Il jiadismo femminile in Africa. Il ruolo delle donne all’interno di Boko Haram e al-Shabaab. Il nuovo libro di Marco Cochi
Il nuovo libro di Marco Cochi: Il jiadismo femminile in Africa. Il ruolo delle donne all’interno di Boko Haram e al-Shabaab, ed. START InSight.
Mentre in cinque regioni dell’Africa il jihadismo continua a espandersi, anche le donne sono coinvolte nell’insorgenza di alcuni gruppi militanti islamici. Tra i più attivi e pericolosi nel continente africano, i due che arruolano tra le loro fila il maggior numero di donne sono Boko Haram e al-Shabaab. In queste due famigerate formazioni jihadiste, l’utilizzo delle donne appare strategico, sebbene la partecipazione alle azioni violente non sia il loro ruolo primario.
Tuttavia, anche se non direttamente impegnate sul campo di battaglia, le donne svolgono ruoli determinanti per il supporto del gruppo, come quello di spia e addetta al reclutamento, oppure mansioni più pratiche come quella di cuoca o lavandaia, che per la sopravvivenza di un’organizzazione sono comunque importanti. Molte di esse hanno abbracciato l’ideologia salafita per ragioni indirette come la manipolazione, la sottomissione oppure la disinformazione, ma ci sono anche donne che hanno compiuto la scelta di aderire all’estremismo islamico attivamente, spinte dall’indottrinamento religioso e dal desiderio di un impegno armato.
Titolo: Il jiadismo femminile in Africa. Il ruolo delle donne all’interno di Boko Haram e al-Shabaab Autore: Marco Cochi Pubblicazione: Saggio/Analisi Collana: InSight Formato: 14×21, brossura, 62 pagine Editore: START InSight Anno di edizione: 2021
La guerra in Ucraina arriva fino in Africa. Il commento di M. Cochi a RaiNews24
Mosca ha costruito nel tempo una rete di relazioni economiche e politiche con molti paesi del continente africano che non prendono posizione contro l’aggressione russa
Se l’Occidente si è apertamente schierato contro l’invasione russa, nel continente africano Mosca continua a raccogliere consensi, rafforza i legami economici e politici e costruisce una strategia di pressione anche verso l’Europa. Ne abbiamo ripercorso le tappe e le ragioni con Marco Cochi, giornalista esperto di Africa. Insieme ad Andrea Segré, docente di Politiche Agrarie Internazionali all’Università di Bologna abbiamo spiegato come il cibo – i cereali, in questo caso – possa essere utilizzato come un’arma geopolitica e cercato di capire se le istituzioni sovranazionali hanno il potere di invertire la rotta. Leila Belhadj Mohamed, che si occupa di geopolitica per Life Gate, ha analizzato il ruolo della Turchia e l’importanza, per questi temi, di Paesi come il Mali e il Sudan. Conduce Veronica Fernandes
L’influenza russa in Africa. Ascolta il commento di M. Cochi
Negli ultimi anni la Russia ha esteso notevolmente la sua influenza in Africa, sviluppando legami economici e di carattere militare con il continente. In particolare, Mosca ha sviluppato una partnership privilegiata con il Sudan disponibile alla costruzione di una base navale del Cremlino nei pressi di Port Sudan, sul Mar Rosso. Ma dopo le sanzioni inflitte dall’Occidente alla Russia, lo scenario è destinato a cambiare. Ascolta l’analisi di Marco Cochi, Osservatorio sul radicalismo e il contrasto al terrorismo.
Le elezioni in Uganda, M. Cochi – RaiNews24
Museveni mantiene saldo il potere in Uganda
La vittoria di Yoweri Museveni nelle presidenziali ugandesi dello scorso 14 gennaio sancisce la sesta rielezione del settantaseienne, dopo oltre tre decenni al potere. Nel luglio 2018, il presidente ha emendato la Costituzione rimuovendo l’articolo che limitava di diventare presidente oltre i 75 anni. Una decisione che ha scatenato proteste di piazza tra i giovani ugandesi, i quali speravano nell’affermazione del suo sfidante: il trentottenne cantante reggae Bobi Wine. Così Museveni mantiene saldo il potere su un paese che non ha mai avuto un cambio di potere pacifico, da quando nel 1962 ha ottenuto l’indipendenza dal Regno Unito.
Ne parla Marco Cochi a RaiNews24
Come i russi aggirano la severa censura governativa su Internet
La VPN è una “rete privata virtuale” (Virtual Private
Network), che grazie a un particolare sistema chiamato tunneling, permette di rendere
invisibili le proprie attività in rete a occhi indiscreti e di mascherare
l’indirizzo IP da cui si accede a Internet bypassando, quindi, i blocchi
regionali imposti da alcuni siti Internet.
