sulla Società

La diffusione di misinformation, disinformation, malinformation e hate speech rappresenta una sfida cruciale per la stabilità delle società moderne. Questi fenomeni, potenziati dalla rapidità e dalla portata globale dei media digitali, hanno conseguenze significative che si manifestano in vari ambiti sociali, politici e culturali. Tra i principali effetti troviamo l’erosione della fiducia nelle istituzioni, la polarizzazione sociale e l’acuirsi delle minacce alla sicurezza.

 

Erosione della Fiducia

L’informazione falsa o manipolata rappresenta un attacco diretto alla credibilità delle istituzioni pubbliche, dei media e persino della comunità scientifica. Quando le persone vengono sommerse da un flusso costante di notizie contraddittorie o palesemente mendaci, il risultato inevitabile è una crisi di fiducia generalizzata. Nessuna fonte viene risparmiata dal dubbio, nemmeno i giornalisti più autorevoli o gli organismi governativi più trasparenti. Questo processo mina le fondamenta della società e alimenta un clima di incertezza che, a lungo andare, può trasformarsi in alienazione.

Un esempio emblematico si osserva nel contesto del processo democratico, dove la disinformazione colpisce con particolare intensità. Le campagne di manipolazione delle informazioni, mirate a diffondere falsità sulle procedure di voto o sui candidati, hanno un effetto devastante sull’integrità elettorale. Ciò non solo alimenta il sospetto e la sfiducia nelle istituzioni democratiche, ma crea anche un senso di disillusione tra i cittadini, allontanandoli ulteriormente dalla partecipazione attiva.

Le conseguenze diventano ancora più evidenti nella gestione delle crisi globali. Durante la pandemia da COVID-19, l’ondata di teorie del complotto e la diffusione di cure non verificate hanno rappresentato un ostacolo significativo per gli sforzi della salute pubblica. La disinformazione ha alimentato paure infondate e diffidenza verso i vaccini, rallentando la risposta globale alla crisi e aumentando la diffusione del virus.

Ma questa erosione della fiducia non si ferma al singolo individuo. Le sue ripercussioni si estendono a tutta la società, frammentandola. I legami sociali, già indeboliti da divisioni preesistenti, diventano ancora più vulnerabili alla manipolazione. E così, si crea un terreno fertile per ulteriori conflitti e instabilità, in cui le istituzioni si trovano sempre più isolate, mentre cresce il rischio di una società incapace di reagire a sfide collettive.

 

Polarizzazione Sociale

Le campagne di disinformazione trovano terreno fertile nelle divisioni già esistenti all’interno della società, sfruttandole con l’obiettivo di amplificarle e renderle insormontabili. Questi fenomeni, alimentati da strategie mirate e potenziati dalle piattaforme digitali, intensificano il conflitto sociale e compromettono la possibilità di dialogo, lasciando spazio a una polarizzazione sempre più marcata.

L’amplificazione delle divisioni è forse il risultato più visibile della disinformazione. La manipolazione delle informazioni viene utilizzata per radicalizzare le opinioni politiche, culturali o religiose, costruendo una narrazione di contrapposizione tra un “noi” e un “loro”. Nei contesti di tensioni etniche, per esempio, la malinformation, diffusa con l’intento di distorcere eventi storici o di strumentalizzare questioni politiche attuali, accentua le differenze percepite tra gruppi sociali. Questi contrasti, spesso già esistenti, vengono esasperati fino a cristallizzarsi in conflitti identitari difficili da sanare.

A ciò si aggiunge l’effetto delle cosiddette “bolle informative”, create dagli algoritmi delle piattaforme digitali. Questi sistemi, progettati per massimizzare l’engagement degli utenti, propongono contenuti che rafforzano le loro opinioni preesistenti, limitandone l’esposizione a prospettive alternative. Questo fenomeno, noto come “filtro bolla”, non solo solidifica pregiudizi, ma isola gli individui all’interno di una realtà mediatica che si nutre di conferme continue, impedendo la comprensione di punti di vista differenti.

La polarizzazione, alimentata dal MDHM, non si ferma però al piano ideologico. In molti casi, la radicalizzazione delle opinioni si traduce in azioni concrete: proteste, scontri tra gruppi e, nei casi più estremi, conflitti armati. Guerre civili e crisi sociali sono spesso il culmine di una spirale di divisione che parte dalle narrative divisive diffuse attraverso disinformazione e hate speech.

In definitiva, la polarizzazione generata dal MDHM non danneggia solo il dialogo sociale, ma mina anche le fondamenta della coesione collettiva. In un tale contesto, risulta impossibile trovare soluzioni condivise a problemi comuni. Ciò che rimane è un clima di conflittualità permanente, dove il “noi contro loro” sostituisce qualsiasi tentativo di collaborazione, rendendo la società più fragile e vulnerabile.

Minaccia alla Sicurezza

Nei contesti di conflitto, il MDHM si rivela un’arma potente e pericolosa, capace di destabilizzare società e istituzioni con implicazioni devastanti per la sicurezza collettiva e individuale. La disinformazione, insieme al discorso d’odio, alimenta un ciclo di violenza e instabilità politica, minacciando la pace e compromettendo i diritti umani. Gli esempi concreti di come queste dinamiche si manifestano non solo illustrano la gravità del problema, ma evidenziano anche l’urgenza di risposte efficaci.

La propaganda e la destabilizzazione costituiscono uno degli utilizzi più insidiosi della disinformazione. Stati e gruppi non statali sfruttano queste pratiche come strumenti di guerra ibrida, mirati a indebolire il morale delle popolazioni avversarie e a fomentare divisioni interne. In scenari geopolitici recenti, la diffusione di informazioni false ha generato confusione e panico, rallentando la capacità di risposta delle istituzioni. Questa strategia, pianificata e sistematica, non si limita a disorientare l’opinione pubblica ma colpisce direttamente il cuore della coesione sociale.

Il discorso d’odio, amplificato dalle piattaforme digitali, è spesso un precursore di violenze di massa. Ne è tragico esempio il genocidio dei Rohingya in Myanmar, preceduto da una campagna di odio online che ha progressivamente deumanizzato questa minoranza etnica, preparandone il terreno per persecuzioni e massacri. Questi episodi dimostrano come lo hate speech, una volta radicato, possa tradursi in azioni violente e sistematiche, con conseguenze irreparabili per le comunità coinvolte.

Anche sul piano individuale, gli effetti del MDHM sono profondamente distruttivi. Fenomeni come il doxxing – la divulgazione pubblica di informazioni personali con intenti malevoli – mettono a rischio diretto la sicurezza fisica e psicologica delle vittime. Questo tipo di attacco non solo espone le persone a minacce e aggressioni, ma amplifica un senso di vulnerabilità che si estende ben oltre il singolo episodio, minando la fiducia nel sistema stesso.

L’impatto cumulativo di queste dinamiche mina la stabilità sociale nel suo complesso, creando fratture profonde che richiedono risposte immediate e coordinate. Affrontare il MDHM non è solo una questione di difesa contro la disinformazione, ma un passo essenziale per preservare la pace, proteggere i diritti umani e garantire la sicurezza globale in un’epoca sempre più interconnessa e vulnerabile.

 

Strategie di Mitigazione

La lotta contro il fenomeno MDHM richiede una risposta articolata e coordinata, capace di affrontare le diverse sfaccettature del problema. Dato l’impatto complesso e devastante che questi fenomeni hanno sulla società, le strategie di mitigazione devono essere sviluppate con un approccio multidimensionale, combinando educazione, collaborazione tra i diversi attori e un quadro normativo adeguato.

Educazione e Consapevolezza

La prima e più efficace linea di difesa contro il fenomeno MDHM risiede nell’educazione e nella promozione di una diffusa alfabetizzazione mediatica. In un contesto globale in cui le informazioni circolano con una rapidità senza precedenti e spesso senza un adeguato controllo, la capacità dei cittadini di identificare e analizzare criticamente i contenuti che consumano diventa una competenza indispensabile. Solo attraverso una maggiore consapevolezza sarà possibile arginare gli effetti negativi della disinformazione e costruire una società più resiliente.

Il pensiero critico rappresenta la base di questa strategia. I cittadini devono essere messi nelle condizioni di distinguere le informazioni affidabili dai contenuti falsi o manipolati. Questo processo richiede l’adozione di strumenti educativi che insegnino come verificare le fonti, identificare segnali di manipolazione e analizzare il contesto delle notizie. È un impegno che va oltre la semplice formazione: si tratta di creare una cultura della verifica e del dubbio costruttivo, elementi essenziali per contrastare la manipolazione informativa.

