La caduta di Damasco e lo sgretolamento dell’Asse della Resistenza iraniano.
di Claudio Bertolotti.
La Siria di Bashar al-Assad non esiste più.
La rapida avanzata degli insorti islamisti, guidati dall’Hayat Tahrir al-Sham (HTS), contro il governo di Bashar al-Assad segna un punto di svolta critico nel panorama mediorientale. Dopo quasi quattordici anni di guerra civile, con un conflitto alimentato da interessi internazionali e influenze regionali, l’architettura di potere costruita dalla famiglia Assad – ereditata nel 2000 da Bashar dopo la lunga presidenza del padre Hafez – è oggi in disfacimento. L’offensiva, partita circa dieci giorni fa da Idlib, ha messo in ginocchio un regime un tempo ritenuto solido, sconfiggendo unità militari e paramilitari sostenute sia dall’Iran sia dalla Russia, pilastri di quell’“Asse della Resistenza” ideato per contenere le pressioni occidentali e israeliane.
I risultati tattici ottenuti dai gruppi islamisti e jihadisti, in parte sostenuti dalle forze del Syrian DDefense Forces curde, ma principalmente riconducibili a Hayat Tahrir al-Sham (HTS) guidata da Abu Mohammed al-Jolani, si sono rivelati decisivi: Aleppo, Hama e Homs – nodi strategici e simbolici del potere di Damasco – sono cadute senza una reale capacità di reazione da parte dei difensori. Il contenimento dell’opposizione armata, agevolato sin dal 2015 dall’intervento militare russo, è venuto meno. Mosca, impegnata su altri fronti e consapevole del mutato contesto strategico, sembra aver rivisto i propri interessi, lasciando indebolire la tenuta del regime. Di fronte a questa svolta, la stessa Teheran, uno dei principali sponsor del governo siriano, appare costretta a ridimensionare il proprio coinvolgimento, concentrandosi sulla preservazione di aree costiere e comunità tradizionalmente legate agli Assad.
La fuga di Assad, su cui insistono numerose fonti, non è ancora confermata ufficialmente, ma le sue smentite appaiono deboli. Damasco, un tempo simbolo dell’autorità presidenziale, è caduta. Sul piano diplomatico, il Qatar ospita una complessa trama negoziale: da un lato i ministri degli Esteri di Russia, Iran e Turchia; dall’altro, il “quartetto” occidentale (Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Germania) con i rappresentanti dell’UE e l’inviato ONU Geir Pedersen. Il risultato degli incontri è la proposta di una transizione politica a Ginevra, volta a salvaguardare le strutture statali e a coinvolgere figure del vecchio establishment non direttamente responsabili degli abusi del regime. Contemporaneamente si guarda alla pericolosa ipotesi di integrare componenti dell’opposizione armata, compresi alcuni elementi legati ad HTS, nonostante sia un “gruppo terroristico” riconosciuto da diverse potenze occidentali. Si tratta, evidentemente, di una necessaria concessione strategica: il nuovo equilibrio sul terreno costringe gli attori internazionali ad aprire canali di dialogo prima impensabili.
La posta in gioco è elevata: evitare un nuovo bagno di sangue e impedire il collasso dello Stato siriano, distinguendo nettamente l’apparato istituzionale dal regime uscente. Sullo sfondo, la riconfigurazione degli assetti regionali. L’indebolimento dell’Asse della Resistenza – costruito su un solido legame tra Damasco, Teheran, i proxy armati filo-iraniani e il supporto russo – mina l’influenza iraniana nel Levante e apre nuovi scenari di competizione. Il Libano, l’Iraq e persino le relazioni tra Israele e Iran risentiranno di queste dinamiche, così come la lotta al jihadismo internazionale.
Inoltre, l’accesso alle prigioni simbolo della repressione siriana, come Adra e Saydnaya, potrebbe rivelare le dimensioni degli abusi perpetrati negli ultimi decenni. Il rilascio e la restituzione di informazione sui prigionieri scomparsi potrebbero costituire gesti emblematici per favorire una qualche forma di riconciliazione post-conflitto.
La comunità internazionale, stretta tra il rischio di una deriva jihadista e la necessità di ristabilire un ordine politico sostenibile, si trova di fronte a un nuovo paradigma: la Siria come l’Afghanistan. Dinamiche simili, prospettive preoccupanti legate allo jihadismo internazionale che dalla Siria potrebbe minacciare la regione e l’Occidente. Ma ciò che più preoccupa è il ruolo che la Turchia, dopo aver sostenuto la caduta del regime attraverso il sostegno diretto agli islamisti dell’HTS – che ricordiamo, affondano le loro radici in al-Qa’ida e nell’ISIS – vorrà giocare coerentemente con la sua ambizione di influenza del Medioriente e del Nord Africa.