Il canale di comunicazione riservatoprotegge il traffico di dati e informazioni personali da attacchi
esterni, criminalità informatica e sistemi poco chiari; oltre a consentire di
aggirare la censura degli organi governativi. Ed è per questo che dopo
l’invasione dell’Ucraina, milioni di russi si stanno rivolgendo alle reti
private virtuali per aggirare la stretta su Internet imposta dal governo.
Secondo i dati, le prime 10 app VPN nell’App Store di Apple e nel Google Play Store in Russia hanno catalizzato quasi 6 milioni di download. I dati diffusi a riguardo da SensorTower per CNBC sono inequivocabili: nel periodo compreso tra il 24 febbraio e l’8 marzo, in Russia le prime 10 app VPN nell’App Store di Apple e nel Google Play Store hanno registrato quasi 6 milioni di download. Un aumento del 1.500% rispetto alle prime 10 app VPN scaricate nei 13 giorni precedenti al 24 febbraio, giorno in cui il presidente russo Vladimir Putin ha deciso di invadere l’Ucraina.
L’esponenziale incremento dei download delle VPN evidenzia
che molti russi non si accontentano della semplice propaganda di regime e bypassando
i controlli cercano di avere informazioni più affidabili su ciò che sta realmente
accadendo sul fronte di guerra.
Il web in Russia è soggetto da anni a una stretta censura,
anche se prima dello scoppio del conflitto tutte le principali piattaforme occidentali
come Facebook, Twitter e Google erano liberamente accessibili, a differenza della
Cina dove sono completamente oscurate. Tuttavia, in Russia, i tre giganti dei
social media hanno sempre operato sotto la minaccia di blocchi, nel caso
della pubblicazione di contenuti critici nei confronti del Cremlino.
Il controllo è diventato più serrato a partire dal primo
maggio 2019, quando Putin ha promulgato la legge sulla sovranità digitale, che ha conferito alle autorità di
Mosca ampi poteri per cercare di isolare RuNet
dal resto del mondo. Un controverso provvedimento indubbiamente teso a limitare
l’autonomia della società russa, introdotto sotto l’altisonante denominazione
di “Programma nazionale di economia digitale” o legge dell’“internet
sovranista”, come è stata ribattezzata da alcune testate italiane.
La misura ha permesso a Roskomnadzor, l’agenzia statale russa
a supervisione delle telecomunicazioni, di assumere il controllo di
internet, gestendone tutti i contenuti con la motivazione ufficiale di
proteggere RuNet da attacchi informatici.
Tra i motivi che hanno spinto il governo di Mosca a operare
questo giro di vite sulla rete c’è anche l’Euromaidan, la serie di violente manifestazioni pro-europeiste, iniziate
in Ucraina nella notte tra il 21 e il 22 novembre 2013, che secondo i russi erano
state sobillate da settori oltranzisti del governo di Washington. In realtà, le
imponenti mobilitazioni fecero seguito alla decisione del governo del
presidente filorusso Viktor Yanukovich di sospendere le trattative per la
conclusione di un accordo di associazione con l’Unione europea.
Nonostante la durissima repressione da parte delle forze
governative appoggiate dal Cremlino, le proteste di piazza, protrattesi per
oltre tre mesi e concentratesi nella piazza Maidan di Kiev (da cui l’hashtag #Euromaidan
che ha dato nome al movimento), nel febbraio 2014, hanno portato alla
deposizione del presidente Yanukovich e all’assunzione del potere da parte di
Petro Poroschenko, il predecessore di Volodymyr Zelensky.
Mentre prosegue incessante ed estende l’offensiva militare
contro tutta l’Ucraina, la Russia cerca di limitare ulteriormente l’accesso
alle piattaforme Internet straniere. Le autorità di Mosca hanno disposto il
blocco di Facebook, che è
stato oscurato il 4 marzo e secondo Top10VPN,
già nel giorno successivo la domanda di VPN da parte degli utenti russi è
aumentata di oltre 10 volte.
La scure del governo russo si è abbattuta anche su Twitter, che ha reagito lanciando una
versione del suo sito su Tor, un servizio in grado di crittografare il traffico
Internet in maniera tale da aiutare a mascherare l’identità degli utenti e
impedire che possano essere sorvegliati.
Una reazione molto diversa da quella di Facebook, che per
volontà del suo fondatore Mark Zuckerberg, ha deciso di liberalizzare
su Facebook il cosiddetto hate speech
contro la Russia. In pratica, la piattaforma di Meta ha disposto la rimozione
temporanea dei limiti ai messaggi di odio contro i militari russi
sarà valida. La decisone riguarda Armenia, Azerbaigian, Estonia, Georgia,
Ungheria, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania, Russia, Slovacchia e Ucraina,
dove sarà inoltre possibile, insultare a piacimento e spingersi a invocare
la morte di Vladimir Putin, del suo omologo bielorusso Alexander Lukashenko e
di altre figure di rilievo della nomenclatura moscovita, purché le minacce
non contengano riferimenti ad altri soggetti o non risultino credibili sulla
base di indicatori come la sede o la metodologia.
