Afghanistan a tre anni dal ritorno dei Talebani. C. Bertolotti a SkyTG24
Il commento di Claudio Bertolotti a tre anni dal ritorno al potere dei Talebani a Kabul.
Approfondimento di SkyTG24 del 15 agosto 2024
Il commento di Claudio Bertolotti a tre anni dal ritorno al potere dei Talebani a Kabul.
Approfondimento di SkyTG24 del 15 agosto 2024
Ascolta la puntata di ‘Nessun Luogo è Lontano’, il programma di Giampaolo Musumeci (Radio24), sul traffico di eroina e l’Afghanistan dei Talebani.
Con Claudio Bertolotti (direttore di Start InSight), Dawood Irfan (professore universitario e analista politico), Haji Shir Mohammad (contadino afghano, Helmand), Tavasli Gharjestani (esperto di economia), Abdul (trafficante di oppio) e Teodora Groshkova (analista esperta di mercato degli stupefacenti alla European Union Drugs Agency di Lisbona).
“L’Afghanistan è sempre più un narco-stato: un paese in cui il traffico di stupefacenti domina l’economia, condiziona le scelte politiche e determina il destino degli interventi stranieri. Una situazione complessiva che deriva in parte dall’assenza di una strategia politica nazionale (peraltro affiancata a una radicata corruzione endemica), dalla sostanziale rinuncia da parte della comunità internazionale a impegnarsi nel contrasto e, in parte, dall’effetto di un consolidato attivismo dei gruppi di opposizione armata, sempre più legati alla criminalità locale e transnazionale.” Leggi il focus “Oppio e narcotraffico: tra insurrezione e problema sociale“ a cura di Claudio Bertolotti pubblicato in: Human Security, n. 18, maggio 2023
La Rivista Human Security (n. 18) del T.wai – Torino World Affairs Institute dedica un dossier al tema “Droga e conflitto, una relazione a doppio taglio“, con una serie di approfondimenti sulla storia della droga e la situazione in Colombia, Myanmar, Afghanistan.
Prima del disimpegno militare degli Stati Uniti, l’economia afghana dipendeva, quasi esclusivamente, da due fonti di reddito: gli aiuti concessi dalla comunità internazionale e il traffico dell’oppio. Con la presa del potere da parte dei Talebani sono stati sospesi gli aiuti internazionali
di Chiara Sulmoni, Claudio Bertolotti, Andrea Molle
info e contatti: info@startinsight.eu
Murtaza, il ragazzino appassionato di calcio noto come il piccolo Messi afghano, costretto per anni a vivere in fuga e nell’ombra a causa delle minacce dei talebani e di altri gruppi criminali, è finalmente in salvo con la sua famiglia in Italia. Come per altri nuclei famigliari per i quali START InSight si è adoperata per il salvataggio dall’Afghanistan, per lui si cercava una soluzione fin dai giorni caotici dell’evacuazione seguita al cambio di regime a Kabul. La svolta è arrivata dopo 18 mesi di tentativi e di attesa, grazie a Caritas Italia, co-organizzatrice dei corridoi umanitari dal Pakistan aperti lo scorso autunno.
Mentre prendeva avvio tra noi una comunicazione destinata a durare a lungo, in cui concisi “come stai, sei al sicuro?” si sarebbero alternati a lunghi periodi di attesa, a domande senza una risposta certa, a frasi di sconforto e preoccupazione, qualche fotografia e emoji a forma di cuore, nei giorni successivi all’ingresso dei Talebani a Kabul, la popolazione afghana si riversava come un fiume in piena verso l’aeroporto, in cerca di una via d’uscita.
I primi messaggi scambiati su Whatsapp con Mahdia, la sorella maggiore di Murtaza che sarà la nostra interlocutrice per tutto il tempo, risalgono alla terza settimana di agosto del 2021 e raccontano la paura e la precarietà della vita quotidiana: “adesso rimaniamo solo in casa, ma pensare al nostro futuro incerto ci fa stare male psicologicamente. Da un po’ di tempo, credo di poter dire che non ci sentiamo più sicuri neanche all’interno, visto che hanno minacciato Murtaza tante volte prima d’ora”.
A segnalarci questa situazione e poi a metterci in comunicazione diretta è Rahmatullah Alizadah, un fotoreporter locale che ha trovato oggi riparo in Svizzera. Murtaza a 5 anni tirava calci a un pallone nel suo villaggio, situato in una discosta provincia rurale afghana; una foto lo ritrae con il sorriso timido e una busta della spesa in plastica bianca e azzurra, indossata sopra gli abiti a mo’ di pettorina, con il numero 10 e il nome di Messi scritti in pennarello. Nell’impossibilità di poter acquistare una vera e propria maglia del campione argentino, di cui è fan, si accontenta di questa replica ‘improvvisata’ ideata per lui dal fratello più grande. Nell’epoca dei social media che annullano le distanze, l’immagine catturata da un cellulare e postata su FB diventa virale e verrà in seguito rilanciata dalla stampa internazionale. È così che, nel 2016, il “piccolo Messi” si affaccia al mondo intero. Rahmat è stato il primo giornalista a raggiungere il bimbo reso famoso da internet, a documentarne la storia e anche a spendersi per attirare l’attenzione del calciatore sudamericano che, venuto a conoscenza della vicenda, con i buoni uffici dell’UNICEF, incontrerà Murtaza in occasione di una partita del Barcellona in Qatar.
L’improvvisa notorietà non apre però, come sperato, le porte a nuove opportunità. Al rientro in patria, di questa avventura nel Golfo non resteranno al bimbo che un pallone e la divisa ufficiale autografata dal calciatore. Murtaza e la sua famiglia saranno costretti d’ora in poi a nascondersi e a spostarsi frequentemente per sfuggire sia al rischio concreto di rapimento da parte di criminali convinti che il bimbo abbia ricevuto denaro, che dalle minacce dei fondamentalisti. Niente scuola, un’infanzia isolata e, con il ritorno del regime Talebano, un pericolo crescente e spostamenti che si fanno particolarmente frequenti (più di dodici solo nell’ultimo anno e mezzo); “qualche giorno fa, mio padre è stato riconosciuto in una panetteria, delle persone gli hanno parlato…anche i nostri vicini ci hanno fatto capire che sanno chi siamo. Qualcuno informerà i Talebani? È per questo che abbiamo cambiato di nuovo casa, per fare in modo che non ci capiti nulla”, leggiamo in uno dei tanti messaggi di Mahdia.
