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L’inimmaginabile: Lutnick, Trump e la sfida delle tariffe per rifondare l’America

di Melissa de Teffé dagli Stati Uniti
esperta di politica USA
accreditata presso il Dipartimento di Stato
per START InSight

THE BLITZKRIEG  – LA GUERRA LAMPO
È di questi giorni un sondaggio della NBC che rileva la percentuale di gradimento e non del presidente Trump. Sicuramente ha registrato il più alto consenso mai raggiunto durante i suoi due mandati, con una media del 47% di americani che approva il suo operato e il 44% che ritiene che il Paese stia procedendo nella giusta direzione. Un record personale per Trump.

Ma nonostante questi dati incoraggianti, la maggioranza degli americani continua a non sostenerlo, rendendo il suo indice di gradimento complessivamente negativo. Trump aveva iniziato la sua presidenza con un bilancio positivo, ma nelle ultime settimane la percentuale di consensi è tornata lentamente a ridursi e, e anche con l’attuale picco di popolarità, Trump rimane comunque il presidente meno apprezzato della storia moderna americana, rispetto a qualsiasi altro presidente nello stesso periodo iniziale. Mentre i consensi per il presidente Trump sono in calo, il Partito Democratico tenta di affrontare una crisi di popolarità ancora più grave: solo il 27% degli elettori registrati ha attualmente un’opinione positiva dei Democratici, a fronte del 55% che esprime giudizi negativi. È il livello più basso mai raggiunto dal partito, dove il 38% degli intervistati dichiara addirittura una visione “estremamente negativa”. 

Guardando i numeri al Congresso: i repubblicani detengono attualmente una maggioranza di 53-47 al Senato, mentre alla Camera detengono una maggioranza di 218-213, piccoli margini che hanno obbligato Trump a ritirare e quindi dover ripensare alla nomina ad ambasciatore presso le Nazioni Unite, di Alice Stefanick, deputata per lo Stato di New York. Ecco perché i primi cento giorni sono cruciali, non solo per poter usufruire del minimo risicato di maggioranza (qualsiasi Executive Order presidenziale deve essere approvato dal Congresso), ma anche per dimostrare che quanto promesso in campagna elettorale è vero e quindi aumentare il consenso del pubblico.

I NUMERI
Tralasciando le teatralità, parliamo di economia che è alla base di quasi tutte le decisioni politiche ad oggi prese per il paese. Gli Stati Uniti sono il Paese più ricco al mondo, con un bilancio annuale di 6.500 miliardi di dollari ed entrate per 4.500 miliardi, il che genera una perdita annuale di circa 2.000 miliardi. Con un PIL di 29.000 miliardi di dollari e un debito complessivo di 36.000 miliardi, gli USA possono però contare su un valore patrimoniale stimato tra i 500 e i 1.000 trilioni di dollari, un patrimonio che li rende estremamente solidi dal punto di vista economico.

“Secondo questa visione, non sarebbe necessario ridurre nemmeno di un centesimo i fondi destinati ai cittadini che hanno realmente diritto ai benefici sociali, come la previdenza (Social Security), Medicaid o Medicare. La vera sfida sarebbe invece quella di eliminare le inefficienze, smettendo di inviare denaro pubblico a chi approfitta del sistema assistenziale, ad esempio persone che ricevono assegni di invalidità per decenni pur svolgendo altre attività lavorative. In sintesi, gli Stati Uniti dovrebbero semplicemente iniziare a monetizzare e sfruttare in modo efficace i propri immensi asset per ristabilire la responsabilità fiscale”, racconta Lutnick, il neoeletto Segretario del Dipartimento per il commercio.

HOWARD LUTNICK
Ma chi è Lutnick? Howard Lutnick è un imprenditore di origini ebraiche noto principalmente come presidente e amministratore delegato della Cantor Fitzgerald, nota per essere una delle principali società di servizi finanziari a livello globale, oggi con oltre 12.500 dipendenti distribuiti in più di 60 uffici in 20 paesi. Riconosciuta come uno dei 24 operatori primari autorizzati a negoziare titoli di Stato con la Federal Reserve Bank di New York, occupava gli ultimi cinque piani di una delle Torri Gemelle quando, l’11 settembre 2001, fu tragicamente colpita dagli attentati terroristici, in cui morirono 658 dipendenti, inclusi il fratello Gary, e il suo migliore amico, Doug. Cantor Fitzgerald guadagnava circa un milione di dollari al giorno, ed era stata costruita sulla filosofia di assumere persone attraverso il passaparola dei dipendenti stessi, creando così un ambiente di lavoro coeso e motivato. Dopo la tragedia, il chairman Lutnick decise di aiutare economicamente tutte le famiglie delle vittime, donando il 25% degli utili aziendali. Nonostante l’impatto devastante, Lutnick è riuscito a ricostruire la società, principalmente grazie alla totale assenza di debiti. Questa sua esperienza di gestione delle crisi e il suo approccio pragmatico lo hanno reso una figura nota al pubblico, anche fuori dal settore finanziario.

Nel 2023 Trump, che lui chiama simpaticamente DJT, gli chiede di affiancarlo per risanare il debito pubblico americano. Lutnick, fino a quel momento non coinvolto nella politica, accetta, decidendo di impegnarsi personalmente e finanziariamente. Lutnick affronta l’incarico con sistematicità, studia, legge, s’informa su ogni dettaglio che spieghi il funzionamento della Casa Bianca, le politiche commerciali in essere e delinea così le strategie finanziarie necessarie per equilibrare il bilancio federale.

PRIMA IDEA – DOGE
Da imprenditore, decide di focalizzarsi su come risanare il bilancio federale, in particolare su una revisione approfondita della spesa pubblica, che è pari a circa quattro trilioni di dollari l’anno. Lutnick è certo che non essendoci mai stata verifica, almeno il 25% di queste spese potrebbero essere ridotte semplicemente eliminando errori o frodi, per un risparmio stimato di circa un trilione di dollari annuo. Inoltre, Lutnick ritiene possibile generare un ulteriore trilione di dollari attraverso nuove entrate, come i dazi doganali. È lui che decide di coinvolgere Elon Musk nel progetto, ed è lui che inventa l’acronimo DOGE (Department of Government Efficiency). Musk, la cui rapidità di azione e i cui tagli drastici una volta acquisito Twitter sono noti, accetta con entusiasmo, suggerendo una riduzione fino all’80% della forza lavoro governativa, paragonando la situazione del governo federale alla sua esperienza. Lutnick presenta DOGE come una fornitura gratuita di strumenti e tecnologie innovative al governo, senza dover passare per le tradizionali procedure burocratiche.

SECONDA IDEA – I DAZI DOGANALI
Storicamente, fino al 1913 gli Stati Uniti non avevano imposte sul reddito e questa tassazione viene introdotta per finanziare lo sforzo bellico per la Prima Guerra Mondiale. In seguito dopo la Grande Depressione e la Seconda Guerra Mondiale, Truman con il Piano Marshall (1948), decide consapevolmente di abbassare i propri dazi doganali per favorire la ripresa economica degli altri Paesi devastati dal conflitto, accettando che questi ultimi imponessero tariffe elevate sui prodotti statunitensi.  Tuttavia, secondo Lutnick, “ci siamo dimenticati che questa era una strategia temporanea e l’abbiamo mantenuta anche quando non era più necessaria”. Esemplare è il caso del Kuwait, (qui tutti ricordano ancora la storia di Red Adair, eroe americano, il ‘pompiere’ dei pozzi petroliferi), che dopo essere stato liberato grazie all’aiuto militare con una spesa di cento miliardi di dollari, è il paese che, da allora, ha imposto le tariffe in assoluto più alte.

In questo contesto, Donald Trump emerge come l’unico politico americano ad aver compreso profondamente la necessità di cambiare rotta e inserisce sempre grazie a Lutnick un aspetto umano, perché il nonno di quest’ultimo lavorava nell’industria automobilistica, in stabilimenti situati nel Midwest. “Grazie a questi lavori, intere generazioni di operai come loro potevano godere di una vita stabile e dignitosa”. – “In tanti ricordano gli accordo NAFTA creati da Clinton, che permisero alle grandi aziende americane di trasferire le loro fabbriche in Messico, causando una devastante perdita di lavoro e dignità per intere generazioni di operai soprattutto nell’industria automobilistica del Midwest. È per difendere proprio queste persone, che Trump sostiene con convinzione la politica di reintrodurre tariffe adeguate, proteggendo così i lavoratori americani e favorendo il ritorno della produzione negli Stati Uniti”.  Secondo Lutnick, il concetto di commercio internazionale realmente “libero ed equo” non esiste, poiché ogni Paese protegge il proprio mercato con tariffe doganali, come ad esempio l’India, che applica una tariffa media del 50%, mentre gli Stati Uniti restano fermi ad appena il 4%. Anche la Cina è un esempio significativo: pur essendo una grande economia con un PIL di circa 10 trilioni di dollari, consuma principalmente i propri prodotti e applica alte tariffe ai beni importati, limitando fortemente l’accesso ai mercati esteri.

TARIFFE
Rispondendo alla preoccupazione che le tariffe possano causare inflazione, Lutnick precisa che quest’ultima deriva principalmente dall’aumento della quantità di moneta in circolazione, e non dalle tariffe in sé. La critica comune degli economisti secondo cui le tariffe porterebbero all’inflazione e alla recessione è, per Lutnick, basata su un contesto teorico di scambi liberi ed equi, che in realtà non esiste. Pur riconoscendo che alcuni prodotti importati possono diventare più costosi a causa delle tariffe, Lutnick afferma che ciò equivale semplicemente a una tassa sui consumi e non genera inflazione generalizzata. L’obiettivo centrale delle politiche tariffarie di Trump è infatti riportare la produzione negli Stati Uniti – reshoring –  creando posti di lavoro più qualificati e meglio retribuiti. Già nelle prime settimane della nuova amministrazione Trump, aziende come TSMC hanno investito circa 2 trilioni di dollari in nuovi impianti produttivi sul territorio per evitare le nuove tariffe.

Ad oggi ecco l’elenco delle principali aziende che hanno annunciato importanti investimenti in nuovi stabilimenti produttivi negli Stati Uniti, con i relativi importi:

  1. Apple: Ha annunciato nel febbraio 2025 un investimento complessivo di oltre 500 miliardi di dollari nei prossimi quattro anni, in settori come l’intelligenza artificiale e l’ingegneria dei semiconduttori.
  2. Hyundai Motor Group: Nel marzo 2025 ha comunicato investimenti pari a circa 21 miliardi di dollari, inclusa la costruzione di una nuova acciaieria da 5,8 miliardi in Louisiana.
  3. TSMC (Taiwan Semiconductor): Sta investendo circa 100 miliardi di dollari per espandere la capacità produttiva negli Stati Uniti, concentrandosi sulla produzione di semiconduttori.
  4. Eli Lilly and Company: Ha deciso di raddoppiare gli investimenti negli stabilimenti americani, portandoli a 1,7 miliardi di dollari, con nuovi impianti in North Carolina e Indiana.
  5. Meta Platforms: Ha annunciato un investimento di 10 miliardi di dollari per la costruzione del suo più grande data center, situato in Louisiana.
  6. Samsung Electronics: Ha confermato la realizzazione di una fabbrica di semiconduttori in Texas, con un investimento pari a 17 miliardi di dollari, prevista operativa dalla seconda metà del 2024.
  7. Intel: Ha pianificato investimenti iniziali di circa 20 miliardi di dollari per la realizzazione di nuove fabbriche di semiconduttori in Ohio, con possibilità di espansione fino a 100 miliardi.
  8. Micron Technology: Ha annunciato la costruzione di un nuovo stabilimento produttivo di semiconduttori nello stato di New York con un investimento iniziale di 20 miliardi di dollari, potenzialmente espandibile a 100 miliardi in due decenni.
  9. Texas Instruments: Ha avviato investimenti che potrebbero raggiungere i 30 miliardi di dollari per nuovi impianti produttivi di semiconduttori in Texas.
  10. Wolfspeed: Nel settembre 2022, ha annunciato un investimento di circa 1,3 miliardi di dollari per realizzare la più grande fabbrica al mondo di semiconduttori al carburo di silicio, situata in North Carolina.