Una decisione che ha spinto l’ufficio del procuratore
generale russo a chiedere il riconoscimento di Meta come organizzazione
estremista e la sua perpetua messa al bando dalla rete russa.
Tuttavia, la perenne messa al bando della piattaforma social
della compagnia di Menlo Park ha subito provocato un’ulteriore impennata delle
reti private virtuali in Russia. Come conferma la società VPN Surfshark, secondo cui le sue vendite
settimanali nel paese euroasiatico sono aumentate del 3.500% dal 24 febbraio,
con i picchi più significativi registrati dal 5 marzo al 6 marzo, quando
Facebook è stato bloccato. A riprova che chi vive in Russia è attivamente alla
ricerca di modi per evitare la sorveglianza e la censura del governo.
Mentre la Russia si è attivata per bloccare le piattaforme
social occidentali, si allunga la lista di aziende tecnologiche occidentali che
hanno deciso di sospendere la vendita dei loro prodotti in Russia, tra queste
c’è anche Netflix, che dal 6 marzo ha sospeso il suo servizio di streaming in
Russia in segno di protesta contro l’aggressione armata dell’Ucraina.
Introduzione di Claudio Bertolotti, Direttore dell’Osservatorio ReaCT
In qualità di Direttore dell’Osservatorio sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo (ReaCT), sono lieto, oltreché onorato, di presentare per il quinto anno consecutivo il nostro annuale prodotto di ricerca e analisi sul terrorismo e il radicalismo in Europa. Nel solco tracciato dai precedenti quattro numeri, #ReaCT2024 – 5° Rapporto sul radicalismo e il terrorismo in Europa è frutto dell’impegno e della costanza di ricercatori, accademici, professionisti che, con differenti approcci, metodi e punti di osservazione, collocandosi su un piano trasversale e multidisciplinare teso a definire le origini, le ragioni, i punti di forza e le vulnerabilità di un fenomeno poliedrico che la tradizionale metodologia analitica non è più in grado di collocare all’interno di definizioni che non siano meramente didascaliche o formali. È ormai consolidata l’evoluzione dei fenomeni di devianza sociale – così come anticipammo in maniera dettagliata e approfondita all’inizio del nostro percorso di ricerca ed editoriale a partire dal 2020 – che progressivamente si sovrappongono o si associano ai fenomeni di violenza radicale, sempre più a partecipazione individuale, emulativa con una rilevante ambizione “spettacolare”, rientranti in sfere ideologiche o identitarie dal crescente carattere “compartimentato”.
Il rapporto, coerentemente con il percorso sin qui tracciato, si propone come combinazione unica di rivista scientifica e volume collettivo, con contributi di vari autori, ricercatori e collaboratori che hanno dedicato il loro tempo, la loro esperienza e le loro conoscenze. A loro, indistintamente, va la gratitudine del board di ReaCT e mia personale, per il prezioso contributo di ricerca sul campo e per i loro immani sforzi intellettuali. Voglio altresì ringraziare il Ministero della Difesa italiano per aver confermato la stima e la fiducia nell’Osservatorio che dirigo concedendo il patrocinio agli eventi di presentazione del rapporto.
Quali risultati ci consegna la ricerca continua dell’Osservatorio?
Guardando agli ultimi cinque anni, nel più ampio contesto di un’evoluzione storica e operativa, da un punto di vista quantitativo l’incidenza degli attacchi terroristici di matrice jihadista si presenta lineare, con una percettibile diminuzione registrata negli ultimi anni, attestandosi ai livelli pre-fenomeno Isis/Stato islamico. Dal 2019 al 2023 sono stati registrati nell’Unione Europea, nel Regno Unito e in Svizzera 92 attacchi (12 sia nel 2023 che nel 2024 – dati al 30 settembre 2024), di successo e fallimentari: 99 quelli rilevati nel precedente periodo 2014-2018 (12 nel 2015). Sulla scia dei grandi eventi terroristici in Europa nel nome del gruppo Stato islamico, e successivamente in verosimile relazione con gli elementi galvanizzanti conseguenti alla presa del potere talebano in Afghanistan e all’appello del gruppo palestinese Hamas associato alla guerra contro Israele, sono stati registrate 194 azioni in nome del jihad dal 2014 al 2023, delle quali 70 esplicitamente rivendicate dallo Stato islamico. Nel 2023 sono state registrate 12 azioni jihadiste, coerenti con i dati del 2024 ma in lieve flessione rispetto ai 18 attacchi annuali del 2022 e 2021, e con un aumento significativo di azioni di tipo “emulativo”, ossia ispirate da altri attacchi nei giorni precedenti, che ha portato il dato ad attestarsi sui livelli elevati degli anni precedenti. Il 2023 e il 2024 hanno inoltre confermato un trend ormai consolidato nell’evoluzione del fenomeno, con una sostanzialmente esclusiva predominanza di azioni individuali, non organizzate, in genere improvvisate.