Mentre eserciti, diplomatici e organizzazioni internazionali si affrettano a lasciare il paese cercando di portare con sé i propri collaboratori, sui cellulari di veterani, giornalisti e cooperanti che per venti anni si sono occupati di Afghanistan e hanno stretto relazioni e amicizie con la popolazione locale, si affastellano le richieste di aiuto. Chi ha contatti utili li condivide in una catena infinita. Non solo personale militare, umanitario e professionisti dei media, impiegati amministrativi, giudici, avvocati, professori e attivisti, ma anche semplici cittadini in pericolo, tante donne e gli hazara, l’etnia invisa ai talebani e allo Stato islamico Khorasan (il famigerato franchise afghano di quello che fu l’ISIS in Siria e Iraq), alla quale appartiene la famiglia di Murtaza. L’aeroporto di Kabul è preso d’assalto da un fiume infinito di persone di ogni età che tenta di superare muri e sbarramenti per imbarcarsi sugli aerei diretti a Occidente, prima che l’Afghanistan venga abbandonato al suo destino; gli schermi televisivi mandano le immagini strazianti di chi si aggrappa a promesse e speranze infrante, e lo farà fino all’ultimo, trascorrendo giorni e giorni davanti ai cancelli. Le immagini che arrivano sulle chat dei telefoni sono ancora peggiori, fra spari e gente spaesata che scappa davanti ai bastoni delle guardie talebane, o che scivola nei canali di scolo.
Si portano fuori quanti più possibile, nelle ore caotiche anche senza controlli, con scelte cruciali e difficili anche per il personale delle rappresentanze consolari e ai cancelli dell’aeroporto. Sarà una gigantesca operazione di salvataggio di dimensioni inedite.
Il confronto con altre associazioni impegnate a salvare quante più vite possibile, poi arriva la conferma da parte della Difesa italiana. Luce verde: riusciamo a farli inserire nella lista di imbarco dell’ultimo volo. Migliaia di persone sono intanto ammassate al gate “Abbey”, l’ingresso dell’aeroporto in cui operano gli italiani e al quale la famiglia di Murtaza deve presentarsi entro poco tempo. Una missione che sembra impossibile, ma che tentiamo di realizzare in ogni modo, coordinandoci con il Colonnello T., che li attende all’ingresso. Ma le difficoltà aumentano con il passare del tempo, così come gli allarmi di potenziali attentati da parte del gruppo terrorista “Stato islamico” contro l’infrastruttura aeroportuale, ormai controllata congiuntamente dalle forze statunitensi e dai Talebani, i quali ne assumeranno la responsabilità dopo pochi giorni. Un allarme, in particolare, giunge la sera del 25 agosto: molto dettagliato, troppo preciso, diverso dai precedenti. Occorre decidere, in fretta. Lo facciamo: “fermatevi, non andate all’aeroporto, restate a casa domani”, consapevoli che tale decisione avrebbe impedito loro di salire su quell’aereo. In queste condizioni, per la famiglia di Murtaza, otto persone in tutto con bambini e un neonato al seguito, è impensabile rischiare il tutto per tutto per raggiungere l’uscita dove potrebbe essere aiutata dall’esercito italiano.
Quella scelta è stata invece la più giusta e fortunata, la migliore di quelle fatte nell’urgenza del momento. L’attacco suicida del 26 agosto, proprio lì al gate “Abbey” dell’aeroporto di Kabul, lascerà sul terreno più di 180 morti.
Rimangono aperte le altre opzioni che, parallelamente, avevamo tenute attive. I tanti “piani B”. I tentativi di trovare un passaggio sui pochi bus organizzati da non si sa bene chi, e che si spingono oltre i checkpoint dei talebani, sono un buco nell’acqua.
Si apre un’opzione prospettata dai veterani statunitensi. Con loro siamo in contatto dal primo momento e con loro si discute la possibilità di un’“operazione umanitaria” gestita da ex-militari. Esfiltrazione da Kabul, trasferimento al Nord, un aereo pronto a decollare. Murtaza e la sua famiglia, insieme ad altre centinaia di ex collaboratori che hanno lavorato per le forze armate statunitensi nella guerra più lunga, potrebbero essere recuperati in questo modo. Sembra un film, infinito, con la trama che scorre rapida e incalzante. Ogni decisione va presa subito, razionalmente e accettandone i rischi. Un’organizzazione caritatevole statunitense coprirebbe parte dei costi (molto elevati), quello che manca riusciamo a trovarlo con grandi difficoltà, ma l’eccezionalità del momento in questo caso aiuta. Una senatrice statunitense segue la questione con noi. Molto attivi anche alcuni parlamentari e militari italiani che a titolo personale si impegnano per trovare una soluzione. L’entusiasmo per tanta partecipazione è travolgente, reso amaro dai timori e dai messaggi disperati di Mahdia. Sembra tutto a posto, al netto del rischio concreto per chi dovrà portare a compimento l’operazione. Poi la doccia fredda: operazione annullata, non si fa.
Riuscire a lasciare il paese attraverso altre strade comporta costi e rischi non sostenibili. Fra carte e documenti, telefonate, e-mail e segnali lanciati in ogni direzione, per chi si trova in prima linea sul terreno o nelle retrovie, le ore passano frenetiche senza continuità fra giorno e notte. Pensare di portare in salvo tutti gli afghani in pericolo è un’impresa monumentale e impossibile, un’aspirazione nobile che si scontra con la realtà.
Con la partenza dell’ultimo volo il 30 agosto, l’Afghanistan torna di fatto un Emirato senza ambasciate. Chi non è riuscito a partire può richiedere un visto umanitario in uno stato terzo, ma per coloro che non hanno collaborato direttamente con ONG, media e contingenti militari esteri le difficoltà sono enormi, anche per ciò che riguarda il rinnovo o l’emissione di nuovi passaporti. I tempi sono lunghi, visti e documenti troppo costosi per i cittadini di un paese la cui economia, negli ultimi due decenni, è stata sostenuta soprattutto dalle donazioni e dalle iniezioni di denaro estero. Gran parte della popolazione vive sotto la soglia della povertà, la situazione critica si trasformerà velocemente in un dramma sociale di ampia portata.
Non ci scoraggiamo. Continuiamo a sostenerli, a cercare una via di fuga, tentiamo altre opzioni: pensiamo a un trasferimento via terra verso il confine. Prima l’Uzbekistan, poi il Tajikistan e il Pakistan. È una possibilità, rischiosa, me decidiamo di tastare il terreno. Scopriamo però che i confini sono stati doppiamente sigillati, da una parte i Talebani, dall’altra le autorità dei Paesi confinanti. Occorre un visto, un lascia-passare di un Paese terzo. Le tante telefonate alle ambasciate, ai ministeri e altre istituzioni in Italia, Svizzera e altrove, le interminabili attese, poi il nulla. I paradossi della burocrazia dipingono un quadro dalle tonalità drammatiche e quasi incredibili: “Possiamo rilasciare loro un visto” – ci dicono – “devono presentarsi direttamente in ambasciata, in Qatar, Pakistan ad esempio, o altro paese terzo”. Ma per arrivare all’ambasciata occorre attraversare legalmente il confine, con un visto che non possono avere prima, neanche in formato digitale, via posta elettronica.