Siria: al-Jolani verso Damasco. Le preoccupazioni di Iran, Russia e Israele.
di Claudio Bertolotti.
Dall’intervista di Francesco De Leo a Radio Radicale – Spazio Transnazionale (puntata del 7.12.2024): vai all’intervista radio (AUDIO).
Abu Mohammed al-Jolani, nato con il nome Ahmed Al Sharaa, è il leader di Hayat Tahrir al-Sham (HTS), gruppo armato attivo nella guerra civile siriana e tuttora designato dagli Stati Uniti come organizzazione terroristica. Originariamente affiliato ad al-Qa’ida e noto come capo di Jabhat Al Nusra, Jolani ha esordito come jihadista radicale, inviato in Siria nel 2011 con fondi e sostegno di Abu Bakr al-Baghdadi, futuro leader dell’ISIS, per stabilire la filiale siriana del network qaedista.
Nel corso degli anni ha trasformato la propria immagine e la propria strategia. In un primo momento ha annunciato la separazione formale da Al Qaeda, per poi concentrarsi principalmente sul rovesciamento del regime di Bashar al-Assad e sul controllo di aree chiave come la provincia di Idlib. Questa “rottura” è stata ampiamente vista come mossa tattica, volta a evitare gli attacchi internazionali diretti contro le formazioni jihadiste transnazionali.
Parallelamente,
Jolani ha anche cambiato l’aspetto e la retorica pubblica: dalla mimetica è
passato a indossare giacca e camicia in stile occidentale, presentandosi come
un rivoluzionario siriano moderato, impegnato in una lotta contro il regime di
Damasco anziché a una guerra globale contro l’Occidente. Durante interviste
recenti, ha minimizzato riferimenti al jihad globale, puntando invece sulla
“liberazione” della Siria e sul ruolo di HTS come forza locale, impegnata a
garantire sicurezza e amministrazione a milioni di persone in aree sotto il suo
controllo.
Nonostante
questa strategia di rebranding e il tentativo di mostrarsi come un
interlocutore più pragmatico, Jolani rimane un personaggio estremamente controverso
e indubbiamente legato allo jihadismo insurrezionale, di cui oggi è uno dei
principali leader. Alle spalle ha un passato profondamente radicato nelle reti
jihadiste internazionali, ed è a capo di un’organizzazione che resta
considerata terroristica da Washington. Il suo percorso è quindi quello di un
leader che cerca di distanziarsi dall’estremismo transnazionale per guadagnare
legittimità locale e, possibilmente, internazionale, presentandosi come un attore
politico rivoluzionario più che come un leader jihadista.
La situazione sul campo
I gruppi islamisti stanno avanzando verso Damasco con il sostegno turco e assediano Homs, snodo strategico verso il Mediterraneo e roccaforte del regime.
Mentre
a Doha è previsto un incontro fra Russia, Turchia e Iran per negoziare una
possibile transizione politica che escluda Assad, sul campo le forze
filoiraniane sembrano ritirarsi, la Russia appare indebolita, non più
proattiva, mentre l’ONU registra una massiccia ondata di sfollati.
Il
leader ribelle al Jolani rivendica il diritto a usare ogni mezzo contro il regime,
ma promette di non perseguitare le minoranze. Vedremo.
Da parte sua, il felice e preoccupante presidente turco Recep Tayyip Erdogan annuncia apertamente Damasco come prossimo obiettivo, mentre l’Iran, la Siria e l’Iraq si dichiarano uniti nella lotta al “terrorismo”.
Nel
sud del Paese, gruppi antigovernativi si spostano verso nord, conquistando
facilmente posizioni lasciate dai lealisti, e le comunità druse di Suwayda
stanno creando una regione semi-autonoma.
Intanto,
il Libano chiude i confini per timore di un contagio del conflitto e proseguono
scontri tra forze filo-turche e milizie curde.
Preoccupazioni di Iran e Israele (e Mosca)
Certo
è che, nella situazione attuale, questo è un problema sia per l’Iran, oltre che
per la Russia, ma anche per Israele: tutti guardano con grande preoccupazione a
quanto sta accadendo. Se per Mosca è un grande problema legato alla capacità di
muovere all’interno del Mediterraneo con la propria marina, per Teheran è una
quesitone di tenuta complessiva dell’Asse della resistenza poiché la caduta
siriana potrebbe precludere il collegamento vitale con il Libano, e dunque con
Hezbollah. E forse gli accordi di Doha sono intesi a trovare una soluzione
mediata che consenta all’Iran di mantenere il controllo di una striscia di
territorio siriano funzionale proprio al collegamento con Hezbollah.
