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Trump: la visione geopolitica del nuovo esecutivo.

di Melissa de Teffè dagli Stati Uniti – giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense, accreditata per START InSight presso il Dipartimento di Stato.

È trascorso un mese e sei giorni dall’inaugurazione della nuova presidenza statunitense, e oggi 26 febbraio, si è potuto riunire nella sua completezza il governo o meglio l’esecutivo al completo, che significa che i candidati ministeriali scelti da Trump sono stati tutti approvati dal Senato, ad eccezione di Musk che è stato scelto come consulente esterno a termine.

Conclusasi la riunione, la stampa sia nazionale che internazionale è stata invitata per una breve sessione di domande e risposte.

Il primo a essere sollecitato è stato Musk visto il polverone che la mail inviata ai dipendenti federali sembra aver causato shock in ogni dove, persino in Italia. (Vorrei precisare che Musk non era seduto al tavolo dei “ministri”, non essendo ministro/segretario). Anche qui pare che il problema sia lo stesso se non peggio. Sembra infatti che dalla pandemia di Covid in poi, con la scusa del lavoro da remoto, molti abbiano un doppio stipendio, quello federale e quello di un secondo lavoro. La richiesta, quindi, non è solo di verificare di cosa si occupa l’impiegato chiedendo appunto quali compiti abbia, ad esempio, espletato nell’ultima settimana, ma anche capire se esiste, se lavori a quel posto e se meriti per talento e capacità, di poter occupare quella posizione.

Il leitmotiv come ho già detto in precedenti articoli è sempre lo stesso, “come risanare l’economia americana” non solo per arginare un’inflazione che non può essere debellata in tempi brevi, partendo dall’estinzione del debito pubblico che ad oggi ammonta a 34 mila miliardi, ma anche tagliando qualsiasi costo superfluo, iniziando da pensioni a pensionati inesistenti, impiegati con doppio lavoro o finti ecc., snellendo la macchina burocratica. Abbiamo infatti saputo da Musk che il parco elettronico, con i suoi computer e server, è vetusto. Molte agenzie non sono interconnesse, e ha portato come esempio le inefficienze nella gestione dei documenti federali. Ha menzionato che prima che un dipendente federale possa andare in pensione, i suoi documenti cartacei vengono elaborati più di 60 metri sottoterra in una vecchia miniera di calcare in Pennsylvania, un processo che spesso richiede mesi. Ha anche chiaramente ammesso che ci sono stati sbagli come la cancellazione dei fondi per debellare l’ebola, ma che una volta scoperto i fondi sono stati subito ripristinati. D’altra parte, tutti possono sbagliare. È risultato evidente che nulla viene eseguito senza la supervisione della Casa Bianca, e che esiste una collaborazione stretta con tutti i rappresentanti del gabinetto, visto che i tagli sono trasversali a tutte le agenzie.

Interessante invece la nuova proposta della “the Trump gold card”. Il programma è pensato per consentire alle aziende americane di reclutare studenti stranieri presenti negli Stati Uniti e che magari si sono laureati non solo con il massimo dei voti ama anche da università prestigiose, ma che non possono rimanere a causa della legge EB5 sull’immigrazione. Lutnik, che presiede il Dipartimento per il Commercio con l’aiuto di Kristie Noem, Segretario per la Sicurezza Nazionale, è a capo di questa iniziativa che secondo lui permetterebbe alle aziende americane di assumere attraverso la “gold card” studenti stranieri appetibili per il mercato del lavoro, garantendo loro di restare e venir regolarmente assunti. La gold card, che costa 5 milioni di dollari, non solo aiuterà le aziende a reclutare talenti di livello, ma quei soldi verrebbero devoluti per coprire il debito nazionale.

Trump prevede che la gold card sarà utilizzata da aziende come Apple, che proprio l’altro ieri, ha annunciato l’assunzione di migliaia di persone grazie agli incentivi fiscali “trumpiani” e quindi, dice Trump, anche loro vorranno investire nell’assunzione di laureati più appetibili, senza dover ricorrere ad altri paesi, lunghe trafile burocratiche, oltre a costi legali salati. La gold card viene descritta come una sorta di “green card-plus”, che offre anche un percorso per ottenere la cittadinanza. Trump è certo che il programma dovrebbe generare entrate sostanziali attirando individui altamente produttivi.

Un altro punto interessante toccato in conferenza stampa, è stato l’Afghanistan.  Più forse come una scusa, visto che si stava parlando di risparmio, Trump ha fatto in modo di raccontare che ad oggi l’Afghanistan riceve aiuti finanziari dall’America. E qui si è aperta la voragine.

Trump critica il ritiro dall’Afghanistan: “disastroso e mal gestito”

Senza pietà, e con la sua solita calma imperturbabile, il presidente ha descritto il ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan come un disastro completo, criticandone la gestione da parte dell’amministrazione Biden. Ha sottolineato come l’operazione sia stata mal pianificata, evidenziando l’abbandono di enormi quantità di equipaggiamento militare, tra cui 70.000 veicoli, aerei, elicotteri e armi, che ora, nelle mani dei talebani, vengono anche venduti a mercenari.

“Abbiamo lasciato 70.000 veicoli, tra cui carri armati, Humvees e veicoli blindati. Abbiamo lasciato elicotteri, aerei e armi. E ora, i talebani usano il nostro equipaggiamento contro di noi”, ha dichiarato.  Paragonando la situazione a una persona che acquista un’auto, ma lascia le chiavi dentro e il motore acceso, Trump ha affermato che “è esattamente quello che è successo: l’equipaggiamento era lì, disponibile, e ora è nelle mani del nemico.”

Il presidente ha anche criticato l’abbandono della base aerea di Bagram, che ritiene strategicamente vitale per gli Stati Uniti, soprattutto per monitorare la Cina, dato che si trova a un’ora di distanza da dove il paese asiatico produce i suoi missili nucleari. “Abbiamo dato via Bagram. E sapete chi la sta occupando ora? La Cina”. Trump ha aggiunto che sotto la sua amministrazione, gli Stati Uniti avrebbero mantenuto Bagram, non per l’Afghanistan, ma per motivi di sicurezza nazionale legati alla Cina. – “Diamo miliardi di dollari all’Afghanistan e lasciamo dietro tutto quell’equipaggiamento, cosa che non sarebbe dovuta accadere”, ha dichiarato. A suo avviso, i talebani ora stanno vendendo l’equipaggiamento militare lasciato, rendendo l’Afghanistan uno dei maggiori venditori di equipaggiamento militare al mondo. “Stanno vendendo 777.000 fucili, 70.000 veicoli blindati”, ha aggiunto Trump, facendo un parallelo con un parcheggio di auto usate, dove 70.000 veicoli sarebbero un numero impressionante.

Il presidente ha infine espresso la sua convinzione che gli Stati Uniti debbano recuperare l’equipaggiamento lasciato, poiché considera che l’America abbia il diritto di riprenderselo. “Penso che dovremmo riaverlo”, ha concluso, riflettendo sulla gravità della situazione e suggerendo che questo episodio rappresenta una lezione da imparare per il futuro.

La geopolitica sul lato asiatico

Ma sappiamo di una storia parallela a questa che però verrà affrontata domani quando il Primo Ministro inglese metterà piede nell’ufficio ovale. Fra i vari argomenti che saranno affrontati ci sarà quello concernente la cessione delle isole Chagos al governo delle isole Mauritius nell’oceano Indiano, un tempo francesi, e donate dalla Francia agli inglesi nel 1814.  Starmer, avrebbe deciso di cedere le Isole Chagos, dove peraltro c’è un importante base militare americana costruita insieme agli inglesi. Le Mauritius hanno da tempo rivendicato la sovranità sulle isole Chagos, un arcipelago nell’Oceano Indiano. Sollecitata dal Primo Ministro mauriziano, nel 2019, la Corte internazionale di giustizia (CIG) ha emesso un parere consultivo che ha riconosciuto la sovranità delle Mauritius sulle isole Chagos e ha chiesto la fine del colonialismo britannico nella regione.

Le Mauritius, guidate dal primo ministro Jugnauth, hanno inoltre demandato oltre alla restituzione delle isole, un risarcimento di 18 miliardi di sterline per la base militare Diego Garcia.  Jugnauth, ha anche minacciato il Primo Ministro inglese, affermando che, visto i loro legami con la Cina, questa si arrabbierebbe (chissà cosa vuol dire?) se non verranno soddisfatte le richieste. Il governo delle Mauritius ha un forte legame commerciale con la Cina, che ha sicuramente un grande interesse nel controllo della base militare.

Il primo ministro Starmer, durante l’incontro con il presidente Trump, cercherà di convincerlo ad accettare la cessione, sostenendo che è la cosa giusta da fare, in quanto la Corte Internazionale di Giustizia ha emesso un parere consultivo favorevole delle Mauritius. Starmer teme che se non avvenisse la cessione la Cina potrebbe reagire negativamente. Non possiamo fare altro che augurare buona fortuna a Starmer che troverà certamente un negoziatore veterano e rinomato oltre che imprevedibile.


Ucraina: l’imposizione di Trump e l’opposizione di Macron.

di Claudio Bertolotti.

L’analisi del quarto anno di guerra.

Tre anni di guerra conclusi, un nuovo anno di guerra appena iniziato. Questo lo stato delle cose della guerra russo-ucraina, iniziata con l’invasione di Mosca il 24 febbraio 2022. Quali gli elementi di analisi per definire in maniera quanto più concreto lo scenario che si sta definendo?

Il commento di C. Bertolotti per Officina Geopolitica di START inSight.

Occorre guardare a quanto è successo negli ultimi tre anni, con particolare attenzione alle responsabilità dell’amministrazione di Joe Biden.

In primis dobbiamo tenere conto della condotta della guerra: cambio degli obiettivi primari (caduta del governo) e perseguimento dell’obiettivo secondario (occupazione porzione territoriale). La Russia ha sempre mantenuto il vantaggio tattico.

Secondo aspetto: la scelta dell’amministrazione Biden di non concedere all’Ucraina gli strumenti per vincere la guerra, ma solo di potersi ben difendere.

Terzo: il ruolo dell’Europa. Secondario e marginale.

Quarto: la volontà di Trump di concludere la guerra per ragioni politiche interne (coerenza con il mandato elettorale).

Scenario più probabile? Ucraina monca. Russia indebolita economicamente, ma vittoriosa sul piano comunicativo (interno ed esterno): in più Mosca ha archiviato due successi consecutivi (Crimea, Donbass). Il primo funzionale al perseguimento del secondo. E questo, il Donbass, funzionale alla possibile ulteriore pretesa territoriale in futuro.


Gruppo Wagner oggi – l’evoluzione

di Andrea Molle
(immagine di copertina generata con AI)

A febbraio 2025, il Gruppo Wagner, la più famosa compagnia militare privata russa (PMC), continua a svolgere un ruolo significativo nelle operazioni estere di Mosca, in particolare in Africa e in alcune aree del Medio Oriente. Le attività del gruppo si sono evolute notevolmente dopo la morte del suo fondatore, Yevgeny Prigozhin, in un sospetto incidente aereo nell’agosto 2023. La sua morte ha segnato la fine della relativa autonomia di Wagner e l’inizio di una nuova fase in cui il governo russo ha esercitato un controllo molto più stretto sulle sue operazioni.