Si chiudono le porte, una ad una.
“Murtaza non ce la fa più a restare seduto in casa, mentre i suoi amici e tutti gli altri bambini vanno a scuola, imparano cose nuove. Piange tanto e si scusa per questo suo desiderio di essere come gli altri. Non riesco più a controllarmi, sono così dispiaciuta per lui, gli prometto che lo aiuterò, che sarà al sicuro e che le cose cambieranno”. È uno dei tanti messaggi di Mahdia, con cui ci sentiamo regolarmente. Ci spronano ad andare avanti, a insistere. Ci vorrà pazienza, ma non li lasceremo soli. Intanto, proseguono le triangolazioni, e settimane di silenzio.
Poi, il 4 novembre 2021, finalmente una bella notizia: la firma, al Viminale, del protocollo d’intesa per l’attivazione dei corridoi umanitari per i cittadini afghani. È la nostra chance. Prendiamo immediatamente contatto con Daniele, di Caritas Italia. Ci conosciamo da tempo e il suo aiuto si rivelerà fondamentale.
È il punto di svolta, iniziamo a lavorare per portarli in Italia. Ma i tempi e le difficoltà sembrano insormontabili: le difficoltà burocratiche si sommano a quelle oggettive. Occorrono i passaporti, che alcuni membri della famiglia non hanno, mentre altri sono intanto scaduti. Si corre contro il tempo, ma non contro la corruzione che, anzi, è l’unica via per ottenere i passaporti. È così, non ci sono alternative. Passano le settimane, poi i mesi. Nel frattempo, il padre di Murtaza viene catturato dai Talebani: imprigionato, torturato verrà rilasciato dopo diverse settimane, malato, previo pagamento di un riscatto. Ancora debole, lascia la famiglia in Afghanistan e si nasconde illegalmente in Iran. Nel frattempo, a ottobre 2022, arriva un’altra notizia positiva: la famiglia può presentarsi a Islamabad per il colloquio con i volontari della Caritas. Ottengono i visti, a un costo elevatissimo, e con questi superano il confine. Sono in Pakistan, tutti in salvo e pronti a partire per l’Italia, pensiamo. Ma non è così, manca il documento di una sorella, una giovanissima ragazza.
Che fare? La decisione è difficile, ma non può rimanere indietro. La famiglia si divide: Murtaza e il padre aspetteranno in Pakistan, mentre Mahdia, con il resto della famiglia tornerà in Afghanistan nel tentativo di ottenere in qualche modo il passaporto della sorella. Passeranno altri mesi: novembre, dicembre, gennaio, e finalmente il passaporto arriva.
È febbraio, Daniele ci informa che tutto è pronto per il trasferimento in Italia. La famiglia si lascia alle spalle un Paese che forse non rivedrà più, o almeno per molti anni. Possono prendere con sé poche cose: piccole valigie e borse, con dentro lo stretto necessario e qualche ricordo. Nulla di più, se non la volontà di ricominciare altrove e la speranza di un futuro migliore grazie a chi, impegnandosi per dar vita ai corridoi umanitari, ha realizzato un vero e proprio miracolo.
Oggi sono in Italia. La speranza è che si possano aprire opportunità concrete, per loro come anche per gli altri afghani che sono stati accolti e nei confronti dei quali il paese si è assunto l’onere del sostegno. Per Murtaza, soprattutto, che finalmente potrà studiare e giocare a calcio senza paura.
Questa è una goccia nel mare, che non chiude un capitolo ma che piuttosto, ne mantiene aperti tanti altri. Questa, è una storia di pazienza e perseveranza.
RINGRAZIAMENTI
… in questi mesi, in molti hanno preso a cuore la storia di Murtaza e si sono resi disponibili, in tempi diversi e in vari modi, con azioni concrete, suggerimenti o parole di sostegno: ONG, politici, militari, istituzioni e semplici cittadini in Italia, in Svizzera e negli Stati Uniti. Siamo grati in particolare a Daniele Albanese, Pierluigi Dovis, Mauro D’Ubaldi, Sua Eccellenza il Vescovo di Torino, Mons. Roberto Repole, Alberto Pagani, Lorenzo Guerini, Piero Fassino, Don Diego, Don Marco Di Matteo, Don Domenico Catti, NOVE Onlus, Gruppo Ticino di Amnesty International, la Senatrice Dianne Feinstein (D-CA), Rav. Arnold Rachlis, Luciano Portolano, Roberto Trubiani, Mauro Berruto, Isabella Rauti, Alessandro Sicchiero, Raffaella Virelli, Nicola Guerini, Luca Tenzi, Rahmatullah Alizadah, Farmanullah Turab, Ahmadullah Turab, Associazione Zenzero…. e a chi non siamo riusciti a raggiungere prima della pubblicazione di questo articolo oppure ha scelto di rimanere anonimo.
Traduzione dell’articolo originale pubblicato su Deutsche Welle del 18 febbraio 2023 (vai all’articolo originale)
I leader internazionali concordano sul fatto che i talebani stiano violando i diritti umani fondamentali dei cittadini afghani. Le ragazze non possono andare a scuola, la povertà è in aumento e le persone stanno soffrendo. Più a lungo i talebani rimarranno al potere, più stretta sarà la loro presa.
Ma cosa si può fare al riguardo? I relatori di “Talibanned: Prospects for Afghanistan”, un panel alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco di quest’anno, non hanno una risposta a questa domanda.
Si è scatenato l’inferno quando i talebani hanno preso il potere in Afghanistan nell’agosto 2021. I leader mondiali si sono affrettati a condannare la presa del potere e c’era una preoccupazione genuina e diffusa per la difficile situazione del popolo afghano sotto il dominio talebano. Ma un anno e mezzo dopo, nel febbraio 2023, l’attenzione globale sull’Afghanistan è assai scarsa.
I leader mondiali hanno spostato la loro attenzione su altri conflitti e questioni interne. E anche gli attori internazionali che avevano avuto un’inclinazione iniziale a rispondere alla presa dei talebani non sono chiari su come gestirla ora.