Il Rapporto, dopo la disamina storica e quantitativa del fenomeno terroristico, approfondisce poi il tema dello Stato Islamico Khorasan e la possibile minaccia rivolta all’Europa con particolare attenzione al jihad di ritorno dal Sahel al Nord Africa. Allargando il campo di osservazione, #ReaCT2024 si concentra sulle variabili del terrorismo e i caratteri delle manifestazioni antisistema rilevando la necessità di analizzare un fenomeno estremamente dinamico in funzione degli spazi di azione e, su un piano paradigmatico, di procedere urgentemente verso una nuova e condivisa definizione di terrorismo poiché da questa discendono gli strumenti legislativi e giudiziari di prevenzione e contrasto del fenomeno. Altro tema approfondito è quello del “terrorismo solitario” inteso come fenomeno molteplice e puntiforme grazie al ruolo giocato dai social network, dalle dinamiche collettive, dai cluster e dalle ondate e comunità online, a cui si associa l’evoluzione di forme di estremismi “giovani, autonomi ed emancipati”.
In tale contesto in costante evoluzione si inseriscono i fenomeni di radicalizzazione ed estremismo negli ecosistemi digitali fra nuove tecnologie e intelligenza artificiale, i discorsi d’odio digitali come precursori della violenza estremista che apre all’ipotesi suggestiva del “caos armato” a cui il Rapporto dedica un’ampia analisi con un focus sull’accelerazionismo militante, dall’estrema sinistra all’estrema destra.
Sul piano della prevenzione, ampio spazio viene dedicato all’analisi sulla RAN (Radicalization Awareness Network), attraverso un bilancio approfondito su successi, limiti e fallimenti in termini di policy e pratiche, ponendo l’accento sulla vexata quaestio: i radicali torneranno mai a de-radicalizzarsi?
Ampio spazio viene poi dedicato all’insorgere di nuovi estremismi portatori di istanze anti-democratiche, per poi invitare i lettori a riflettere sull’evoluzione dei fenomeni attraverso due casi studio specifici: il primo sulla prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo violento attraverso il contributo delle forze di sicurezza in Portogallo; il secondo sulla sistematica discriminazione di genere in Afghanistan sotto il governo islamista dei talebani, teorizzando la sistematicità di un’apartheid di genere. In conclusione, anche il contributo di quest’anno ha voluto confermare l’ambizione dell’Osservatorio di essere testimonianza della forza e della dedizione della nostra comunità di studiosi e operatori nella lotta in corso contro l’evolvere dei fenomeni di devianza sociale violenta, dei radicalismi e dei terrorismi. Auspico, in qualità di Direttore dell’Osservatorio, che i risultati e le suggestioni contenute in questo Rapporto contribuiscano sempre più a una migliore comprensione dell’evoluzione della minaccia dei terrorismi in Europa e servano come appello all’azione per tutti i soggetti interessati a lavorare insieme ai fini della prevenzione e del contrasto agli estremismi violenti.
Grazie ancora a tutti gli Autori che, con il loro encomiabile lavoro, hanno contribuito ancora una volta alla realizzazione di #ReaCT2024. Un ringraziamento speciale va, come sempre, a START InSight, che ha consentito la pubblicazione e la distribuzione internazionale del nostro rapporto annuale. Infine, un doveroso ricordo al nostro amico Marco Cochi, ricercatore serio e capace, prematuramente scomparso.
Nrc: le 10 crisi più trascurate al mondo sono tutte africane
L’autorevole Consiglio norvegese per i rifugiati (Nrc) ha
pubblicato l’annuale
rapporto che elenca le dieci crisi di sfollamento più trascurate, sia a
livello politico che mediatico, dalla comunità internazionale. Scorrendo
l’infausta graduatoria riferita al 2021, non costituisce una novità che molti
paesi africani siano in cima alla lista.
Come dimostra la crisi più dimenticata in assoluto, quella
della Repubblica democratica del Congo
(RdC), ormai diventata un esempio da manuale di abbandono con una presenza
fissa nelle precedenti cinque edizioni del report dell’Ong di Oslo (La RdC è
stata in cima alla classifica già due volte nel 2017 e 2020, mentre si è
classificata seconda nel 2016, 2018 e 2019).
Il nord-est della RdC è afflitto da tensioni e conflitti
intercomunitari, con un drammatico aumento degli attacchi ai campi profughi dal
novembre 2021, che uniti all’insicurezza alimentare, che ha raggiunto il livello
più alto mai registrato, hanno causato lo sfollamento di oltre 5,5 milioni di
persone all’interno del paese.