Infine, Lutnick riconosce che esiste una gamma limitata di prodotti altamente tecnologici e specializzati, come alcune attrezzature per semiconduttori prodotte da ASML, che non potranno essere prodotte facilmente negli Stati Uniti per almeno altri cinque o sei anni. Per queste specifiche categorie, suggerisce quindi di adottare soluzioni più mirate e flessibili, riconoscendo la necessità di un approccio tariffario più equilibrato per tali settori strategici.

Gli Stati Uniti sono la principale economia consumatrice globale, con un PIL di 29 trilioni di dollari, di cui ben 20 trilioni rappresentano acquisti effettuati dagli americani stessi. Questo rende l’America il principale cliente mondiale, essenziale per l’economia globale. Di conseguenza, gli altri paesi, che dipendono dal mercato statunitense, dovrebbero pagare tariffe per accedervi. Introducendo tariffe sui prodotti esteri, l’America potrebbe generare nuove entrate che permetterebbero al governo federale di ridurre le tasse interne per i cittadini americani. Questa nuova entrata esterna viene chiamata ironicamente da Lutnick “External Revenue Service”, (il fisco americano si chiama Internal Revenue Service), un’idea che ha presentato personalmente a Trump e che è stata accolta con entusiasmo. Lutnick vede in questo meccanismo un ritorno alla prosperità economica americana precedente al 1913, quando il paese prosperava attraverso tariffe, senza tasse sul reddito. Infine, abbassando le tasse interne, il costo effettivo del lavoro diminuirebbe, poiché i lavoratori sarebbero più motivati se gli stipendi fossero esentasse. Questa strategia potrebbe migliorare significativamente la competitività economica degli Stati Uniti e la qualità della vita dei suoi lavoratori.

Ma l’altra grande novità che con probabilità verrà istituita è l’introduzione di un nuovo sistema software per gestire le tariffe doganali: Lutnick vuole creare un sistema tecnologico avanzato basato sull’intelligenza artificiale (AI), progettato per automatizzare e semplificare radicalmente il processo di riscossione dei dazi doganali negli Stati Uniti. Il sistema funzionerà in questo modo:

  1. Identificazione automatica del prodotto:  Utilizzando tecnologie avanzate come il riconoscimento fotografico e l’intelligenza artificiale, il software sarà in grado di identificare rapidamente ogni prodotto importato, semplicemente analizzando un’immagine della merce.
  2. Calcolo automatico delle tariffe:  Una volta identificato il prodotto, il sistema consulterà automaticamente un database aggiornato per determinare la tariffa doganale appropriata da applicare, secondo la categoria merceologica e le regole commerciali vigenti.
  3. Misurazione precisa del peso:  Il sistema includerà bilance estremamente accurate, in grado di misurare il peso del prodotto con grande precisione (fino a 13 cifre decimali, come avviene per l’oro). Questo metodo assicurerà che non vi siano errori nel calcolo del peso e, di conseguenza, nelle tariffe applicate.
  4. Eliminazione delle verifiche manuali:  Grazie all’accuratezza dell’identificazione automatizzata e alla precisione delle bilance, non sarà più necessario aprire fisicamente i pacchi per verificare il contenuto, riducendo enormemente i tempi e aumentando l’efficienza.
  5. Collaborazione con aziende tecnologiche:  Lutnick ha già ottenuto l’impegno gratuito da parte delle principali aziende tecnologiche americane (tra cui Google, Amazon, Microsoft ed Elon Musk con le sue società) per sviluppare questo software. Queste aziende contribuiranno volontariamente, riconoscendo il vantaggio strategico di sviluppare tecnologie che, se adottate dagli Stati Uniti, potranno essere successivamente esportate in tutto il mondo.

In sintesi, questo sistema mira a rivoluzionare la gestione delle tariffe doganali, rendendo il processo più rapido, accurato e sicuro, aumentando contemporaneamente gli introiti per gli Stati Uniti, eliminando inefficienze e riducendo drasticamente le possibilità di frodi ed errori amministrativi.

L’annuncio di tariffe del 25% sulle auto importate ha provocato reazioni negative nei mercati finanziari globali, con gli analisti che prevedono un aumento dei prezzi e una possibile stagnazione della produzione. Inoltre, la volatilità dei mercati riflette l’incertezza generata da queste misure protezionistiche, con gli investitori che mettono in dubbio la sostenibilità di tali politiche nel lungo termine. Secondo un articolo del Wall Street Journal, l’imposizione di nuovi dazi su acciaio e alluminio ha significativamente perturbato le catene di approvvigionamento manifatturiere, aumentando i costi sia per i prodotti importati che per quelli domestici. I dirigenti del settore manifatturiero hanno espresso preoccupazione, evidenziando che gli Stati Uniti non dispongono di una capacità produttiva sufficiente per materiali come fili di acciaio, viti e altri elementi di fissaggio. WSJ

Concludendo, se l’espansione delle guerre commerciali ha portato a un aumento delle misure protezionistiche a livello globale, rallentando la crescita economica e indebolendo la cooperazione internazionale, tuttavia non l’ha annullata.
Chissà che questa strategia non rimanga solo un esercizio solitario, ma venga adottata anche da altri paesi nel tentativo di trovare soluzioni al debito pubblico, risollevando le rispettive economie..?


‘After the Bridge’ – Film e testimonianze sulla vita dopo un attentato terroristico

OtherMovie Lugano Film Festival 2025
programma completo del Festival QUI

Come si ricostruisce e come prosegue la vita dopo un attentato terroristico? Ricordi, riflessioni, speranze e il valore della testimonianza.

È questo l’argomento affrontato da OtherMovie Film Festival
sezione “Culture e conflitti”
domenica 30 marzo 2025
Cinema Iride, Lugano
inizio ore 20.00

Sullo sfondo, il terrorismo jihadista, protagonista e istigatore di innumerevoli tragedie negli ultimi venti anni. Un fenomeno in continua evoluzione che in Europa -come anche altri estremismi violenti – continua oggi ad attrarre ragazzi sempre più giovani. 

Dopo una breve introduzione sul tema a cura di Chiara Sulmoni (START InSight), la serata prevede due importanti momenti di riflessione con le testimonianze (pre-registrate) di Valeria Collina, madre di uno degli attentatori entrati in azione sul London Bridge nel 2017, e di Morena Pedruzzi, che ha vissuto in prima persona l’attacco avvenuto al Caffè Argana di Marrakesh nel 2011. Da due prospettive diverse, hanno dovuto fare i conti con le conseguenze dolorose del terrorismo e trovare la forza di reagire e andare avanti con la propria vita.

La storia di Valeria Collina è anche il tema del documentario ‘After the Bridge’ (Italia, 2023), la cui proiezione va a completare il programma della serata.

 ‘After the bridge’, di Davide Rizzo e Marzia Toscano | Italia | 2023 | 66’ | v.o. |

Trama
Valeria Collina, italiana convertita all’Islam, torna a vivere in Italia dopo vent’anni trascorsi in Marocco. Nel giugno del 2017, la sua vita è sconvolta dalla morte del giovane figlio Youssef, ucciso dalla polizia. Youssef era membro del commando jihadista che a Londra, sul London Bridge, ha provocato otto morti. Dopo l’attentato, la piccola casa di Valeria sui colli bolognesi è invasa da giornalisti provenienti da tutto il mondo. Superata la confusione di quei giorni, Valeria si ritrova sola, nella quiete di casa sua, cercando di rimettere insieme la sua vita e affrontando il dolore del peso delle azioni del figlio e della sua perdita.

Contatto: chiara.sulmoni@startinsight.eu


Stati Uniti – Immigrazione: no tu no!

di Melissa de Teffé dagli Stati Uniti, giornalista esperta di politica statunitense, accreditata per START InSight presso il Dipartimento di Stato

Il 21 marzo 2025 il Segretario di Stato Marco Rubio, ha annunciato l’inclusione nella lista nera americana dell’ex presidente argentina Cristina Fernández de Kirchner e dell’ex ministro della Pianificazione Julio De Vido per il loro coinvolgimento in gravi episodi di corruzione durante il periodo in cui hanno ricoperto cariche pubbliche.

Rubio ha affermato che Fernández de Kirchner e De Vido avrebbero sfruttato i rispettivi incarichi «per organizzare e trarre vantaggio economico da diversi schemi corruttivi legati agli appalti per opere pubbliche, sottraendo così milioni di dollari alle casse dello Stato argentino». Diversi tribunali argentini hanno già pronunciato condanne nei confronti dei due ex funzionari, compromettendo fortemente la fiducia degli argentini e degli investitori internazionali nelle prospettive economiche e politiche del Paese, senza però riuscire a incarcerarli per i crimini commessi.

Il provvedimento adottato impedisce a Fernández de Kirchner, De Vido e ai loro familiari diretti l’ingresso negli Stati Uniti. «Queste misure riaffermano il nostro impegno contro la corruzione globale, specialmente quando coinvolge alti livelli governativi», ha sottolineato Rubio, che ha poi aggiunto: «Continueremo a garantire che chi abusa del potere pubblico per vantaggi personali venga chiamato a rispondere delle proprie azioni».

Queste designazioni rientrano nelle misure previste dalla Sezione 7031(c) del “Department of State, Foreign Operations, and Related Programs Appropriations Act” del 2024, recentemente confermato anche per il 2025. Questa normativa, approvata dal Congresso l’anno scorso, obbliga il Segretario di Stato a segnalare pubblicamente o privatamente funzionari stranieri coinvolti in corruzione significativa o in gravi violazioni dei diritti umani, sulla base di informazioni attendibili raccolte dal Dipartimento di Stato. La decisione di rendere pubblica questa mossa rappresenta un avvertimento ad altri leader politici, come Maduro presidente del Venezuela e non riconosciuto dagli Stati Uniti. A seguito delle controverse elezioni presidenziali del luglio 2024, gli Stati Uniti hanno dichiarato di non riconoscere la legittimità del governo di Maduro. Il precedente Segretario di Stato, Antony Blinken, aveva già espresso “serie preoccupazioni” riguardo ai risultati elettorali. Il 10 gennaio 2025, in concomitanza con l’insediamento di Maduro per il suo terzo mandato gli Stati Uniti, insieme all’Unione Europea, al Regno Unito e al Canada, hanno imposto nuove sanzioni a funzionari venezuelani, mentre, il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti, ha aumentato la ricompensa per l’arresto di Maduro a 25 milioni di dollari. Il 18 marzo 2025, Rubio ha avvertito il governo venezuelano che, se non avesse accettato i voli di deportazione dei suoi cittadini dagli Stati Uniti, sarebbero state imposte “sanzioni severe ed escalation”. Questo avvertimento si inserisce negli sforzi dell’amministrazione Trump per deportare migranti senza status legale, colpevoli di crimini in territorio nordamericani e porre fine a un programma di residenza temporanea per 350.000 venezuelani.