“In questo momento, stiamo esaminando l’assistenza umanitaria”, ha detto Michael McCaul, presidente della commissione per gli affari esteri della Camera degli Stati Uniti, durante il panel del Consiglio di sicurezza di Monaco. “Metà della popolazione afghana sta morendo di fame. Abbiamo queste organizzazioni non governative sul campo e gli Stati Uniti stanno fornendo loro assistenza”.
Ora che gli Stati Uniti hanno ritirato le truppe dall’Afghanistan, ha detto McCaul, non c’è molto che gli Stati Uniti possano fare per il paese a parte aiutare la gente. Tuttavia, la possibile minaccia alla sicurezza posta dal controllo talebano dell’Afghanistan rimane motivo di preoccupazione per gli Stati Uniti. In breve, gli Stati Uniti non intendono fornire assistenza finanziaria all’Afghanistan come paese in quanto ciò rafforzerebbe il governo talebano.
Il ministro degli Esteri pakistano Bilawal Bhutto-Zardari ha detto al panel che l’Afghanistan avrebbe bisogno di sostegno come stato. “Vogliamo tutti vedere le donne ricevere istruzione in Afghanistan”, ha detto Bhutto-Zardari. “Vogliamo tutti vedere un governo più inclusivo in Afghanistan. La minaccia terroristica proveniente dall’Afghanistan è preoccupante”. Il governo talebano deve essere disposto ad affrontare questi problemi, ha aggiunto.
“Se il governo ad interim in Afghanistan dimostra la volontà di farlo, dovremo trovare un modo per costruire la sua capacità in modo che possa farlo”, ha detto Bhutto-Zardari. “Non hanno un esercito permanente, non hanno una forza antiterrorismo, non hanno nemmeno un’adeguata sicurezza delle frontiere”.
I commenti di Bhutto-Zardari e McCaul illustrano gli approcci contrastanti e contraddittori nei confronti dell’Afghanistan e dei talebani. Sebbene il ministro degli Esteri pakistano voglia che il mondo si impegni di più con i talebani, i leader al di fuori della regione stanno mantenendo una distanza diplomatica dal gruppo.
Mahbouba Seraj, attivista e giornalista afghano, chiede una posizione unita per aiutare il popolo afghano. “Ci sono due governi in Afghanistan in questo momento”, ha detto Seraj, esprimendo il suo fastidio per la politica regionale e internazionale che circonda il suo paese. “Uno è quello delle Nazioni Unite e i suoi affiliati e l’altro è quello dei talebani. La gente sta morendo in Afghanistan, quindi non mi interessa quello che dice il mondo. Aiutate l’Afghanistan in ogni modo e rendeteci possibile uscire da questa situazione”.
Mentre i leader regionali e mondiali discutono su come affrontare l’Afghanistan, i talebani rafforzano il loro dominio nel paese devastato dalla guerra. Ci sono notizie di lotte intestine talebane, ma il gruppo è rimasto finora in gran parte unito.
I governanti afghani hanno il sostegno di Cina e Russia, due potenze mondiali che al momento si stanno scontrando con l’Occidente su più fronti. McCaul ha espresso la sua preoccupazione per gli investimenti cinesi nella Belt and Road initiative in Afghanistan e per i potenziali benefici per i talebani.
Il Pakistan, un attore regionale che storicamente ha avuto un’influenza sui talebani, sembra essere in difficoltà. Il ministro degli Esteri Bhutto-Zardari vuole che i talebani agiscano contro il gruppo terroristico “Stato islamico” e altri gruppi militanti che operano in Afghanistan. La situazione della sicurezza in Pakistan è solo peggiorata da quando i talebani hanno preso il potere.
Il Tehreek-e-Taliban Pakistan, un gruppo militante pachistano legato ai talebani afghani, ha lanciato due massicci attacchi terroristici all’interno del Pakistan nell’arco di tre settimane. Solamente venerdì 18 febbraio, i militanti del TTP hanno attaccato e assediato una stazione centrale di polizia a Karachi, il centro economico del paese. Le forze di sicurezza pakistane sono riuscite a sventare l’assalto e hanno ucciso diversi militanti, ma molte persone, compresi i funzionari di polizia, sono state uccise durante l’attacco.
“A Peshawar, i terroristi ci sono costati oltre 100 vite e proprio di recente hanno attaccato un ufficio di polizia a Karachi”, ha detto Bhutto-Zardari. “Lo scenario realistico per noi è che chiunque sia al comando in Afghanistan deve combattere queste organizzazioni”.
“Non si possono risolvere i problemi umanitari solo con gli aiuti umanitari”, ha detto Bhutto-Zardari. “L’economia dell’Afghanistan non funziona, i suoi fondi sono congelati, i suoi canali bancari non sono attivi, e poi ci sono le sanzioni internazionali. Fino a quando questi problemi non saranno risolti, sarà molto difficile per l’Afghanistan uscire dalla crisi”.
Ma c’è un respingimento contro questo. Rimuovere le sanzioni e sbloccare i fondi significherebbe rafforzare il regime talebano, che non è sicuramente un’opzione per l’Occidente, anche se nel frattempo la popolazione afghana sta soffrendo.
Sono gli afghani ad avere meno voce in capitolo nel loro futuro a breve termine.
Insieme, noi, donne ministro degli Esteri alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco 2023, condanniamo fermamente la spinta dei talebani ad escludere le donne da tutta la vita pubblica: alle donne viene impedito di passeggiare nei parchi, non si vedono più sugli schermi televisivi, sono private del loro diritto di frequentare scuole e università e ora sono anche tenute a lavorare nell’assistenza umanitaria. Escludendo metà della popolazione afghana dalla società, i talebani stanno commettendo le più gravi violazioni dei diritti umani. E i talebani stanno mettendo a repentaglio il futuro dell’intero paese. Siamo uniti nel nostro appello a revocare queste restrizioni sulle donne, in particolare quando si tratta del loro ruolo essenziale nella fornitura di assistenza umanitaria. Ciò ripristinerà le basi per fornire l’aiuto di cui le donne, i bambini e gli uomini dell’Afghanistan hanno così urgente bisogno. Siamo al fianco delle donne e degli uomini coraggiosi dell’Iran nella loro lotta quotidiana per i loro diritti e la loro libertà. La loro lotta dimostra che solo dove le donne sono al sicuro tutti sono al sicuro. Non solo in Iran, non solo in Afghanistan, ma in tutto il mondo.
Ieri l’Aiea ha pubblicato il rapporto sulla centrale nucleare di Zaporizhzhia. Dal documento si evince che nonostante i diversi danni alla struttura, i livelli di radiazione nella zona sono “rimasti normali”. Ciononostante l’agenzia è “gravemente preoccupata per la situazione”. Ne abbiamo parlato con Marco Sumini, professore di Fisica dei reattori nucleari all’Università di Bologna.