Secondo lo studio, l’aiuto fornito lo scorso anno alla RdC è
stato pari a meno di un dollaro a settimana per persona bisognosa e l’appello
umanitario è stato finanziato per meno della metà, non consentendo agli
operatori sul campo di decidere a cosa e a chi dare la priorità. Al contrario,
l’appello umanitario lanciato dall’Ucraina lo scorso primo marzo è stato quasi
interamente finanziato lo stesso giorno.
Non vanno meglio le cose per gli altri paesi africani: in Burkina Faso, seconda nazione della
graduatoria, nonostante un forte aumento di persone che fuggono dalle loro
case, durante l’intero 2021 la crisi degli sfollati burkinabe ha ricevuto una
copertura mediatica sostanzialmente inferiore, rispetto alla media che la
guerra in Ucraina ha ricevuto quotidianamente durante i primi tre mesi del
conflitto.
Nella speciale classifica stilata dall’Nrc, la RdC e il
Burkina Faso, sono seguite da Camerun,
Sud Sudan, Ciad, Mali, Sudan, Nigeria, Burundi ed Etiopia. Così, per la prima volta, tutte e dieci le crisi più
neglette dalla comunità internazionale sono nel continente africano. Un triste
primato che indica il fallimento cronico dei decisori, dei donatori e dei media
nell’affrontare i conflitti e le sofferenze umane nel continente.
L’Nrc ha sviluppato la lista delle dieci crisi più trascurate
basandosi su tre criteri. In primo luogo, ha tenuto conto del numero di
iniziative politiche e diplomatiche internazionali in corso per trovare
soluzioni durature.
Per esempio, negli
ultimi quattro anni, il Camerun è sempre nei primi posti della classifica a
causa della mancanza di impegno da parte della comunità internazionale per
risolvere gli annosi problemi, che affliggono la popolazione della parte
anglofona del paese africano.
Un altro criterio su cui i ricercatori della Ong norvegese hanno
basato lo studio è la mancanza di attenzione
riservata alle crisi dai media
internazionali, che coprono
raramente questi paesi, al di là di rapporti ad hoc su nuovi focolai di
violenza o malattie. Mentre in diversi Stati africani la mancanza di libertà di
stampa aggrava la carenza di attenzione mediatica.
Per indicare un esempio, dal 2019 i media hanno citato i
quasi due milioni gli sfollati in Burkina Faso causati dagli attacchi dei
gruppi islamisti, lo stesso numero di volte dei profughi ucraini durante i
primi tre mesi del conflitto.
Infine, l’Nrc si è concentrato sulla carenza di aiuti finanziari internazionali caratterizzata da una certa stanchezza dei donatori e il
fatto che molti paesi africani sono considerati di limitato interesse
geopolitico.
Il basso livello di finanziamento limita un adeguato
soccorso
Senza tralasciare, che il basso
livello di finanziamento limita in maniera significativa la capacità delle
organizzazioni umanitarie sia di fornire un adeguato soccorso alle popolazioni
sia di svolgere un’efficace attività di advocacy
e comunicazione per queste crisi, attivando un circolo vizioso.
Le conseguenze sono ben descritte
dai numeri, che raccontano come nel 2021, nella RdC erano necessari due miliardi di dollari
per coprire i bisogni primari del paese, di cui solo il 44% è stato coperto e
nel 2022 si stima che la copertura sarà limitata al 10%.
In risposta alla tragica crisi in Ucraina,
abbiamo assistito a un’imponente dimostrazione di umanità e solidarietà,
sostenuta dalla rapidità di azione da parte della politica. I paesi
donatori, le aziende private e le opinioni pubbliche hanno tutti contribuito
generosamente, mentre i media hanno seguito ininterrottamente lo scoppio della
guerra prodotta dall’aggressione militare della Russia. Allo stesso tempo, la
situazione si sta deteriorando per milioni di persone afflitte da crisi, che si
stanno profilando all’ombra del conflitto in corso in Ucraina.
I livelli di malnutrizione sono in
aumento nella maggior parte dei dieci paesi presenti nell’elenco delle crisi
trascurate, aggravate dall’aumento dei prezzi del grano e del carburante
causati dalla guerra in Ucraina. Le organizzazioni umanitarie hanno
lanciato costantemente l’allarme dall’inizio del 2022, ma la comunità
internazionale stenta a intraprendere l’azione necessaria.
Inoltre, i finanziamenti per queste
crisi trascurate sono in pericolo. Diversi paesi donatori stanno ora
decidendo di ridurre gli aiuti all’Africa e di reindirizzare i finanziamenti
verso la risposta dell’Ucraina e l’accoglienza dei rifugiati in Europa.