Un dibattito democratico?

Queste azioni che vedono l’applicazione di una politica di frontiera a 360 gradi, dalla quale nemmeno ex presidenti sono esenti, vedi appunto Cristina Kirchner o Maduro, che ha addirittura una taglia sulla testa, coinvolgerà anche cittadini comuni di altri Paesi.

Ma coloro che credono che questa non sia più una democrazia, si mettano il cuore in pace; il sistema giudiziario funziona -bene o male a seconda delle opinioni- ma funziona. 

Il giudice federale James Boasberg lunedì 18 marzo, ha convocato un’udienza urgente dopo che l’amministrazione Trump si è rifiutata di far rientrare due aerei carichi di migranti ‘criminali’, già decollati il sabato precedente, nonostante un ordine temporaneo vietasse le espulsioni. Un terzo volo potrebbe essere partito successivamente all’ordine del giudice.

Titolo del New York Times

Il giudice Boasberg aveva emesso il sabato un ordine temporaneo per impedire all’amministrazione Trump di utilizzare la legge ‘Alien Enemies Act’ del 1789 per espellere migranti sospettati di appartenere alla gang criminale venezuelana “Tren de Aragua”. Tuttavia, i legali del Dipartimento di Giustizia hanno informato il giudice che due voli erano già in volo verso Honduras ed El Salvador al momento della decisione. Benché Boasberg avesse verbalmente ordinato ai voli di tornare indietro, tale direttiva non era stata inclusa formalmente nell’ordinanza scritta.

Durante l’udienza, Boasberg ha contestato al Dipartimento di Giustizia, la carenza di risposte chiare, definendolo un “gioco di potere”. Ha richiesto dettagli precisi sui voli, inclusi gli orari di partenza e arrivo, il numero di persone a bordo e le destinazioni finali. La Casa Bianca, tramite una dichiarazione ufficiale, sostiene che: «TdA (Tren de Aragua) sta perpetrando, tentando e minacciando un’invasione o incursione predatoria contro il territorio degli Stati Uniti. TdA sta conducendo azioni ostili e guerre irregolari contro gli Stati Uniti, direttamente o indirettamente sotto la direzione, clandestina o meno, del regime di Maduro in Venezuela».

Questa posizione è stata utilizzata per giustificare le espulsioni sotto l‘Alien Enemies Act, dichiarando i membri della TdA – pericolosi per la sicurezza nazionale.

Si aggiunga che questi individui sono comunque entrati negli Stati Uniti illegalmente, e che la posizione del giudice Boasberg appare fragile sotto due profili principali:

  1. Ingresso irregolare. Gli individui in questione non hanno seguito le procedure previste per un ingresso regolare nel paese. Se le loro motivazioni fossero state – ad esempio, una richiesta di asilo o immigrazione per motivi economici – avrebbero potuto presentare domanda attraverso i canali ufficiali o nei punti di ingresso autorizzati.
  2. Costi e carico giudiziario. L’amministrazione Trump ha giustificato l’invocazione dell’Alien Enemies Act anche con motivazioni di efficienza: i tribunali dell’immigrazione sono già sovraccarichi, con tempi d’attesa che superano anche i 18 mesi in diversi stati. In attesa del processo, la prassi corrente prevederebbe che i soggetti venissero rilasciati, con l’obbligo di presentarsi all’udienza fissata. Tuttavia, in molti casi si registra l’assenza all’udienza, cosa che rende difficile il rintracciamento e la successiva espulsione.

In questo contesto, la decisione di procedere con l’espulsione immediata – pur comportando dei costi – è considerata dall’amministrazione come la soluzione meno dannosa e più sicura, sia dal punto di vista economico che della sicurezza pubblica, nonostante vengano espresse critiche sulla legittimità e costituzionalità di queste espulsioni; gli esperti legali e gruppi per i diritti civili, sostengono che l’uso di poteri di emergenza in tempi di pace potrebbe violare i diritti costituzionali degli individui coinvolti. Ecco perché prima delle espulsioni, organizzazioni come Tren de Aragua sono state catalogate come terroristiche.


Foto di orythys da Pixabay

Il settore accademico 

Su un altro fronte, sempre molto divisivo, ci sono stati diversi casi riguardanti professori universitari associati a posizioni pro-Hamas o pro-Palestina, che hanno portato a sospensioni o licenziamenti. Ecco alcuni esempi:

  1. Katherine Franke: Professoressa di diritto alla Columbia University, è stata sospesa dopo aver criticato studenti ex membri delle Forze di Difesa Israeliane, accusandoli di danneggiare altri studenti. L’università ha ritenuto che i suoi commenti violassero le politiche interne.
  2. Maura Finkelstein: Professoressa associata al Muhlenberg College, è stata licenziata dopo aver condiviso un post del poeta palestinese Remi Kanazi, percepito come antisionista. Questo ha portato a lamentele da parte di studenti e docenti aprendo un’indagine federale.
  3. Russell J. Rickford: Professore alla Cornell University, ha descritto l’attacco di Hamas del 2023 come “esaltante” durante una manifestazione. Dopo le critiche ricevute, ha chiesto scusa e ha preso un congedo.
  4. Zareena Grewal: Professoressa alla Yale University, ha espresso su Twitter sostegno all’attacco di Hamas del 2023, affermando che i palestinesi hanno “ogni diritto di resistere con la lotta armata”. Le sue dichiarazioni hanno suscitato polemiche e hanno dato vita a una petizione per il suo licenziamento che ha raccolto oltre 55.000 firme.
  5. Jodi Dean: Professoressa al Hobart and William Smith Colleges, è stata sospesa dopo aver scritto un saggio in cui descriveva l’attacco di Hamas del 2023 come “esaltante”. La sospensione è stata revocata nel luglio 2024.

Nonostante queste situazioni coinvolgano professori con posizioni pro-Palestina o pro-Hamas, non tutti sono stati espulsi. Le conseguenze variano da sospensioni a licenziamenti, a seconda dei casi specifici e delle politiche delle rispettive istituzioni.

Recentemente, negli Stati Uniti, sono state espresse preoccupazioni riguardo all’indottrinamento di studenti americani verso posizioni filo-Hamas e antisraeliane. Diversi episodi in scuole e università hanno sollevato allarmi su possibili influenze ideologiche nelle istituzioni educative.

Ma guardando dall’esterno quanto accade ed è accaduto nelle università americane, l’impressione è che invece di proporre agli studenti momenti di dibattito, approfondimento, e comprensione sembra che ci sia piuttosto stato un vero e proprio indottrinamento. 

Un indottrinamento?

  • Un articolo del New York Post ha evidenziato come l’antisemitismo sia aumentato dove sembra che alcuni programmi educativi e insegnanti stiano diffondendo sentimenti antiebraici tra gli studenti.
  • In Virginia, una docente, figlia di un imam è stata accusata di aver insegnato odio antisraeliano agli studenti. Questo caso ha sollevato preoccupazioni riguardo all’influenza di attori esterni e attivisti nel settore dell’istruzione.
  • Shai Davidai è professore associato di psicologia alla Columbia University ed è di origine israeliana ed ebreo. In seguito alle manifestazioni pro-Palestina organizzate nel campus dopo il 7 ottobre 2024, Davidai ha espresso pubblicamente forti critiche verso l’università, accusandola di non condannare adeguatamente ciò che lui definisce episodi di odio e antisemitismo. In un’intervista ha detto chiaramente che “l’odio non scompare da solo” e che “l’estremismo va affrontato, altrimenti rimane”. Dopo aver chiesto spiegazioni a un amministratore universitario sul comportamento dell’ateneo, l’università ha deciso di vietargli temporaneamente l’accesso al campus, sostenendo che il suo atteggiamento rappresentasse una forma di molestia. Davidai, invece, ha giudicato questa decisione come una ritorsione per le sue posizioni pubbliche.
  • Joe Rogan, il noto conduttore di talk show, ha intervistato Tim Kennedy, Forze Speciali, (fra le mille attività nel 2021, ha aperto una scuola ad Austin, in Texas, chiamata Apogee che enfatizza l’apprendimento guidato dagli studenti attraverso discussioni socratiche e progetti basati su esperienze reali, per sintetizzare), e ambedue hanno evidenziato come la radicalizzazione nelle scuole americane possa portare gli studenti a simpatizzare con i terroristi a Gaza, e sottolineando come i professori abbiano l’opportunità di “radicalizzare” i propri studenti attraverso compiti e attività scolastiche.
  • Un professore associato ha criticato la leadership della Columbia e del Barnard College per aver permesso ad agitatori antisraeliani di causare disordini nei campus. Ha affermato che “abbiamo indottrinato gli studenti e loro non sono il problema. Il problema sono sempre stati i professori che li hanno indottrinati.”

Le autorità:

  • Leo Terrell, consulente senior dell’assistente procuratore generale per i diritti civili, ha affermato che l’amministrazione Trump non tollererà l’antisemitismo nelle scuole. Ha sottolineato che il Dipartimento di Giustizia utilizzerà tutti gli strumenti a sua disposizione per fermare comportamenti antisemiti.

(Per un aggiornamento, v. https://www.arnoldporter.com/en/perspectives/advisories/2025/03/eo-14188-additional-measures-to-combat-anti-semitism)

Questi esempi illustrano le crescenti preoccupazioni riguardo all’influenza di ideologie filo-Hamas e antisraeliane nelle istituzioni educative americane.

Guardando la questione da una prospettiva ampia, a volo d’uccello, ciò che emerge è la profonda polarizzazione politica e spaccatura tra due fronti: da un lato, un presidente e un’amministrazione che proseguono nella direzione che ritengono più opportuna per dare forma  a un paese ‘in ordine’, rispettato e apprezzato per quello che può dare, in una convivenza pacifica generale, fra ebrei, musulmani o appartenenti a qualsiasi altra fede – “In God We Trust”; dall’altro lato, un’opposizione che sta reagendo talvolta con violenza e caos per imporre le proprie visioni e le proprie ragioni (vedi le proteste presso gli atenei che non hanno creato né occasioni di dialogo né momenti di apprendimento, o gli sfregi alla Tesla).   

In questo senso, poiché le elezioni dopotutto hanno decretato la vittoria di Trump, restano emblematiche le parole dello storico e filosofo Karl Popper: «La democrazia consiste proprio in questo: che non soltanto le opinioni della maggioranza, ma anche quelle delle minoranze siano rispettate. Purché le minoranze, da parte loro, non abusino della democrazia per distruggerla.»  



Trump e lo Alien Enemies Act del 1798: il rimpatrio dei membri di gang venezuelane come “guerra irregolare”.

di Andrea Molle, dagli Stati Uniti.

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Lo Alien Enemies Act del 1798 è una legge federale che concede al presidente degli Stati Uniti l’autorità di detenere o deportare cittadini stranieri provenienti da nazioni considerate ostili in tempi di guerra. Promulgata il 6 luglio 1798 come parte degli Alien and Sedition Acts, il suo obiettivo principale è quello di proteggere la sicurezza nazionale in un contesto di conflitto armato.