A poco più di un anno dalla presa del potere da parte dei talebani, torniamo a Kabul con voci esclusive per raccontare ancora un paese che sembra essere nuovamente dimenticato dalla maggior parte dei media e dell’opinione pubblica. Il racconto con Claudio Bertolotti, direttore di Start Insight, e con le voci raccolte da Morteza Pajhwok, giornalista a Kabul.
Ecco, questo è certamente un fatto di importanza rilevante. Il Segretario generale dell’Onu António Guterres, di fatto ha ribadito in forma edulcorata e accettabile per i russi, quanto già aveva auspicato all’inizio di agosto, e lo ha fatto definendo una precisa priorità, ossia che: “Le forze russe e ucraine debbano impegnarsi a non intraprendere alcuna operazione militare verso o dal sito della centrale. Come secondo passo, dovrebbe essere garantito un accordo su un perimetro smilitarizzato“. Il fatto interessante è che come nel primo passo auspicato non sia fatto esplicito riferimento all’abbandono dell’area da parte delle forze russe che, sì, non potrebbero usare l’area per intraprendere attività offensive ma potrebbero collocarvi, o mantenervi, all’interno assetti importanti per le attività di comando, controllo e comunicazione. Il che sarebbe un grande vantaggio per la Russia, non per l’Ucraina, ma che tranquillizzerebbe le opinioni pubbliche occidentali e dunque le cancellerie europee. E forse sarebbe l’unica opzione accettabile dalla Russia che in questo momento continua a mantenere, come ha fatto per tutta la guerra, il vantaggio tattico pur a fronte di grandi perdite, umane e materiali. Può essere un tassello verso un possibile negoziato, a piccolissimi passi.
A un anno dalla presa del potere da parte dei talebani, l’Afghanistan è un paese fallito, in preda a una crisi alimentare ed agricola senza precedenti e con un governo incapace di rispondere alle più elementari necessità del suo popolo, dalla salute alla sicurezza, e che, nonostante la crisi economica e sociale, impone un’economia di guerra e una sempre più severa restrizione dei diritti individuali, a partire dalle donne, sempre più a margine della vita sociale. Però va detto che l’Afghanistan è oggi un paese sostanzialmente più sicuro di quanto non lo fosse un anno fa. Una sicurezza che si traduce in numeri di vittime civili e militari che si sono ridotti a una minima frazione di quelli registrati durante la guerra dei vent’anni. Ma non per questo l’Afghanistan è divenuto un posto migliore in cui vivere, anzi… è divenuto un incubatore di realtà jihadiste, nuove e vecchie, che hanno la possibilità di collaborare o anche di combattersi a vicenda. Dunque parliamo di una sicurezza relativa e di breve durata. E le premesse non aprono ad alcuna prospettiva di miglioramento nel breve periodo; al contrario, aumenta la presenza, l’attivismo, la capacità organizzativa e operativa dei gruppi jihadisti che in questo paese hanno ritrovato una base sicura per colpire all’interno dei confini afghani (dove si impone la competizione tra i talebani al governo e il gruppo terrorista “Stato islamico Khorasan”), nei paesi della regione (i talebani pakistani, il movimento islamico dell’Uzbekistan, i jihadisti uiguri che guardano alla Cina come obiettivo da colpire) ma anche più lontano, in Occidente, in Africa e nel Sud-Est asiatico. Una situazione dinamica che ci consegna un paese più pericoloso e fertile per il jihadismo internazionale di quanto non lo fosse prima dell’intervento statunitense contro al-Qa’ida, responsabile degli attacchi agli Stati Uniti dell’11 settembre 2001 e ospitata dai talebani afghani.
L’unica certezza per poter espatriare dall’Afghanistan è quella irregolare, o illegale, dal momento che i talebani hanno vietato l’espatrio se non per motivi particolari, con esclusione delle donne che non possono lasciare il paese se non accompagnate da un uomo. Una situazione in cui aumentano dunque i pericoli di un viaggio che non garantisce certezze ma che ha costi molto elevati in pochi possono permettersi. Due le rotte migratorie principali: l’Iran e il Pakistan, dove da ottobre a gennaio il numero di attraversamenti sarebbe quadruplicato rispetto ai dati dell’anno precedenti. E parliamo di cifre che si attestano a 4/5000 persone al giorno. Il fatto che non arrivino profughi afghani in Europa non significa che non ci siano afghani che vogliano raggiungerla, bensì è conseguenza della determinazione dell’Unione europea a contenere i migranti nella regione. Unione europea che lo scorso autunno ha promesso oltre 1 miliardo di dollari in aiuti umanitari per l’Afghanistan e i paesi vicini che ospitano gli afghani che sono fuggiti.
L’isolamento diplomatico è solamente una questione di prospettiva. Se guardiamo con lo sguardo da occidente sì, l’Afghanistan è isolato sul piano formale, anche se su quello sostanziale non mancano gli indizi che suggeriscono un dialogo costante con gli Stati Uniti – dialogo che ha avuto un momento di tensione con l’uccisione del capo di al-Qa’ida, ayman al-Zawairi, proprio nel centro di Kabul, con questo confermando il solido legame con la frangia talebana più estremista, quella del gruppo Haqqani il cui leader è oggi il potente ministro degli interni. Ma di isolamento non possiamo proprio parlare se guardiamo da una prospettiva orientale e mediorientale. Palista, Uzbekistan, Qatar, Arabia Saudita sono paesi che hanno avviato rapporti sempre più intensi con l’Emirato talebano, in particolare in tema di scambi commerciali e supporto. Ma oltre a questi paesi di medio e piccolo peso se uniscono die pesi massimi: la Cina e la Russia. La prima interessata a tutelare i propri investimenti fatti in Afghanistan nel settore estrattivo minerario, la seconda, Mosca, che ospita i talebani a tutti gli eventi di natura commerciale che organizza. Dunque attenzione a parlare di isolamento, perché questo in realtà è sempre meno concreto ed efficace.
Purtroppo sì. Quella afghana è una guerra che l’Occidente guidato dagli Stati Uniti ha perso. E le sconfitte devono essere dimenticate, chiuse negli archivi della storia e lontane dall’opinione pubblica. Si guarda oltre, alle priorità immediate: ora è la guerra in Ucraina che focalizza la nostra attenzione, ma un giorno tornerà l’Afghanistan, insieme al sahel, all’Africa sub sahariana ad attirare la nostra attenzione su conflitti che sono già in corso ma che sono fuori dall’attenzione massmediatica e politica.