Una situazione perfettamente
descritta dal segretario generale dell’Nrc, Jan Egeland, che alla
presentazione del report ha affermato che «la guerra in Ucraina ha dimostrato
l’immenso divario tra ciò che è possibile fare quando la comunità
internazionale si unisce e la realtà quotidiana di milioni di persone che
soffrono in silenzio nel continente africano, che il mondo ha scelto di
ignorare».
La nuova guerra dell’acqua in Burkina Faso. Nel Sahel al-Qaeda ora avvelena i pozzi
di Marco Cochi
Dall’inizio dell’anno, i gruppi jihadisti attivi in Burkina Faso hanno distrutto o sabotato 32 impianti idrici nel nord. Tredici organizzazioni nazionali e internazionali, che forniscono assistenza umanitaria nel paese, hanno rilevato che gli attentati ai pozzi d’acqua e alle autocisterne hanno un grave impatto su 290mila persone. I ripetuti attacchi ai servizi idrici non costituiscono una conseguenza del conflitto, ma sono ormai un’arma di guerra che segna una nuova e spregevole svolta nelle violenze. La maggior parte delle distruzioni è avvenuta a Djibo, la città che ospita il maggior numero di sfollati in tutto il Paese, dove adesso la popolazione civile ha singolarmente accesso a meno di tre litri di acqua al giorno per coprire tutti i propri bisogni, dal bere all’igiene e alla cucina. Una disponibilità irrisoria rispetto agli almeno 50 litri a persona consigliati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità per garantire condizioni di vita accettabili.
La crescente presenza della Russia in Mali: tra sostegno politico e aiuto militare
Mentre le forze d’invasione russe intensificano l’offensiva militare per conquistare le città ucraine, la giunta militare, al potere in Mali dall’agosto del 2020, lo scorso 17 aprile ha reso noto di aver ricevuto dalla Russia una nuova fornitura di equipaggiamenti militari. Si tratta di due elicotteri da combattimento e da trasporto truppe Mil Mi-24P, di un sistema radar aereo di quarta generazione e di altro materiale bellico.
Un altro lotto comprensivo di due elicotteri da combattimento e da
trasporto truppe Mil Mi-35P, un sistema radar aereo 59N6-TE e altre
attrezzature militari erano stato ricevute dal governo provvisorio di Bamako il 31 marzo, mentre lo scorso ottobre una fornitura di quattro elicotteri da trasporto
multiruolo Mil Mi-17 e una serie di armamenti, erano stati consegnati dai russi
all’aeroporto internazionale Modibo Keïta di Bamako.
Attraverso un comunicato stampa della Direzione dell’informazione e delle pubbliche relazioni delle Forze armate
(Dirpa), il capo di stato maggiore dell’esercito maliano, Oumar Diarra, non ha
mancato di manifestare il suo compiacimento per l’avvenuta consegna, che
comprova un partenariato assai fruttuoso con la Federazione russa.
Diarra ha poi aggiunto che lo stock appena ricevuto da Mosca «è anche la
manifestazione di una volontà politica molto forte di dotare l’esercito maliano
di mezzi più moderni affinché possa svolgere al meglio la sua missione di
difesa dell’integrità territoriale».
Secondo il generale Diarra, questo nuovo lotto di equipaggiamento
proveniente dalla Russia aiuterà sicuramente le Forze armate maliane (FAMa)
nella lotta quotidiana per sradicare il terrorismo su tutto il territorio
nazionale. L’alto ufficiale ha poi precisato che nell’ambito della cooperazione
tra Mali e Russia seguirà l’invio di altri equipaggiamenti militari, da parte
di Mosca.
Del resto, lo scorso 6 marzo, poco meno di due settimane dopo che la Russia
aveva invaso l’Ucraina, su Jeune Afrique
è stata pubblicata la notizia che il generale Diarra e il colonnelloSadio Camara, attuale ministro della Difesa del Mali, sono volati a Mosca per discutere l’ulteriore
consegna di equipaggiamento militare.
Sembra evidente, che i rapporti con il Cremlino hanno radici ben più
profonde di quanto dichiarato dalla propaganda della giunta militare presieduta
dal colonnello Assimi Goïta. Giunta che si ostina a non definire in maniera
chiara il calendario della transizione, che dovrebbe concludersi con le
elezioni e il passaggio dei poteri ai civili.
Un atteggiamento che ha creato a Bamako vari problemi con l’Ecowas, la
Comunità economica dell’Africa occidentale. Mentre ai vertici della Nazioni
Unite si stanno interrogando sull’opportunità di rinnovare il mandato in
scadenza della Minusma, la missione Onu che dal 2013 opera in Mali per aiutare
la stabilizzazione del paese.