Un ruolo cruciale in questa battaglia è giocato dalla formazione scolastica. Le scuole devono diventare il luogo privilegiato per l’insegnamento dell’alfabetizzazione mediatica, preparando le nuove generazioni a navigare consapevolmente nel complesso panorama digitale. L’integrazione di questi insegnamenti nei programmi educativi non può più essere considerata un’opzione, ma una necessità. Attraverso laboratori pratici, analisi di casi reali e simulazioni, i giovani possono sviluppare le competenze necessarie per riconoscere contenuti manipolati e comprendere le implicazioni della diffusione di informazioni false.

Tuttavia, l’educazione non deve limitarsi ai giovani. Anche gli adulti, spesso più esposti e vulnerabili alla disinformazione, devono essere coinvolti attraverso campagne di sensibilizzazione pubblica. Queste iniziative, veicolate sia attraverso i media tradizionali che digitali, devono illustrare le tecniche più comuni utilizzate per diffondere contenuti falsi, sottolineando le conseguenze negative di tali fenomeni per la società. Un cittadino informato, consapevole dei rischi e capace di riconoscerli, diventa un elemento di forza nella lotta contro la disinformazione.

Investire nell’educazione e nella sensibilizzazione non è solo una misura preventiva, ma un pilastro fondamentale per contrastare il MDHM. Una popolazione dotata di strumenti critici è meno suscettibile alle manipolazioni, contribuendo così a rafforzare la coesione sociale e la stabilità delle istituzioni democratiche. Questo percorso, pur richiedendo un impegno costante e coordinato, rappresenta una delle risposte più efficaci a una delle minacce più insidiose del nostro tempo.

Collaborazione Intersettoriale

La complessità del fenomeno MDHM è tale che nessun singolo attore può affrontarlo efficacemente da solo. È una sfida globale che richiede una risposta collettiva e coordinata, in cui governi, organizzazioni non governative, aziende tecnologiche e società civile collaborano per sviluppare strategie condivise. Solo attraverso un impegno sinergico è possibile arginare gli effetti destabilizzanti di questa minaccia.

Le istituzioni governative devono assumere un ruolo guida. I governi sono chiamati a creare regolamentazioni efficaci e ambienti sicuri per lo scambio di informazioni, garantendo che queste misure bilancino due aspetti fondamentali: la lotta contro i contenuti dannosi e la protezione della libertà di espressione. Un eccesso di controllo rischierebbe infatti di scivolare nella censura, minando i principi democratici che si intendono tutelare. L’approccio deve essere trasparente, mirato e in grado di adattarsi all’evoluzione delle tecnologie e delle dinamiche di disinformazione.

Le aziende tecnologiche, in particolare i social media, giocano un ruolo centrale in questa sfida. Hanno una responsabilità significativa nel contrastare la diffusione del MDHM, essendo i principali veicoli attraverso cui queste dinamiche si propagano. Devono investire nello sviluppo di algoritmi avanzati, capaci di identificare e rimuovere i contenuti dannosi in modo tempestivo ed efficace. Tuttavia, l’efficacia degli interventi non può venire a scapito della libertà degli utenti di esprimersi. La trasparenza nei criteri di moderazione, nella gestione dei dati e nei meccanismi di segnalazione è fondamentale per mantenere la fiducia degli utenti e prevenire abusi.

Accanto a questi attori, le organizzazioni non governative (ONG) e la società civile svolgono un ruolo di intermediazione. Le ONG possono fungere da ponte tra istituzioni e cittadini, offrendo informazioni verificate e affidabili, monitorando i fenomeni di disinformazione e promuovendo iniziative di sensibilizzazione. Queste organizzazioni hanno anche la capacità di operare a livello locale, comprendendo meglio le dinamiche specifiche di determinate comunità e adattando le strategie di contrasto alle loro esigenze.

Infine, è imprescindibile favorire partnership pubbliche e private. La collaborazione tra settori pubblico e privato è essenziale per condividere risorse, conoscenze e strumenti tecnologici utili a combattere il MDHM. In particolare, le aziende possono offrire soluzioni innovative, mentre i governi possono fornire il quadro normativo e il supporto necessario per implementarle. Questa sinergia permette di affrontare la disinformazione con un approccio più ampio e integrato, combinando competenze tecniche, capacità di monitoraggio e intervento.

La risposta al MDHM non può dunque essere frammentata né limitata a un singolo settore. Solo attraverso una collaborazione trasversale e globale sarà possibile mitigare le conseguenze di questi fenomeni, proteggendo le istituzioni, i cittadini e la società nel suo insieme.

Ruolo delle Tecnologie Avanzate e Artificial Intelligence (AI) nel Contesto del MDHM

Le tecnologie emergenti, in particolare l’intelligenza artificiale (IA), svolgono un ruolo cruciale nel contesto di misinformation, disinformation, malinformation e hate speech. L’AI rappresenta un’arma a doppio taglio: da un lato, offre strumenti potenti per individuare e contrastare la diffusione di contenuti dannosi; dall’altro, alimenta nuove minacce, rendendo più sofisticati e difficili da rilevare gli strumenti di disinformazione.

Rilevamento Automatico

L’intelligenza artificiale ha rivoluzionato il modo in cui affrontiamo il fenomeno della disinformazione, introducendo sistemi avanzati di rilevamento capaci di identificare rapidamente contenuti falsi o dannosi. In un panorama digitale in cui il volume di dati generato quotidianamente è immenso, il monitoraggio umano non è più sufficiente. Gli strumenti basati sull’AI si rivelano quindi essenziali per gestire questa complessità, offrendo risposte tempestive e precise.

Tra le innovazioni più rilevanti troviamo gli algoritmi di machine learning, che rappresentano il cuore dei sistemi di rilevamento automatico. Questi algoritmi, attraverso tecniche di apprendimento automatico, analizzano enormi quantità di dati alla ricerca di schemi che possano indicare la presenza di contenuti manipolati o falsi. Addestrati su dataset contenenti esempi di disinformazione già identificati, questi sistemi sono in grado di riconoscere caratteristiche comuni, come l’uso di titoli sensazionalistici, un linguaggio emotivamente carico o la presenza di immagini alterate. L’efficacia di tali strumenti risiede nella loro capacità di adattarsi a nuovi modelli di manipolazione, migliorando costantemente le proprie performance.

Un altro ambito cruciale è quello della verifica delle fonti. Strumenti basati su AI possono confrontare le informazioni che circolano online con fonti affidabili, identificando discrepanze e facilitando il lavoro dei fact-checker. In questo modo, la tecnologia accelera i tempi di verifica, permettendo di contrastare in maniera più efficiente la diffusione di contenuti falsi prima che raggiungano un pubblico vasto.

L’AI è anche fondamentale per contrastare una delle minacce più sofisticate: i deepfake, di cui più oltre tratteremo. Grazie a tecniche avanzate, è possibile analizzare video e immagini manipolati, individuando anomalie nei movimenti facciali, nella sincronizzazione delle labbra o nella qualità complessiva del contenuto visivo. Aziende come Adobe e Microsoft stanno sviluppando strumenti dedicati alla verifica dell’autenticità dei contenuti visivi, offrendo una risposta concreta a una tecnologia che può facilmente essere sfruttata per scopi malevoli.

Il monitoraggio del linguaggio d’odio è un altro fronte in cui l’AI dimostra il suo valore. Attraverso algoritmi di elaborazione del linguaggio naturale (NLP), è possibile analizzare i testi in tempo reale per identificare espressioni di hate speech. Questi sistemi non solo categorizzano i contenuti, ma assegnano priorità agli interventi, garantendo una risposta rapida ed efficace ai casi più gravi. In un contesto in cui il discorso d’odio può rapidamente degenerare in violenza reale, la capacità di intervenire tempestivamente è cruciale.

Infine, l’intelligenza artificiale è in grado di rilevare e analizzare reti di disinformazione. Attraverso l’analisi delle interazioni social, l’AI può individuare schemi che suggeriscono campagne coordinate, come la diffusione simultanea di messaggi simili da account collegati. Questa funzione è particolarmente utile per smascherare operazioni orchestrate, sia a livello politico che sociale, che mirano a destabilizzare la fiducia pubblica o a manipolare l’opinione delle persone.