L’entità e la portata degli eventi che abbiamo registrato nell’ultimo anno, cioè da quando i talebani hanno provocato il collasso dello stato afghano, è marginale e rappresenta una minima parte degli attacchi che i talebani hanno storicamente condotto contro le forze afghane e quelle occidentali. Dunque lo Stato islamico Khorasan, che ha rivendicato l’attacco contro l’ambasciata russa di Kabul, ad oggi è ancora una minaccia limitata.
i terroristi di al-Qa’ida, legati indissolubilmente ai talebani
Il problema è però spostato avanti nel tempo in quanto il gruppo terrorista e gli altri gruppi regionali si stanno rafforzando sempre più: da una parte ci sono i terroristi di al-Qa’ida, legati indissolubilmente ai talebani, dall’altra parte ci sono i gruppi del jihad globalista che guardano ai talebani come dei traditori da colpire e che auspicano una guerra settaria, in primo luogo contro la minoranza hazara di confessione sciita.
Sullo specifico attacco alla sede diplomatica russa a Kabul, sono due gli aspetti che devono essere considerati per valutarne la portata e la volontà di compierlo. Il primo è dimostrare che i talebani, che da forza insurrezionale e terrorista hanno assunto il ruolo di forza di governo, sono incapaci di garantire un minimo livello di sicurezza in un paese già sostanzialmente fallito e che non è in grado di garantire nulla ai propri cittadini e, come in questo caso, non è in grado di garantire la sicurezza agli stranieri.
la volontà di colpire, simbolicamente, quella Russia che i talebani cerca di coinvolgerli sul piano politico
Dall’altro lato vi è poi la volontà di colpire, simbolicamente, quella Russia che con i talebani non solo dialoga ma coerentemente con la propria visione cerca di coinvolgerli sul piano politico, ma ancor prima economico, commerciale e di ricostruzione infrastrutturale in linea con quanto cercò di fare la stessa Unione Sovietica nel 1989 quando cercò il dialogo e la collaborazione del leader della resistenza afghana Ahmad Shah Massoud.
di Alessia Virdis, ADNKRONOS
Vai all’articolo originale di Alessia Virdis su ADNKRONOS
Passato un anno dal ritiro delle forze internazionali e dal ritorno al potere dei Talebani, l’Afghanistan è “di fatto una terra in cui vi è assenza di comando e controllo da parte dell’autorità centrale”, che “addirittura tollera, quando non sostiene direttamente, la presenza di gruppi jihadisti radicali che potrebbero trasformare” il Paese “in un trampolino del jihadismo globale”. Risponde così Claudio Bertolotti, ricercatore associato Ispi e direttore di Start InSight, se gli si chiede quali siano i rischi per un Paese martoriato da decenni di guerre e di nuovo in mano ai Talebani.
Con un passato di missioni in terra afghana, quando “tra il 2003 e il 2008 era a capo della sezione contro-intelligence e sicurezza della Nato”, è stato “uno dei 500 italiani che ha fatto parte dell’operazione Usa ‘Enduring Freedom'” e oggi in un’intervista all’Adnkronos sottolinea la “presenza, non solo indisturbata ma addirittura come ospite formale di Sirajuddin Haqqani, in Afghanistan di Aymar Al-Zawahiri“, il numero uno di al-Qaeda la cui uccisione a Kabul è stata annunciata nei giorni scorsi dagli Usa. Quel Sirajuddin, comandante della ‘rete Haqqani’, vicina ad al-Qaeda, figlio del defunto Jalaluddin Haqqani e da un anno ministro degli Interni del governo talebano.
Bertolotti parla del “ruolo chiave attribuito” ad al-Qaeda in questo Afghanistan, della “presenza nel Paese di un gruppo terroristico con una visione globale”, un gruppo che “nelle parole di Al-Zawahiri ha definito i Talebani come i portatori dell’interpretazione corretta della sharia, che dovrebbe essere applicata a livello globale”, quindi “indicando i Talebani come modello di riferimento per tutti quei gruppi insurrezionali, jihadisti e radicali che dall’Africa subsahariana fino al Sudest asiatico si stanno diffondendo e addirittura consolidando”.
‘minaccia crescente Stato islamico Khorasan, aumenta conflittualità all’interno della compagine talebana’
Al-Qaeda, rileva, “è il principale attore a cui si associa il suo competitor per eccellenza, lo Stato islamico Khorasan”, la “variante” nella regione dello Stato islamico, uno “Stato islamico regionale che si è consolidato territorialmente, compete con il governo talebano e si è trasformato in una minaccia concreta, crescente alla sicurezza stessa dell’Afghanistan inteso come Emirato islamico e ma anche dei suoi cittadini”. La componente sciita in particolare. Quella che, sottolinea, lo “Stato islamico Khorasan ha indicato come principale obiettivo insieme ai Talebani”, considerati dal gruppo “come apostati, corrotti, come coloro che hanno accettato un compromesso con l’Occidente”. E’ in questo ‘quadro’ che si inserisce la notizia della morte in un attacco di un attentatore suicida a Kabul, rivendicato dall’Is-K, di Rahimullah Haqqani, figura influente che sosteneva il governo talebano e si era pronunciato a favore del diritto all’istruzione delle donne.
E, prosegue, “la solidità di questo trampolino del jihad globale accresce col tempo a mano a mano che aumenta la conflittualità all’interno della stessa compagine talebana”. Perché, osserva Bertolotti, “il rischio è che le correnti all’interno del movimento talebano possano trasformare questa competizione per il potere in un confronto armato”. E all’interno di questo possibile confronto armato si inserirebbero “tre variabili”, che l’esperto indica nello Stato islamico Khorasan, nella “galassia di gruppi più o meno piccoli di jihadisti che in Afghanistan si stanno consolidando” e nella “cosiddetta resistenza afghana” – quella identificata con il Panjshir che è diventata il ‘Fronte nazionale di resistenza’ e che è guidata da Ahmad Massoud, il figlio del ‘Leone del Panjshir’ – che “si inserisce in un contesto conflittuale amplificandolo”, pur “non avendo la capacità di poter sconfiggere i Talebani”.
Quello della resistenza afghana, sottolinea Bertolotti, è un “elemento importante, non numericamente, ma da un punto vista politico” in un Afghanistan in cui i “Talebani hanno preso il potere, hanno posto un governo di fatto che però nel concreto non è in grado gestire la cosa pubblica afghana né di garantire quella minima cornice di sicurezza fisica ma anche economica di cui la popolazione ha bisogno”. A questo si aggiunge, rimarca, l’elemento di “‘esclusività” del governo talebano “in contrapposizione all’auspicata inclusività”. Di fatto, osserva, “si è assistito a una presa e consolidamento del potere da parte della forte componente della Shura di Quetta”, la storica leadership talebana “che si è di fatto trasformata in forza di governo esclusiva dell’Emirato islamico dell’Afghanistan”.