Senza tralasciare, che lo scorso 2 marzo, il Mali è stato tra i 17 paesi
africani che si sono astenuti dal voto della risoluzione di condanna
dell’invasione russa dell’Ucraina approvata dall’Assemblea generale delle
Nazioni Unite (28 paesi africani hanno votato a favore della risoluzione, otto
paesi non hanno votato e l’Eritrea ha votato contro la risoluzione).
La Russia ha ampiamente mantenuto la sua presenza in Mali, nonostante il
Cremlino abbia richiamato molti suoi mercenari della società militare privata
Wagner attivi in Libia e nella Repubblica centrafricana per combattere accanto
alle truppe di Mosca in Ucraina. Come confermato da Stephen Townsend, capo
di AFRICOM, Comando militare per le operazioni USA nel continente africano, in
un’intervista esclusiva a VOA news il 17 marzo scorso.
In Mali, sono impegnati circa 1.000 effettivi russi, tra istruttori militari e contractor del
Gruppo Wagner. Mentre circa 200 militari maliani e nove agenti di polizia
stanno attualmente ricevendo formazione in Russia, come dichiarato lo scorso 7 aprile da Anna Evstigneeva, la vice rappresentante permanente della
missione russa presso le Nazioni Unite.
Inoltre, il quotidiano francese Libération e Human
Rights Watch hanno accusato i miliziani del gruppo
Wagnerdi aver perpetrato tra il 27 e il 31 marzo scorso
nella località di Moura, nella regione centrale di Mopti, il massacro di
centinaia di civili durante un’operazione militare.
Nel corso del raid, avvenuto durante lo svolgimento di una fiera del
bestiame, sono rimasti uccisi tra i 200 e i 400 civili mitragliatidagli
elicotteri oppure uccisi a sangue freddo nelle perquisizioni casa per casa
perché identificati come jihadisti. Un’identificazione motivata solo dalle
barbe lunghe o dell’accento che contraddistingue i pastori fulani, spesso
accusati di essere vicini ai gruppi islamisti attivi nel paese.
Tuttavia, la giunta militare ha respinto ogni accusa al mittente e ha affermato che più di 200 terroristi sono stati neutralizzati, a seguito di un’operazione
militare “su larga scala”. Inoltre, la portavoce del ministero degli
Esteri russo Maria Zakharova si è congratulata con le autorità maliane per questa importante vittoria nella lotta contro
la minaccia terroristica.
Zakharova ha poi negato le accuse secondo cui mercenari russi avrebbero
preso parte alla missione, affermando che queste accuse fanno parte di una
campagna di disinformazione messa in atto dall’Ucraina a danno della Russia.
Tutto ciò indica che, nonostante il sempre più pressante impegno militare
in Ucraina, Mosca sta cercando di preservare i suoi crescenti interessi
diplomatici e militari in Mali e anche nel resto dell’Africa, dove dal 2018 le
forze russe irregolari hanno fornito uomini e addestramento a governi e
movimenti ribelli.
Dallo scorso 24 febbraio, quando la Russia ha iniziato la
sua aggressione militare all’Ucraina, i miliardari russi hanno visto
diminuire le loro immense fortune in modo cospicuo. Il 2 marzo, dopo una sola
settimana dall’inizio dell’invasione, il patrimonio netto degli ultra-ricchi
russi riportato dal
Bloomberg Billionaires Index, il paniere creato nel 2012 che monitora quotidianamente
lo stato dei patrimoni più facoltosi del mondo, era di 88 miliardi di dollari in meno rispetto al 23
febbraio.
Così il 3 marzo, cinque miliardari russi sono stati
estromessi dalla speciale graduatoria di Bloomberg, dopo che le
loro perdite sono più che raddoppiate da quando la Russia ha invaso l’Ucraina.
Tra questi il più penalizzato è Vagit Alekperov, il presidente
della Lukoil, la più grande compagnia petrolifera indipendente della Russia. Alekperov,
che nel 1990 fu il più giovane vice ministro dell’Energia nella storia
dell’Unione Sovietica, ha perso oltre il 60% della sua fortuna personale
prima di uscire dalla lista di Bloomberg. Il giorno dopo la sua epurazione
dalla superclassifica dei re Mida, il proprietario della Lukoil aveva chiesto
di porre fine rapidamente al conflitto tra Russia e Ucraina, diventando così la
prima grande compagnia nazionale ad opporsi alla guerra di Putin.
Il passivo astronomico subito dai miliardari è in gran parte
dovuto al crollo del mercato azionario russo e alla svendita delle loro
attività nei mercati internazionali. Già nel periodo precedente la guerra
Russia-Ucraina, le conseguenze dell’ondata prodotta dalla variante Omicron del SARS-Cov-2 e la
debolezza del rublo avevano depresso i mercati finanziari locali, ma i “paperoni”
russi hanno subito la maggior parte delle loro perdite dopo il 24 febbraio.