Subito dopo la morte di Prigozhin, il Cremlino si è mosso rapidamente per riorganizzare la struttura di Wagner e portare la sua leadership sotto la diretta supervisione del Ministero della Difesa russo (MoD) e della Direzione principale dello Stato Maggiore delle Forze Armate (GRU). Molti dei principali comandanti di Wagner sono stati rimossi o riassegnati, mentre altri, che hanno giurato fedeltà al Cremlino, sono stati integrati nelle strutture statali ufficiali. Questo processo ha incluso l’obbligo per i combattenti di Wagner di firmare contratti con il MoD, trasformando di fatto l’ex forza mercenaria indipendente in un’estensione paramilitare dello stato russo.

Nonostante questi cambiamenti, Wagner ha mantenuto la sua presenza operativa, in particolare in Africa, dove il gruppo è considerato strategicamente vitale per le ambizioni geopolitiche della Russia. È ancora attivo in paesi come la Repubblica Centrafricana (CAR), il Mali e la Libia, fornendo servizi di sicurezza, addestramento militare e operazioni di estrazione di risorse che generano entrate sia per sé stesso che per lo stato russo. Tuttavia, secondo i rapporti, il modello operativo di Wagner è cambiato, facendo maggiore affidamento sui finanziamenti e sul supporto logistico statale, riducendo così la sua precedente indipendenza finanziaria.

Anche le attività del gruppo in Ucraina sono cambiate. Mentre Wagner ha svolto un ruolo chiave in importanti battaglie, tra cui la conquista di Bakhmut, il suo coinvolgimento diretto sul fronte è diminuito dopo la ristrutturazione. Molti combattenti di Wagner sono stati assorbiti nelle unità regolari dell’esercito russo o riassegnati ad altri teatri operativi, specialmente quelli considerati cruciali da Mosca per esercitare la sua influenza. Di fatto, l’era post-Prigozhin ha trasformato Wagner da una forza semi-autonoma in un’entità paramilitare più centralizzata e controllata dallo stato, assicurando che le sue operazioni restino allineate con gli interessi strategici più ampi del Cremlino.

Rapporto con il governo russo
Il rapporto tra il Gruppo Wagner e il governo russo ha subito una drastica trasformazione, evolvendosi da una forza paramilitare ombra con plausibile negabilità a un’entità completamente riconosciuta e controllata dallo stato. Inizialmente, il Cremlino ha cercato di oscurare i suoi legami con Wagner, negando qualsiasi connessione ufficiale e presentando il gruppo come una compagnia militare privata (PMC) operante di propria iniziativa. Questa ambiguità ha permesso alla Russia di proiettare il proprio potere all’estero evitando la responsabilità diretta per le azioni di Wagner, specialmente in regioni sensibili come l’Ucraina, la Siria e l’Africa. Tuttavia, questa distanza strategica si è progressivamente ridotta man mano che il ruolo di Wagner nelle operazioni militari russe si espandeva e la sua dipendenza dalle risorse statali diventava innegabile.

Il punto di svolta in questa relazione è arrivato nel giugno 2023, quando il presidente Vladimir Putin ha ammesso pubblicamente che Wagner era interamente finanziato dal governo russo. Ha rivelato che lo stato aveva stanziato circa 1 miliardo di dollari per Wagner tra maggio 2022 e maggio 2023, con 858 milioni destinati direttamente a stipendi e costi operativi, mentre altri 162 milioni erano stati pagati alla società Concord di Prigozhin, che gestiva la logistica e il catering di Wagner. Questa ammissione ha distrutto qualsiasi illusione di indipendenza di Wagner, rafforzando l’idea che il gruppo avesse sempre funzionato come un braccio non ufficiale della strategia militare russa.

Questa rivelazione ha avuto conseguenze ambivalenti. Da un lato, ha legittimato il contributo di Wagner alle campagne militari russe, in particolare nella brutale battaglia per Bakhmut in Ucraina. Dall’altro, ha posto le basi per un controllo governativo più stretto, poiché il Cremlino non poteva più giustificare l’esistenza di una forza militare privata al di fuori dell’autorità statale. La lotta di potere tra Wagner e il Ministero della Difesa russo (MoD), che si protraeva da anni, ha raggiunto il suo apice nel giugno 2023, quando Prigozhin ha lanciato la sua fallimentare ribellione contro l’alto comando russo.

La ribellione di Prigozhin, durata poche ore e che ha visto le forze di Wagner occupare temporaneamente Rostov sul Don e marciare verso Mosca, è stata il catalizzatore per la presa di controllo totale del Cremlino sulle operazioni di Wagner. Sebbene il tentativo di ammutinamento si sia concluso con un accordo negoziato—presumibilmente mediato dal presidente bielorusso Alexander Lukashenko—le sue conseguenze sono state profonde. Il governo russo ha rapidamente smantellato la struttura di comando indipendente di Wagner, costringendo i suoi combattenti a firmare contratti con il MoD o a sciogliersi. Mentre alcuni membri di Wagner hanno scelto di integrarsi nelle forze armate regolari, altri si sono trasferiti in Bielorussia, dove è stata temporaneamente stabilita una presenza di Wagner sotto supervisione statale.

Tuttavia, è presto diventato chiaro che il Cremlino non aveva alcuna intenzione di permettere a Wagner di rimanere un’entità autonoma. Dopo la misteriosa morte di Prigozhin in un incidente aereo nell’agosto 2023—ampiamente ritenuto un assassinio orchestrato dai servizi di sicurezza russi—il Cremlino ha completato l’assorbimento di Wagner nell’apparato statale. I comandanti di alto rango rimasti fedeli a Prigozhin sono stati epurati, mentre coloro che erano disposti a collaborare con il MoD hanno ricevuto incarichi all’interno della gerarchia militare russa. Questa ristrutturazione ha garantito che Wagner, un tempo una forza imprevedibile e semi-indipendente, fosse ora completamente subordinata al governo russo.

Wagner non opera più come una PMC indipendente, ma come un’estensione dell’esercito russo, con un focus sul supporto alle ambizioni geopolitiche di Mosca all’estero.

Come accennato, con Wagner ora sotto il controllo diretto del Cremlino, le sue operazioni sono state ufficialmente integrate nel MoD russo e nelle agenzie di intelligence come il GRU (il servizio segreto militare russo). La nuova struttura di comando ha posto Wagner sotto ufficiali militari russi esperti e fedeli allo stato, assicurando che le sue azioni fossero allineate agli obiettivi di sicurezza nazionale. Anche il quadro finanziario di Wagner è stato ristrutturato, con i fondi statali destinati a sostenere le sue operazioni estere e l’eliminazione delle entrate private che in passato garantivano la sua autonomia finanziaria.

In termini pratici, ciò significa che Wagner non opera più come una PMC indipendente, ma come un’estensione dell’esercito russo, con un focus sul supporto alle ambizioni geopolitiche di Mosca all’estero. In Africa, ad esempio, Wagner continua a funzionare come principale contractor per la sicurezza della Russia, garantendo il controllo di territori ricchi di risorse e sostenendo regimi alleati. Tuttavia, tutti i contratti, la logistica e i processi decisionali sono ora strettamente monitorati dal Cremlino, garantendo che le attività di Wagner servano gli interessi dello stato russo piuttosto che quelli di singoli comandanti.

La trasformazione del Gruppo Wagner da una forza mercenaria semi-autonoma a un’entità controllata dallo Stato ha consolidato il suo ruolo di strumento chiave della politica estera russa. Sebbene il marchio di “PMC” (Private Military Company) rimanga utile per manovre diplomatiche e legali, Wagner opera ora con il pieno sostegno dello Stato russo, consentendo a Mosca di espandere la sua influenza in regioni strategiche senza dispiegare direttamente le forze militari ufficiali.

In Africa, Wagner ha continuato le sue operazioni di sicurezza nella Repubblica Centrafricana, in Mali, in Sudan e in Libia, spesso ottenendo concessioni minerarie redditizie e accordi militari strategici in cambio dei suoi servizi. Queste operazioni non solo forniscono alla Russia l’accesso a risorse preziose come l’oro e i minerali rari, ma rafforzano anche le sue alleanze politiche con governi autoritari in cerca di un’alternativa all’assistenza militare occidentale.

Nel frattempo, in Medio Oriente, l’eredità di Wagner in Siria—dove ha svolto un ruolo cruciale nel sostenere il regime di Bashar al-Assad—rimane intatta nonostante il cambiamento di leadership, con rapporti che suggeriscono che il personale Wagner continui ad assistere le forze siriane nel mantenere il controllo su regioni chiave, fornendo anche un corridoio di rifornimento per altre operazioni russe in Africa.

In Ucraina, tuttavia, il ruolo diretto di Wagner nei combattimenti si è ridotto a seguito della sua integrazione nel Ministero della Difesa russo. Sebbene alcuni combattenti Wagner siano rimasti attivi in prima linea, in particolare in ruoli specialistici come la ricognizione e le operazioni di sabotaggio, la loro presenza complessiva si è significativamente ridotta rispetto al picco dell’offensiva di Bakhmut.

Operazioni attuali
Il Gruppo Wagner rimane attivo in diverse nazioni africane, in particolare nella Repubblica Centrafricana (CAR) e in Mali, dove continua a essere un importante strumento di influenza russa. Le sue operazioni in questi paesi sono strettamente intrecciate con i governi locali, l’estrazione di risorse e le partnership militari che offrono vantaggi sia finanziari che strategici a Mosca.

Nella Repubblica Centrafricana, gli operativi di Wagner si sono radicati come la principale forza di sicurezza a sostegno del governo del presidente Faustin-Archange Touadéra. Il loro coinvolgimento è iniziato nel 2018 come consiglieri militari e addestratori per le forze armate locali, ma si è poi ampliato fino a includere operazioni di combattimento contro gruppi ribelli. Wagner è stata direttamente coinvolta nei combattimenti contro varie fazioni insurrezionali, tra cui la Coalizione dei Patrioti per il Cambiamento (CPC), un’alleanza di ribelli che mira a rovesciare Touadéra.

Oltre alle operazioni militari, Wagner ha stabilito il controllo su settori economici chiave, in particolare l’industria mineraria dell’oro e dei diamanti. Il gruppo ha ottenuto diritti esclusivi per la gestione di diverse miniere, con i ricavi presumibilmente convogliati verso aziende russe che finanziano le operazioni globali di Wagner. Queste attività economiche non solo rendono Wagner autosufficiente nella regione, ma rafforzano anche l’influenza russa sul governo della CAR. Secondo alcuni rapporti, gli operativi di Wagner proteggono funzionari governativi, controllano la sicurezza delle frontiere e gestiscono parti dell’infrastruttura della difesa del paese.

L’influenza di Wagner si estende anche alla propaganda, con campagne mediatiche che promuovono narrazioni filo-russe e screditano il coinvolgimento occidentale nel paese. Messaggi pro-Russia sono diffusi in tutta la Repubblica Centrafricana, con gruppi affiliati a Wagner che distribuiscono materiali che presentano Mosca come un alleato affidabile in contrasto con le ex potenze coloniali, come la Francia.

In modo simile, in Mali la presenza di Wagner è cresciuta significativamente dopo il ritiro delle forze francesi nel 2022, segnando un importante cambiamento nelle alleanze regionali. Dopo il colpo di stato militare del 2021, la giunta al potere ha cercato alternative di sicurezza, e la Russia, attraverso Wagner, è emersa come un attore chiave. I mercenari Wagner sono stati schierati con il pretesto di assistere le forze armate maliane nelle operazioni antiterrorismo contro i gruppi jihadisti affiliati ad al-Qaeda e all’ISIS nella regione del Sahel. Tuttavia, la loro presenza è stata controversa, con numerose accuse di violazioni dei diritti umani, tra cui esecuzioni extragiudiziali, torture e massacri di civili.