In definitiva, l’intelligenza artificiale rappresenta uno strumento indispensabile per affrontare il fenomeno della disinformazione e dell’hate speech. Tuttavia, come ogni tecnologia, richiede un uso etico e responsabile. Solo attraverso un’implementazione trasparente e mirata sarà possibile sfruttare appieno il potenziale dell’AI per proteggere l’integrità delle informazioni e la coesione sociale.

Generazione di Contenuti

L’intelligenza artificiale, se da un lato rappresenta una risorsa preziosa per contrastare la disinformazione, dall’altro contribuisce a rendere il fenomeno MDHM ancora più pericoloso, fornendo strumenti per la creazione di contenuti falsi e manipolati con livelli di sofisticazione senza precedenti. È proprio questa ambivalenza che rende l’IA una tecnologia tanto potente quanto insidiosa.

Un esempio emblematico è rappresentato dai citati deepfake, prodotti grazie a tecnologie basate su reti generative avversarie (GAN). Questi strumenti permettono di creare video e immagini estremamente realistici, in cui persone possono essere mostrate mentre affermano o compiono azioni mai avvenute. I deepfake compromettono gravemente la fiducia nelle informazioni visive, un tempo considerate una prova tangibile della realtà. Ma non si fermano qui: la loro diffusione può essere utilizzata per campagne di diffamazione, per manipolare l’opinione pubblica o per destabilizzare contesti politici già fragili. La capacità di creare realtà alternative visive rappresenta una minaccia diretta alla credibilità delle fonti visive e alla coesione sociale.

Parallelamente, i testi generati automaticamente da modelli di linguaggio avanzati, come GPT, hanno aperto nuove frontiere nella disinformazione. Questi sistemi sono in grado di produrre articoli, commenti e post sui social media che appaiono del tutto autentici, rendendo estremamente difficile distinguere i contenuti generati da una macchina da quelli scritti da una persona reale. Non a caso, tali strumenti vengono già sfruttati per alimentare botnet, reti automatizzate che diffondono narrazioni polarizzanti o completamente false, spesso con l’obiettivo di manipolare opinioni e alimentare conflitti sociali.

Un ulteriore aspetto cruciale è rappresentato dalla scalabilità della disinformazione. L’automazione garantita dall’AI consente la creazione e la diffusione di contenuti falsi su larga scala, amplificandone in modo esponenziale l’impatto. Ad esempio, un singolo attore malevolo, sfruttando questi strumenti, può generare migliaia di varianti di un messaggio falso, complicando ulteriormente il compito dei sistemi di rilevamento. In pochi istanti, contenuti manipolati possono essere diffusi a livello globale, raggiungendo milioni di persone prima che si possa intervenire.

Infine, l’AI offre strumenti per la mimetizzazione dei contenuti, che rendono i messaggi manipolati ancora più difficili da individuare. Algoritmi avanzati consentono di apportare modifiche minime ma strategiche a testi o immagini, eludendo così i sistemi di monitoraggio tradizionali. Questa capacità di adattamento rappresenta una sfida continua per gli sviluppatori di strumenti di contrasto, che devono aggiornarsi costantemente per stare al passo con le nuove tecniche di manipolazione.

In definitiva, l’intelligenza artificiale, nella sua capacità di generare contenuti altamente sofisticati, rappresenta un’arma a doppio taglio nel panorama del MDHM. Se non regolamentata e utilizzata in modo etico, rischia di accelerare la diffusione della disinformazione, minando ulteriormente la fiducia pubblica nelle informazioni e destabilizzando la società. È indispensabile affrontare questa minaccia con consapevolezza e strumenti adeguati, combinando innovazione tecnologica e principi etici per limitare gli effetti di questa pericolosa evoluzione.

Sfide e Opportunità

L’impiego dell’intelligenza artificiale nella lotta contro il fenomeno del MDHM rappresenta una delle frontiere più promettenti ma anche più complesse dell’era digitale. Sebbene l’IA offra opportunità straordinarie per contrastare la diffusione di informazioni dannose, essa pone anche sfide significative, evidenziando la necessità di un approccio etico e strategico.

Le Opportunità Offerte dall’IA

Tra i vantaggi più rilevanti, spicca la capacità dell’AI di analizzare dati in tempo reale. Grazie a questa caratteristica, è possibile anticipare le campagne di disinformazione, identificandone i segnali prima che si diffondano su larga scala. Questo permette di ridurre l’impatto di tali fenomeni, intervenendo tempestivamente per arginare i danni.

Un altro aspetto fondamentale è l’impiego di strumenti avanzati per certificare l’autenticità dei contenuti. Tecnologie sviluppate da organizzazioni leader nel settore consentono di verificare l’origine e l’integrità dei dati digitali, restituendo fiducia agli utenti. In un contesto in cui la manipolazione visiva e testuale è sempre più sofisticata, queste soluzioni rappresentano un baluardo essenziale contro il caos informativo.

L’AI contribuisce inoltre a snellire le attività di fact-checking. L’automazione delle verifiche consente di ridurre il carico di lavoro umano, velocizzando la risposta alla diffusione di contenuti falsi. Questo non solo migliora l’efficienza, ma permette anche di concentrare le risorse umane su casi particolarmente complessi o delicati.

Le Sfide dell’AI nella Lotta al MDHM

Tuttavia, le stesse tecnologie che offrono queste opportunità possono essere sfruttate per scopi malevoli. Gli strumenti utilizzati per combattere la disinformazione possono essere manipolati per aumentare la sofisticazione degli attacchi, creando contenuti ancora più difficili da rilevare. È un paradosso che sottolinea l’importanza di un controllo rigoroso e di un uso responsabile di queste tecnologie.

La difficoltà nel distinguere tra contenuti autentici e manipolati rappresenta un’altra sfida cruciale. Man mano che le tecniche di disinformazione evolvono, anche gli algoritmi devono essere costantemente aggiornati per mantenere la loro efficacia. Questo richiede non solo investimenti tecnologici, ma anche una collaborazione continua tra esperti di diversi settori.

Infine, è impossibile ignorare i bias insiti nei modelli di AI, che possono portare a errori significativi. Algoritmi mal progettati o addestrati su dataset non rappresentativi rischiano di rimuovere contenuti legittimi o, al contrario, di non individuare alcune forme di disinformazione. Questi errori non solo compromettono l’efficacia delle operazioni, ma possono minare la fiducia nel sistema stesso.

Conclusione

L’intelligenza artificiale è una risorsa strategica nella lotta contro misinformation, disinformation, malinformation e hate speech, ma rappresenta anche una sfida complessa. La sua ambivalenza come strumento di difesa e al contempo di attacco richiede un uso consapevole e responsabile. Mentre da un lato offre soluzioni innovative per rilevare e contrastare contenuti manipolati, dall’altro consente la creazione di disinformazione sempre più sofisticata, amplificando il rischio per la stabilità sociale e istituzionale.

Il MDHM non è un fenomeno isolato o temporaneo, ma una minaccia sistemica che mina le fondamenta della coesione sociale e della sicurezza globale. La sua proliferazione alimenta un circolo vizioso in cui l’erosione della fiducia, la polarizzazione sociale e le minacce alla sicurezza si rafforzano reciprocamente. Quando la disinformazione contamina il flusso informativo, la fiducia nelle istituzioni, nei media e persino nella scienza si sgretola. Questo fenomeno non solo genera alienazione e incertezza, ma riduce la capacità dei cittadini di partecipare attivamente alla vita democratica.

La polarizzazione sociale, amplificata dalla manipolazione delle informazioni, è un effetto diretto di questa dinamica. Narrativi divisivi e contenuti polarizzanti, spinti da algoritmi che privilegiano l’engagement a scapito dell’accuratezza, frammentano il tessuto sociale e rendono impossibile il dialogo. In un clima di contrapposizione “noi contro loro”, le divisioni politiche, culturali ed etniche si trasformano in barriere insormontabili.

A livello di sicurezza, il MDHM rappresenta una minaccia globale. Le campagne di disinformazione orchestrate da stati o gruppi non statali destabilizzano intere regioni, fomentano violenze e alimentano conflitti armati. L’uso del hate speech come strumento di deumanizzazione ha dimostrato il suo potenziale distruttivo in numerosi contesti, contribuendo a un clima di vulnerabilità collettiva e individuale.

Affrontare questa sfida richiede un approccio integrato che combini educazione, regolamentazione e cooperazione globale.

Promuovere l’educazione critica: l’alfabetizzazione mediatica deve essere una priorità. Educare i cittadini a riconoscere e contrastare la disinformazione è il primo passo per costruire una società resiliente. Programmi educativi e campagne di sensibilizzazione devono dotare le persone degli strumenti necessari per navigare nel complesso panorama informativo.

