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Charlie Hebdo: una riflessione a 10 anni dall’attacco jihadista

di Claudio Bertolotti.

Il 7 gennaio 2015, dieci anni fa, un attacco terroristico colpì la redazione parigina di Charlie Hebdo, lasciando dietro di sé una scia di sangue e dodici vittime. I due assalitori, vestiti di nero, irruppero negli uffici del giornale satirico, aprendo il fuoco come ritorsione per le vignette su Maometto. Nonostante il tragico evento, lo spirito e la missione della rivista non si sono mai spenti. Charlie Hebdo rimane un simbolo di libertà di espressione, continuando a pubblicare con la stessa irriverenza che l’ha resa famosa.

L’attacco a Charlie Hebdo, rivendicato dalla branca yemenita di al-Qāʿida (o Ansar al-Sharia), si inserisce in una lunga sequenza di attentati terroristici che hanno colpito l’Europa dopo il 2001. Eventi come quelli di Madrid nel 2004, Londra nel 2005 e Bruxelles nel 2014 fanno parte di questa tragica scia. E tanti altri che sarebbero seguiti nei dieci anni intercorsi da allora: da Nizza e Berlino nel 2016 a Brokstedt e Magdeburgo in Germania nel 2023 e 2024. L’attentato a Parigi causò la morte di 17 persone, tra cui figure di spicco del giornale satirico.

Dopo l’attacco a Charlie Hebdo e l’omicidio del poliziotto Ahmed Merabet, i due terroristi jihadisti, i fratelli Saïd e Chérif Kouachi, si diedero alla fuga a bordo di un’auto. Nonostante l’allarme diffuso nella regione parigina, riuscirono a nascondersi nei boschi a nord del Paese. Il 9 gennaio, vennero individuati e, dopo un assedio da parte delle forze di polizia e militari, ed eliminati.

Il 9 gennaio 2015, Amedy Coulibaly, complice dei fratelli Kouachi e affiliato allo Stato Islamico, si barricò in un supermercato kosher a Parigi dopo aver ucciso una poliziotta il giorno precedente. Durante il sequestro, quattro ostaggi vennero uccisi. Coulibaly venne ucciso a seguito dell’irruzione da parte della polizia. Successivamente emerse che l’attacco era parte di un piano più ampio, con altri complici fuggiti verso la Siria.

L’11 gennaio 2015, milioni di persone si riversarono per le strade di Parigi per manifestare solidarietà dopo gli attacchi terroristici contro Charlie Hebdo e l’Hyper Cacher. La marcia, simbolo di difesa della libertà di espressione, vide la partecipazione di leader mondiali e rappresentanti di varie nazioni. Pochi giorni dopo, il nuovo numero di Charlie Hebdo, realizzato dai sopravvissuti, venne pubblicato in diverse lingue e distribuito a milioni di copie in tutto il mondo, sottolineando la resistenza contro il terrorismo e l’importanza della libertà di stampa.

L’attacco del 7 gennaio 2015 fu un atto di natura politica e segnò l’inizio di una serie di attentati che avrebbero sconvolto la Francia nei mesi successivi. Le stragi del 13 novembre 2015 a Parigi e del 14 luglio 2016 a Nizza confermarono la vulnerabilità del Paese. Nel 2020, il processo per l’attacco a Charlie Hebdo si concluse con 14 condanne, segnando un passo importante nella lotta contro il terrorismo. A dieci anni di distanza, Charlie Hebdo resta un simbolo della libertà di espressione, resistente alle minacce e alla violenza.

Il terrorismo oggi: opportuna riflessione.