Foto di James Wiseman su Unsplash

Nonostante queste preoccupazioni, la giunta militare del Mali continua a fare affidamento sul sostegno di Wagner, considerandolo un’alternativa affidabile all’assistenza militare occidentale. In cambio dei loro servizi, Wagner avrebbe ottenuto accesso alle risorse naturali del Mali, in particolare alle miniere d’oro, in modo simile alla CAR. Inoltre, Wagner ha avuto un ruolo nel rimodellare la politica estera del Mali, rafforzando i legami con Mosca e allontanando il paese dagli alleati occidentali tradizionali. Questo potrebbe rappresentare una seria minaccia per l’Italia, l’unico paese europeo con una presenza significativa nella regione sub-sahariana.

Le operazioni di Wagner in CAR e Mali fanno parte di una strategia più ampia della Russia per espandere la propria influenza geopolitica in Africa, spesso riempiendo i vuoti lasciati dalle potenze occidentali. Posizionandosi come garante della sicurezza per i regimi sotto assedio, la Russia ha ottenuto posizioni economiche e politiche strategiche nel continente. L’impegno di Wagner in Africa è in linea con gli obiettivi di Mosca di sfidare l’influenza occidentale, garantire l’accesso a risorse critiche e coltivare partnership strategiche utili in arene diplomatiche internazionali, come le Nazioni Unite.

Oltre alla Repubblica Centrafricana e al Mali, Wagner è segnalato anche in altri paesi africani, tra cui Sudan, Libia e Burkina Faso, dove continua a operare sotto vari livelli di controllo statale russo. Sebbene il suo futuro rimanga incerto dopo la morte del fondatore Yevgeny Prigozhin, il ruolo di Wagner come strumento di influenza russa in Africa rimane intatto, con le sue operazioni sempre più sotto la supervisione diretta del governo russo.

Leadership e struttura di comando
Dopo la morte di Prigozhin, il Cremlino si è mosso rapidamente per integrare le operazioni di Wagner sotto il controllo statale, trasformando il gruppo da entità semi-autonoma a una diretta emanazione della strategia militare e geopolitica russa. Nell’agosto 2023, il presidente Vladimir Putin ha firmato un decreto che obbliga tutti i combattenti di Wagner a giurare fedeltà allo Stato russo, sancendo la fine della sua indipendenza operativa e la sua assimilazione nella struttura militare ufficiale russa.

La riorganizzazione ha comportato il trasferimento del comando a individui fedeli all’establishment militare russo. Molti leader originari di Wagner, in particolare quelli legati a Prigozhin, sono stati rimossi, riassegnati o eliminati in circostanze sospette. Al loro posto, ufficiali della difesa russa e agenti del GRU hanno assunto il controllo, garantendo che le operazioni di Wagner siano pienamente allineate con gli interessi strategici di Mosca.

Forza numerica e consistenza delle truppe
La riorganizzazione di Wagner ha comportato anche una revisione della sua forza numerica. Prima della morte di Prigozhin, si stimava che Wagner contasse tra i 25.000 e i 50.000 combattenti, con una parte significativa costituita da ex detenuti russi reclutati attraverso un controverso programma di arruolamento carcerario. Dopo la scomparsa di Prigozhin, molti di questi combattenti sono stati assorbiti nelle unità regolari dell’esercito russo o congedati, causando un temporaneo calo della forza operativa di Wagner. Tuttavia, gli sforzi di reclutamento sono proseguiti sotto la nuova leadership allineata al Cremlino, e si stima che il nucleo combattente di Wagner conti ora tra i 15.000 e i 25.000 effettivi. Una parte significativa di queste truppe è stata ridistribuita in Africa, dove Wagner è attiva in paesi come la Repubblica Centrafricana, il Mali e la Libia.

Per rimpinguare le proprie fila, Wagner ha apparentemente modificato il proprio approccio al reclutamento, puntando su ex militari, veterani delle forze speciali e mercenari con esperienza di combattimento in Ucraina, Siria e Africa. Anche i programmi di addestramento sono stati ampliati, con i combattenti di Wagner che ricevono istruzione militare avanzata presso strutture controllate dal Ministero della Difesa russo prima di essere dispiegati all’estero.

Armamenti ed equipaggiamento
Nonostante la sua formale integrazione nell’apparato statale russo, Wagner continua a operare con un alto grado di autonomia per quanto riguarda il proprio arsenale e la logistica. Il gruppo mantiene l’accesso a un’ampia gamma di armamenti, provenienti principalmente dai depositi militari russi. Tra questi figurano armi leggere come i fucili d’assalto AK-74 e AK-12, le mitragliatrici PKM e Pecheneg, le armi anticarro RPG-7 e RPG-29, oltre a fucili di precisione avanzati come il Dragunov SVD e l’Orsis T-5000.

Per quanto riguarda le armi pesanti, Wagner continua a impiegare veicoli corazzati per il trasporto truppe (APC) e veicoli da combattimento della fanteria, tra cui BTR-80 e BMP-2, garantendo mobilità e potenza di fuoco nelle operazioni in Africa e Medio Oriente. Inoltre, unità di Wagner sono state osservate in passato con carri armati T-72 e T-90, in particolare nelle zone di combattimento più intense, come in Ucraina prima della loro ridistribuzione.

L’artiglieria continua a essere un elemento chiave della strategia di Wagner, con l’accesso a sistemi lanciarazzi multipli (MRLS) come il BM-21 Grad e a pezzi di artiglieria semovente più pesanti, tra cui il 2S19 Msta-S. Questi mezzi garantiscono una capacità di fuoco significativa in contesti di guerra asimmetrica. Vi sono anche segnalazioni sull’uso di droni da combattimento, tra cui UAV da ricognizione Orlan-10, impiegati per sorveglianza sul campo di battaglia e attacchi di precisione.

Sotto il controllo del Cremlino, il gruppo continuerà a fungere da principale strumento di proiezione di potenza in aree dove un coinvolgimento diretto delle forze armate russe sarebbe politicamente o diplomaticamente costoso.

In Africa, dove il supporto aereo è cruciale per la logistica e le operazioni di combattimento, Wagner ha mantenuto una piccola flotta di elicotteri, tra cui Mi-8 e Mi-24 da combattimento, utilizzati sia per il trasporto delle truppe che per il supporto aereo ravvicinato. Questi velivoli sarebbero forniti direttamente dal Ministero della Difesa russo, garantendo che le capacità aeree di Wagner rimangano operative nonostante la riorganizzazione.


Mosca, foto di jacqueline macou da Pixabay

Prospettive strategiche
Con la perdita della sua autonomia, il futuro di Wagner è ormai legato alle priorità strategiche dello stato russo. Sotto il controllo del Cremlino, il gruppo continuerà a fungere da principale strumento di proiezione di potenza in aree dove un coinvolgimento diretto delle forze armate russe sarebbe politicamente o diplomaticamente costoso. Tuttavia, la perdita della sua indipendenza operativa potrebbe ridurre l’efficacia del gruppo in alcuni scenari, soprattutto laddove la sua flessibilità e adattabilità erano stati fattori chiave di successo.

Inoltre, vi sono indiscrezioni secondo cui Mosca starebbe valutando la possibilità di ristrutturare Wagner in più compagnie militari private (PMC) più piccole, operanti con diversi livelli di controllo statale. Questa strategia permetterebbe alla Russia di mantenere una parvenza di negabilità plausibile, pur continuando a beneficiare delle competenze di Wagner nella guerra irregolare e nelle operazioni di sicurezza.

Indipendentemente dalla forma che assumerà in futuro, la trasformazione di Wagner da PMC semi-autonoma a un’organizzazione paramilitare completamente controllata dallo stato segna un cambiamento significativo nella dottrina militare russa. Il Cremlino ha, di fatto, nazionalizzato il più noto gruppo mercenario del mondo, assicurandosi che le sue operazioni rimangano pienamente allineate con le ambizioni geopolitiche russe.

Grazie alla nuova leadership, agli sforzi di reclutamento sostenuti e all’accesso continuo ad armamenti avanzati, Wagner rimane una forza formidabile nonostante la perdita della sua autonomia. Ora che è sotto il controllo diretto del Cremlino, Wagner non è più solo una PMC fuori dagli schemi, ma un elemento integrante della strategia militare e geopolitica russa. Il suo ruolo di moltiplicatore di forze in Africa e in altre aree di influenza russa si è rafforzato, con Mosca che sfrutta le capacità di Wagner per garantire interessi strategici ed economici chiave.

Nei prossimi mesi, Wagner continuerà probabilmente a espandere la propria influenza in Africa, mantenendo una presenza limitata in Ucraina e Medio Oriente. La sua integrazione nell’apparato militare russo assicura la continuità operativa, con una forte enfasi sull’allineamento delle missioni con la strategia globale del Cremlino.

Conclusione: il ruolo di Wagner nella strategia globale russa
In sintesi, il Gruppo Wagner continua a essere un elemento critico per la proiezione di potenza russa, in particolare in regioni di rilevanza geopolitica come l’Africa, il Medio Oriente e alcune parti dell’Europa orientale. La trasformazione del gruppo nell’era post-Prigozhin rappresenta un cambiamento decisivo nella gestione russa delle operazioni paramilitari, passando da una forza privata altamente influente ma informale a un’estensione più controllata dello stato russo. Questa evoluzione riflette le priorità strategiche del Cremlino: consolidare presenze economiche e militari all’estero, contrastare l’influenza occidentale e impiegare tattiche di guerra non convenzionale per raggiungere obiettivi geopolitici senza un coinvolgimento ufficiale dello stato.

La ristrutturazione di Wagner sotto il Ministero della Difesa e le agenzie di intelligence russe dimostra la determinazione del Cremlino a consolidare il controllo sulle forze militari irregolari. L’epoca in cui Wagner operava con una certa indipendenza—seguendo a volte anche interessi propri oltre a quelli del governo russo—è ormai terminata. La subordinazione diretta di Wagner alle autorità statali garantisce che le sue missioni siano strettamente allineate con gli obiettivi della politica estera di Mosca, eliminando il rischio di azioni autonome, come il tentato ammutinamento di Prigozhin, che avrebbero potuto mettere in discussione la leadership russa.

L’impiego di Wagner in Africa evidenzia il suo ruolo chiave nella strategia globale russa. Assumendo il ruolo di garante della sicurezza per regimi come quello della Repubblica Centrafricana e del Mali, Wagner ha contribuito ad ampliare l’influenza politica ed economica della Russia nella regione, in particolare garantendo l’accesso a risorse naturali di valore strategico.

Guardando al futuro, il modello operativo di Wagner potrebbe subire ulteriori evoluzioni sotto il controllo del Cremlino. La Russia potrebbe frammentare Wagner in più entità paramilitari minori, mantenendo così la flessibilità e la capacità di operare con discrezione, senza perdere il vantaggio strategico derivante dall’impiego di forze mercenarie.

Il ruolo di Wagner come elemento essenziale della strategia di guerra ibrida della Russia garantisce che rimarrà una forza formidabile sulla scena globale.

Questo approccio permetterebbe a Mosca di mantenere i vantaggi strategici dell’utilizzo di forze mercenarie—come la flessibilità, le conseguenze diplomatiche ridotte e la negabilità—mentre si previene l’emergere di un’entità potente e indipendente come il Gruppo Wagner dell’era Prigozhin. Mantenendo più unità paramilitari sotto il controllo centralizzato, la Russia può continuare a sfruttare le tattiche di guerra irregolare per raggiungere i suoi obiettivi in modo economico e politicamente gestibile.