Rafforzare la regolamentazione delle piattaforme digitali: le aziende tecnologiche non possono più essere semplici spettatori. È indispensabile che adottino standard chiari e trasparenti per la gestione dei contenuti dannosi, garantendo al contempo il rispetto della libertà di espressione. Una supervisione indipendente può assicurare l’equilibrio tra sicurezza e diritti fondamentali.

Incentivare la collaborazione globale: la natura transnazionale del MDHM richiede una risposta coordinata. Governi, aziende private e organizzazioni internazionali devono lavorare insieme per condividere risorse, sviluppare tecnologie innovative e contrastare le campagne di disinformazione su scala globale.

Solo attraverso un’azione concertata sarà possibile mitigare gli effetti devastanti del MDHM e costruire una società più resiliente e informata. Il futuro della democrazia, della coesione sociale e della sicurezza dipende dalla capacità collettiva di affrontare questa minaccia con determinazione, lungimiranza e responsabilità.


Politica USA: la visione di Mark Rubio.

di Melissa de Teffè (dagli Stati Uniti).

Sebbene gli USA siano molto ricchi, gli americani non sono felici
La più grande economia mondiale con un PIL di oltre 25 trilioni di dollari, si trova a fronteggiare un paradosso: nonostante la ricchezza, gran parte della popolazione soffre perché non arriva a fine mese o si sente insoddisfatta. Il malessere collettivo ha cause radicate nell’economia, nella salute pubblica e nella struttura sociale del Paese.

Crescita e disuguaglianza
Il PIL è cresciuto del 2% nel 2023, e il tasso di disoccupazione rimane basso, attorno al 3,9%. Tuttavia, questa prosperità non è equamente distribuita. Secondo dati della Federal Reserve, l’1% più ricco possiede oltre il 30% della ricchezza totale, mentre il 50% più povero ne detiene solo il 2,5%. “La disuguaglianza negli USA è un problema sistemico, amplificato dal fatto che i salari per la classe media sono stagnanti da decenni,” osserva un report del Pew Research Center.
Il costo della vita è un altro fattore cruciale. Nel 2023, i prezzi delle abitazioni sono aumentati del 5%, mentre i costi per sanità e istruzione continuano a crescere. Sebbene l’inflazione sia scesa dal picco dell’8,2% nel 2022, molte famiglie fanno ancora fatica a far quadrare i conti.

Crisi della salute mentale
Oltre ai problemi economici, gli Stati Uniti affrontano una crisi di salute mentale. Secondo i CDC (Centers for Disease Control and Prevention), i tassi di depressione e ansia sono ai massimi storici. L’epidemia di overdose da oppioidi come il Fentanil, ha causato oltre 100.000 morti nel 2022, contribuendo a un calo dell’aspettativa di vita, scesa a 76 anni, il livello più basso dal 1996.
“Il senso di isolamento e la mancanza di reti di sicurezza sono fattori che alimentano il disagio psicologico,” spiega il dottor Vivek Murthy, Surgeon General degli Stati Uniti. Un altro drammatico problema interno che compromette l’immagine degli Stati Uniti è la questione dei senzatetto. Nonostante l’immensa ricchezza del Paese, molte delle principali città americane, come Los Angeles, San Francisco e New York, affrontano una crisi abitativa dilagante, con decine di migliaia di persone costrette a vivere per strada o in rifugi di emergenza. Questa realtà contrasta profondamente con l’idea di una nazione che si presenta come simbolo di benessere e uguaglianza. La mancanza di fondi adeguati e di risposte politiche strutturali a questa emergenza sociale non solo aggrava le condizioni di vita di milioni di cittadini, ma mette in dubbio la capacità del governo di garantire diritti fondamentali, erodendo ulteriormente la credibilità del modello democratico americano.
Durante il suo mandato, Donald Trump aveva affrontato il tema in modo controverso, dichiarando in un’intervista del 2019: “Non possiamo permettere che le nostre città siano invase da senzatetto. Stiamo cercando soluzioni che funzionino per tutti.” Tuttavia, le politiche adottate si sono concentrate principalmente su sgomberi e controlli, piuttosto che su investimenti strutturali per affrontare le cause profonde del problema. Questa mancanza di interventi mirati evidenzia le contraddizioni di una nazione che fatica a coniugare i suoi ideali con la realtà quotidiana dei suoi cittadini più vulnerabili.

Frammentazione sociale e polarizzazione
La crescente polarizzazione politica e la mancanza di fiducia nelle istituzioni aggravano ulteriormente il malcontento. Un sondaggio Gallup mostra che solo il 27% degli americani si fida del governo federale. Questa alienazione politica si somma a tensioni razziali e culturali, rendendo difficile creare un senso di unità nazionale.

Soluzioni possibili
Secondo gli esperti, affrontare questo malessere richiede interventi strutturali. “Un investimento significativo in sanità pubblica, istruzione accessibile e politiche per ridurre la disuguaglianza potrebbe migliorare la qualità della vita per milioni di americani,” afferma il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz.
Resta da vedere se gli Stati Uniti saranno in grado di affrontare queste sfide. Come nota il New York Times, “la ricchezza del Paese è innegabile, ma senza una distribuzione più equa, rischia di diventare una fonte di divisione anziché di progresso.”
Ecco perché Trump con lo slogan MAGA “Make America Great Again”, ha avuto successo ed ecco perché i fondi che oggi sono spesi per guerre estranee agli interessi del paese saranno ridistribuiti internamente. Nonostante la sua elezione e l’aver pubblicamente affermato di desiderare di voler fermare la guerra in Ucraina e in Israele, Biden, settimana scorsa, ha chiesto al Congresso un ulteriore finanziamento di 900 milioni di dollari nell’ambito di un pacchetto complessivo di 38 miliardi di dollari per sostenere l’Ucraina. La proposta include assistenza militare, economica e sanitaria. Tuttavia, ha incontrato forti resistenze tra i repubblicani, incluso lo Speaker della Camera Mike Johnson, che ha bloccato l’iniziativa. Johnson ha sottolineato la necessità di maggiore trasparenza e controllo sull’utilizzo dei fondi, esprimendo preoccupazione per il crescente debito pubblico e l’inflazione. A meno di un mese dal prossimo insediamento presidenziale dove in genere si chiude qualsiasi azione economico-politica, la presente amministrazione invece continua a creare sempre più confusione.  