Alla fine del XVIII secolo, le tensioni tra Stati Uniti e Francia aumentarono, alimentando timori di spionaggio e sovversione interna. Per rispondere a queste preoccupazioni, il Congresso, controllato dai Federalisti, approvò quattro leggi collettivamente note come Alien and Sedition Acts. Queste includevano il Naturalization Act, che aumentava il requisito di residenza per la cittadinanza statunitense da cinque a quattordici anni; lo Alien Friends Act, che autorizzava il presidente a deportare qualsiasi straniero ritenuto pericoloso per la sicurezza nazionale; lo Alien Enemies Act, che permetteva al presidente di detenere o deportare cittadini maschi di una nazione ostile, di età pari o superiore ai quattordici anni, durante i periodi di guerra; e il Sedition Act, che rendeva un crimine la pubblicazione di scritti “falsi, scandalosi e maligni” contro il governo o i suoi funzionari. A differenza degli altri tre atti, che furono abrogati o scaddero entro il 1802, lo Alien Enemies Act rimane in vigore ancora oggi, sebbene in una forma modificata. La sua stessa presenza continua nel diritto statunitense alimenta dibattiti su libertà civili e l’equilibrio tra sicurezza nazionale e diritti individuali.

Nel corso della storia degli Stati Uniti, lo Alien Enemies Act è stato invocato solo durante conflitti significativi. Durante la Guerra del 1812, fu applicato ai cittadini britannici residenti negli Stati Uniti. Nella Prima Guerra Mondiale, prese di mira cittadini della Germania e dei suoi alleati. Nella Seconda Guerra Mondiale, giustificò l’internamento di cittadini giapponesi, tedeschi e italiani, nonché di cittadini americani di origine giapponese, segnando una delle applicazioni più controverse della legge. In ogni caso, l’atto ha facilitato la detenzione, il trasferimento o la deportazione di individui sulla base della loro nazionalità in tempo di guerra.

Nel marzo 2025, il presidente Donald Trump ha invocato lo Alien Enemies Act per accelerare la deportazione di migranti venezuelani sospettati di affiliazione con gang criminali, in particolare il gruppo Tren de Aragua. Questo ha segnato un’inedita applicazione della legge in tempo di pace, poiché gli Stati Uniti non sono ufficialmente in guerra con il Venezuela. Sebbene l’inizio delle deportazioni non sia stato fermato, un giudice federale ha emesso un’ordinanza restrittiva di quattordici giorni, aprendo un dibattito legale sull’ambito e l’applicabilità della legge nel contesto contemporaneo.

L’invocazione del Alien Enemies Act del 1798 per deportare membri di gang venezuelane suggerisce che l’amministrazione Trump stia inquadrando l’attività criminale come una forma di guerra irregolare. Questo si allinea con precedenti passi volti a classificare alcuni cartelli della droga come organizzazioni terroristiche, riflettendo un più ampio cambiamento nel modo in cui gli attori non statali coinvolti nel crimine organizzato sono percepiti all’interno della politica di sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Trattando le organizzazioni criminali come attori di guerra irregolare piuttosto che come semplici imprese criminali, l’amministrazione probabilmente cerca di espandere gli strumenti legali e militari disponibili per combatterle.

La guerra irregolare è generalmente intesa come un conflitto che coinvolge attori non statali che utilizzano tattiche asimmetriche, tra cui insurrezione, guerriglia e terrorismo, per sfidare l’autorità statale. I cartelli della droga e le gang transnazionali, pur non essendo insurrezioni ideologiche nel senso tradizionale, esercitano violenza, controllo territoriale e sfruttamento economico che destabilizzano le regioni e minacciano la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Equiparare l’attività delle gang alla guerra irregolare potrebbe giustificare misure più forti, come interventi militari, operazioni di intelligence e l’applicazione di poteri straordinari tipici del tempo di guerra, comprese deportazioni accelerate e potenzialmente detenzioni a tempo indeterminato.

Esistono diversi potenziali vantaggi in questo approccio. In primo luogo, consente una risposta più aggressiva e coordinata contro organizzazioni criminali che operano oltre i confini e hanno legami con reti terroristiche. Se i cartelli e le gang transnazionali vengono trattati come minacce paragonabili alle insurrezioni, allora possono essere applicate strategie di controterrorismo e controinsurrezione per smantellarli. Ciò potrebbe migliorare la sicurezza lungo il confine tra Stati Uniti e Messico e nelle aree urbane colpite dalla violenza delle gang, riducendo potenzialmente i crimini e le morti legate alla droga. Potrebbe anche esercitare pressione sui governi stranieri, come quelli di Messico e Venezuela, affinché prendano misure più forti contro i gruppi criminali operanti nei loro territori.

Tuttavia, esistono anche rischi significativi e potenziali conseguenze negative. Dal punto di vista legale, l’ampia applicazione di poteri straordinari in un contesto di pace potrebbe creare un precedente pericoloso, erodendo le libertà civili e le garanzie del giusto processo. L’uso del Alien Enemies Act contro individui non affiliati a uno stato nemico riconosciuto solleva preoccupazioni sulla sua costituzionalità e sulla possibilità di discriminazione razziale o etnica. Inoltre, l’espansione del concetto di guerra irregolare per includere l’attività delle gang potrebbe portare alla militarizzazione delle forze dell’ordine domestiche, aumentando l’uso della forza, le potenziali violazioni dei diritti umani e le tensioni tra comunità e autorità governative.

A livello internazionale, trattare cartelli e gang come organizzazioni terroristiche o combattenti nemici potrebbe aumentare le tensioni con i governi stranieri. Se gli Stati Uniti iniziassero a prendere di mira questi gruppi attraverso operazioni militari o di intelligence, ciò potrebbe essere visto come una violazione della sovranità nazionale, specialmente in America Latina. Paesi come il Messico hanno già resistito agli sforzi statunitensi di designare i cartelli come organizzazioni terroristiche, temendo che ciò possa giustificare azioni militari unilaterali da parte degli Stati Uniti nei loro territori. Questo approccio potrebbe anche provocare ritorsioni da parte delle organizzazioni criminali, aumentando la violenza contro cittadini americani e forze dell’ordine. In conclusione, mentre la classificazione dell’attività delle gang come guerra irregolare può offrire vantaggi tattici nella lotta contro il crimine organizzato, essa comporta profondi rischi legali, etici e geopolitici che devono essere attentamente valutati. È necessario trovare un equilibrio tra la sicurezza nazionale e il rispetto dello stato di diritto, delle libertà civili e della cooperazione internazionale. Inoltre, le conseguenze a lungo termine della ridefinizione delle organizzazioni criminali come minacce militari potrebbero modellare la politica degli Stati Uniti in modi difficili da controllare o invertire.


La telefonata Trump-Zelensky sulla pace in Ucraina: leggiamo tra le righe

di Claudio Bertolotti.

Dall’intervista a “Effetto Notte” – Radio24, ospite di Roberta Giordano (puntata del 19 marzo 2025).

La dichiarazione al termine della conversazione telefonica è stata concordata e allineata, una copia l’una dell’altra. Dalla convergenza sulla riconosciuta importanza degli incontri negoziali di Gedda alla decisione di accettare un cessate il fuoco incondizionato, il che equivale a cedere alla Russia. Quello di un’Ucraina provata dei territori conquistati da Mosca è lo scenario che prospettiamo da almeno due anni ma di cui si è preferito non parlare prediligendo una narrazione ideale e non realistica volta alla liberazione dell’Ucraina tout court. Purtroppo.

C’è una differenza sottile però nelle dichiarazioni di Washington e Kiev: Zelensky ha ribadito la necessità di rinforzare la difesa contraerea. Trump ha concordato su questa necessità, evidenziando però che farà il possibile per trovare in Europa la risposta a tale necessità. Dunque passando la palla agli europei, o quantomeno richiamando l’UE a un ruolo che, a parole, pretende ma che nella pratica ha giocato Washington fo dal principio. Forse non in termini economici, ma certamente in termini di forniture materiali di armi ed equipaggiamenti. Inoltre, Zelensky non l’ha fatto, Trump si, è stata ventilata l’ipotesi di un passaggio di proprietà del settore energetico ucraino a favore di aziende statunitensi. Interessante, poiché questo potrebbe essere un limite all’eventuale aggressiva pretesa futura da parte di Mosca.

Di fatto l’Ucraina ha incassato il colpo piegandosi alla volontà statunitense, non potendo fare altrimenti e non essendoci una reale alternativa.

Dunque l’opzione che si prospetta all’orizzonte è quella di un’Ucraina ridimensionata, territorialmente, in termini di risorse naturali, e privata di un eventuale possibilità di inclusione all’interno dell’Alleanza atlantica, ma non dell’Unione europea: un’opzione che, però, sarebbe molto vantaggiosa per la Russia che, nell’Europa, non intravede un baluardo invalicabile.


Il dilemma della difesa europea: perché PESCO e altre iniziative non riescono mai a dare risultati

di Andrea Molle, dagli Stati Uniti.

L’Unione Europea ha sempre aspirato a rafforzare la sua sicurezza collettiva e l’autonomia strategica. Negli ultimi anni, iniziative come la Cooperazione Strutturata Permanente (PESCO), il Fondo europeo per la difesa (EDF) e la Revisione annuale coordinata sulla difesa (CARD) sono state lanciate per potenziare le capacità di difesa europee. Tuttavia, queste iniziative, pur essendo simbolicamente significative, non sono riuscite a dare all’Europa un framework per la sicurezza coerente ed efficace. Con l’aumento delle tensioni geopolitiche, in particolare con una Russia sempre più aggressiva e l’instabilità in corso in Medio Oriente e Nord Africa, è giunto il momento per l’Europa di riconoscere i difetti fondamentali nel suo attuale approccio alla difesa e considerare soluzioni più radicali.

Ad oggi, la Cooperazione Strutturata Permanente (PESCO) continua a essere il quadro di riferimento dell’Unione Europea per approfondire la collaborazione in ambito difensivo tra i suoi Stati membri. Dalla sua creazione nel 2017, PESCO si è estesa includendo oggi 26 paesi che lavorano collettivamente su 68 progetti volti a migliorare le capacità militari e l’interoperabilità. Nel novembre 2024, il Consiglio dell’Unione Europea ha approvato le conclusioni della revisione strategica di PESCO, riaffermando il suo ruolo centrale nel promuovere la cooperazione nell’ambito della difesa. La revisione ha messo in luce la necessità di adattare PESCO al mutato panorama geopolitico e ha evidenziato l’importanza di affrontare le sfide esistenti per potenziarne l’efficacia.

Nonostante questi sforzi, PESCO continua comunque ad avere limiti significativi. Molti progetti hanno subito ritardi a causa di una pianificazione finanziaria e opertativa insufficiente, portando a discussioni sul rilancio o l’abbandono di iniziative poco performanti. Inoltre, gli interessi nazionali divergenti e le diverse interpretazioni dell’autonomia strategica tra gli Stati membri hanno ostacolato il raggiungimento di un livello accettabile di coesione. Ad esempio, la Polonia ha espresso preoccupazioni sul fatto che PESCO potrebbe minare la NATO o indebolire la cooperazione in materia di sicurezza con gli Stati Uniti, entrambi vitali per la sicurezza del fianco orientale della NATO.