In definitiva, la trasformazione di Wagner in uno strumento diretto del potere statale russo segna una nuova fase nell’approccio della Russia agli impegni militari globali. Il gruppo rimane una componente cruciale dell’arsenale della politica estera di Mosca, permettendo al Cremlino di esercitare influenza, garantire risorse e sfidare gli interessi occidentali in regioni di importanza strategica. Nonostante abbia perso la sua indipendenza, il ruolo di Wagner come elemento essenziale della strategia di guerra ibrida della Russia garantisce che rimarrà una forza formidabile sulla scena globale.


La sponda inesistente?

di Melissa de Teffè, dagli Stati Uniti – Giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense.

La Sveglia di Draghi dopo il discorso di JD Vance

C’è qualcosa di quasi tragico nel crescente divario transatlantico riguardo alle reali dinamiche geopolitiche. Il Vicepresidente JD Vance, pronuncia un discorso che potrebbe essere riassunto come un mix di nostalgia isolazionista e realismo spietato, avvolto nella tipica spavalderia che sempre più caratterizza i dibattiti della politica estera americana. Il suo messaggio? Gli Stati Uniti sono stanchi di pagare il conto per la sicurezza dell’Europa mentre il continente indugia e non si assume le proprie responsabilità. Ma ci siamo dimenticati che già John F Kennedy   sollecitò  l’Europa a contribuire maggiormente finanziariamente alla Nato. Durante una conferenza stampa disse: “Nel 1779, prima che la Francia entrasse nella Guerra d’Indipendenza, qualcuno disse a Benjamin Franklin- È un grande spettacolo quello che state mettendo in scena in America,”e Franklin rispose: “Sì, ma il problema è che gli spettatori non pagano.” – Oggi non siamo spettatori. Stiamo tutti contribuendo, siamo tutti coinvolti, qui in questo paese, in questa comunità, nell’Europa occidentale, nel mio stesso paese e in tutto il mondo, dove è nostra responsabilità dare il massimo contributo. Grazie.” (JFK- 2 giugno, 1961 a Parigi).

Negli ultimi 30 anni, l’Europa ha accettato tutte le scelte politiche degli Stati Uniti, che la riguardassero, i quali hanno sempre sostenuto il processo di adesione della NATO. Questa strategia ha comportato l’integrazione di ex nazioni del blocco orientale e di stati post-sovietici nell’alleanza, estendendo così l’influenza della NATO verso est.

Nel 1997, durante l’amministrazione Clinton, la NATO ha invitato Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca ad aderire, segnando la prima espansione dalla Guerra Fredda. Questa decisione faceva parte di un più ampio sforzo per integrare i paesi dell’Europa centrale e orientale nelle strutture politiche e di sicurezza occidentali. Le successive inclusioni portano all’adesione di Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia nel 2004, seguita da Albania e Croazia nel 2009, Montenegro nel 2017 e Macedonia del Nord nel 2020. L’idea teorica dietro a questo accorpamento era di voler ottenere maggiore stabilità regionale e prevenire la rinascita dell’autoritarismo.

Tuttavia, questa apertura verso est è stata un punto di contesa importante con la Russia, che l’ha percepita come una minaccia alla propria sfera d’influenza e al suo “benessere” fisiologico, (rammentiamo tutti la reazione di Kennedy quando Krushev fece giungere i missili a testata nucleare a Cuba). Documenti declassificati rivelano che i funzionari statunitensi erano consapevoli delle preoccupazioni della Russia riguardo all’allargamento della NATO, riconoscendo che ciò avrebbe potuto rappresentare una minaccia per la sicurezza russa. In sintesi, negli ultimi tre decenni, la politica degli Stati Uniti è stata determinante nell’espansione della NATO con l’obiettivo di mantenere una loro egemonia regionale. Questa strategia, pur raggiungendo i suoi obiettivi, ha anche contribuito ad accrescere le tensioni con la Russia, evidenziando le complesse dinamiche delle relazioni internazionali nel periodo post-Guerra Fredda.

Il conflitto tra Russia e Ucraina è iniziato molto prima del 2022. Fu nel 2014, che la Russia ha annesso la Crimea e ha sostenuto i movimenti separatisti in Donetsk e Luhansk, dando il via a una guerra nell’Ucraina orientale. Nonostante gli accordi di cessate il fuoco, i combattimenti non si sono mai realmente fermati. La Russia ha continuato a fornire supporto militare e logistico ai separatisti. Poi il conflitto è  escalato drammaticamente nel 2022, quando la Russia ha lanciato un’invasione su larga scala, trasformando una crisi regionale in un confronto globale.

Se il conflitto tra Russia e Ucraina ha avuto inizio nel 2014, affondando però le sue radici molto più indietro nel tempo, l’espansione della NATO verso est, avviata sotto l’amministrazione Clinton, ha alimentato nella Russia la sindrome da “fortezza sotto assedio” da alleanze militari occidentali. Questa doppia dinamica – la reazione russa nei confronti dell’Ucraina e la crescente insofferenza verso la NATO – ha creato la tempesta perfetta, trasformando un conflitto regionale latente in uno scontro geopolitico di portata cruciale.

 Il Presidente Vladimir Putin, prima dell’invasione dell’Ucraina, in un discorso del 24 febbraio 2022, ha dichiarato: “L’ulteriore espansione dell’infrastruttura della NATO e l’inizio dello sviluppo militare nei territori dell’Ucraina sono per noi inaccettabili.”

E l’Unione Europea cosa ha fatto in tutti questo decennio 2014-2024? l’UE ha adottato un approccio cauto, concentrandosi sugli sforzi diplomatici, sostenendo gli Accordi di Minsk nel tentativo di stabilire un cessate il fuoco e ridurre le tensioni. Tuttavia, questi accordi non sono mai stati pienamente attuati e il ruolo dell’UE è rimasto in gran parte reattivo piuttosto che proattivo. Dopo l’annessione della Crimea, sono state imposte sanzioni economiche alla Russia, seguite da ulteriori misure dopo l’invasione su larga scala del 2022. Tuttavia, oltre alle risposte economiche e diplomatiche, l’invio di armi e aiuti umanitari per 132 miliardi di euro e più, l’UE ha fatto ben poco per sviluppare una strategia di sicurezza forte e indipendente, ma si è affidata principalmente agli Stati Uniti che soprattutto durante l’amministrazione Biden è andata in escalation militare, senza prevedere incontri diplomatici per cercare una chiusura al conflitto.

Il Lamento Europeo

Se dunque il discorso di JD Vance per alcuni era prevedibile, ciò che è seguito non lo è stato. La vera risposta, ma non tanto agli americani, quanto agli europei tutti, è venuta dall’ex-Presidente della BCE, ex-Presidente del Consiglio italiano e attuale consulente del Parlamento europeo, Mario Draghi, che durante la Settimana parlamentare europea 2025, evento annuale dedicato alle sfide e alle opportunità dell’UE, in un discorso al Parlamento, ha evidenziato la necessità di un’azione unitaria veloce, chiara, sottolineando l’urgenza di investimenti strategici per affrontare la concorrenza globale e promuovere una crescita sostenibile. Il suo intervento, è stato più “gentile” di quello di Vance, e più digeribile per l’orgoglioso club europeo, (è sempre più facile ascoltare le critiche da un membro di famiglia che da altri). Draghi ha voluto spronare l’Europa affinché abbandoni vecchi comportamenti burocratici e passivi con azioni che rafforzino la propria posizione economica e geopolitica. Insomma un richiamo necessario alla realtà per l’establishment europeo, ormai incancrenito e spesso intrappolato in un ciclo di lamentele (come dimostrano le reazioni della Germania e di altri paesi alle dichiarazioni di JD Vance), impegnato più in rituali diplomatici privi di sostanza, mentre gli Stati Uniti, in meno di un mese dall’insediamento della nuova presidenza, stanno rivoluzionando tutti gli equilibri. È il momento di assumersi le proprie responsabilità, ma come disse Churchill, “questo è il prezzo della grandezza”.

Da anni, i leader europei osservano i mutamenti della politica statunitense con un misto di inquietudine e frustrazione. Ogni cambio di amministrazione porta nuove incertezze, eppure l’UE continua ad agire come se Washington, mamma Washington, sia sempre lì pronta a consolarla, comprarle le sue eleganti invenzioni e a regalarle qualche bonus quando in visita.

Seppure la NATO rimane eccessivamente dipendente dal potere militare statunitense, e sebbene la spesa per la difesa dell’UE sia in aumento, manca ancora una coerenza strategica. Anche di fronte a crisi come quella ucraina, il processo decisionale europeo è lento, frammentato e eccessivamente dipendente dalla leadership americana.

JD Vance, riflettendo l’ala più nazionalista e transazionale della politica statunitense, ha semplicemente articolato ciò che molti a Washington—su entrambi i fronti politici—pensano da tempo: l’Europa deve smetterla di aspettarsi che gli Stati Uniti si facciano carico di tutto. Le sue parole riflettono un crescente consenso bipartisan in America, secondo cui l’Europa deve agire o rischia di essere messa da parte. Vance dice: “Accogliete ciò che il vostro popolo vi dice, anche quando vi stupisca o anche quando non siete d’accordo. E se lo farete, potrete affrontare il futuro con certezza e fiducia, sapendo che la nazione è al vostro fianco. E questo, per me, è il grande miracolo della democrazia.”

Quindi cosa vogliono gli elettori europei?

Il richiamo all’azione di Draghi descrive la profonda inerzia politica che impedisce a questa Unione di divenire un vero attore globale. Draghi ha ricordato al Parlamento europeo che lamentarsi dell’imprevedibilità americana non è una strategia. L’azione lo è.

Le parole dell’ex Presidente del Consiglio dovrebbero servire come un momento di svolta. Se l’Europa continua lungo il percorso della dipendenza passiva, rischia l’irrilevanza in un mondo sempre più definito dalla forza e dal realismo politico. Non basta più lamentarsi dei cambiamenti della politica americana, l’Europa deve creare una propria visione strategica indipendente e coerente. Ciò significa accelerare l’integrazione della difesa, investire nelle capacità tecnologiche e industriali e avere la volontà di agire – anche quando il consenso è difficile da raggiungere.

L’Europa ascolterà questa volta? O il richiamo alla realtà di Draghi sarà solo un altro avvertimento ignorato in una lunga storia di opportunità mancate? Concludo con un detto americano: “If you can’t run with the big dogs, stay on the porch” che tradotto sarebbe: “Se non puoi stare al gioco, è meglio che stai a guardare.” –  Osserveranno gli europei le scelte russe, cinesi o americane o diventeranno il quarto giocatore in questa partita di vita?


Ucraina: l’incontro di Riad è una trappola per l’Europa?

di Claudio Bertolotti.

Il vertice di Parigi sull’Ucraina e l’incontro di Riad tra Stati Uniti e Russia segnano due momenti cruciali nella partita geopolitica in corso, rivelando la fragilità dell’unità europea e la volontà delle grandi potenze di ridisegnare il futuro del conflitto al di fuori dei canali ufficiali.

Il commento di Claudio Bertolotti a Ticino News – Puntata del 17 febbraio 2025.

Parigi: un’Europa che si spezza

Nella capitale francese si è consumato un dramma politico che va oltre le dichiarazioni di facciata. L’incontro tra otto leader europei, convocato con l’obiettivo di rafforzare il sostegno a Kiev, ha invece messo in scena una frattura profonda tra gli Stati membri. Da un lato, la Francia di Macron e il Regno Unito si sono detti pronti, almeno teoricamente, a prendere in considerazione l’invio di truppe in Ucraina. Dall’altro, Germania, Italia, Spagna e Polonia hanno manifestato una netta opposizione, mettendo in discussione la fattibilità di un coinvolgimento militare diretto.