Ma perchè piace Mark Rubio.
Marco Rubio: cubano-americano è uno dei due senatori della Florida, ed è noto per il suo impegno sui temi della politica estera e per la sua sensibilità verso i diritti dei rifugiati politici. Nato il 28 maggio 1971 a Miami da genitori cubani, Rubio incarna l’esperienza dell’esilio cubano, una prospettiva che ha profondamente plasmato la sua carriera politica. È cresciuto con il racconto dei sacrifici dei suoi genitori, emigrati da Cuba negli anni ’50 per sfuggire alla repressione politica. Questo background lo ha reso particolarmente attento alla questione dei rifugiati e ai temi della libertà e della democrazia, non solo per Cuba ma per i popoli oppressi in tutto il mondo.
In Senato ha sostenuto iniziative per garantire protezione a rifugiati politici, si è opposto alle dittature in America Latina, condannando i regimi di Cuba, Venezuela e Nicaragua per le violazioni dei diritti umani. “L’America deve essere un faro di speranza per coloro che fuggono dall’oppressione,” ha dichiarato durante uno dei suoi interventi pubblici.
Nel suo ruolo di Presidente della Commissione per l’Intelligence del Senato e come membro della Commissione per le Relazioni Estere, Rubio ha promosso politiche volte a rafforzare le sanzioni contro i governi autoritari e a sostenere i movimenti democratici. Ha lavorato per migliorare i programmi di accoglienza e assistenza ai rifugiati, specialmente per coloro che fuggono da persecuzioni politiche.
Rubio vede la politica estera come un’estensione dei valori americani di libertà e giustizia. Ha promosso un approccio che combina fermezza nei confronti dei regimi autoritari con il sostegno ai rifugiati e agli esiliati politici. La sua eredità come figlio di rifugiati cubani gli conferisce una comprensione unica dei sacrifici e delle sfide di chi fugge dalla tirannia. E sicuramente questo background potrebbe apportare una visione di politica estera diversa dalle precedenti, ossia di difesa e non interventista. Questa nuova amministrazione ha la possibilità di cambiare l’approccio tradizionale che ha sempre mirato nell’ “esportare” la democrazia attraverso interventi esterni e Marco Rubio, con la sua esperienza e storia, rappresenta una voce importante in questo dibattito. Sebbene in passato fosse un fervente sostenitore dell’internazionalismo, Rubio ha gradualmente abbracciato una visione più cauta, orientata a priorizzare gli interessi strategici interni ed evitare interventi militari prolungati.
Rubio, che mantiene un forte legame con la comunità cubana, comprende profondamente il significato della lotta per l’autodeterminazione nazionale. Ha dichiarato che “l’America deve concentrarsi sulle sfide più critiche per la nostra sicurezza nazionale”, riconoscendo che non tutti i conflitti globali richiedono un intervento diretto degli Stati Uniti. Questo cambio di prospettiva potrebbe influenzare il modo in cui pensa Donald Trump, anche riguardo alla situazione siriana. Piuttosto che imporre una soluzione politica dall’alto come si è sempre fatto storicamente, e invece di applicare un possibile isolazionismo come suggerisce Trump, ecco che Rubio potrebbe aprire una terza via dove gli Stati Uniti possano fornire aiuti mirati alla ricostruzione del Paese, consentendo nel caso della Siria di trovare la propria strada verso “Damasco”, costruendosi quella stabilità che rispetti le sue specificità culturali e storiche.
L’idea che la democrazia debba emergere come espressione autentica della coscienza nazionale è un fatto. Ce lo ha descritto Norberto Bobbio quando dice: “La democrazia non è un dono che si può imporre dall’esterno, ma un processo che deve essere costruito dall’interno”. E similmente lo hanno letto anche gli americani con Tocqueville, nel suo studio sulla democrazia, quando sottolinea l’importanza delle condizioni interne, scrivendo: “La democrazia è il governo che si adatta alle inclinazioni naturali degli uomini, e che, per così dire, nasce da esse”.  
Oggi, accademici e diplomatici concordano sul fatto che gli Stati Uniti abbiano perso gran parte della loro influenza globale come modello democratico. A livello internazionale si avverte un crescente scetticismo: se l’America non cambierà approccio, sarà difficile che continui a essere considerata il punto di riferimento democratico per eccellenza. Questo sentimento potrebbe spingere la nuova amministrazione Trump a rivedere le proprie strategie globali, favorendo approcci più rispettosi delle dinamiche locali e meno intrusivi, senza però scivolare nell’isolazionismo totale.  
Nel caso siriano, ciò significherebbe consentire alla popolazione di tracciare autonomamente la propria strada verso un futuro più stabile, mentre gli Stati Uniti abbandonerebbero la retorica dell’imposizione democratica, aprendo la strada a un’era di diplomazia più rispettosa e sostenibile. In questo contesto, Marco Rubio si distingue come un rappresentante ideale di questa visione, con una sensibilità particolare verso il rispetto delle specificità culturali e storiche nei processi di transizione democratica.


La nuova Siria: tra minaccia islamista, risposta preventiva di Israele e la ‘buffer zone’ turca.

di Claudio Bertolotti.

La recente conquista di Damasco da parte del leader jihadista Ahmed al-Sharaa, già noto con il nome di battaglia Abu Mohammed al-Jolani, capo di Hayat Tahrir al-Sham (HTS), segna un punto di svolta nell’equilibrio politico-militare del Medio Oriente. La Siria, dopo tredici anni di guerra civile contro il regime di Bashar al-Assad, si ritrova ora nella fase più critica della sua storia contemporanea: l’ascesa al potere degli islamisti guidati da al-Jolani, già affiliati ad al-Qaeda, si avvia a trasformare il Paese in uno “Stato islamico” destinato a rimodellare gli assetti regionali. E, ancora una volta, la variabile jihadista si manifesta come un fattore di destabilizzazione dagli effetti potenzialmente globali.

L’occupazione israeliana del Golan: una manovra preventiva e strategica
L’avanzata islamista in Siria, con il conseguente venir meno del controllo centralizzato di Damasco, crea un vuoto di potere all’interno del quale proliferano gruppi radicali e attori esterni in cerca di vantaggi geostrategici. L’azione di Israele – nello specifico il consolidamento dell’occupazione delle alture del Golan – va letta in questo quadro: non si tratta di un’ennesima incursione di natura espansionistica, bensì di una manovra difensiva e preventiva. Da un lato, Gerusalemme mira a evitare che forze jihadiste possano insediarsi lungo il proprio confine settentrionale, minacciando direttamente la sua sicurezza. Dall’altro, la presenza militare israeliana nell’area svolge anche un ruolo di protezione a favore delle forze di interposizione delle Nazioni Unite, potenzialmente esposte ad attacchi da parte di gruppi radicali in assenza di un potere centrale affidabile a Damasco.

L’attacco preventivo contro arsenali strategici e chimici
La lezione appresa in Afghanistan e in Iraq – dove arsenali convenzionali e non convenzionali sono passati di mano favorendo gruppi estremisti – ha reso evidente la necessità di interventi rapidi e chirurgici. L’attacco preventivo di Israele contro i depositi di armi strategiche siriane, inclusi quelli sospettati di contenere agenti chimici, intende prevenire il rischio che tali strumenti finiscano nelle mani dei jihadisti. Non si tratta solo di un interesse israeliano: se fossero i movimenti radicali a impadronirsi di armamenti chimici, l’intera regione, e persino l’Occidente, ne subirebbero le conseguenze. Come evidenziato dalle ultime analisi dell’Institute for the Study of War (Iran Update, 11 dicembre 2024), il controllo degli arsenali siriani da parte di attori non statali apre scenari ad altissimo rischio. Israele agisce dunque con un’intelligenza strategica che mira a prevenire futuri attacchi terroristici su larga scala.

La mossa israeliana e la scelta turca: due facce della stessa medaglia
La politica israeliana nel Golan non può essere letta in modo isolato: è coerente, nella logica strategica di contenimento delle minacce, con la scelta turca di occupare parti del territorio siriano al confine settentrionale. Ankara, come già dimostrato in passato, intende mantenere una “buffer zone” tra le aree sotto il proprio controllo e le regioni abitate dai curdi siriani, considerati una minaccia perché in collegamento con il PKK in Turchia. Tale azione non solo limita i movimenti delle milizie curde, ma risponde a un duplice obiettivo: arginare il potere curdo e, al contempo, impedire l’insediamento di gruppi islamisti ostili alla Turchia. L’avanzata israeliana sul Golan e la buffer zone turca formano, in modi diversi, due esempi di contenimento preventivo della minaccia jihadista.

L’ascesa degli islamisti in Siria: l’incognita dei diritti e il parallelismo con i talebani
La presa del potere da parte di al-Jolani e dei suoi uomini non può essere vista con favore. Le dichiarazioni rassicuranti nei confronti delle minoranze, delle donne e della comunità cristiana suonano come pura retorica. Sappiamo bene quale sia la storia dei movimenti jihadisti: la sharia applicata in modo letterale, l’assenza di rispetto per le differenze religiose e culturali, l’eliminazione di ogni spazio di pluralismo. allo scioglimento del parlamento siriano seguirà l’imposizione di un governo di unna shurà musulmana, non eletta né rappresentativa dell’estrema eterogeneità etno-culturale e religiosa siriana. Come già osservato nel caso dell’Afghanistan dei talebani, l’instaurazione di uno Stato islamico sotto la guida di ex qaedisti “riciclati” in forza politica locale non farà altro che istituzionalizzare un regime repressivo e contrario ai principi fondamentali dei diritti umani.

La minaccia terroristica si estende all’Occidente
La vittoria islamista in Siria, come fu per il ritorno dei talebani a Kabul nel 2021, agirà da catalizzatore per il terrorismo internazionale. Le cronache recenti mostrano che ogni avanzamento dell’ideologia jihadista si accompagna a un incremento degli attacchi e della propaganda violenta, spingendo individui radicalizzati o simpatizzanti a compiere gesti emulativi in Occidente. Come osservato da recenti analisi su media internazionali (si veda il 5° Rapporto sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo #ReaCT2024 e Il Giornale), il successo di Hts in Siria accresce il rischio che l’Europa diventi bersaglio di nuovi attacchi, ispirati e orchestrati da soggetti che trarranno nuovo slancio e legittimazione simbolica dalla “vittoria” di al-Jolani. La dimensione mediatica del jihad è tale per cui il controllo di un territorio – e la proclamazione di uno Stato islamico – si trasforma in un messaggio di potenza rivolto a potenziali sostenitori e reclute.