Il terrorismo attuale, ponendo le proprie radici nella profondità di un’evoluzione storica molto complessa, rappresenta una minaccia ideologica diffusa. E la minaccia del terrorismo jihadista è oggi particolarmente rilevante, collegata alle dinamiche storiche, conflittuali, delle relazioni internazionali e della competizione in Medio Oriente, in Africa e alla violenza discendente dalla lettura radicale dell’Islam; una dinamica conflittuale che oggi si associa sempre più spesso alla ricerca di identità di gruppi e individui attraverso l’opposizione culturale di una componente non marginale degli immigrati maghrebini di seconda e terza generazione in Europa. E parliamo di una galassia jihadista frammentata e caratterizzata da diverse ideologie e approcci pratici, tanto da indurre una riflessione sul concetto di terrorismo contemporaneo che si impone come fenomeno sociale molto diverso dai terrorismi che lo hanno preceduto.

Una necessaria riflessione che ci invita a riflettere sull’opportunità di un cambio di paradigma nella stessa definizione di terrorismo, non più da intendere come azione volta ad ottenere risultati politici attraverso la violenza, dunque nelle intenzioni. Bensì come effetto della violenza applicata: è terrorismo la manifestazione di violenza, privo di un’organizzazione alle spalle. È terrorismo nella manifestazione, non nell’organizzazione.

All’interno della stessa galassia jihadista, il terrorismo si impone come strumento di lotta, di resistenza e di prevaricazione, e lo fa con diversi gradi e modelli di violenza: da quella individuale, a quella organizzata, a quella ispirata e ancora al terrorismo insurrezionale che ben abbiamo conosciuto in Afghanistan e in Iraq, in Siria e, in parte, stiamo osservando nelle sue manifestazioni nella Striscia di Gaza dove l’esercito israeliano si confronta con il gruppo Hamas (Bertolotti, 2024).

E proprio l’esperienza afghana, che l’Autore del presente articolo ha avuto modo di studiare da vicino per molti anni, a cui si è sommata l’ondata di violenza conseguente all’appello di Hamas a colpire Israele e i suoi alleati, e la successiva vittoria islamista in Siria, hanno svolto un ruolo determinante nella ripresa di un terrorismo ispirato ed emulativo a livello globale, che si basa sull’esperienza vittoriosa dei talebani contro l’Occidente, da un lato, e, dall’altro, sulla rabbia veicolata attraverso la strategia comunicativa di Hamas che trova in alcune minoranze ideologizzate occidentali una cassa di risonanza che sovrappone, confondendola, l’agenda violenta e terrorista di Hamas alla legittima istanza palestinese: due elementi a cui si somma l’entusiasmo della galassia jihadista conseguente alla vittoria del gruppo islamista Hay’at Tahrir al-Sham in Siria, che ben è riuscito a mascherarsi agli occhi occidentali attraverso un pragmatico opportunismo. Eventi sul piano delle Relazioni internazionali che, attraverso la retorica jihadista, sono sfruttati per dimostrare la bontà e la fondatezza del jihad, e dunque del terrorismo come strumento di lotta, di vittoria, di giustizia.

E oggi, dopo e insieme all’Afghanistan, all’Iraq, alla Striscia di Gaza e alla Siria, a svolgere questo ruolo di spinta ideologica e coinvolgimento di massa, sono le dinamiche conflittuali in Medioriente e il terrorismo mediaticamente amplificato di Hamas; da questo discendono le manifestazioni emulative di violenza che il terrorismo ai danni di Israele ha in parte provocato e potrebbe sempre più provocare in Europa come nei paesi del Nord Africa, dell’Africa subsahariana e del Sahel.[1]

Terrorismo di successo o fallimentare? Elementi di analisi dell’operazione terroristica contro Charlie Hebdo: azione tattica, obiettivo strategico.

Dall’articolo originale di C. Bertolotti pubblicato il 12 gennaio 2015 su ITSTIME

Parigi, 7-9 gennaio 2014: 15 morti (12 vittime e tre terroristi jihadisti). Dopo Canada, Stati Uniti e Australia, i due episodi in Francia, collegati o meno tra di loro, forniscono alcuni utili elementi di valutazione sul “terrorismo jihadista” contemporaneo.