Giorgia Meloni ha insistito sulla necessità di un pieno coinvolgimento degli Stati Uniti in qualsiasi decisione strategica, suggerendo che l’Europa da sola non può permettersi di giocare alla guerra senza la copertura di Washington. La tensione si è fatta palpabile: se da una parte c’è la volontà di mostrare determinazione di fronte all’avanzata russa, dall’altra permane il timore che un passo falso possa trascinare il continente in un’escalation senza ritorno.

Riad: negoziati in penombra

Mentre a Parigi si consumava il confronto tra alleati divisi, a Riad si teneva un incontro ben più enigmatico. Stati Uniti e Russia si sono seduti al tavolo per discutere della guerra, ma senza la presenza dell’Ucraina e senza alcun coinvolgimento dell’Unione Europea. Il messaggio è chiaro: le grandi potenze preferiscono trattare tra loro, lasciando ai margini coloro che più di tutti subiscono le conseguenze del conflitto.

A Kiev, la notizia è stata accolta con un misto di preoccupazione e rabbia. Zelensky sa bene cosa significhi essere escluso da discussioni che potrebbero decidere il destino del suo paese. Il fatto che questi negoziati si svolgano lontano dai riflettori, in un luogo come l’Arabia Saudita, sottolinea il ruolo sempre più attivo di Riyad come mediatore globale e, allo stesso tempo, il desiderio di Washington di mantenere una certa opacità sulle reali intenzioni americane.

Uno scenario inquietante

Il quadro che emerge è quello di un’Europa politicamente fragile, divisa tra chi vorrebbe proiettare forza e chi teme il rischio di una guerra aperta. Nel frattempo, Stati Uniti e Russia trattano senza il consenso di Kiev, dimostrando che la vera partita si gioca altrove.

Il rischio è che l’Ucraina diventi moneta di scambio in un accordo che rispecchia più gli interessi strategici di Washington e Mosca che il diritto di Kiev a esistere come Stato sovrano. Se l’Europa non riuscirà a trovare una posizione unitaria e a imporsi come attore indipendente, il suo ruolo nella crisi ucraina sarà sempre più marginale.

Ci troviamo di fronte a un bivio: continuare a inseguire illusioni di compattezza o accettare che, senza una strategia comune e credibile, il destino dell’Europa verrà deciso altrove.

Russia, Ucraina e la frattura tra UE e NATO: una mossa calcolata?

Le recenti dichiarazioni del Cremlino sull’adesione dell’Ucraina all’Unione Europea segnano un passaggio diplomatico significativo. Dmitry Peskov, portavoce del Cremlino, ha affermato che l’ingresso di Kiev nell’UE rappresenta un “diritto sovrano”, poiché si tratta di un’unificazione economica e non militare. Tuttavia, ha subito precisato che la posizione russa è completamente diversa su temi legati alla sicurezza e alla difesa. Questa apparente apertura sembra contenere un sottotesto ben più complesso, inserendosi nel quadro più ampio della strategia russa di ridefinizione dei rapporti di forza in Europa.

Una trappola diplomatica?

Se da un lato la Russia sembra accettare, almeno a parole, l’integrazione economica dell’Ucraina con l’Europa, dall’altro pone un confine netto quando si tratta di sicurezza e alleanze militari. Questo solleva una domanda cruciale: si tratta di una reale concessione diplomatica o di una manovra per dividere l’Europa dalla NATO?

Mosca sa bene che la NATO e l’UE non coincidono perfettamente: molti membri dell’Unione non fanno parte dell’Alleanza Atlantica e viceversa. Accettare il percorso europeo dell’Ucraina potrebbe quindi rappresentare un modo per mettere alla prova le divergenze interne all’Europa, spingendo alcuni Paesi a considerare un rapporto con Kiev separato dal sostegno militare della NATO. Il Cremlino potrebbe così cercare di indebolire il fronte occidentale, sfruttando le differenze tra gli Stati membri e rallentando il sostegno militare a Kiev.

Il fattore USA e il timore del disimpegno atlantico

Un altro elemento da considerare è il ruolo degli Stati Uniti. La Russia potrebbe ritenere che Washington sia sempre meno coinvolta nella difesa dell’Europa, sia per ragioni politiche interne sia per la necessità di concentrare risorse su altre aree di crisi, come il Pacifico. Se gli USA riducessero il loro impegno nella sicurezza europea, la NATO stessa potrebbe indebolirsi, lasciando l’Unione Europea a dover gestire in autonomia la propria sicurezza.

Questa ipotesi renderebbe più credibile la tattica russa: accettare un’Ucraina più vicina economicamente all’Europa, ma allo stesso tempo lavorare per impedire che diventi un avamposto militare dell’Occidente. Se gli Stati Uniti si disimpegnassero, Mosca potrebbe sperare in una UE meno incline al confronto e più propensa a negoziare un equilibrio con la Russia.

UE e NATO: un destino comune?

Tuttavia, questo ragionamento presenta un problema di fondo: nella realtà dei fatti, l’UE e la NATO sono oggi più allineate che mai. L’aiuto militare all’Ucraina non è una prerogativa esclusiva dell’Alleanza Atlantica, ma coinvolge anche Paesi europei in maniera autonoma. Inoltre, la guerra in Ucraina ha spinto molti governi europei a rafforzare la propria difesa, accelerando processi di cooperazione militare intra-UE che fino a pochi anni fa sembravano impensabili.

Se la Russia spera di sfruttare la separazione tra UE e NATO per ridurre il supporto a Kiev, potrebbe trovarsi di fronte a una realtà ben diversa: più la guerra si prolunga, più l’Europa tende a rafforzare la propria posizione, anche militarmente. Anzi, paradossalmente, accettando il percorso europeo dell’Ucraina, Mosca potrebbe finire per legittimare un’integrazione ancora più stretta tra sicurezza europea e atlantica.

Le parole di Peskov: coerenti con la strategia russa

Le dichiarazioni di Peskov incarnano quella che ormai è una costante nella strategia diplomatica russa: un equilibrio sottile tra concessioni apparenti e fermezza sui temi della sicurezza. Da un lato, il Cremlino si mostra aperto al dialogo per accreditarsi come attore razionale e pragmatico; dall’altro, traccia confini invalicabili in ambito militare, mantenendo alta la pressione sugli avversari.

La vera questione, però, è un’altra: Mosca ritiene che gli Stati Uniti siano destinati a ridurre il loro impegno in Europa? Se il Cremlino è convinto di questo scenario, allora l’accettazione dell’ingresso dell’Ucraina nell’UE potrebbe essere una mossa studiata per sfruttare le fragilità europee e ricalibrare l’ordine geopolitico a proprio vantaggio.

Se invece Washington continuerà a sostenere Kiev in modo deciso, la strategia russa potrebbe rivelarsi un boomerang: un’Unione Europea più coesa e allineata alla NATO potrebbe vanificare ogni tentativo di divisione, rafforzando ancora di più il legame tra il blocco occidentale e l’Ucraina.


Zizians, l’ascesa della setta vegana: dalla filosofia alla violenza.

di Andrea Molle, dagli Stati Uniti.

L’arresto di Jack LaSota, una donna transgender nota online come “Ziz”, ha portato alla ribalta la setta vegana violenta conosciuta come gli Zizians. Quella che fino a poche settimane fa era solo una minuscola sottocultura, sconosciuta ai non addetti ai lavori, è oggi sempre più sotto i riflettori, mentre le autorità inquirenti scoprono dettagli inquietanti sull’ideologia del gruppo e il suo coinvolgimento in diversi crimini violenti. Con LaSota al comando, gli Zizians sembrano essersi evoluti da un movimento filosofico di nicchia a una rete organizzata e radicalizzata, disposta a compiere azioni estreme per promuovere la propria ideologia.

Gli attacchi degli Zizians sono un esempio preoccupante di come l’estremismo ideologico, alimentato dalla radicalizzazione online, possa sfociare in violenza nel mondo reale

Questa organizzazione settaria sembrerebbe implicata in una serie di incidenti violenti in tutti gli Stati Uniti, tra cui spiccano gli scontri con le forze dell’ordine, le proteste aggressive e gli attacchi mirati. I rapporti delle forze di polizia di diversi stati suggeriscono che i suoi membri aderiscano a una visione del mondo rigida, quasi apocalittica, che combina elementi di veganismo radicale, anarchismo, pensiero transumanista e una profonda sfiducia nelle istituzioni statali. Le attività del gruppo, dal proselitismo online agli atti di aggressione nel mondo reale, hanno sollevato interrogativi urgenti sulle sue origini, i metodi di reclutamento e le implicazioni più ampie della sua crescente influenza tra i più giovani. Mentre le indagini continuano, le autorità e gli analisti si stanno confrontando con il potenziale del gruppo per ulteriori violenze e con le sfide di riuscire a smantellare un movimento decentralizzato che agisce quasi indisturbato su internet. Gli attacchi degli Zizians sono un esempio preoccupante di come l’estremismo ideologico, alimentato dalla radicalizzazione online, possa sfociare in violenza nel mondo reale, ponendo una minaccia unica e in continua evoluzione per la sicurezza pubblica.

Storicamente, questo gruppo ha le sue radici nell’area della Baia di San Francisco, dove nel 2016 Jack LaSota iniziò a pubblicare un blog sotto lo pseudonimo di “Ziz”. Inizialmente, gli scritti di LaSota attrassero un pubblico di nicchia, in particolare all’interno dei circoli online interessati alla filosofia, all’intelligenza artificiale e alle teorie sociali radicali. Tuttavia, nel tempo, le sue idee si sono evolute in un’ideologia più complessa e controversa che ha iniziato ad attrarre seguaci, formando infine le basi di quello che ora è conosciuto come il movimento Zizians. Nei suoi scritti, LaSota ha esplorato teorie non convenzionali sulla coscienza umana, proponendo che gli emisferi del cervello potessero possedere valori distinti e addirittura identità di genere separate, spesso in conflitto interno. LaSota ha descritto questa come una lotta fondamentale all’interno degli individui, una lotta che potrebbe essere “risolta” attraverso la trasformazione personale e l’impegno ideologico. Questa prospettiva risuonò con alcune comunità online interessate agli studi sulla coscienza, ma contribuì anche a una visione del mondo più rigida e dogmatica tra i suoi seguaci. Oltre alla speculazione metafisica, il discorso di LaSota si espanse nei domini politici ed etici, incorporando elementi di veganismo radicale, anarchismo e una forte opposizione alle comunità razionaliste mainstream, in particolare quelle preoccupate per l’intelligenza artificiale e il rischio esistenziale. LaSota fu fin dall’inizio molto critica di questi gruppi per quella che percepiva come codardia morale e la riluttanza a intraprendere azioni dirette. Questa opposizione divenne una caratteristica definente dell’ideologia Zizians, formando l’atteggiamento antagonista del gruppo contro il movimento razionalista e le sue istituzioni.

Il mix eclettico di credenze che emerse diede ai seguaci degli Zizians un’identità ideologica distinta. Col tempo, quello che era iniziato come una ricerca intellettuale online si trasformò in un movimento più estremo, orientato all’azione militante, che avrebbe assunto una caratterizzazione sempre più radicale. La transizione del gruppo dalla filosofia di nicchia all’azione violenta divenne evidente nel 2019, segnando un punto di svolta nella sua evoluzione. Quell’anno, LaSota e alcuni associati furono arrestati durante una protesta fuori da un centro congressi in California del Nord che ospitava un evento razionalista. Quello che iniziò come una disputa ideologica sull’etica dell’intelligenza artificiale si trasformò rapidamente in azione violenta. La manifestazione fu caratterizzata da tattiche aggressive, inclusi confronti fisici, danni a proprietà e tentativi di interrompere forzatamente l’evento. Questo incidente segnalò un cambiamento preoccupante da una critica intellettuale a una militanza, preparando il terreno per azioni ancora più estreme negli anni successivi.