Prospettive e conclusioni
La nuova Siria di al-Jolani non è meno pericolosa del regime di Assad. Anzi, l’aperta adesione ai principi fondamentalisti, la lotta per il potere che seguirà tra gruppi islamisti e jihadisti in competizione – in primis con il gruppo Stato islamico – l’influenza di gruppi radicali e l’assenza di un sistema di garanzie internazionali rendono il contesto più imprevedibile. La mossa israeliana nel Golan e la strategia turca a nord riflettono una comprensibile, anche se parziale, risposta a queste minacce. L’Occidente non può permettersi di cadere nell’illusione di un al-Jolani “pragmatico”: la natura islamista e jihadista della nuova leadership è un dato di fatto. Se a ciò si sommano i rischi legati alla disponibilità di armi strategiche e chimiche, l’interesse nazionale israeliano e turco di creare zone cuscinetto e di colpire preventivamente gli arsenali appare tragicamente sensato. In questo scenario – al pari dell’Afghanistan talebano – la Siria potrebbe fungere da polo attrattivo per un jihadismo oggi in cerca di legittimazione e vittorie simboliche, con conseguenze dirette anche per l’Europa.


La caduta di Damasco e lo sgretolamento dell’Asse della Resistenza iraniano.

di Claudio Bertolotti.

La Siria di Bashar al-Assad non esiste più.

La rapida avanzata degli insorti islamisti, guidati dall’Hayat Tahrir al-Sham (HTS), contro il governo di Bashar al-Assad segna un punto di svolta critico nel panorama mediorientale. Dopo quasi quattordici anni di guerra civile, con un conflitto alimentato da interessi internazionali e influenze regionali, l’architettura di potere costruita dalla famiglia Assad – ereditata nel 2000 da Bashar dopo la lunga presidenza del padre Hafez – è oggi in disfacimento. L’offensiva, partita circa dieci giorni fa da Idlib, ha messo in ginocchio un regime un tempo ritenuto solido, sconfiggendo unità militari e paramilitari sostenute sia dall’Iran sia dalla Russia, pilastri di quell’“Asse della Resistenza” ideato per contenere le pressioni occidentali e israeliane.

I risultati tattici ottenuti dai gruppi islamisti e jihadisti, in parte sostenuti dalle forze del Syrian DDefense Forces curde, ma principalmente riconducibili a Hayat Tahrir al-Sham (HTS) guidata da Abu Mohammed al-Jolani, si sono rivelati decisivi: Aleppo, Hama e Homs – nodi strategici e simbolici del potere di Damasco – sono cadute senza una reale capacità di reazione da parte dei difensori. Il contenimento dell’opposizione armata, agevolato sin dal 2015 dall’intervento militare russo, è venuto meno. Mosca, impegnata su altri fronti e consapevole del mutato contesto strategico, sembra aver rivisto i propri interessi, lasciando indebolire la tenuta del regime. Di fronte a questa svolta, la stessa Teheran, uno dei principali sponsor del governo siriano, appare costretta a ridimensionare il proprio coinvolgimento, concentrandosi sulla preservazione di aree costiere e comunità tradizionalmente legate agli Assad.

La fuga di Assad, su cui insistono numerose fonti, non è ancora confermata ufficialmente, ma le sue smentite appaiono deboli. Damasco, un tempo simbolo dell’autorità presidenziale, è caduta. Sul piano diplomatico, il Qatar ospita una complessa trama negoziale: da un lato i ministri degli Esteri di Russia, Iran e Turchia; dall’altro, il “quartetto” occidentale (Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Germania) con i rappresentanti dell’UE e l’inviato ONU Geir Pedersen. Il risultato degli incontri è la proposta di una transizione politica a Ginevra, volta a salvaguardare le strutture statali e a coinvolgere figure del vecchio establishment non direttamente responsabili degli abusi del regime. Contemporaneamente si guarda alla pericolosa ipotesi di integrare componenti dell’opposizione armata, compresi alcuni elementi legati ad HTS, nonostante sia un “gruppo terroristico” riconosciuto da diverse potenze occidentali. Si tratta, evidentemente, di una necessaria concessione strategica: il nuovo equilibrio sul terreno costringe gli attori internazionali ad aprire canali di dialogo prima impensabili.

La posta in gioco è elevata: evitare un nuovo bagno di sangue e impedire il collasso dello Stato siriano, distinguendo nettamente l’apparato istituzionale dal regime uscente. Sullo sfondo, la riconfigurazione degli assetti regionali. L’indebolimento dell’Asse della Resistenza – costruito su un solido legame tra Damasco, Teheran, i proxy armati filo-iraniani e il supporto russo – mina l’influenza iraniana nel Levante e apre nuovi scenari di competizione. Il Libano, l’Iraq e persino le relazioni tra Israele e Iran risentiranno di queste dinamiche, così come la lotta al jihadismo internazionale.

Inoltre, l’accesso alle prigioni simbolo della repressione siriana, come Adra e Saydnaya, potrebbe rivelare le dimensioni degli abusi perpetrati negli ultimi decenni. Il rilascio e la restituzione di informazione sui prigionieri scomparsi potrebbero costituire gesti emblematici per favorire una qualche forma di riconciliazione post-conflitto.

La comunità internazionale, stretta tra il rischio di una deriva jihadista e la necessità di ristabilire un ordine politico sostenibile, si trova di fronte a un nuovo paradigma: la Siria come l’Afghanistan. Dinamiche simili, prospettive preoccupanti legate allo jihadismo internazionale che dalla Siria potrebbe minacciare la regione e l’Occidente. Ma ciò che più preoccupa è il ruolo che la Turchia, dopo aver sostenuto la caduta del regime attraverso il sostegno diretto agli islamisti dell’HTS – che ricordiamo, affondano le loro radici in al-Qa’ida e nell’ISIS – vorrà giocare coerentemente con la sua ambizione di influenza del Medioriente e del Nord Africa.


Siria: al-Jolani verso Damasco. Le preoccupazioni di Iran, Russia e Israele.

di Claudio Bertolotti.

Dall’intervista di Francesco De Leo a Radio Radicale – Spazio Transnazionale (puntata del 7.12.2024): vai all’intervista radio (AUDIO).

Abu Mohammed al-Jolani, nato con il nome Ahmed Al Sharaa, è il leader di Hayat Tahrir al-Sham (HTS), gruppo armato attivo nella guerra civile siriana e tuttora designato dagli Stati Uniti come organizzazione terroristica. Originariamente affiliato ad al-Qa’ida e noto come capo di Jabhat Al Nusra, Jolani ha esordito come jihadista radicale, inviato in Siria nel 2011 con fondi e sostegno di Abu Bakr al-Baghdadi, futuro leader dell’ISIS, per stabilire la filiale siriana del network qaedista.

Nel corso degli anni ha trasformato la propria immagine e la propria strategia. In un primo momento ha annunciato la separazione formale da Al Qaeda, per poi concentrarsi principalmente sul rovesciamento del regime di Bashar al-Assad e sul controllo di aree chiave come la provincia di Idlib. Questa “rottura” è stata ampiamente vista come mossa tattica, volta a evitare gli attacchi internazionali diretti contro le formazioni jihadiste transnazionali.

Parallelamente, Jolani ha anche cambiato l’aspetto e la retorica pubblica: dalla mimetica è passato a indossare giacca e camicia in stile occidentale, presentandosi come un rivoluzionario siriano moderato, impegnato in una lotta contro il regime di Damasco anziché a una guerra globale contro l’Occidente. Durante interviste recenti, ha minimizzato riferimenti al jihad globale, puntando invece sulla “liberazione” della Siria e sul ruolo di HTS come forza locale, impegnata a garantire sicurezza e amministrazione a milioni di persone in aree sotto il suo controllo.

Nonostante questa strategia di rebranding e il tentativo di mostrarsi come un interlocutore più pragmatico, Jolani rimane un personaggio estremamente controverso e indubbiamente legato allo jihadismo insurrezionale, di cui oggi è uno dei principali leader. Alle spalle ha un passato profondamente radicato nelle reti jihadiste internazionali, ed è a capo di un’organizzazione che resta considerata terroristica da Washington. Il suo percorso è quindi quello di un leader che cerca di distanziarsi dall’estremismo transnazionale per guadagnare legittimità locale e, possibilmente, internazionale, presentandosi come un attore politico rivoluzionario più che come un leader jihadista.