Si vogliono qui elencare sinteticamente gli elementi di forza caratterizzanti tale fenomeno (in fase di espansione e radicalizzazione), le vulnerabilità, gli elementi di minaccia, le opportunità e, infine, i “trade-off” – le variabili in grado di influire sugli sviluppi socio-politici e sulle procedure di sicurezza in atto e in fase di implementazione.

In primo luogo, i punti di forza del terrorismo jihadista emerso in concomitanza con l’espansione territoriale e comunicativa del fenomeno Stato islamico (2013-2017) si sono temporaneamente concretizzati nelle adeguate capacità informativa, organizzativa e di movimento a cui si sono uniti la forte motivazione e l’elevato livello operativo acquisito da quei foreign fighter “europei” che hanno fatto rientro dai teatri di guerra iracheno, siriano e libico. Tali soggetti sono stati in grado di sfruttare a proprio vantaggio la pressoché infinita disponibilità di obiettivi di tipo “soft target” da colpire e caratterizzati da un elevato livello di vulnerabilità; un vantaggio che si è accompagnato alla possibilità di reperimento di armi da guerra provenienti dal mercato nero (nulla a che vedere con le armi comuni regolarmente denunciate e detenute) e di equipaggiamenti reperibili dal libero commercio. Azioni di questa tipologia sono state in grado di indurre all’emulazione altri soggetti, indipendenti e non organizzati: gli emulatori, spesso indicati impropriamente come i lone wolf (lupi solitari o terroristi autoctoni).

Agli elementi forti fanno eco alcuni fattori di debolezza del terrorismo jihadistaIn primis, sul piano operativo, la marginale capacità di colpire con efficacia la maggior parte degli hard-target (obiettivi militari, infrastrutture strategiche, critiche e sensibili); sul piano informativo vi è invece una concreta vulnerabilità all’identificazione attraverso i social-network. Infine, su un piano più generale, permangono gli attriti latenti all’interno delle eterogenee dimensioni jihadiste, mentre si sono sviluppate le conflittualità tra i differenti brand del jihad, in particolare al-Qa’ida vs lo Stato islamico: una competizione che apre all’intensificazione delle azioni violente.

Ai fattori di debolezza del terrorismo jihadista, si contrappongono le vulnerabilità degli stati occidentali. Gli eventi registrati nel corso degli ultimi dieci anni, tendono a dimostrare come le forze di sicurezza e di intelligence non siano in grado di contrastare le manifestazioni di un fenomeno sempre più audace (e il verificarsi di un singolo episodio si impone su quelli prevenuti con efficacia); nel complesso vi è una sostanziale incapacità previsionale da cui derivano limiti oggettivi di azione preventiva – accentuati dai tagli alle spese della componente difesa-sicurezza – nei confronti dei potenziali obiettivi la cui salvaguardia richiede(rebbe) elevati costi in termini di risorse umane, economiche e materiali per garantirne la sicurezza fisica. Inoltre, pesa l’assenza di un adeguato quadro giuridico finalizzato a un efficace contrasto al “terrorismo fondamentalista di matrice jihadista” (che differisce dallo storico “terrorismo politico” di stampo europeo in ragioni, dinamiche, sviluppi e organizzazione).

Pesa, nel complesso, l’assenza di una classe dirigente competente in grado di definire una linea strategica per la sicurezza e che sia, al contempo, in grado di far fronte al crescente disagio sociale – in parte conseguenza di un alto tasso di disoccupazione – e alla pressione dell’opera di reclutamento e propaganda jihadista – sia globale via web, sia a livello locale. A ciò si aggiungono la diffusione del “terrore”, il condizionamento dell’opinione pubblica, l’esaltazione di sentimenti nazionalistici e la deriva estremista (su entrambi i fronti) e populista i cui effetti inducono a scelte politiche restrittive, tra le quale anche la limitazione di diritti individuali (privacy e sicurezza) e la sospensione di accordi internazionali (nel merito si cita la decisione del governo francese nel 2015, e dieci anni dopo quello tedesco, di limitare il libero movimento dei cittadini europei attraverso le proprie frontiere, in deroga al trattato di Shengen).