Per aumentare l’efficacia di PESCO, l’UE ha lanciato diversi progetti aperti alla partecipazione di terzi rispetto all’Unione. In particolare, Canada, Norvegia e Stati Uniti sono coinvolti nel progetto “Mobilità Militare” dal dicembre 2021, con il Regno Unito che si è unito nel novembre 2022. Il Canada è stato anche invitato a partecipare, a partire da febbraio 2023, al progetto di creazione di una rete di hub logistici in Europa e supporto alle operazioni. Questa inclusione mira a sfruttare competenze e risorse esterne per rafforzare le iniziative PESCO. Nell’agosto 2024, la Svizzera ha ottenuto l’approvazione per partecipare a due progetti PESCO: “Mobilità Militare” e “Cyber Ranges Federation”. Questa apertura è volta a potenziare le capacità di difesa nazionale della Svizzera, pur rispettando i suoi obblighi di neutralità.

Guardando al futuro, la revisione strategica in corso di PESCO, prevista per concludersi entro la fine del 2025, offre un’opportunità per rimodellare il quadro per affrontare meglio le sfide di sicurezza contemporanee. La revisione mira a rivitalizzare PESCO affinando i suoi obiettivi, migliorando la gestione dei progetti e garantendo che gli sforzi collaborativi portino a concreti avanzamenti militari. In sintesi, sebbene PESCO abbia fatto progressi nel promuovere la cooperazione in ambito difensivo all’interno dell’UE, continua a fare i conti con inefficienze burocratiche, priorità nazionali divergenti e livelli variabili di impegno tra gli Stati membri. La valutazione dei risultati della revisione strategica e dell’inclusione di partecipanti terzi saranno cruciali per determinare l’efficacia futura di PESCO nel rafforzare la postura difensiva dell’Europa.

Allo stesso modo, il Fondo europeo per la difesa (EDF), istituito nel 2017, è uno strumento fondamentale per rafforzare la ricerca e l’innovazione nel settore della difesa dell’Unione Europea. Per il periodo 2021-2027, l’EDF ha ricevuto un budget di circa 8 miliardi di euro, di cui 2,7 miliardi destinati alla ricerca difensiva collaborativa e 5,3 miliardi destinati a progetti di sviluppo delle capacità. Riconoscendo la necessità di potenziare le capacità di difesa, la Commissione Europea ha proposto un sostanziale aumento dei fondi per la difesa. Nel marzo 2025, la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha annunciato piani per un fondo di difesa da 150 miliardi di euro, volto a incoraggiare gli Stati membri a investire in capacità militari con il supporto di prestiti sostenuti dall’UE. Questa iniziativa sottolinea l’impegno dell’UE nel rafforzare la propria postura difensiva in risposta alle sfide geopolitiche in evoluzione.

La Revisione Annuale Coordinata sulla Difesa (CARD) è un altro meccanismo cruciale progettato per armonizzare la pianificazione e gli investimenti della difesa tra gli Stati membri dell’UE. CARD fornisce una panoramica completa del panorama della difesa dell’UE, identificando opportunità di collaborazione e facilitando la cooperazione. Tuttavia, il rapporto CARD del 2024 indica che, nonostante i progressi nella spesa per la difesa e nella cooperazione, resta ampio spazio per miglioramenti. Gli Stati membri sono incoraggiati a prendere azioni decisive per mantenere gli investimenti e migliorare l’efficienza delle loro forze armate.

In aggiunta all’EDF e al CARD, numerose altre iniziative e agenzie difensive europee contribuiscono al potenziamento delle capacità di difesa dell’Unione Europea. Istituita nel 2004, l’Agenzia Europea per la Difesa (EDA) supporta gli Stati membri dell’UE nel migliorare le loro capacità di difesa attraverso la cooperazione europea. Agendo come facilitatore per progetti difensivi collaborativi, l’EDA funge da centro per la cooperazione nella difesa europea, coprendo una vasta gamma di attività legate alla difesa.

La Politica Comune di Sicurezza e Difesa (CSDP) è il quadro dell’UE per la difesa e la gestione delle crisi, formando una componente principale della Politica Estera e di Sicurezza Comune (CFSP) dell’UE. La CSDP consente all’UE di intraprendere missioni operative al di fuori dei suoi confini, utilizzando sia risorse civili che militari per garantire il mantenimento della pace, la prevenzione dei conflitti e il rafforzamento della sicurezza internazionale. L’UE sta anche esplorando lo sviluppo di una nuova rete satellitare per ridurre la dipendenza dall’intelligence militare degli Stati Uniti. Questa iniziativa mira a migliorare la capacità dell’UE di rilevare minacce e coordinare azioni militari, fornendo aggiornamenti più frequenti e maggiore autonomia nella raccolta di informazioni. Queste iniziative e agenzie contribuiscono collettivamente a un quadro difensivo europeo più integrato e robusto, affrontando le sfide di sicurezza sia attuali che emergenti.

A complicare le sfide affrontate da queste iniziative c’è comunque la continua dipendenza dell’UE dalla NATO come suo principale garante della sicurezza. Mentre i leader europei parlano spesso di “autonomia strategica”, la realtà è che l’Europa rimane dipendente dal potere militare americano. La guerra in Ucraina ha sottolineato il ruolo insostituibile della NATO nella sicurezza europea, con gli Stati Uniti che forniscono la maggior parte degli aiuti militari e del coordinamento strategico. Questa dipendenza dalla NATO crea un paradosso: mentre l’UE desidera una maggiore indipendenza difensiva, non è disposta o in grado di sviluppare le capacità necessarie per rendere quell’indipendenza significativa. I tentativi di stabilire un’identità difensiva europea credibile, come l’Iniziativa di Intervento Europea (EI2) guidata dalla Francia, hanno fatto pochi progressi a causa delle priorità concorrenti degli Stati membri.

Per affrontare queste carenze, l’Europa deve riconsiderare la sua strategia di difesa con soluzioni audaci e pragmatiche. In primo luogo, è necessaria un’autentica volontà di spesa per la difesa. L’UE dovrebbe stabilire obiettivi vincolanti di investimento in difesa, simili all’aumento della richiesta di PIL della NATO. ReArm Europe è un passo nella giusta direzione, ma un bilancio militare comune europeo, finanziato attraverso meccanismi a livello UE, potrebbe aiutare a superare la frammentazione nell’acquisto di armamenti e nello sviluppo delle capacità.

In secondo luogo, dobbiamo capire che la creazione di un esercito europeo pienamente integrato è stata a lungo considerata politicamente irrealizzabile a causa delle preoccupazioni sulla sovranità nazionale e della complessità nell’allineare strutture militari diversificate. Tuttavia, gli sviluppi recenti indicano un cambiamento verso capacità difensive europee più coese. Nel marzo 2022, l’UE ha introdotto lo strumento dello Strategic Compass, delineando la creazione di una Capacità di Dispiegamento Rapido (RDC) entro il 2025. Questa forza modulare mira a mobilitare fino a 5.000 persone, incorporando i battaglioni modificati dell’UE e forze aggiuntive degli Stati membri.

Il presidente francese Emmanuel Macron è da sempre un sostenitore vocale del rafforzamento dei meccanismi di difesa dell’UE. Nell’aprile 2024, ha proposto l’istituzione di una Forza di Reazione Rapida Europea entro il 2025, sottolineando la necessità di un'”Iniziativa di Difesa Europea” per sviluppare concetti strategici e capacità, in particolare nella difesa aerea e nelle operazioni a lungo raggio. Nonostante queste iniziative, permangono numerosi problemi. Nazioni come la Germania affrontano difficoltà nel reclutare e preparare le loro forze armate, soprattutto tra le giovani generazioni che potrebbero dare priorità all’equilibrio tra vita lavorativa e impegni militari. Nazioni come l’Italia non si fidano della Francia, riconoscendo che molto spesso le priorità strategiche e gli interessi nazionali di Parigi divergono da quelli di Roma.

Infine, potenziare la sicurezza dell’Europa richiede un approccio globale che integri i quadri militari istituzionali e la preparazione civile. Sebbene l’idea di un diritto di autodifesa a livello dell’UE simile al Secondo Emendamento degli Stati Uniti sia culturalmente e giuridicamente complessa, l’Europa ha avviato iniziative per rafforzare la resilienza e la preparazione civile.

In conclusione, l’ambiente di sicurezza dell’Europa sta peggiorando, e le attuali iniziative di difesa sono inadeguate per affrontare le sfide future. PESCO, l’EDF e il CARD non sono riusciti a offrire un cammino credibile verso l’autonomia strategica. Se l’Europa è seria nel difendersi, deve adottare soluzioni più ambiziose, tra cui un aumento della spesa per la difesa, l’integrazione operativa e un quadro giuridico che dia potere agli Stati e ai cittadini in materia di sicurezza. Senza tali misure, la difesa europea rimarrà un mosaico frammentato e inefficace, lasciando il continente vulnerabile in un mondo sempre più ostile.


La Cina traccia la sua rotta, USA ed Europa cercano la via

di Melissa de Teffé dagli Stati Uniti, giornalista esperta di politica statunitense, accreditata per START InSight presso il Dipartimento di Stato.

Mentre l’attenzione internazionale è concentrata sulle scelte strategiche dell’Europa, indecisa tra riarmo e diplomazia, sulle conclusioni del meeting di Jeddah o sull’ennesima dichiarazione provocatoria di Donald Trump che monopolizza titoli e conferenze stampa, in Cina il Congresso Nazionale del Popolo approva silenziosamente il piano del governo, definendo così priorità economiche e obiettivi politici per il prossimo anno.

La Cina oggi è la seconda economia al mondo ed è l’unica potenza che possa controbilanciare il terremoto trumpiano. Purtroppo per chiunque voglia scrivere di Cina e capire come funziona e cosa succede dietro le quinte, è assai complicato, quasi come risolvere un crimine senza supporto tecnologico contemporaneo. Niente DNA!

Essendo un sistemo politico centralizzato e opaco nelle sue espressioni, leggendo il discorso di Xi Jinping prima e seguendo la conferenza stampa del Ministro Affari Esteri Wang Yi, possiamo quasi tracciare una linea che si andrà per forza a intersecare con gli Stati Uniti in termini favorevoli. Carta canta, e le finanze dello Stato, hanno ancora il predominio nelle scelte politiche.