La situazione sul campo

I gruppi islamisti stanno avanzando verso Damasco con il sostegno turco e assediano Homs, snodo strategico verso il Mediterraneo e roccaforte del regime.

Mentre a Doha è previsto un incontro fra Russia, Turchia e Iran per negoziare una possibile transizione politica che escluda Assad, sul campo le forze filoiraniane sembrano ritirarsi, la Russia appare indebolita, non più proattiva, mentre l’ONU registra una massiccia ondata di sfollati.

Il leader ribelle al Jolani rivendica il diritto a usare ogni mezzo contro il regime, ma promette di non perseguitare le minoranze. Vedremo.

Da parte sua, il felice e preoccupante presidente turco Recep Tayyip Erdogan annuncia apertamente Damasco come prossimo obiettivo, mentre l’Iran, la Siria e l’Iraq si dichiarano uniti nella lotta al “terrorismo”.

Nel sud del Paese, gruppi antigovernativi si spostano verso nord, conquistando facilmente posizioni lasciate dai lealisti, e le comunità druse di Suwayda stanno creando una regione semi-autonoma.

Intanto, il Libano chiude i confini per timore di un contagio del conflitto e proseguono scontri tra forze filo-turche e milizie curde.

Preoccupazioni di Iran e Israele (e Mosca)

Certo è che, nella situazione attuale, questo è un problema sia per l’Iran, oltre che per la Russia, ma anche per Israele: tutti guardano con grande preoccupazione a quanto sta accadendo. Se per Mosca è un grande problema legato alla capacità di muovere all’interno del Mediterraneo con la propria marina, per Teheran è una quesitone di tenuta complessiva dell’Asse della resistenza poiché la caduta siriana potrebbe precludere il collegamento vitale con il Libano, e dunque con Hezbollah. E forse gli accordi di Doha sono intesi a trovare una soluzione mediata che consenta all’Iran di mantenere il controllo di una striscia di territorio siriano funzionale proprio al collegamento con Hezbollah.

E per Israele? Israele è molto preoccupata perché la presenza di un regime siriano debole è la condizione migliore mentre la caduta della Siria sotto il controllo degli islamisti potrebbe aprire un fronte di ulteriore instabilità ai confini israeliani. Senza dimenticare che “al-Jolani” prende il suo nome dal Golan, attualmente occupato da Israele, e la sua posizione è sempre stata apertamente anti-occidentale e anti-israeliana.


Il gabinetto esecutivo di Trump (seconda parte)

di Melissa de Teffè.

Procuratore generale: Pam Bondi (dopo il ritiro di Matt Gaetz)
Segretario della difesa: Pete Hegseth
Consigliere per la sicurezza nazionale: Michael Waltz
Segretario dell’energia: Chris Wright
Segretario per il commercio: Howard Lutnick
Segretario della sicurezza interna: Kristi Noem
Direttore della CIA: John Ratcliffe
Direttore dell’intelligence nazionale: Tulsi Gabbard
Dipartimento per l’efficienza governativa: Elon Musk e Vivek Ramaswamy
Portavoce della Casa Bianca: Karoline Leavitt

Prima di passare alla seconda parte della lista, parliamo prima dei due grandi esclusi. Mike Pompeo ex direttore CIA e Niky Haley ex ambasciatore presso le Nazioni Unite. Per ambedue non sono ci sono dichiarazioni né ufficiali né ufficiose. Possiamo però mettere insieme qualche indizio interessante che spieghi, il “No voi no”.

Per Pompeo si pensa che le dichiarazioni di Julian Assange, il fondatore di WikyLeaks, durante la sua prima apparizione pubblica, dopo essere stato rilasciato da un carcere inglese di massima sicurezza, siano sufficenti per aver leso la sua reputazione e quindi escluderlo dalla lista. Assange, davanti al comitato per gli affari legali e i diritti umani dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa a Strasburgo, ha dichiarato: “il direttore della CIA, Pompeo, ha lanciato una campagna di ritorsione; ora è un fatto di dominio pubblico. Sotto la direzione esplicita di Pompeo, la CIA elaborò piani per rapirmi e assassinarmi all’interno dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra e organizzò operazioni contro i miei colleghi europei, sottoponendoci a furti, attacchi hacker e alla diffusione di informazioni false. Anche mia moglie e mio figlio neonato furono presi di mira, un agente della CIA fu assegnato per seguire mia moglie e furono impartite istruzioni per prelevare un campione di DNA dal mio bambino di sei mesi…..”.

Nikki Haley, invece, è coinvolta in un altro tipo di controversia, che riguarda la sua vita privata. La sua lunga relazione extraconiugale, emersa durante la sua corsa presidenziale, ha alimentato speculazioni e discussioni che potrebbero aver influito sulla possibile candidatura. Le dinamiche di questa vicenda personale hanno avuto un impatto sulla sua immagine, e sebbene nessuno sia perfetto, l’ha resa meno appetibile in questo contesto politico in cui l’integrità morale è vista come un aspetto cruciale.

Ma tornando alla nostra lista emergono nomi e dettagli che offrono spunti per comprendere meglio il panorama polico ed economico che si sta delineando. Un esempio significativo per importanza è la nomina di Chris Wright al ministero dell’energia. Lasciando a lato gli allarmisti sul Cambio Climatico, Wright si è laureato in ingegneria meccanica e specializzato in ingegneria elettrica al MIT, ma non ha mai ricoperto incarichi governativi prima di questa nomina. È il  CEO di Liberty Energy, una società fondata nel 2010 e quotata in borsa, che gestisce il 20% dei pozzi terrestri negli Stati Uniti, utilizzando il controverso sistema fratturazione idraulica, (fraking). Secondo Wright, l’azienda, con un valore di 3 miliardi di dollari, contribuisce a quasi il 10% della produzione totale di energia negli Stati Uniti.

Nonostante le critiche ricevute da alcuni organi di stampa, come il Washington Post, Wright è  pragmatico. Noto per il suo approccio diretto, non nega l’esistenza di un problema climatico mondiale, ma afferma con onestà: “non esiste energia pulita”, e ha criticato aspramente le politiche ambientali che promuovono l’uso esclusivo di fonti rinnovabili come il solare e l’eolico, argomentando che queste tecnologie non sono in grado di soddisfare la domanda globale di energia . Nel suo profilo LinkedIn, afferma di essere “completamente dedicato all’energia” – inclusi petrolio, gas naturale, nucleare, solare e fonti geotermiche. Infatti secondo la NREL (National Renewable Energy Laboratory) generare il 35% dell’elettricità utilizzando energia eolica e solare negli Stati Uniti occidentali ridurrebbe le emissioni di CO2 del 25-45%, ma non sarebbe sufficiente. Negli ultimi anni, le centrali solari ed eoliche hanno dominato la costruzione di nuovi impianti energetici negli Stati Uniti, mentre le centrali a combustibili fossili – in particolare quelle a carbone – continuano a essere dismesse a ritmi record. In un’intervista a Bloomberg TV lo scorso luglio, Wright ha ipotizzato che l’amministrazione Trump avrebbe ampliato le trivellazioni su terreni federali e semplificato il procedimento per l’approvazione di infrastrutture come gli oleodotti. Commentando la gestione dell’amministrazione Biden, che ha raggiunto livelli record di produzione petrolifera, Wright ha ribadito la necessità di fare di più per sostenere la produzione di petrolio e gas. Nel 2023, gli Stati Uniti, sotto l’amministrazione Biden, hanno segnato un record storico, producendo una media di 12,9 milioni di barili di petrolio al giorno, il livello più alto mai raggiunto da un singolo Paese, secondo i dati dell’Agenzia per l’Energia statunitense. Wright si è impegnato a ridurre i costi energetici per gli americani, mettendosi così in linea con una promessa spesso rilanciata da Trump durante la campagna elettorale.

Un altro personaggio chiave nelle nomine è Howard Lutnick, il multimilionario CEO di Cantor Fitzgerald, una delle principali società di servizi finanziari a livello internazionale, sin dagli anni ’80.  Lutnick, 63 anni, sostiene l’aumento dei dazi doganali. Come candidato, Trump ha promesso di imporre tariffe del 60% sui beni provenienti dalla Cina e del 10% su quelli di altri Paesi. Durante la campagna elettorale ha dichiarato che gli Stati Uniti erano al massimo della prosperità nei primi anni del ‘900, quando “non c’erano imposte sul reddito e tutto ciò che avevamo erano dazi doganali.”-“Eravamo così ricchi che i più grandi imprenditori americani si riunivano per cercare di capire come spendere quel denaro,”. Durante la campagna presidenziale, Trump aveva promesso di aumentare i dazi doganali per proteggere i lavoratori e le industrie americane dalla concorrenza straniera, in particolare da quella cinese. La nomina di Lutnick a un ruolo così rilevante potrebbe essere vista come una continuazione di questa politica protezionista. Lutnick ha anche mostrato interesse per le problematiche interne agli Stati Uniti, come la disuguaglianza sociale ed economica, sottolineando la necessità di proporre politiche che rispondano alle esigenze della classe media e dei lavoratori americani.