Nel 2020, gli Zizians iniziarono ad attrarre individui che non solo erano ideologicamente allineati, ma anche disposti a compiere azioni violente. In un caso significativo, un individuo affiliato alla setta fu arrestato a Portland, Oregon, dopo aver incendiato una struttura di ricerca collegata allo sviluppo dell’IA. L’attacco, che le autorità classificarono come incendio doloso, fu presentato dal colpevole come un “colpo preventivo” contro i sistemi di intelligenza artificiale che ritenevano rappresentassero una minaccia esistenziale per l’umanità.

Nel 2021, una campagna coordinata di molestie prese di mira figure chiave delle comunità razionaliste e di altruismo efficace. Alcuni elementi di spicco di questo movimento ricevettero minacce di morte e, in almeno un caso, la casa di un blogger razionalista fu vandalizzata con graffiti che recavano gli slogan della setta. Sebbene non ci fossero violenze fisiche dirette, la campagna dimostrò la crescente volontà del gruppo di ricorrere a tattiche di intimidazione.

L’escalation proseguì nel 2022, quando un gruppo di Zizians mise in atto un’intrusione in un laboratorio biotecnologico a San Diego, presumibilmente per “liberare” gli animali utilizzati nei test. Le riprese di sicurezza mostrarono individui mascherati che indossavano equipaggiamento tattico, sottolineando ulteriormente la crescente militarizzazione del gruppo. Sebbene non si fossero registrati feriti, l’intrusione causò ingenti danni a proprietà e diversi membri furono arrestati.

Nel 2023, la violenza prese una piega più mortale. Un membro della setta fu implicato nel tentato omicidio di uno scienziato informatico a Boston, un ricercatore noto per sostenere i protocolli di sicurezza nell’IA. Il sospetto, che aveva pubblicato diversi manifesti online allineati con le teorie di LaSota, fu arrestato prima che l’attacco potesse essere portato a termine. Tuttavia, l’incidente rafforzò i timori che gli Zizians stessero passando oltre i crimini contro la proprietà e le molestie, dirigendosi verso violenze fisiche mirate.

Questi incidenti preparavano il terreno per la sanguinosa campagna di attivismo iniziata nel gennaio del 2025. L’agente della Border Patrol statunitense David Maland fu ucciso durante un controllo stradale in Vermont. Gli assalitori, Zizians, furono trovati con equipaggiamento tattico e armi, a sottolineare le capacità operative del gruppo e la serietà della minaccia che ora rappresentavano. Un altro atto violento scioccante avvenne nello stesso mese a Vallejo, California, dove il proprietario di un immobile, Curtis Lind, fu brutalmente accoltellato. Le indagini rivelarono collegamenti tra i sospetti e la rete Zizians, evidenziando l’espansione geografica del gruppo e il crescente disprezzo per la vita umana nel perseguire i propri obiettivi ideologici.

Il modello di escalation, dalla radicalizzazione online alla violenza mirata, dimostra la trasformazione della setta in un movimento estremista pericoloso. Ciò che era iniziato come un discorso filosofico oscuro è ora diventato una minaccia organizzata, con conseguenze reali che le autorità faticano a contenere.

Gli Zizians, un fenomeno emerso negli Stati Uniti, hanno mostrato una notevole influenza che si estende ben oltre i confini americani. Sebbene le loro radici risiedano ancora negli Stati Uniti, le loro attività e la loro rete hanno trovato punti di appoggio in vari paesi europei, suscitando preoccupazione riguardo alla portata globale del gruppo e al suo impatto. Individui come il cittadino tedesco Felix Bauckholt, implicato in attività violente legate al mondo Zizians, dimostrano la capacità del gruppo di infiltrarsi e operare oltre i confini nazionali. Il coinvolgimento di Bauckholt segna una tendenza più ampia verso l’appello o l’organizzazione internazionale del gruppo, suggerendo una rete transnazionale che facilita la coordinazione e la violenza ideologica. Oltre alla Germania, altre nazioni europee stanno affrontando azioni ispirate all’ideologia Zizians. Nel Regno Unito, ad esempio, le autorità hanno registrato diversi episodi di radicalizzazione legati all’ideologia del gruppo, indicando che la loro influenza stia estendendosi verso le frange politiche. La Francia, con la sua ricca storia di movimenti radicali, ha anche visto individui provenienti da altri movimenti politici allinearsi con gli ideali Zizians, suscitando crescente preoccupazione riguardo al potenziale di attacchi estremisti organizzati. Inoltre, paesi come l’Italia e la Spagna, con le loro posizioni geografiche strategiche, sono diventati punti critici per il reclutamento e il supporto logistico delle attività Zizians. I confini porosi di questi paesi e i climi politici diversificati li rendono vulnerabili ai movimenti ideologici esterni. Le connessioni transnazionali del gruppo potrebbero includere anche reti finanziarie, campagne di propaganda online e supporto logistico che permettono loro di pianificare e attuare azioni in tutta Europa.

Questa crescente dimensione internazionale dell’influenza Ziziana solleva molte preoccupazioni. Le forze dell’ordine e le agenzie di intelligence in tutta Europa stanno lavorando sempre più in coordinamento per monitorare le attività del gruppo, condividere informazioni e prevenire ulteriori escalation. L’ascesa di questa rete estremista transnazionale sottolinea la necessità di una maggiore cooperazione tra le nazioni per contrastare la minaccia dei movimenti radicali globalizzati. La capacità degli Zizians di ispirare o coordinare direttamente azioni oltre gli Stati Uniti evidenzia la natura in evoluzione dell’estremismo moderno e la crescente complessità nel combattere tali minacce transnazionali.

Questa setta rappresenta un esempio lampante di come la radicalizzazione online possa favorire l’ascesa di movimenti estremisti nell’era digitale. Centrale nelle loro operazioni era la presenza digitale di figure chiave come LaSota, le cui piattaforme online sono diventate un punto di incontro per individui con ideologie simili, attratti dalla violenza del gruppo. Queste piattaforme permettevano a LaSota e ad altri di diffondere propaganda, materiali ideologicamente carichi e retorica violenta, creando una sorta di camera dell’eco in cui l’estremismo poteva prosperare senza i limiti geografici tradizionali.


Il vertice di Parigi e le incognite europee. Il commento.

OFFICINA GEOPOLITICA di START InSight: il commento di Claudio Bertolotti sullo scenario internazionale.

Il vertice di #Parigi e le ambizioni francesi. La visione europea e le sue effettive capacità di incidere in un processo negoziale che sembra ormai definito, almeno nei giocatori: Stati Uniti e Russia, alias Donald Trump e Vladimir Putin. Come leggere la mossa di Emmanuel Macron? Non dovrebbe essere Ursula Von der Leyen a muoversi? Sull’Ucraina, l’Europa riuscirà a ritagliarsi un ruolo oppure no? È un vertice da cui potrebbe emergere qualcosa di concreto? L’Unione Europea conta sempre meno. È un problema di struttura dell’UE o di un’assenza di leader? Trump riuscirà ad arrivare ad un accordo con Putin? Quale sarà il prezzo per l’Ucraina? Per la Russia sarà una vittoria?

Claudio Bertolotti risponde a queste domande ponendo particolare attenzione al ruolo dell’Unione europea e alla sua debole posizione nell’arena internazionale.

Il vertice di Parigi del 17 febbraio 2025, convocato dal presidente francese Emmanuel Macron, ha riunito i leader di 8 paesi Europei, Francia, Germania, Regno Unito, Italia, Polonia, Spagna, Paesi Bassi, Danimarca, insieme al presidente del Consiglio europeo Antonio Costa, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e il segretario generale della Nato Mark Rutte, per discutere della situazione in Ucraina e della sicurezza europea. Questa iniziativa europea nasce in risposta ai negoziati tra Stati Uniti e Russia in corso a Riad, dai quali l’Europa e l’Ucraina sono state inizialmente escluse.

La presidente del Consiglio italiano, Giorgia Meloni, ha partecipato al vertice nonostante alcune riserve iniziali, sottolineando l’importanza di ascoltare i partner europei e di mantenere una posizione unitaria. L’Italia ha evidenziato la necessità di far leva sulle sanzioni imposte alla Russia come strumento per ottenere un ruolo nei negoziati e ha espresso preoccupazione per l’esclusione dell’Europa dalle trattative tra Washington e Mosca.

Tuttavia, non tutti i Paesi europei hanno sostenuto l’iniziativa di Macron. L’Ungheria, ad esempio, ha criticato il vertice, affermando che potrebbe ostacolare gli sforzi di pace in Ucraina e accusando i leader europei di alimentare l’escalation del conflitto.

In parallelo, il presidente Macron ha avuto una conversazione telefonica con il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, prima dell’inizio del vertice, nel tentativo di coordinare le posizioni e ribadire l’importanza di un approccio concertato tra Europa e Stati Uniti nella ricerca di una soluzione al conflitto ucraino.

Questo vertice rappresenta un tentativo dell’Europa di riaffermare il proprio ruolo centrale nei negoziati di pace e di garantire che gli interessi europei e ucraini siano adeguatamente rappresentati nelle future discussioni internazionali.


Le Filippine: un perno geopolitico nell’Indo-Pacifico e l’opportunità strategica per l’Italia

di Andrea Molle, dagli Stati Uniti.

Le Filippine, da tempo considerate un attore geopolitico cruciale nel Sud-Est asiatico, si trovano sempre più al centro della crescente competizione tra Stati Uniti e Cina. Mentre la “linea degli undici tratti” porta avanti l’aggressiva politica estera di Beijin nel Mar Cinese Meridionale e oltre, e Washington intensifica la sua strategia indo-pacifica, Manila gioca un ruolo di primo piano nel plasmare le dinamiche di sicurezza regionale. Per l’Italia, che tradizionalmente ha concentrato la propria politica estera su Europa, Africa e Mediterraneo, l’evoluzione del panorama indo-pacifico rappresenta un’opportunità per ridefinire il proprio impegno globale attraverso una presenza più mirata, sia militare che civile, nell’arcipelago filippino. La posizione strategica delle Filippine, situate all’incrocio tra il Pacifico e il Mar Cinese Meridionale, le rende infatti un alleato potenzialemtne prezioso sia per le potenze regionali che per quelle globali. Situato al crocevia di importanti rotte commerciali marittime, il paese funge da varco tra il Pacifico e i centri economici dell’Asia orientale.

Ancora più importante, l’arcipelago offre vantaggi logistici e militari cruciali, in particolare nel contrastare l’espansione territoriale aggressiva della Cina nelle acque contese e la minaccia a Taiwan. Le rivendicazioni di Pechino sul Mar Cinese Meridionale, comprese la costruzione di isole artificiali e l’interruzione di diverse rotte di pesca, hanno direttamente minacciato la sovranità delle Filippine. Nonostante una sentenza del tribunale internazionale nel 2016 abbia invalidato le rivendicazioni cinesi, Beijin continua a perseguire i propri interessi in modo aggressivo. In risposta, Manila ha rafforzato i suoi legami di difesa con Washington, riaprendo basi strategiche alle forze statunitensi e approfondendo la cooperazione in materia di sicurezza con partner regionali come Giappone e Australia. Le Filippine hanno partecipato, ad esempio, a una serie di esercitazioni navali internazionali con Stati Uniti, Australia, Giappone e Francia. Queste manovre, condotte all’interno della Zona Economica Esclusiva filippina, mirano a migliorare il coordinamento della difesa e l’interoperabilità.