Partiamo dal Presidente, che nel suo discorso ha enfatizzato la necessità di continuare a “modernizzare in stile cinese” il paese, come punto focale per il rilancio della Cina, e così promuovendo una sperata crescita economica intorno al 5% (la banca svizzera UBS ha dichiarato che invece sarà forse il 4%). “Questa crescita darà stabilità sociale e rinascita culturale, non tanto come sviluppo economico, ma piuttosto come un processo che integri equità sociale e sostenibilità ambientale” – differenziando quindi il percorso cinese dai modelli occidentali. Tuttavia, secondo l’Istituto Chatham House, la Cina affronta ostacoli significativi, dovuti a una crescita economica rallentata, una sfida demografica non indifferente, ossia l’invecchiamento della popolazione accoppiato a un record negativo di nascite oltre a una riduzione non indifferente della forza lavoro. “La triplice pressione della domanda in calo, dello shock dell’offerta e dell’indebolimento delle aspettative, insieme a numerosi rischi e pericoli nascosti che influenzano la stabilità sociale, (…) specialmente riguardo alla costruzione di uno stile di partito pulito e onesto e alla lotta alla corruzione, che continuano a presentare problemi ostinati e frequenti, (qui invece fa riferimento al grave problema di corruzione ai livelli più alti dell’esercito, nda); (…). Rafforzare la guida dell’opinione pubblica, creando un orientamento corretto che valorizzi il lavoro come fonte di ricchezza, l’impegno come base per ottenere risultati e la lotta costruttiva come via per raggiungere la felicità. Contrastare efficacemente idee malsane quali la svalutazione del lavoro, l’arricchirsi senza fatica, il godere passivamente dei risultati altrui e l’atteggiamento passivo di rinuncia e immobilismo, (qui si riferisce al grave problema posto dalla generazione Gen Z, peraltro non dissimile da quello che gli USA stanno vivendo, ossia l’incapacità di inserirsi nel mondo lavorativo di oggi, causato da una non volontà di adeguarsi alla realtà, nda); (…) Stimolare pienamente, così, la vitalità creativa dell’intera società.”

La conferenza stampa di Wang Yi è stata più illuminante, perché più diretta. Il ministro ha risposto in modo esaustivo a diverse domande, ne abbiamo estrapolate tre, che ci riguardano da vicino: la prima riguarda il rapporto della Cina con la Russia segue poi la visione cinese della diplomazia e infine come vedono “America First”.


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YI sulle relazioni Cina-Russia:

«Ogni anno mi vengono poste domande sulle relazioni Cina-Russia, sebbene ogni volta da prospettive diverse. Ciò che voglio sottolineare è che, indipendentemente da come evolva il panorama internazionale, la logica storica dell’amicizia tra Cina e Russia non cambierà, e la sua forza trainante interna non diminuirà. Basandosi su profonde riflessioni ed esperienze storiche, Cina e Russia hanno deciso di forgiare una duratura amicizia di buon vicinato, condurre un coordinamento strategico completo e perseguire una cooperazione reciprocamente vantaggiosa in cui tutti vincono, poiché questo serve al meglio gli interessi fondamentali dei due popoli e corrisponde alla tendenza dei nostri tempi. I due paesi hanno individuato un percorso di non alleanza, non conflitto e non ostilità verso alcuna terza parte nello sviluppo delle loro relazioni. È uno sforzo pionieristico nel creare un nuovo modello di relazioni tra grandi potenze e costituisce un ottimo esempio per i rapporti tra paesi vicini. Una relazione Cina-Russia matura, resiliente e stabile non sarà influenzata da alcun cambiamento degli eventi, e men che meno soggetta a interferenze da parte di terzi; essa rappresenta una costante in un mondo turbolento, non una variabile nei giochi geopolitici.

Lo scorso anno ha segnato il 75° anniversario delle relazioni diplomatiche tra Cina e Russia. Il presidente Xi Jinping e il presidente Vladimir Putin si sono incontrati faccia a faccia per tre volte, guidando congiuntamente il partenariato strategico globale Cina-Russia per il coordinamento nella nuova era verso una nuova fase storica. Quest’anno ricorrerà l’80° anniversario della vittoria nella Seconda Guerra Mondiale. All’epoca, Cina e Russia combatterono coraggiosamente rispettivamente nei principali teatri di guerra dell’Asia e dell’Europa. Entrambe le nazioni compirono enormi sacrifici e diedero contributi storici decisivi per la vittoria nella Guerra mondiale antifascista. Le due parti coglieranno l’occasione di questa commemorazione congiunta per promuovere una corretta interpretazione storica della Seconda guerra mondiale, difendere i risultati raggiunti, sostenere il sistema internazionale centrato sulle Nazioni Unite e promuovere un ordine internazionale più giusto ed equo.

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Rispondendo a una domanda sul ruolo diplomatico della Cina:

Yj: “Viviamo in un mondo in continuo cambiamento e turbolento, dove la certezza sta diventando una risorsa scarsa. Le scelte dei paesi, in particolare delle grandi potenze, determineranno la traiettoria dei nostri tempi e daranno forma al futuro del mondo. La diplomazia cinese sarà sempre dalla parte giusta della storia e dalla parte del progresso umano. La Cina fornirà certezza a questo mondo incerto e sarà una forza determinata a difendere i suoi interessi nazionali. Il popolo cinese ha una gloriosa tradizione di rinnovamento continuo, non provocheremo mai, né ci lasceremo intimidire dalle provocazioni. Continueremo ad ampliare i nostri partenariati globali basati sull’uguaglianza, sull’apertura e sulla cooperazione, affrontando attivamente i problemi globali con un approccio cinese e scrivendo un nuovo capitolo per il Sud globale nella sua ricerca di unità e forza.

Dimostreremo con i fatti che la strada dello sviluppo pacifico è luminosa e garantisce un progresso stabile e sostenibile; tale strada dovrebbe essere scelta da tutti i paesi. Saremo una forza progressista per l’equità e la giustizia internazionali, difendendo il vero multilateralismo, avendo ben presente il futuro dell’umanità e il benessere dei popoli, promuovendo una governance globale basata su consultazioni estese, contributi congiunti e benefici condivisi. Rispetteremo gli scopi e i principi della Carta delle Nazioni Unite e costruiremo un consenso più ampio per un ordine mondiale multipolare, equo e ordinato. La Cina sarà una forza costruttiva per lo sviluppo comune del mondo, continuando ad ampliare l’apertura di alto livello e condividendo con tutti i paesi le vaste opportunità della modernizzazione cinese, tutelando il sistema multilaterale di libero commercio, promuovendo una cooperazione internazionale aperta, inclusiva e non discriminatoria e favorendo una globalizzazione economica inclusiva e vantaggiosa per tutti.

Alla domanda invece riguardo alla politica statunitense di Trump “America First”, Wang Ji ha risposto: “Il presidente Trump ha adottato una politica basata sul principio “America First” dopo il suo ritorno alla Casa Bianca, a meno di due mesi dall’inizio del suo mandato. Ha parlato di ritirarsi da organizzazioni e trattati internazionali, di sospendere gli aiuti (USAID) degli Stati Uniti a paesi esteri e ha minacciato alleati tradizionali. Pensate che ciò sia vantaggioso per lo sviluppo della Cina? Queste scelte rappresentano un’opportunità strategica per la Cina per assumere un ruolo più rilevante negli affari internazionali e rimodellare lo scenario globale? – (si chiede lui ad alta voce) – Questa è una domanda molto pungente, ma sono pronto a condividere il mio punto di vista. Ci sono oltre 190 paesi nel mondo. Se tutti ponessero il proprio paese al primo posto e fossero ossessionati dalla ricerca di una posizione di forza, il mondo tornerebbe sotto il dominio della legge della giungla. I paesi più piccoli e più deboli ne soffrirebbero per primi, e le norme e l’ordine internazionale subirebbero un duro colpo. Alla conferenza di Parigi oltre cento anni fa, i cinesi posero una domanda che rimbomba nei secoli: è il giusto a prevalere sulla forza, o è la forza a determinare ciò che è giusto?


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La Nuova Cina rimane fermamente dalla parte della giustizia internazionale e si oppone risolutamente alla politica della forza e all’egemonia. La storia della Germania dovrebbe andare avanti, non indietro. Una grande nazione deve onorare i propri obblighi internazionali e adempiere alle proprie responsabilità, senza mettere gli interessi egoistici prima dei principi, e ancor meno usare il proprio potere per intimidire i più deboli. In Occidente si dice che “non esistono amici eterni, ma solo interessi permanenti”. Tuttavia, in Cina crediamo che gli amici debbano essere permanenti e che dobbiamo perseguire interessi comuni.

Con una profonda comprensione delle tendenze storiche della nostra epoca, il presidente Xi Jinping ha proposto la costruzione di una comunità dal futuro condiviso per l’umanità, invitando tutti i paesi a superare divergenze e differenze, proteggere insieme il nostro unico pianeta e sviluppare insieme il villaggio globale come nostra casa comune. Questa grande visione riflette non solo la nobile tradizione della civiltà cinese secondo cui il mondo appartiene a tutti, ma anche l’impegno internazionalista dei comunisti cinesi. Ci permette di considerare il benessere dell’intera umanità, proprio come avere una visione d’insieme delle montagne che sembrano piccole quando siamo in cima a una vetta, come descritto in un antico poema cinese.

Siamo lieti di vedere che sempre più paesi si sono uniti alla causa della costruzione di una comunità dal futuro condiviso per l’umanità. Oltre 100 paesi sostengono le iniziative globali di sviluppo, sicurezza e civiltà proposte dalla Cina, e più di tre quarti dei paesi nel mondo hanno aderito alla famiglia della cooperazione “Belt and Road”. La storia dimostrerà che il vero vincitore è colui che tiene conto degli interessi di tutti, e che una comunità con un futuro condiviso per l’umanità garantirà che il mondo appartenga a tutti e che ognuno possa avere un futuro luminoso.”

Conclusioni:

La Cina emerge chiaramente come un interlocutore strategico inevitabile, capace di influenzare profondamente gli equilibri globali, specialmente in un momento in cui le scelte statunitensi sembrano orientarsi verso un ritorno all’isolazionismo. L’Europa, mentre cerca di definire una propria identità e autonomia strategica, non può permettersi di sottovalutare la complessità della realtà cinese, che unisce ambiziosi obiettivi economici distanti dalle tradizioni europee di qualità e bellezza. La visione cinese di uno sviluppo “in stile cinese”, orientato all’equità sociale e (forse) alla sostenibilità ambientale, (non dimentichiamo le 100 città cinesi vuote), rappresenta sempre un interlocutore interessante e danaroso anche se un concorrente nella definizione di modelli economici e sociali assai lontani. La Cina, nonostante gli ambiziosi piani di crescita e modernizzazione, deve confrontarsi con ostacoli significativi come il rallentamento economico, l’invecchiamento della popolazione, la diminuzione della forza lavoro e il difficile equilibrio tra controllo statale e dinamiche di mercato. Gli Stati Uniti, d’altra parte, si trovano di fronte a sfide interne di diversa natura, tra cui un elevato indebitamento pubblico, un’inflazione con rischio di recessione e l’incertezza sulla riuscita e sostenibilità del nuovo modello economico.

Per l’Europa, questo scenario rappresenta un’occasione per rafforzare la propria autonomia strategica, evitando di dipendere troppo da queste due superpotenze. Dunque, la sfida è duplice: collaborare con la Cina per affrontare sfide comuni di ordine globale, mantenendo però ferme le proprie posizioni su valori e diritti umani, e al contempo evitare che il vuoto strategico lasciato da un’America più isolazionista venga colmato unilateralmente da una Cina determinata ad affermare il suo modello. In sintesi, per l’Europa è fondamentale costruire una strategia coerente, capace di dialogare con Pechino senza rinunciare alle proprie prerogative politiche, economiche e culturali.


AMERICA FIRST- Il piano economico dell’amministrazione Trump 2025

di Melissa de Teffé dagli Stati Uniti
giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense, accreditata per START InSight presso il Dipartimento di Stato (US)

Qualche giorno fa a New York, il ministro del Tesoro statunitense Scott Bessent ha illustrato le principali politiche economiche del governo Trump davanti a esperti di economia e finanza. L’obiettivo centrale è quello di superare la grave crisi finanziaria che ancora colpisce il Paese, nonostante la sua grande ricchezza.