Seppur con compiti diversi ma sotto lo stesso ombrello, segue la squadra che si occupa della difesa nazionale:

A capo del Ministero della Difesa, è stato scelto Pete Hegseth, seguito dal consigliere per la sicurezza nazionale, Michael Waltz, dal direttore della CIA John Ratcliffe, dal Direttore dell’intelligence nazionale Tulsi Gabbard, dal Segretario della sicurezza interna, Kristi Noem e infine per l’FBI Kash Patel.

Hegseth, a pochi giorni dalla nomina, è già una figura scomoda. Veterano della Guardia Nazionale dell’Esercito, ha prestato servizio in Iraq, Afghanistan e a Guantanamo Bay come ufficiale di fanteria. Con due onorificenze: la Bronze Star e il Combat Infantryman Badge è diventato famoso anche per il suo tatuaggio “crociato” “Deus Vult” (per noi di lunga data e conoscenza torniamo indietro a Papa UrbanoII) e ha già sollevato polemiche sia per le sue opinioni sull’Islam, che ritiene essere il nemico storico dell’Occidente e per essere stato coinvolto in una causa per assalto sessuale risoltasi nel 2017 con un accordo extra giudiziale. Sebbene sia un eccellente commentatore televisivo per Fox news, la sua visione del Medio Oriente viene definita bigotta e antimusulmana. Finirà anche lui come Gaetz (Ex Procuratore di Stato, anche lui con uno scandalo sessuale alle spalle)? Tuttavia, se la sua nomina dovesse essere confermata, Hegseth sarà a capo della più grande forza militare del mondo in un periodo di conflitto e instabilità in Medio Oriente assai critico. Sul piano della politica interna al ministero, Hegseth ha espresso il desiderio di limitare la presenza di persone transessuali e, possibilmente, anche di donne in zone di guerra, dove la loro fisicità potrebbe non risultare utile.

Tulsi Gabbard, ex membro del partito democratico e deputato alla Camera, ha servito nella Guardia Nazionale dell’Esercito delle Hawaii ed è stata dispiegata in Iraq con un’unità medica. All’epoca critica della politica estera statunitense, descrivendola come imperialista e autoritaria ha spesso dichiarato la sua avversione alle idee di Trump per il suo approccio al Medio Oriente, considerandolo pericoloso. Se confermata dal Senato, Gabbard sarebbe a capo della Sicurezza Interna. Tuttavia, alcuni ex funzionari della sicurezza nazionale e parlamentari esprimono dubbi sulle sue capacità, accusandola di riprendere narrazioni tipiche del Cremlino, con il timore che ciò possa influire negativamente sulla cooperazione nell’ambito dell’intelligence. Se confermata come Direttore dell’Intelligence Nazionale (DNI), Gabbard sarebbe responsabile della gestione dei segreti più sensibili della nazione, sovrintendendo le 18 agenzie di spionaggio degli Stati Uniti e servendo come stretta consigliera del presidente.

Come Consigliere alla Sicurezza Nazionale, Trump ha voluto Michael Waltz, ex colonnello della Guardia Nazionale, e membro del Congresso per la Florida. La sua posizione su Ukraina e Gaza non lasciano dubbi. Ha così commentato su Fox News in modo critico esprimendo preoccupazioni sulla recente escalation, paragonando la decisione dell’amministrazione Biden di consentire l’uso di mine antiuomo da parte dell’Ucraina alla “guerra di trincea della Prima Guerra Mondiale.” Ha sottolineato il timore che si inneschi una spirale nel conflitto, citando il coinvolgimento di Russia, Iran, Corea del Nord e il potenziale ingresso della Corea del Sud.

Waltz ha ribadito la necessità di “riportare deterrenza e pace” e prevenire un ulteriore escalation. Riguardo al conflitto di Gaza, ha lodato le operazioni israeliane contro Hamas e Hezbollah, descrivendo l’indebolimento di Hamas e l’esposizione dell’Iran come risultati cruciali.

Chiudiamo l’ombrello difesa con la nomina del direttore all’ FBI di Kash Patel. Tenendo presente che tutti i direttori dell’FBI servono su mandato presidenziale, e Christopher Wray, l’attuale direttore, nominato da Trump dopo il licenziamento di James Comey, (ricordiamo il caso Hilary Clinton, Ministro Affari Esteri e il suo portatile in mano al marito della segretaria oltre alle email cancellate) potrebbe presto lasciare il ruolo, con l’annuncio di Trump. Wray potrebbe decidere di dimettersi spontaneamente o aspettare di essere rimosso a gennaio, quando Trump entrerà in carica. Tuttavia, la nomina di Kash Patel solleva critiche per aver promesso una “pulizia” dei presunti cospiratori contro Trump e ventilato l’idea di chiudere il quartier generale dell’FBI a Washington, decentralizzando le operazioni su tutto il territorio nazionale. Un altra proposta di Patel è di inasprire le misure contro la fuga di informazioni da parte di funzionari governativi ai media. Questo implicherebbe che il Dipartimento di Giustizia annulli l’attuale politica che vieta la confisca segreta dei registri telefonici dei giornalisti durante le indagini sulle fughe di notizie. Questa politica fu attuata dal Procuratore Generale Garland a seguito dell’indignazione suscitata dalla rivelazione che i procuratori federali avevano ottenuto mandati di comparizione per i registri telefonici dei giornalisti.

Infine vorrebbe separare le attività di intelligence (quindi il cuore dell’agenzia) dell’FBI dal resto delle operazioni, un’opzione delicata in un contesto di crescente minaccia terroristica.

Un’altra novità interessante è la nomina dell’addetto stampa Karoline Leavitt. Giovanissima, appena 27 anni, Leavitt è stata la numero due dietro la leggendaria Kayleigh McEnany (soprannominata allora la donna dei faldoni, non avendo mai sbagliato una citazione nè una risposta)durante la precedente amministrazione. Leavitt si è già distinta come portavoce durante la campagna elettorale, dimostrando abilità comunicative eccezionali. Un aspetto interessante della nuova amministrazione è la scelta di invitare per la prima volta nella storia i podcaster alle conferenze stampa della Casa Bianca. È probabile che figure come Megan Kelly, Tucker Carlson e Ben Shapiro vengano invitati, dando così un messaggio forte e di rottura con i grandi quotidiani e i network tradizionali, CBS, NBC e ABC, accusati di parzialità.

Concludiamo con la novità che più di qualsiasi altra, definisce l’originalità a sorpresa di Trum: Elon Musk e Vivek Ramaswamy a capo di un nuovo ministero senza portafoglio, il “Department of Government Efficiency” (DOGE), acronimo che richiama la criptovaluta Dogecoin, promossa da Musk. La missione di questo dipartimento sarebbe quella di eliminare 2,5 milioni di impiegati federali. Il governo federale degli Stati Uniti è 5 volte quello cinese, e la burocrazia è estremamente rigida. Musk e Ramaswamy si propongono di razionalizzare questa macchina, affrontando la difficoltà di licenziare dipendenti in posizioni protette.

Il nuovo dipartimento è già in fase di reclutamento, con un annuncio pubblicato sull’account X di DOGE, che conta 1,2 milioni di follower, e il processo di assunzione è in corso.

In un editoriale del Wall Street Journal, Musk e Vivek hanno spiegato la loro visione sulle spese federali: “La maggior parte delle decisioni attuative di leggi e spese a discrezione del governo non viene presa dal presidente, democraticamente eletto, né dai suoi delegati, o funzionari scelti, ma da milioni di funzionari pubblici non eletti e non nominati, che lavorano all’interno di agenzie governative, che si considerano immuni al licenziamento grazie alle tutele del servizio civile. Questo è antidemocratico e contrario alla visione dei Padri Fondatori. Comporta costi enormi, sia diretti che indiretti, per i contribuenti”. La nomina scade il 4 luglio 2026.