La Cina: obiezioni e interessi

La Cina ha espresso obiezioni a queste attività, considerandole destabilizzanti. Inoltre, Manila ha firmato un accordo di difesa con il Canada per rafforzare le esercitazioni militari congiunte, in linea con la sua strategia di consolidamento delle partnership di difesa nel contesto delle crescenti tensioni nel Mar Cinese Meridionale. Allo stesso tempo, le Filippine devono gestire un equilibrio molto delicato. Pur necessitando delle garanzie di sicurezza fornite dagli Stati Uniti, la loro interdipendenza economica con la Cina complica la situazione. Beijin rimane un partner commerciale chiave, una fonte primaria di investimenti e un attore influente nell’architettura economica della regione. Questa tensione tra sicurezza e interessi economici riflette la più ampia sfida che molte nazioni del Sud-Est asiatico affrontano nel navigare la rivalità tra Stati Uniti e Cina. Mentre le Filippine stanno rafforzando le loro collaborazioni in materia di difesa con gli Stati Uniti e altri alleati, continuano anche a mantenere un dialogo diplomatico con la Cina. Ad esempio, durante un recente incontro con il Primo Ministro cambogiano Hun Manet, il Presidente filippino Ferdinand Marcos Jr. ha espresso gratitudine per la grazia concessa a 13 donne filippine, evidenziando gli sforzi di Manila per mantenere relazioni positive all’interno della regione. Il rinnovato focus di Washington sull’Indo-Pacifico, in particolare attraverso iniziative come AUKUS, il Quad e il rafforzamento della cooperazione di sicurezza con i paesi ASEAN, mira a contrastare l’influenza crescente della Cina.

Gli Stati Uniti: la strategia di sicurezza regionale

Per gli Stati Uniti, le Filippine rappresentano un pilastro critico nella loro strategia di sicurezza regionale. L’Enhanced Defense Cooperation Agreement (EDCA) tra Manila e Washington facilita l’accesso americano a installazioni militari chiave, garantendo una presenza avanzata in grado di dissuadere le incursioni cinesi e rafforzare la sicurezza marittima. Inoltre, la crescente presenza militare statunitense nella regione funge da deterrente contro una potenziale escalation a Taiwan, una delle principali aree di tensione tra USA e Cina. La vicinanza delle Filippine a Taiwan le rende un hub logistico fondamentale in caso di conflitto, consolidando ulteriormente la loro importanza nella strategia americana.

L’Italia: economia, commercio e difesa

Ma che dire dell’Italia? L’Italia, in quanto media potenza europea, ha tradizionalmente mantenuto una presenza limitata nell’Indo-Pacifico. Tuttavia, data la crescente rilevanza globale della regione e i legami sempre più stretti con Washington, Roma dovrebbe riconsiderare il proprio coinvolgimento strategico. Mentre Francia e Regno Unito hanno già rafforzato la loro presenza navale ed economica nell’Indo-Pacifico, l’Italia deve ancora definire pienamente il proprio ruolo. Gli interessi economici italiani si allineano con la necessità di un Indo-Pacifico stabile e basato su regole chiare. La regione rappresenta un mercato cruciale per le esportazioni italiane, tra cui tecnologia della difesa, attrezzature marittime e infrastrutture.

Rafforzare i legami economici e di sicurezza con le Filippine potrebbe fornire un punto d’accesso strategico per un coinvolgimento più ampio nell’ASEAN, dove l’Italia detiene lo status di osservatore. Sul fronte della sicurezza, l’Italia potrebbe potenziare la cooperazione navale con le Filippine partecipando a esercitazioni marittime congiunte, fornendo addestramento alla guardia costiera e supportando gli sforzi regionali per mantenere la libertà di navigazione. Inoltre, l’avanzata industria della difesa italiana potrebbe contribuire alla modernizzazione delle capacità militari filippine.

Dal punto di vista diplomatico, l’Italia dovrebbe sfruttare le proprie partnership all’interno dell’UE per promuovere una strategia europea più coerente nell’Indo-Pacifico, assicurandosi che l’Europa rimanga un attore rilevante nell’equilibrio geopolitico della regione. Sostenere i meccanismi di sicurezza guidati dall’ASEAN e promuovere il rispetto del diritto internazionale, in particolare della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS), rafforzerebbe ulteriormente il ruolo dell’Italia come attore costruttivo. In conclusione, l’importanza geopolitica delle Filippine nell’Indo-Pacifico è indiscutibile. Mentre gli Stati Uniti si muovono per contrastare l’assertività crescente della Cina, Manila si trova al centro di una competizione strategica che plasmerà il futuro dell’ordine globale. Per l’Italia, un coinvolgimento più proattivo nell’Indo-Pacifico—soprattutto attraverso un rafforzamento dei legami con le Filippine—rappresenta un’opportunità per diversificare la propria politica estera e affermarsi come attore rilevante in una delle regioni più dinamiche del mondo.

Approfondendo i legami economici, di sicurezza e diplomatici, l’Italia può contribuire a un Indo-Pacifico più stabile e basato sulle regole, ampliando al contempo il proprio ruolo strategico in un mondo sempre più multipolare.


Fra i tanti litiganti sarà l’Intelligenza Artificiale a vincere?

di Melissa de Teffè, dagli Stati Uniti – Giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense.

Nella evidente corsa a chi arriverà prima, si conclude oggi il Summit di Parigi sull’Intelligenza Artificiale, dove si confrontano i protagonisti globali, tra politici e CEO delle più grandi aziende tecnologiche, per capire, incontrandosi faccia a faccia, chi sta facendo cosa e chi farà cosa davvero creando “la difference”.

Intanto si consumano, e non tanto dietro le quinte, le prime sfide e battaglie: Altman Ceo di Open AI, e parte del progetto Star Gate da 500 miliardi, insieme a Oracle, SoftBank e MGX, rifiuta l’offerta del suo ex partner Musk di vendergli la struttura di ricerca di intelligenza artificiale; Musk avvelenato, accusa velatamente Trump di barare, sapendo che i fondi per il progetto non ci sono, e Trump, seccato, (ecco che già iniziano gli screzi tra i due), reclama il potere della “sua presidenza”, facendo capire a chiare lettere che è lui a decidere i giochi in casa propria.

A rappresentare gli Stati Uniti al Summit, c’è il Vicepresidente JD Vance, che con molta chiarezza ha sottolineato l’impegno dell’amministrazione Trump a guidare lo sviluppo dell’intelligenza artificiale (IA) abbracciando questa innovazione globale con entusiasmo e non con paura per la possibile perdita di posti di lavoro, ma rifacendosi al discorso dell’indiano Modi, co organizzatore con Macron dell’evento, a quanto sia positivo l’utilizzo dellIA nel campo medicale.

Parigi, per Vance è stata l’occasione perfetta per criticare le rigide normative dell’Unione Europea, che dalla creazione del GDPR (25 maggio 2018), sono state causa di molte complicazione per gli USA. Ha proseguito avvertendo che un eccessivo controllo normativo, soffocherebbe l’innovazione e ostacolerebbe la crescita di questo settore trasformativo. Vance ha affermato che, sebbene sia importante garantire la sicurezza, una regolamentazione eccessiva potrebbe impedire i progressi tecnologici che l’IA promette.

Però la realtà negli Stati Uniti non è così edulcorata come Vance la racconta: un libero mercato dove tutti si rispettano. Al contrario, la percentuale di furti di identità, le innumerevoli difficoltà ad eseguire semplici operazioni bancarie come un bonifico interno vedono il povero cittadino subissato dal dover sempre e continuamente con la scusa della frode dimostrare la propria identità. Le regole negli Stati Uniti non sono costruite per proteggere la privacy dell’individuo, ma per aumentare i guadagni corporate e facilitare i business rispetto alla persona. Se in Italia si soffre per le continue sollecitazioni telefoniche commerciali, qui negli Stati Uniti parlare con un operatore umano è quasi un miracolo.

Chiudendo il suo intervento, Vance ha anche messo in guardia i presenti contro la collaborazione con regimi autoritari, facendo un ovvio riferimento alla Cina, ma senza nominarla. Partnership di questo tipo potrebbero compromettere la sicurezza nazionale e l’integrità tecnologica, ha sostenuto. È necessario, quindi, creare quadri normativi internazionali che promuovano lo sviluppo dell’IA senza imporre misure restrittive.

Il summit, organizzato dal presidente francese Emmanuel Macron e come detto sopra, dal primo ministro indiano Narendra Modi, ha offerto un’occasione per discutere vis a vis le opportunità e le sfide globali legate all’IA, in un periodo in cui l’adozione dell’IA sta avvenendo a un ritmo accelerato in tutto il mondo. Sia Macron che Modi hanno sottolineato l’importanza di un approccio regolato ed equo, incentrato sulla protezione dei diritti umani, mentre gli Stati Uniti, sotto la leadership di Trump, si sono focalizzati sul libero mercato e l’innovazione, proponendo una regolamentazione flessibile.

Non c’è dubbio che in questo panorama, gli attori principali, oggi, sono: al primo livello, quello più importante, i governi rappresentati dai capi di Stato, circondati dalle poche società tecnologiche leader nel campo, soprannominate “I Magnifici 7”; al secondo livello a scendere,  abbiamo le società di consulenza o servizi accompagnate da quelle di prodotto che insieme creano il legame b2b e infine la popolazione.

Decido quindi di chiedere a chi ne sa più di me come analizzare questo paesaggio internazionale che non è per niente rassicurante. Parlo con Bianca de Teffé Erb, dottoranda in AI & the future of work, esperta di AI Governance & Ethics e Rapporteur per il Parlamento europeo sul tema “AI Ethics by Design”, e le chiedo di spiegarmi come leggere quello che vediamo evolversi davanti ai nostri occhi a velocità spaziali senza cadere nelle politiche dei singoli paesi.

Bianca de Teffé Erb

Bianca de Teffé Erb: Nello scenario globale, l’economia sta vivendo un periodo di stagnazione importante, dovuta alla standardizzazione dei mercati, all’inflazione e ai debiti pubblici che pesano su gran parte delle nazioni. A fronte di ciò, si sta assistendo a un’inversione di rotta, con un focus sempre più orientato verso soluzioni nazionali e non globali. Sicuramente l’intelligenza artificiale sarà una delle più importanti soluzioni per far ripartire l’economia perché migliorerà la produttività senza compromettere il valore del servizio o del prodotto a condizione che sia adeguatamente istruita. Settori come quello della finanza, e soprattutto il medicale usano già applicazioni che ottimizzano i processi e migliorano l’efficacia dei servizi. Ma questa è un’evoluzione molto rapida, forse troppo veloce.

Domanda: “Ascoltando i vari interventi al Summit di Parigi, ci troviamo ancora una volta di fronte a due blocchi l’Unione Europea da un lato, che ha già legiferato sul rispetto della privacy con il GDPR e l’etica dell’IA con l’AI Act, e dall’altro con gli Stati Uniti, oggi rappresentati dal Vicepresidente Vance, che coglie l’occasione per criticare la regolamentazione europea, che, secondo lui blocca e rallenta lo sviluppo dell’IA.  Chi ha ragione?

Bianca: Citerò come esempio noto quello di Bard, un modello conversazionale progettato per competere con ChatGPT, lanciato da Google nel 2023. Spinta dalla pressione di innovare rapidamente, l’azienda ha accelerato il rilascio senza adeguate verifiche etiche, causando problemi significativi, con risposte sbagliate e bias discriminatori, sollevando di conseguenza forti dubbi sulla sua affidabilità. Non contenti del primo flop, l’anno seguente, nel 2024, Google DeepMind lancia Gemini 1.5. Anche questo è stato fallimentare e direi peggio del primo, causando giustamente polemiche a 360 gradi. Nel tentativo mal calibrato di evitare pregiudizi ed essere bilanciati, Gemini finì per generare immagini distorte a causa della “diversity overcorrection”. La più nota  è stata quella di George Washington con la pelle nera e non bianca. Ovviamente Google ha subito sospeso la funzione scusandosi.