“America First”, ha spiegato Bessent, non riguarda solo politica interna o internazionale, economia o sicurezza nazionale. È piuttosto un piano completo che punta a migliorare la vita di ogni americano attraverso tre priorità fondamentali, coordinate dal Dipartimento del Commercio e del Tesoro. La base di questo piano è una nuova politica fiscale.

Politica interna

La parola chiave è deregolamentazione, cioè ridurre le regole inutili nel settore finanziario per accelerare la ripresa economica. Secondo l’amministrazione Trump, le regole attuali sono eccessive e non sempre efficaci. Un recente decreto presidenziale obbliga le principali autorità finanziarie (Federal Reserve, FDIC e OCC) a far revisionare le proprie regole dall’Ufficio di Gestione e Bilancio, per garantire più controllo e responsabilità.

Secondo Bessent, la crisi bancaria del 2023, in particolare il fallimento della Silicon Valley Bank, è nata proprio a causa della scarsa supervisione. Chi doveva controllare non ha compreso in tempo i rischi che la banca stava assumendo, e non è intervenuto con decisione per risolverli.

L’agenda del governo prevede quindi una revisione completa delle priorità nella supervisione bancaria. La cultura delle banche deve cambiare: meno attenzione alla burocrazia formale e più concentrazione sui rischi reali. Questo cambiamento sarà promosso dal Financial Stability Oversight Council (FSOC) e dal Working Group on Financial Markets, creando un migliore dialogo tra le banche, i regolatori e il Tesoro.

Secondo Bessent, le grandi banche americane oggi soffrono di troppe regole inefficienti e poco chiare. La sua proposta è di semplificare e aggiornare queste norme. Ad esempio, il regolamento sul rapporto di leva finanziaria rischia di limitare inutilmente anche l’utilizzo degli investimenti più sicuri, come i titoli di stato americani.

Bessent si è focalizzato sul successo delle piccole banche, che ad oggi sono solo 4.000, ma svolgono un ruolo significativo nell’economia degli Stati Uniti, nonostante detengano solo il 15% degli asset e depositi d’industria. Queste banche rappresentano il 40% dei prestiti alle piccole imprese, il 70% dei prestiti agricoli e il 40% dei prestiti immobiliari commerciali. Sfortunatamente, sono state sovraccaricate, dice Bessent, da requisiti di reporting improduttivi, regolamentazioni assai gravose, che hanno poco a che fare con la riduzione del rischio finanziario materiale. Dice Bessent: “è necessario migliorare l’efficienza e l’efficacia nel nostro settore finanziario, concentrandoci su attività domestiche sottoscritte, riducendo l’indebitamento del settore pubblico e facendo leva sul settore privato. Ciò comporterà una rivitalizzazione intelligente delle nostre istituzioni finanziarie regolate”.

Queste  politiche economiche  hanno suscitato molte critiche da diversi settori. La proposta di ridurre il deficit federale al 3% del PIL è stata accolta con preoccupazione, poiché per raggiungere questo obiettivo, sarebbero necessarie ingenti riduzioni dei programmi sociali, come Medicaid, e un aumento delle tasse sui beni importati, penalizzando le famiglie a basso e medio reddito. Inoltre il sostegno alla deregolamentazione del settore finanziario, mirato a stimolare la crescita economica, ha suscitato preoccupazioni circa l’instabilità finanziaria, simile a quella che ha preceduto la crisi del 2008. La riduzione della supervisione potrebbe aumentare i rischi legati agli eccessi del settore bancario e a un rischio sistemico maggiore, per non parlare della proposta di coordinare la politica monetaria con misure fiscali per influenzare i tassi di interesse a lungo termine. La paura è che questa politica  destabilizzi i mercati finanziari.

La proposta di ridurre il deficit federale al 3% del PIL è stata accolta con preoccupazione, poiché per raggiungere questo obiettivo, sarebbero necessarie ingenti riduzioni dei programmi sociali, come Medicaid, e un aumento delle tasse sui beni importati, penalizzando le famiglie a basso/medio reddito.

  • Politica commerciale
  • Sul fronte internazionale, l’agenda economica del presidente Trump si basa su tre fattori principali:  Annullare le tariffe, creando un equilibrio nel commercio internazionale tra importazioni ed esportazioni.
  • Riportare la produzione manifatturiera negli Stati Uniti, riducendo così la dipendenza economica da paesi esteri come Cina, Canada e Messico. Sebbene questo processo richiederà tempo, l’obiettivo è ridurre gradualmente la delocalizzazione produttiva avvenuta negli ultimi decenni.
  • Rivedere gli accordi commerciali e militari, integrando politica militare, economica e politica estera, anziché trattarle come ambiti separati. Secondo l’amministrazione Trump, la spesa militare, infatti, non garantisce una crescita economica sana e sostenibile. Diversi economisti sostengono questa visione, tra cui James K. Galbraith, che considera la spesa militare improduttiva rispetto agli investimenti civili; Norman Angell, che già nel 1909 spiegava nel suo saggio “La grande illusione” che il potere militare non genera benessere economico duraturo; e John Maynard Keynes, che nella sua “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” evidenziava come le spese pubbliche produttive siano preferibili rispetto alla costruzione di armamenti per sostenere una crescita economica stabile.

Secondo l’amministrazione Trump, la spesa militare non garantisce una crescita economica sana e sostenibile. In quest’ottica, gli Stati Uniti non intendono più sovvenzionare altri paesi Nato, concentrando invece le risorse verso lo sviluppo produttivo interno e nuove relazioni commerciali.

In quest’ottica, gli Stati Uniti non intendono più sovvenzionare altri paesi Nato, concentrando invece le risorse verso lo sviluppo produttivo interno e nuove relazioni commerciali. Non possiamo dare torto al ministro del Tesoro quando afferma “ gli Stati Uniti sono anche consumatori di prima e ultima istanza. Questo sistema non è sostenibile”. E come stoccata alla Cina, dice: “ L’accesso a beni a basso costo non è l’essenza del sogno americano. Il sogno americano riguarda la mobilità sociale, la sicurezza economica e l’opportunità di raggiungere la prosperità. Le relazioni economiche internazionali che non funzionano per il popolo americano devono essere riesaminate. Questo è ciò che le tariffe sono progettate per affrontare: livellare il campo di gioco affinché il sistema commerciale internazionale premi l’ingegnosità, la sicurezza, lo stato di diritto e la stabilità, invece di sopprimere i salari, manipolare le valute, rubare proprietà intellettuali e introdurre regolamenti draconiani. Gli Stati Uniti risponderanno a pratiche dannose, incluse leggi ingiuste, politiche governative che minano la concorrenza globale e manipolazione delle valute”.

Ancora una volta Trump e Bessent hanno definito impropriamente queste multe come “tariffe”. L’Unione Europea ha sanzionato Google per pratiche anticoncorrenziali relative al suo servizio di shopping online, accusandola di privilegiare i propri prodotti rispetto a quelli della concorrenza, limitando così la libertà di scelta dei consumatori.

L’accesso a beni a basso costo non è l’essenza del sogno americano. Il sogno americano riguarda la mobilità sociale, la sicurezza economica e l’opportunità di raggiungere la prosperità.

Scott Bessent, segretario al Tesoro statunitense

In realtà, si tratta di sanzioni applicate sulla base di precise normative europee a tutela della privacy e della libera concorrenza. L’Europa, attraverso regolamenti come il Digital Markets Act (DMA) e il Digital Services Act (DSA), ha tracciato una netta linea di difesa—una sorta di “linea Maginot”—che limita il potere delle grandi piattaforme digitali, impedendo loro di prevalere sugli interessi dei singoli cittadini. Il DMA, in particolare, identifica grandi aziende tecnologiche come Alphabet (Google), Amazon, Apple, ByteDance, Meta e Microsoft, definendole “gatekeeper” e imponendo loro obblighi specifici per garantire un mercato equo e competitivo.

Parlando poi di sicurezza militare Bessent afferma: “La sicurezza economica è la sicurezza nazionale. Questo è evidente nelle azioni di sanzione del Tesoro degli Stati Uniti. Nel suo discorso dello scorso settembre, il presidente Trump ha espresso il suo parere che l’uso eccessivo delle sanzioni potrebbe influenzare la supremazia del dollaro. Sono d’accordo e aggiungo che, come l’uso eccessivo di antibiotici, l’obiettivo diventa immune e muta. Le sanzioni che non sono monitorate con attenzione creano semplicemente nuovi mercati che devono essere sanzionati a loro volta, e il ciclo continua. Un fattore importante che ha permesso alla macchina da guerra russa di continuare è stata la debolezza delle sanzioni sull’energia russa da parte dell’amministrazione Biden, causata dalle preoccupazioni per l’aumento dei prezzi dell’energia negli Stati Uniti durante una stagione elettorale. Questa amministrazione ha mantenuto in atto le sanzioni potenziate e non esiterà ad andare fino in fondo se ciò fornirà leva nelle negoziazioni di pace. La guida del presidente Trump sulle sanzioni è chiara: saranno utilizzate in modo esplicito e aggressivo per un impatto massimo e saranno monitorate con attenzione per garantire che raggiungano obiettivi specifici.”

Sebbene il piano economico “America First” abbia il merito di riportare l’attenzione sulla centralità dell’economia domestica, alcuni suoi aspetti andrebbero rivisti con cautela per evitare conseguenze indesiderate sul piano economico e sociale, sia nazionale che internazionale

In conclusione, il piano economico “America First” proposto dall’amministrazione Trump presenta alcune idee interessanti, come la volontà di riportare la manifattura negli Stati Uniti e di semplificare alcune regolamentazioni finanziarie considerate troppo burocratiche. Tuttavia, molte delle soluzioni proposte, in particolare la forte deregolamentazione e la riduzione drastica del deficit federale, sollevano preoccupazioni concrete. Da un lato, c’è il rischio che l’allentamento delle regole bancarie possa portare nuovamente a crisi finanziarie, come già avvenuto nel 2008 e nel 2023. Dall’altro, la riduzione dei programmi sociali per contenere il deficit potrebbe aggravare le disuguaglianze economiche e sociali negli Stati Uniti.

Sul fronte internazionale, il desiderio di riportare la manifattura negli USA e rivedere i rapporti commerciali e militari evidenzia una presa di coscienza della vulnerabilità economica del paese, e rappresenta un tentativo ambizioso e positivo di ridare impulso alla produzione nazionale. Tuttavia, questa strategia richiederà tempo, investimenti mirati e relazioni diplomatiche attente.

Infine, la posizione di Trump e Bessent rispetto alle sanzioni europee verso le grandi aziende tecnologiche appare semplicistica e rischia di creare inutili tensioni. Non riconoscere la differenza tra “tariffe” e sanzioni antitrust indica una possibile incomprensione delle normative europee, che sono volte a tutelare la concorrenza e i diritti dei cittadini.

In sintesi, sebbene il piano economico “America First” abbia il merito di riportare l’attenzione sulla centralità dell’economia domestica, alcuni suoi aspetti andrebbero rivisti con cautela per evitare conseguenze indesiderate sul piano economico e sociale, sia nazionale che internazionale.