Significative le opportunità potenziali, su entrambi i fronti.

Le opportunità del terrorismo jihadista sono conseguenza del contesto in cui si è orientato a operare e della riorganizzazione strutturale.

Il contesto operativo è il “domestic urban warfare” (ambito urbano ad alta densità di popolazione) in grado, da un lato, di garantire la presenza di safe-areas di supporto e, dall’altro, di opporre una limitata capacità di reazione da parte di forze di polizia urbana dal basso profilo operativo.

Si è così imposta una nuova forma ibrida della guerra che ha indotto a una razionale riorganizzazione strutturale del terrorismo jihadista, su base individuale, rafforzata dall’attivazione di singoli soggetti pronti a colpire, in caso di appello o in risposta a eventi emotivamente o mediaticamente esaltanti, e già presenti in Europa o in aree di prossimità (come la Turchia che è al tempo stesso area di transito della “migrazione jihadista” e sostenitrice del fronte islamista siriano di Hay’at Tahrir al-Sham che con la forza insurrezionale ha posto termine al regime di Bashar al-Assad).

Le opportunità che possono essere colte dagli stati occidentali sono rappresentate, in primo luogo, da una collaborazione attiva delle agenzie intelligence funzionale alla possibile riorganizzazione di un modello di difesa-sicurezza di tipo “diffuso e condiviso”; a ciò si unisce l’opportunità di un maggiore coinvolgimento delle comunità musulmane. In secondo luogo, v’è da porre in evidenza l’opportunità rappresentata da un razionale, quanto efficace, impegno dell’Occidente nella lotta ad ampio spettro al gruppo Stato islamico e in un coerente ed equilibrato controllo delle frontiere lungo l’arco mediterraneo.

A fronte delle opportunità, vi sono le minacce. La prima è rappresentata dall’emergere di una condizione di tensione sociale derivante da azioni terroristiche reali o, più semplicemente, potenziali, a cui si contrappongono i limiti di capacità di reazione e contrasto dei governi europei. Limiti che saranno messi a dura prova dal probabile fenomeno di emulazione ampiamente registrato e dalla replicabilità di azioni dimostrative anche violente (ad esempio, l’incendio alla rivista tedesca “Hamburger Morgenpost” l’11 gennaio 2015, che nei giorni successivi all’attacco a Parigi pubblicò alcune vignette di Charlie Hebdo, e, lo stesso giorno, l’allarme bomba a Bruxelles alla sede del più importante quotidiano belga, “Le Soir”). Un livello di minaccia accentuato dalla natura inequivocabile del ruolo di “one-shot fighter” del “terrorista”, determinato dalla consapevolezza di andare incontro a morte altamente probabile o certa.

Infine, le scelte alternative (trade-off). Sul piano della sicurezza, non sono da escludere i potenziali effetti dinamizzanti derivanti dal processo di amplificazione mass-mediatica, a cui concorrono sia le striscianti quanto fantasiose teorie “complottistiche”, sia la diffusione virale di quei video-web postumi dei terroristi che possono alimentare le dinamiche di competizione dei gruppi di jihadisti ed esaltare improvvisati lone wolf. Significativa è la strategia finalizzata all’attenzione massmediatica che ha per scopi l’amplificazione del messaggio e la capacità attrattiva dei potenziali militanti (in particolare al-Qa’ida e Stato islamico, che in tale ottica hanno impresso un’accelerata recrudescenza di azioni mediaticamente sempre più appaganti; con ciò indicando un’escalation nell’intensità delle azioni su suolo europeo).

Fatte queste necessarie valutazioni iniziali, concludiamo con l’elenco (certamente parziale) degli effetti derivanti dalla singola azione portata a compimento a Parigi nel gennaio 2015 da due soli soggetti (a cui si aggiunge una seconda azione condotta da un singolo terrorista).