Questi due episodi dimostrano come la corsa all’innovazione senza un solido framework di governance ed etica possa trasformarsi in un boomerang, minando la fiducia del pubblico e mettendo in discussione l’etica delle big tech.

Domanda: E l’Unione Europea, invece, come si propone oggi?

Bianca: la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha annunciato durante il Summit, che prevede un investimento significativo per rafforzare le capacità dell’Unione Europea nell’IA, con un ulteriore investimento di 50 miliardi di euro, portando l’investimento totale a 200 miliardi di euro, grazie anche ai fondi privati provenienti dall’Iniziativa Europea per i Campioni dell’IA. Questo investimento dovrebbe sviluppare tecnologie industriali per posizionare l’Europa come leader nell’innovazione dell’IA. Von der Leyen ha enfatizzato l’importanza di adottare l’IA per migliorare la competitività, la sicurezza e la salute pubblica, volendo assicurarci che i benefici saranno accessibili a tutti. L’idea è di costruire degli HUB o “Gigafabbriche” per favorire la collaborazione tra ricercatori, imprenditori e investitori, ispirandosi al successo del laboratorio CERN di Ginevra.

Tornando però al punto centrale e quello più criticato, ossia il legislativo, come rapporteur ho avuto modo di vedere più da vicino la necessità di regolamentazione. L’UE ad Aprile dell’anno scorso ha adottato l’AI ACT ossia il primo Regolamento sull’Intelligenza Artificiale, con l’obiettivo di stabilire un quadro normativo generale per bilanciare l’innovazione con la protezione dei diritti fondamentali dell’individuo. Questo regolamento si integra con il Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR), creando così un sistema normativo che mira a garantire la privacy, l’equità, la trasparenza e la sicurezza nell’uso dell’IA.

L’Europa è sicuramente leader nella creazione di un’IA etica, perché fornisce il primo quadro normativo e di riferimento globale per proteggere i diritti individuali con l’avanzamento tecnologico. Tuttavia, l’adozione di tali norme a livello mondiale è una sfida significativa.

Domanda: E la Cina?

Bianca: Dietro la sua apparente reticenza, la Cina cela in realtà il livello di progresso di talento e di tecnologia più avanzato al mondo, grazie a una strategia di investimento massiccio e a una pianificazione a lungo termine nel campo dell’IA e delle tecnologie emergenti. Come scrive Suleyman in The Coming Wave: “La Cina ha più dei cinquecento supercomputer, i più potenti al mondo,… ha una quota impressionante e in crescita, di persone dedicate alla ricerca sull’IA….le istituzioni cinesi hanno pubblicato ben quattro volte e mezzo più articoli sull’IA ….., superando ampiamente gli Stati Uniti, il Regno Unito, l’India e la Germania messe insieme.  …..  Dalla cleantech alla bioscienza, la Cina sta facendo rapidi progressi in tutti i settori delle tecnologie fondamentali, investendo su scala epica, diventando un colosso della proprietà intellettuale con ‘caratteristiche cinesi’.  Più di quattrocento ‘laboratori chiave statali’ ancorano un sistema di ricerca pubblico-privato magnificamente finanziato, che copre tutto, dalla biologia molecolare alla progettazione di chip.”

Se pensiamo che la Cina ha registrato un significativo aumento nel numero di laureati in ingegneria informatica, dove ad esempio nel 2019, circa 8,34 milioni di studenti cinesi si sono laureati in discipline STEM (Scienza, Tecnologia, Ingegneria e Matematica), rappresentando circa il 45,4% del totale dei laureati nel paese. In confronto, negli Stati Uniti, nello stesso anno, si sono laureati circa 568.000 studenti in discipline scientifico-tecnologiche, appena il 7% della popolazione statunitense. Questa disparità evidenzia il divario crescente nella formazione di talenti tecnologici, che alimenta ulteriormente il primato della Cina nell’innovazione e nello sviluppo dell’intelligenza artificiale.

Concludendo Bianca mi fa un raffronto molto italiano e molto calzante.

Bianca: è come voler guidare una Ferrari a tutta velocità: l’Unione Europea vuole mettere la cintura di sicurezza e l’airbag in caso di collisione, gli Stati Uniti no. Per i cinesi è impossibile avere una risposta, perché non abbiamo informazioni sufficienti.

Volendo spezzare una lancia a favore degli Stati Uniti, trascrivo qui di seguito tradotto quanto pubblicato dalla Casa Bianca: “ULTIM’ORA – La Casa Bianca chiede commenti pubblici sulla Strategia Nazionale per l’IA (6 febbraio 2025)

👉🏼 L’Ufficio per la Politica Scientifica e Tecnologica della Casa Bianca ha lanciato una Richiesta di Informazioni per lo Sviluppo di un Piano d’Azione sull’Intelligenza Artificiale (IA). 📑 “Attraverso questa Richiesta di Informazioni (RFI), OSTP e l’Ufficio Nazionale per la Ricerca e lo Sviluppo delle Tecnologie dell’Informazione e delle Comunicazioni cercano il contributo del pubblico, comprese le università, i gruppi industriali, le organizzazioni del settore privato, i governi statali, locali e tribali, e qualsiasi altra parte interessata, su azioni prioritarie che dovrebbero essere incluse nel Piano.”

“L’amministrazione Trump è impegnata a garantire che gli Stati Uniti siano il leader indiscusso nella tecnologia dell’IA” – “Questo Piano d’Azione per l’IA è il primo passo per garantire e rafforzare il dominio americano nell’IA, e non vediamo l’ora di incorporare i commenti del pubblico e le idee innovative” ha dichiarato Lynne Parker, primo Vicedirettore dell’Ufficio per la Politica Scientifica e Tecnologica (OSTP). Anche il popolo potrà dire la sua.


I pericoli di una guerra tra Israele e Giordania

di Andrea Molle, dagli Stati Uniti.

Una guerra tra Israele e Giordania rimane uno scenario improbabile ma potenzialmente catastrofico. Dal trattato di pace del 1994, i due Paesi hanno mantenuto una cooperazione diplomatica e di sicurezza, rendendo un conflitto armato poco realistico. Tuttavia, il Medio Oriente è una regione dove le tensioni possono degenerare rapidamente, e in caso di guerra, le conseguenze sarebbero profonde, andando ben oltre il campo di battaglia e ridisegnando gli equilibri regionali e globali.

Dal punto di vista militare, Israele detiene un vantaggio schiacciante. La sua forza aerea all’avanguardia, i sofisticati sistemi di difesa missilistica e le capacità di guerra cibernetica lo rendono una delle potenze militari più avanzate al mondo. L’esercito giordano, pur essendo professionale e ben addestrato, non ha la potenza offensiva e il livello tecnologico necessari per sostenere una guerra prolungata contro Israele. Sebbene il territorio montuoso della Giordania possa offrire qualche vantaggio difensivo, le sue principali città e infrastrutture sarebbero altamente vulnerabili agli attacchi aerei israeliani. D’altra parte, le città israeliane come Tel Aviv e Gerusalemme sarebbero nel raggio d’azione dei missili giordani, ma la difesa missilistica israeliana, come l’Iron Dome, riuscirebbe probabilmente a neutralizzare gran parte della minaccia.

Se una guerra dovesse scoppiare sotto un’amministrazione statunitense guidata da Donald Trump, lo scenario geopolitico cambierebbe radicalmente. Trump ha dimostrato in passato un sostegno incondizionato a Israele, spostando l’ambasciata americana a Gerusalemme e riconoscendo la sovranità israeliana sulle Alture del Golan. In caso di conflitto, Washington si schiererebbe quasi certamente con Israele, fornendo supporto militare, bloccando iniziative diplomatiche per moderarne le azioni e facendo pressione sulla Giordania affinché de-escalasse rapidamente. Questa posizione potrebbe incoraggiare la leadership israeliana a proseguire le operazioni belliche senza cercare una soluzione negoziata immediata, prolungando così il conflitto. Allo stesso tempo, tale politica alienerebbe ulteriormente gli alleati arabi come Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, mettendoli in una posizione difficile: da un lato il sostegno diplomatico alla Giordania, dall’altro la necessità di preservare le proprie relazioni con Israele.

Le conseguenze economiche di un tale conflitto sarebbero devastanti. La Giordania, già dipendente dagli aiuti esteri e dalla cooperazione economica con Israele, subirebbe danni enormi, con la distruzione delle infrastrutture e il collasso del commercio. Israele, pur avendo un’economia più solida, vedrebbe comunque una forte instabilità nei mercati, un crollo del turismo e possibili interruzioni nei settori tecnologico e della difesa. Se il conflitto si espandesse, le ripercussioni si farebbero sentire anche sul mercato globale del petrolio, causando un’impennata dei prezzi e nuove turbolenze economiche. Oltre agli effetti militari ed economici, uno degli aspetti più preoccupanti di un conflitto tra Israele e Giordania sarebbe la recrudescenza del terrorismo internazionale.

La storia ha dimostrato come la guerra e l’instabilità in Medio Oriente rappresentino un terreno fertile per i gruppi jihadisti, e una guerra tra questi due Paesi potrebbe aprire la strada a nuove offensive terroristiche. L’ISIS-K, già in espansione, potrebbe approfittare del caos per rafforzarsi e lanciare attacchi sia in Israele che in Giordania, utilizzando il conflitto come strumento di propaganda e reclutamento.

Inoltre, il rischio di attentati in Europa, negli Stati Uniti e in altri Paesi occidentali aumenterebbe, alimentato dalla radicalizzazione generata dal conflitto. L’eventualità di una nuova ondata di terrorismo globale costringerebbe i governi a rivedere le loro strategie di sicurezza e a destinare ingenti risorse alla lotta contro il jihadismo. Gli esiti possibili di un tale conflitto sono diversi. Uno scenario relativamente contenuto potrebbe portare a un cessate il fuoco mediato dagli Stati Uniti o da potenze regionali come l’Arabia Saudita e l’Egitto.

Tuttavia, se la guerra si prolungasse e altri attori esterni, come l’Iran, Hezbollah e le fazioni palestinesi, vi prendessero parte, il rischio di una più ampia escalation regionale diventerebbe concreto. La Giordania stessa potrebbe affrontare un periodo di grave instabilità politica, con il regime hashemita indebolito dal conflitto e minacciato da proteste interne o persino da un colpo di stato. Nel peggiore dei casi, la guerra potrebbe segnare l’inizio di una nuova era di caos nel Medio Oriente, rafforzando le organizzazioni estremiste e ridefinendo le alleanze regionali. Alla fine, una guerra tra Israele e Giordania sarebbe disastrosa per entrambi i Paesi e per l’intera regione.

I costi strategici, economici e di sicurezza supererebbero di gran lunga qualsiasi possibile vantaggio, rendendo un conflitto su vasta scala altamente improbabile. Tuttavia, la storia ha dimostrato che errori di calcolo politici, provocazioni esterne o cambiamenti nelle alleanze possono portare nazioni apparentemente stabili verso la guerra. Anche se un conflitto aperto tra Israele e Giordania resta poco plausibile, il rischio di tensioni al confine, scontri indiretti e crisi diplomatiche non deve essere sottovalutato. L’unica vera soluzione rimane il dialogo e l’impegno diplomatico, perché l’alternativa—a un conflitto dalle conseguenze imprevedibili e devastanti—sarebbe una tragedia per l’intero Medio Oriente.