‘il paradosso di al-Qaeda in parte rappresentata all’interno del governo talebano’
Escluse dalla spartizione del potere, sottolinea, “le molteplici e variegate realtà talebane che nel corso degli anni e in particolar modo nell’ultimo periodo si sono coalizzate attorno al principale e storico nucleo talebano”. Esclusi in particolare “i Talebani del nord e dell’ovest, la componente uzbeka”. Un governo quello talebano, dice Bertolotti, che “non risponde in toto a quelle che erano le premesse dell’Accordo di Doha” del febbraio 2020 tra i Talebani e gli Usa e che “prevedeva tra i punti i principali l’esclusione dell’influenza ma anche della presenza fisica di associati ad al-Qaeda in territorio afghano”. Il raid Usa contro al-Zawahiri nel centro di Kabul.
E oggi siamo con il “paradosso” di “vedere al-Qaeda in parte rappresentata all’interno” del governo talebano e “con un ruolo di consulenza e confronto, in particolar modo con l’ala più oltranzista legata alla rete Haqqani, alla figura di Sirajuddin Haqqani”, che “si contrappone, un po’ anche in competizione interna, all’altra ala più ‘pragmatica’” quella del malawi Yaqoob – figlio del mullah Omar, il fondatore dei Talebani, e oggi ministro della Difesa dell’Emirato islamico dell’Afghanistan, fresco di ‘promozione’ da mullah a malawi – e degli “associati” al mullah Baradar, vice premier del governo talebano e di fatto con un’autorità ridimensionata dopo essere stato il protagonista degli Accordi di Doha. E, conclude, “Sirajuddin e Yaqoob sono di fatto i due uomini di fiducia del malawi Haibatullah Akhundzada“, leader supremo dei Talebani.
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di Melissa Bertolotti, ADNKRONOS
Intervista originale pubblicata su ADNKRONOS
”Per al-Qaeda non cambia nulla” con l’uccisione del suo leader, l’ideologo egiziano Ayman al-Zawahiri, ”non è che la morte di un vecchio leader carismatico”. Perché ”oggi finisce la guerra al terrore, ma non finisce il terrore”, e a livello politico ”si chiude un’epoca storica, un capitolo importante già chiuso con il ritiro fallimentare dall’Afghanistan”. Ma sul terreno ”al-Qaeda è più forte che mai”, perché abbandonato ”l’idealismo e la visione globale di Osama Bin Laden” si è trasformata in ”una realtà regionale più concreta sul campo proprio grazie a Zawahiri”. Ne è convinto Claudio Bertolotti, analista dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi), che con l’Adnkronos riflette invece su come l’uccisione di al-Zawhiri ”cambi le cose per Biden. Tra tre mesi ci sono le elezioni e i democratici hanno bisogno di avere un presidente che abbia ottenuto dei risultati”.
Al contrario, la morte del successore di Osama Bin Laden ”non avrà un impatto diretto sulle capacità di al-Qaeda”. Anzi, ”ogni volta che un leader del movimento jihadista viene colpito, la reazione non si fa attendere”, così come non tarda ad arrivare ”un nuovo capo che in genere cerca di imporsi con la pianificazione nuovi attentati”. E’ quindi è ”verosimile aspettarsi una reazione di al-Qaeda contro gli Stati Uniti”, afferma Bertolotti, che ricorda come al-Zawahiri considerasse ”controproducente il jihad globale e idealista voluto da Bin Laden, criticava la sua volontà di colpire il Grande Satana, gli Stati Uniti, ovunque, anche in casa sua. Perché ogni azione provoca una reazione”.
La ”rivoluzione” che al-Zawahiri attua dal 2014 porta al-Qaeda a legarsi sempre più a gruppi di opposizione armata, ricorda Bertolotti, citando gli al-Shabab in Somalia e al-Qaeda nel Maghreb islamico nel Nord Africa, la presenza della Rete nell’Africa Sub sahariana e quella nel continente indiano. ”Tutte realtà che si rafforzano e fondano le loro radici con le istanze locali”, creando ”generazioni di combattenti che daranno il via in un futuro ipotetico alla nuova al-Qaeda”, spiega.
Su chi prenderà il posto di Zawahiri alla guida di al-Qaeda, l’analista esclude che possa essere l’attuale ministro degli Interni del governo dei Talebani, Sirajuddin Haqqani, che ospitava il leader terroristico nella sua casa in centro a Kabul dove è stato ucciso. ”Troppo furbo per prendere il posto di al-Zawahiri – spiega Bertolotti – Resterà leader dell’Haqqani network, organizzazione interna ai Talebani, ma autonoma. Non ha alcun interesse a diventare il nuovo capo al-Qaeda”.
Piuttosto, a succedere ad al-Zawahiri potrebbe essere un ”suo amico fraterno, l’ex colonnello egiziano Saif al-Adel”. Oppure Abdal-Rahman ”al-Maghrebi, capo della comunicazione mediatica di al-Qaeda” e genero di al-Zawahiri. In ogni caso si parla di ”un nuovo ideologo, di qualcuno che tenga viva l’al-Qaeda idealista e che non si occupi di far operare le truppe sul territorio”.
”Il futuro di al-Qaeda potrebbe essere in Africa”. E’ lì che si sta rafforzando ed è da lì, probabilmente, che arriverà il nuovo leader dopo l’uccisione di Ayman al-Zawahiri. Anche perché la rete fondata da Osama Bin Laden ”ha perso molto valore sullo scenario globale”, anche se ”ne ha guadagnato con l’ascesa dei Talebani in Afghanistan”. E ”il fatto che Zawahiri sia stato ucciso in centro a Kabul in una casa di proprietà del braccio destro del ministro degli Interni del governo dei Talebani lo dimostra, dimostra che al-Qaeda può operare liberamente nel Paese e ha un suo santuario in Afghanistan”. E’ quanto spiega all’Adnkronos Lorenzo Vidino, direttore del Program on Extremism della George Washington University. ‘
‘Il luogo dove Zawahiri è stato ucciso dimostra che sono veri i timori legati al fatto che il governo dei Talebani avrebbe fatto operare liberamente al-Qaeda”, afferma Vidino, notando ”le implicazioni di policy che questo comporta” anche per il fatto che ”i Talebani vogliamo ricevere fondi dalla comunità internazionale…”.