Sul piano tattico e operativo:

  • eliminazione degli obiettivi (dal forte valore simbolico);
  • capacità di tenere impegnate 88.000 unità della sicurezza nazionale (Forze Armate e di polizia), distraendole dai normali compiti di routine;
  • blocco della capitale di una delle più importanti nazioni a livello mondiale;
  • dimostrazione dei limiti dello strumento intelligence e di sicurezza.

Sul piano strategico e politico:

  • diffusione e amplificazione massmediatica del messaggio jihadista;
  • dimostrazione dell’imprevedibilità della minaccia;
  • generale consapevolezza di vulnerabilità (forte impatto psicologico);
  • terrore diffuso immediato e paura collettiva persistente;
  • scelta da parte degli attentatori del “martirio autonomamente scelto (istisshadi) e imposizione del ruolo di “martire” (shahid) di fronte alla propria comunità;
  • induzione alla polarizzazione “identitaria”;
  • fomento degli impulsi populisti e radicali;
  • mobilitazione della Comunità internazionale;
  • avvio del processo di revisione dei protocolli di sicurezza;
  • sospensione degli accordi di Shengen e possibile restrizione delle libertà individuali (privacy, mobilità).

In estrema sintesi, si tratta innegabilmente di un successo sui piani mediatico, politico, psicologico e su quello della sicurezza; un successo facilmente replicabile indipendentemente dagli effetti diretti su quel “campo di battaglia” del quale siamo parte, in veste di attori protagonisti o di semplici comparse.

In conclusione: il vero successo è a livello operativo: il “blocco funzionale”

Come abbiamo avuto modo di evidenziare in #ReaCT2024 – 5° Rapporto sul radicalismo e il terrorismo in Europa, anche quando un attacco terroristico non riesce, produce comunque un risultato significativo: impegna pesantemente le forze armate e di polizia, distraendole dalle loro normali attività o impedendo loro di intervenire a favore della collettività. Inoltre, può interrompere o sovraccaricare i servizi sanitari, limitare, rallentare, deviare o fermare la mobilità urbana, aerea e navale, e ostacolare il regolare svolgimento delle attività quotidiane, commerciali e professionali, danneggiando le comunità colpite. Questo riduce efficacemente il vantaggio tecnologico e il potenziale operativo, nonché la capacità di resilienza. In generale, infligge danni diretti e indiretti, indipendentemente dalla capacità di provocare vittime. La limitazione della libertà dei cittadini è un risultato misurabile ottenuto attraverso queste azioni.

In sostanza, il successo del terrorismo, anche senza causare vittime, risiede nell’imporre costi economici e sociali alla collettività e nel condizionare i comportamenti nel tempo in relazione alle misure di sicurezza o limitazioni imposte dalle autorità politiche e di pubblica sicurezza. Questo fenomeno è noto come “blocco funzionale”. Nonostante la capacità operativa del terrorismo sia sempre più ridotta, il “blocco funzionale” rimane uno dei risultati più importanti ottenuti dai terroristi, indipendentemente dal successo tattico (uccisione di almeno un obiettivo). Dal 2004 a oggi, il terrorismo ha dimostrato di essere efficace nel conseguire il “blocco funzionale” nell’80% dei casi, con un picco del 92% nel 2020 e dell’89% nel 2021. Questo risultato impressionante, ottenuto con risorse limitate, conferma il vantaggioso rapporto costo-beneficio a favore del terrorismo, pur a fronte di una rilevata perdita progressiva di capacità che ha visto diminuire l’ottenimento del “blocco funzionale”, sceso al 78% nel 2022 e al 67% nel 2023.


[1] C. Bertolotti (2024), Il terrorismo jihadista in Europa e le dinamiche mediterranee: evoluzione storica, sociale e operativa in un’era di cambiamenti globali – i risultati dell’Osservatorio sul radicalismo e il contrasto al terrorismo (ReaCT), in “#ReaCT2024, 5° Rapporto sul Radicalismo e il Terrorismo in Europa”, ed. START InSight.