Trump: pressioni sull’Iran per colpire la Cina.

di Claudio Bertolotti.

L’amministrazione Trump ha deciso di intensificare la propria politica di massima pressione nei confronti dell’Iran, colpendo direttamente il settore petrolifero e le relative infrastrutture logistiche. Le recenti azioni statunitensi mirano a ridurre significativamente le esportazioni iraniane di petrolio, specialmente verso la Cina, per limitare il finanziamento delle attività destabilizzanti del regime iraniano in Medio Oriente.
Il Dipartimento di Stato ha imposto nuove sanzioni contro tre società che hanno facilitato trasferimenti illeciti di petrolio iraniano mediante operazioni navali ship-to-ship (STS) svolte al largo dei porti nel Sud-est asiatico. Contemporaneamente, sono state individuate tre navi utilizzate per queste operazioni, dichiarandole beni soggetti a blocco. Queste misure puntano a bloccare il flusso finanziario che consente a Teheran di sostenere i suoi programmi nucleari e missilistici, oltre al sostegno ai gruppi terroristici regionali.
Parallelamente, il Dipartimento del Tesoro ha colpito direttamente il Ministro del Petrolio iraniano, Mohsen Paknejad, figura chiave nelle operazioni petrolifere iraniane, accusato di usare le risorse energetiche nazionali a favore delle attività illecite del regime. Sono state inoltre sanzionate diverse compagnie coinvolte nel trasporto e nella vendita del petrolio iraniano, soprattutto verso la Cina.
Le società colpite dalle sanzioni hanno operato con navi registrate in vari Paesi, nascondendo l’origine reale del petrolio trasportato, disattivando o manipolando i sistemi di identificazione automatica (AIS) per eludere i controlli internazionali. Tra queste società vi sono la PT. Bintang Samudra Utama (Bintang), la Shipload Maritime Pte. Ltd. e la PT. Gianira Adhinusa Senatama (Gianira), che hanno rispettivamente gestito le navi CELEBES, MALILI e MARINA VISION. Queste navi sono state coinvolte in un’importante operazione di trasferimento STS di petrolio iraniano il 25 dicembre 2024 nei pressi di Nipa, in Indonesia.
Gli analisti sottolineano che questa strategia riflette una consolidata tattica statunitense, volta non solo a bloccare le principali entrate economiche di Teheran ma anche a scoraggiare società e stati terzi dal collaborare direttamente o indirettamente con il regime iraniano. Questo genere di sanzioni genera un forte effetto dissuasivo, aumentando i costi e i rischi per gli operatori internazionali che cercano di aggirare le restrizioni imposte dagli USA.
Sul piano economico e strategico, questa ulteriore stretta punta dunque ad azzerare progressivamente le entrate petrolifere dell’Iran, indebolendo la capacità del regime di finanziare sia le proprie forze armate convenzionali sia le reti di milizie e gruppi affiliati, considerati da Washington come fattori principali di instabilità regionale.
È prevedibile che l’intensificazione delle sanzioni porti a un ulteriore aumento della tensione internazionale, ribadendo però la determinazione dell’amministrazione Trump a proseguire con la politica di massima pressione, con l’obiettivo finale di costringere l’Iran a rivedere le proprie strategie regionali e le proprie ambizioni nucleari e missilistiche.


L’evoluzione della guerra irregolare e una roadmap per il futuro.

di Andrea Molle, dagli Stati Uniti.

Storicamente parlando, la guerra irregolare (IW) è stata una costante dei conflitti, evolvendosi in risposta a dinamiche politiche, tecnologiche e sociali in continuo cambiamento. Nella dottrina militare degli Stati Uniti, essa è definita come “una lotta violenta tra attori statali e non statali per la legittimità e l’influenza sulle popolazioni di interesse” e, secondo la legge statunitense, come “attività del Dipartimento della Difesa che non coinvolgono conflitti armati ma supportano politiche e obiettivi militari prestabiliti degli Stati Uniti, condotte da, con e attraverso forze regolari, forze irregolari, gruppi e individui”. In senso più ampio, si tratta di una forma di guerra che mira a minare il potere di un avversario attraverso tattiche asimmetriche. Oggi, la guerra irregolare ha assunto molte forme, dalla guerriglia alle operazioni cyber-enabled. Sebbene il dibattito moderno sulla IW sia fortemente influenzato dalle esperienze occidentali, in particolare dagli Stati Uniti, è essenziale esaminare una gamma più ampia di casi storici e contemporanei per comprenderne l’evoluzione e affrontare le sfide della sicurezza futura.

Nel corso della storia, la guerra irregolare è stata l’arma della parte più debole in un conflitto, che si trattasse di insorti contro potenze coloniali, movimenti di resistenza contro occupazioni o attori non statali che sfidavano l’autorità statale. Esempi precoci includono le tattiche di guerriglia impiegate dagli spagnoli contro le forze napoleoniche nella Guerra d’Indipendenza spagnola (1808-1814) e le strategie asimmetriche utilizzate dai gruppi indigeni contro gli eserciti coloniali europei.

Nel XX secolo, la guerra irregolare è diventata una caratteristica dominante dei conflitti globali, soprattutto nelle lotte di decolonizzazione. La resistenza vietnamita contro le forze francesi e, successivamente, contro quelle americane ha dimostrato l’efficacia di una combinazione di tattiche di guerriglia, guerra politica e operazioni convenzionali. Analogamente, la strategia della guerra prolungata di Mao Zedong in Cina ha enfatizzato l’importanza della mobilitazione della popolazione e della fusione tra ideologia politica e azione militare per logorare un avversario più forte nel tempo.

Durante la Guerra Fredda, entrambe le superpotenze furono coinvolte in campagne di guerra irregolare attraverso guerre per procura, sostegno alle insurrezioni e operazioni di controinsurrezione. L’esperienza sovietica in Afghanistan (1979-1989) e i conflitti degli Stati Uniti in Vietnam, Iraq e Afghanistan dimostrano le difficoltà di combattere avversari irregolari con mezzi militari convenzionali. Questi casi evidenziano l’importanza della comprensione delle dinamiche locali, della legittimità politica e dei limiti del potere militare nei conflitti irregolari.

Oggi, la guerra irregolare si è espansa oltre le insurrezioni tradizionali e i movimenti di guerriglia per includere la guerra cibernetica, la guerra dell’informazione e le minacce ibride. Attori non statali come l’ISIS e minacce ibride da parte di stati, come l’uso russo di forze proxy e delle campagne di disinformazione in Ucraina, illustrano la natura in evoluzione della guerra irregolare. Il ruolo della tecnologia, in particolare l’intelligenza artificiale, i droni e le capacità informatiche, ha poi cambiato radicalmente il modo in cui la guerra irregolare viene condotta.

Tuttavia, una carenza critica negli studi attuali sulla guerra irregolare è il focus occidentale, che spesso ignora le esperienze ricche e variegate di altre regioni. Ad esempio, le strategie di guerra asimmetrica di Hezbollah contro Israele, l’uso di droni e missili da parte degli Houthi in Yemen e l’insurrezione prolungata delle FARC in Colombia offrono lezioni preziose sull’adattabilità e la resilienza delle forze irregolari. Esaminare come le nazioni africane contrastano le insurrezioni, come la lotta della Nigeria contro Boko Haram, o come l’India ha affrontato le insurrezioni in Kashmir e nel Nord-Est, potrebbe offrire nuove prospettive sulle strategie di controinsurrezione e stabilizzazione.

Per affrontare efficacemente le sfide della guerra irregolare futura, è necessaria una revisione del pensiero strategico. I responsabili politici e i militari dovrebbero ampliare la base di conoscenza oltre le esperienze occidentali, integrando le lezioni derivanti da conflitti globali diversificati. Le esperienze di attori mediorientali, africani e asiatici, sia nell’insurrezione che nella controinsurrezione, forniscono lezioni critiche di adattabilità e resilienza. Allo stesso tempo, i progressi nell’intelligenza artificiale, nei sistemi autonomi e nella guerra cibernetica modelleranno il futuro della guerra irregolare. Molti attori ostili stanno infatti già integrando propaganda basata sull’IA, deepfake e sabotaggi informatici nei loro arsenali, rendendo essenziale lo sviluppo di contromisure e strategie proattive.

Come la storia ha dimostrato, la guerra irregolare non riguarda solo la forza militare, ma anche la vittoria nelle battaglie politiche e sociali. Le future strategie devono integrare la guerra politica, le operazioni di informazione e gli strumenti economici per contrastare efficacemente gli avversari. Con l’aumento delle minacce ibride che fondono tattiche convenzionali, irregolari e cibernetiche, le nazioni devono adottare un approccio alla sicurezza globale che coinvolga collaborazione tra settori militare, civile e privato. Inoltre, è fondamentale dare priorità alle partnership locali e alla comprensione culturale, riconoscendo che le soluzioni ai conflitti irregolari sono spesso specifiche del contesto. Programmi di addestramento, raccolta di intelligence e operazioni militari dovrebbero incorporare una conoscenza profonda della cultura e della storia locale.

Per sviluppare efficacemente le strategie di guerra irregolare, dovrebbe essere implementata il prima possibile una roadmap strutturata. Tale roadmap dovrebbe iniziare con una fase dedicata alla ricerca e all’analisi da condursi nei prossimi anni, concentrandosi su studi approfonditi delle esperienze non occidentali e sull’integrazione delle loro lezioni nei programmi di formazione militare e politica. Dovrebbero essere istituiti gruppi di lavoro internazionali composti da esperti di diverse regioni, mentre modelli predittivi basati su IA e big data potrebbero anticipare le tendenze della guerra irregolare e le potenziali minacce, garantendo strategie adattabili e lungimiranti.

Dopo questa fase di ricerca, i successivi due o tre anni dovrebbero essere dedicati alla revisione delle politiche e delle dottrine militari. Questo comporterebbe l’aggiornamento delle linee guida operative per integrare le lezioni della guerra ibrida e informatica, il rafforzamento dei meccanismi di condivisione dell’intelligence tra nazioni alleate e l’affinamento dei quadri legali ed etici per affrontare le complessità della guerra irregolare, specialmente nel cyberspazio e nelle operazioni di informazione. Man mano che gli avversari evolvono le loro tattiche, i responsabili politici devono garantire che i quadri giuridici rimangano solidi ma flessibili di fronte alle nuove sfide.

Successivamente, gli sforzi dovrebbero concentrarsi sulla costruzione delle capacità e sulla formazione. Dovrebbero essere istituiti programmi di addestramento specializzati che si focalizzino su studi di casi non occidentali e sulle tattiche di guerra ibrida, preparando il personale militare e dell’intelligence a operare in ambienti diversi. Le innovazioni tecnologiche dovrebbero essere integrate in questi programmi, mentre partenariati tra governi, mondo accademico e settore privato dovrebbero favorire lo sviluppo di contromisure innovative contro le campagne di disinformazione e la propaganda digitale. In conclusione, la guerra irregolare è una forma di conflitto persistente ed evolutiva che richiede un adattamento continuo. L’approccio occidentale ha fornito importanti intuizioni, ma le strategie future devono incorporare un’ampia gamma di esperienze globali per rimanere efficaci. Solo abbracciando questi cambiamenti, le nazioni potranno contrastare efficacemente le minacce irregolari del futuro.