Tra il 23 febbraio e il 3 marzo, l’uomo più ricco della
Russia, Vladimir Potanin, ha visto calare vertiginosamente le azioni della sua
società Norilsk Nickel, gigante minerario primo produttore mondiale di palladio
e tra i maggiori fornitori dei metalli più ricercati per la transizione
energetica, come nickel, rame e cobalto. La società, quotata alla Borsa di
Londra, nella settimana successiva all’invasione è affondata di oltre il 50%, provocando
alla fortuna del magnate moscovita una perdita di 4,5 miliardi di dollari. E
dallo scorso 3 marzo, il titolo è stato sospeso dalle contrattazioni del
London Stock Exchange.
Perdite ancora più elevate sono state sostenute da Alexey
Mordashov, principale azionista e presidente di Severstal, un conglomerato
russo con interessi nel metallo, energia e miniere, che detiene una
partecipazione nella compagnia di viaggi tedesca Tui.
Anche il fondatore del Volga Group, Gennady Timchenko, che
controlla cospicui interessi nel gas naturale, trasporti, infrastrutture e nei
prodotti chimici, oltre ad avere stretti
legami con Putin, ha visto scendere di 11,3 miliardi di dollari il suo
patrimonio netto, che ora equivale a 11,1 miliardi di dollari.
Un altro dei miliardari epurati dal Bloomberg Billionaires
Index è Leonid Mikhelson, Ceo e principale azionista di Novatek, il secondo
produttore di gas naturale della Russia, dopo il colosso Gazprom. Nella
settimana successiva all’aggressione militare all’Ucraina, Mikhelson ha
totalizzato 11 miliardi di dollari di passivo.
Alle pesantissime perdite registrate nei mercati azionari,
che finché non vengono liquidate le posizioni detenute dai magnati russi sono
temporanee, vanno ad aggiungersi le draconiane sanzioni inflitte ai ricchi russi
da Regno Unito, Unione europea e Stati Uniti.
Il numero uno del Cremlino da molti anni aveva avvertito i
suoi fedelissimi che avrebbero dovuto proteggersi da eventuali misure restrittive,
in particolare dopo l’annessione della Crimea, quando le relazioni con gli
Stati Uniti e i paesi dell’Unione europea si sono inasprite.
Mentre alcuni uomini d’affari della ristretta cerchia del
presidente Putin hanno seguito il suo consiglio e hanno mantenuto i loro investimenti
in Russia, altri hanno collocato i loro soldi in sontuose proprietà all’estero
e in squadre di calcio, mentre le loro società sono rimaste quotate nelle borse
estere.
Ora si trovano in enorme difficoltà per mantenere i loro
beni, confiscati con le sanzioni economiche più dure imposte nell’era
moderna. Tra questi, uno dei più famosi in Europa è il miliardario russo
Roman Abramovich, dal 2003 proprietario della squadra di calcio londinese
del Chelsea.
Dal 23 febbraio, Abramovich ha perso circa il 12% della sua
fortuna, sebbene sia stato sanzionato più tardi di altri, forse perché sarebbe
meno influente di altri alleati di Putin. Anche se il suo ascendente sul
Cremlino è molto dibattuto tra chi suggerisce che sia semplicemente tollerato
da Putin e chi, come il Regno Unito, che crede che i due siano
vicini.
Da parte sua Abramovich nega fermamente di avere stretti
legami con Putin, ciononostante la parte britannica della sua fortuna stimata
di 12,4 miliardi di dollari è ora congelata. Poco prima dell’annuncio delle
sanzioni britanniche, ha messo in vendita il Chelsea per 3 miliardi di sterline
e anche la sua lussuosa residenza a Kensington Palace Gardens, valutata 150
milioni di sterline.
Abramovich ha creato la sua fortuna negli anni novanta ed è
stato uno dei primi oligarchi durante la presidenza di Boris Eltsin. Il
suo indiscutibile fiuto per gli affari gli ha fatto acquistare la compagnia
petrolifera Sibneft a un prezzo stracciato per poi rivenderla nel 2005 al
gigante russo Gazprom, di proprietà statale, per 13 miliardi di dollari.
Tra le sue proprietà c’è l’Eclipse, il terzo yacht più lungo
del mondo, e una altro megayacht, Solaris, in rada nel Mediterraneo. Negli
ultimi anni aveva iniziato a ritirarsi dal Regno Unito, tanto che nel 2018 ha
deciso di non richiedere il rinnovo del visto britannico e ha invece utilizzato
il passaporto israeliano appena acquisito per visitare Londra.
Mentre un tempo era solito presenziare a tutte le partite
casalinghe del Chelsea, negli ultimi anni è stato visto raramente allo Stamford
Bridge. E dopo che gli è stato vietato di entrare nel Regno Unito, non potrà
più assistere a nessun incontro di calcio di squadre inglesi.
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