Insomma, è ”un deja vu, come era successo undici anni fa con Bin Laden ucciso in una villa a poche centinaia di metri da una caserma dell’esercito pachistano”. Ma è anche ”una prova schiacciante, ma non sconvolgente” della protezione che i Talebani forniscono ad al-Qaeda. E’ una ”chiara violazione degli accordi di Doha” perché la casa in cui viveva Zawahiri era di proprietà della rete Haqqani ”che fa da trait d’union tra i Talebani e al-Qaeda”. Ora ”bisognerà vedere questo cosa comporterà, anche se la situazione non cambia. A comandare sono i Talebani e se bisogna interagire con loro alla fine bisogna farlo”, al di là delle ”evidenze di supporto al terrorismo o delle violazioni dei diritti umani e delle donne”.
Sul ”toto candidati per la leadership” di al-Qaeda Vidino vede ”varie possibilità” a partire da ”un paio di candidati interni, il numero 2 Saif al Adel e il numero tre al-Maghrebi, genero di Zawahiri, entrambi pare siano in Iran”. Ma Vidino sottolinea anche che ”negli ultimi anni c’è stato un trend di crescita potenziale di alcuni affiliati, come gli al-Shabab in Somalia, e una perdita di valore di al-Qaeda globale”. Quindi ”potrebbe anche essere possibile che il nuovo leader del gruppo venga dalle affiliazioni”, considerato anche ”il riposizionamento jihadista globale sullo scenario africano”. L’analista spiega come ”il mondo jihadista e al-Qaeda stiano guadagnando terreno in Africa e meno sugli scenari classici come il Medio Oriente”. In ogni caso occorre ”in tempi rapidi trovare un successore” per dimostrare che ”il colpo inferto non sia letale” e ”lo spin che daranno è lo stesso del post morte Bin Laden, ovvero che la scomparsa di un leader non cambia nulla nell’importanza del concetto di Jihad, perché quello che conta sono gli obiettivi e non le persone”.
Comunque sia, al-Qaeda perde ”un suo personaggio importante, leader per 11 anni nonché uno dei fondatori”. Notizia accolta positivamente anche in Arabia Saudita, dove Vidino si trova. ”Nel Golfo, a livello governativo, è cambiato molto rispetto a 20 anni – spiega – Quasi tutti i Paesi del Medio Oriente e del Golfo non hanno più le ambiguità forti del passato per quanto riguarda il jihadismo. Anche se sicuramente esistono sacche di simpatia”. A fare eccezione è ”il Qatar, non a caso è un tramite con i Talebani e gli accordi sono stati firmati a a Doha”. Ma in Arabia Saudita ”la notizia della morte di Zawahiri è stata data dai telegiornali, come notizia di un giorno e nulla di eclatante”.
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Con Alba Arcuri A cura di Laura Pepe L’accordo di Istanbul e i missili su Odessa. Ascoltiamo la nostra inviata a Dnipro, Azzurra Meringolo. Seconda parte, dedicata all’Afghanistan, ad un anno dal ritorno dei talebani. L’ospite di oggi è Claudio Bertolotti, Direttore di Start Insight, osservatorio di analisi strategica
Pur con grandi limiti, gli accordi potranno proseguire. Questo non per una generosità da parte di Mosca, ma per una questione di opportunità: in primo luogo per dimostrare all’opinione pubblica russa e a quella ucraina che Putin ha a cuore le sorti delle popolazioni civili dell’una e dell’altra parte. E questo ovviamente ha una finalità propagandistica. Dall’altro lato la Russia guarda con grande interesse all’influenza che potrà acquisire nel continente africano, presentandosi come risolutrice di una crisi alimentare di cui è in gran parte responsabile.
In primo luogo dobbiamo guardare l’aspetto operativo: la Russia avrà ben chiari quelli che sono i corridoi di sicurezza per entrare e uscire dai porti ucraini. In secondo luogo l’aspetto comunicativo e diplomatico di una Russia che si propone di fronte e all’opinione pubblica interna, ma anche quella internazionale e alle cancellerie occidentali e dei paesi africani, come risolutrice che trova una soluzione e la concede sia al popolo ucraino sia ai paesi africani che sono i maggiori beneficiari di questa apertura e su cui la Russia sta investendo moltissimo in termini di influenza e presenza. Ora, che la Russia voglia e riesca a proporsi come elemento risolutore potrà apparire paradossale se si osservano superficialmente le dinamiche della guerra russo-ucraina, ma in realtà è una strategia che rientra in uno schema di guerra parallela combattuta sul piano mediatico e propagandistico. Ed è questo un ambito della guerra dove entrambi gli attori, Kiev e Mosca, sono molto attivi ed efficaci. Il vantaggio ovviamente lo ha la Russia che, negli anni ha investito moltissimo nello strumento di guerra d’influenza attraverso l’utilizzo del web, ormai divenuto un campo di battaglia spietato per la diffusione di notizie false e funzionali a influenzare le opinioni pubbliche dei paesi ostili che colpiti da questa tipologia di arma insieme ai paesi occidentali, o alcuni partiti politici, per spingerli ad avere posizioni non ostili quando non addirittura a sostegno della politica estera di Mosca. È la strategia dello Sharp Power: l’uso di politiche (diplomatiche) manipolative da parte di un paese per influenzare e minare il sistema politico di un paese bersaglio.
L’Afghanistan è sempre più preda di una grave crisi umanitaria. E da gennaio ad oggi si è registrato un aumento della grave insicurezza alimentare a cui si sommano la siccità, i terremoti e le epidemie di malattie trasmesse dall’acqua contaminata, con un aumento significativo dei casi di colera, e un netto deterioramento delle condizioni complessive nelle aree urbane. L’inizio della primavera, che tradizionalmente porta sollievo dalla carenza di cibo, ha però dovuto fare i conti con la siccità – la peggiore degli ultimi trent’anni – che ha di fatto peggiorato le condizioni di vulnerabilità delle popolazioni più povere ed esposte.
In questo quadro già drammatico le ricadute della guerra in Ucraina hanno contribuito ad aggravare la crisi, portando a un aumento dei prezzi di cibo e carburante e a indebolire le catene di approvvigionamento. Prezzi della farina di grano a Kabul che sono ad oggi superiori dell’90% rispetto alla media quinquennale e difficilmente torneranno ai livelli pre-guerra dato l’aumento dei costi di trasporto e gestione delle merci.
Viene naturale chiedersi se, di fronte a una drammatica fotografia del genere, non debbano essere riconsiderate le posizioni della Comunità internazionale, in primo luogo gli Stati Uniti, in termini di possibilità e libertà d’intervento a favore delle popolazioni afghane, e questo indipendentemente dalla gestione politica talebana che ogni giorno si fa più opprimente e violenta nei confronti degli afghani stessi.