E
per Israele? Israele è molto preoccupata perché la presenza di un regime
siriano debole è la condizione migliore mentre la caduta della Siria sotto il
controllo degli islamisti potrebbe aprire un fronte di ulteriore instabilità ai
confini israeliani. Senza dimenticare che “al-Jolani” prende il suo nome dal Golan,
attualmente occupato da Israele, e la sua posizione è sempre stata apertamente
anti-occidentale e anti-israeliana.
L’attacco di Israele a Hezbollah: tra politica e strategia militare
di Claudio Bertolotti.
Sul piano politico-strategico Israele persegue l’obiettivo di distruggere l’asse della resistenza, che è la prima minaccia che incombe su Israele (forse non più). Una scelta che determinerà, in primis, una ridefinizione degli equilibri in Medioriente, con una progressiva erosione della minaccia attraverso l’indebolimento o la disarticolazione irreversibile dei suoi attori di prossimità (Hamas, Hezbollah, Ansar-Allah yemeniti, milizie sciite irachene, Siria). Aspetto prioritario rimane il proseguimento del processo di normalizzazione dei rapporti con i paesi arabi avviato con gli “Accordi di Abramo”, sponsorizzato dagli Stati Uniti che, sebbene rallentato dal conflitto in atto, rimane la priorità condivisa da Washington, Gerusalemme e Riad.
Sul piano strategico-militare l’azione contro Hezbollah ha un intento preventivo a un’eventuale minaccia simultanea da parte del cd. “Asse della Resistenza” guidato da Teheran che metterebbe in crisi il sistema contraereo Iron Dome israeliano in conseguenza della saturazione della capacità di risposta (più attacchi rispetto alla capacità di reazione israeliana). Questo coerentemente con la visione israeliana che percepisce la minaccia iraniana come esistenziale e adotta un approccio preventivo.
Scelte, quella politica e quella militare, che concretizzano l’approccio teorico e di prontezza operativa definito nei documenti di “Strategia per la sicurezza nazionale” e la “Dottrina strategica militare”.
Con la serie di azioni a danno di Hezbollah, Israele è
riuscito a scardinare non tanto la sostanza di un’alleanza, ma la sua illusione
di potenza e deterrenza. L’Iran ormai è nudo, è debole, e i suoi alleati
pregiati, da Hamas e Hezbollah sono stati drasticamente ridimensionati sia sul
piano politico (uccisioni targeting) sia militare. Hamas è ormai ridotto ai
minimi termini militarmente parlando, Hezbollah è privo di capacita di comando,
controllo e comunicazione, e questo dimostra come la retorica iraniana sia
ormai stata smentita dai fatti.
E la preoccupazione di Teheran aumenta con l’avvicinarsi
delle elezioni statunitensi. Oggi gli Stati Uniti sostengono senza sé e senza
ma Gerusalemme. E se è comprensibile una certa ritrosia dell’amministrazione
democratica a un’intensificazione dello scontro regionale (a cui Washington non
farebbe comunque mancare il proprio appoggio), un’eventuale vittoria
repubblicana di fatto rafforzerebbe la linea politica israeliana già
consolidata.
Iron Swords: le nuove sfide dell’offensiva terrestre nella guerra Israele-Hamas.
di Claudio Bertolotti.
Articolo tratto dal libro: C. Bertolotti (2024), Gaza Underground: la guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas. Storia, strategie, tattiche, guerra cognitiva e intelligenza artificiale, START InSight Lugano (Link: https://www.amazon.it/dp/8832294230)
Introduzione all’evoluzione urbana del
conflitto
Nessun ambiente è più
sfidante per le forze militari di una città. Nessuna forma di combattimento è
intrinsecamente più distruttiva della guerra urbana. Eppure, troppo spesso, le
forze militari sono sia impreparate di fronte alle sfide imposte dai campi di
battaglia ad alta densità di popolazione, sia incapaci di evitare di essere
trascinate in brutali combattimenti urbani. Nel libro Understanding urban warfare, gli Autori Liam Collins e John Spencer
pongono l’attenzione sulla prospettiva della guerra urbana in termini di sfide
uniche: dagli effetti limitanti del terreno tridimensionale su molti sistemi
d’arma, alla molteplicità di punti di fuoco nemici all’interno delle vie di
comunicazione urbane (strade, vicoli, viali), alla necessità fondamentale di
minimizzare le vittime civili, proteggere le infrastrutture critiche e il
patrimonio culturale (Collins, Spencer, 2022). Città, intese come terreno di
scontro, che offrono opzioni di manovra differenti – e spesso con una limitata
prevedibilità – a seconda della tipologia di area urbana (megalopoli, città
metropolitane, città periferiche, conurbazioni e persino smart city), le cui caratteristiche peculiari sono in grado di
influenzare le operazioni militari nel loro complesso.
Come ho avuto modo di
evidenziare nel mio ultimo volume sulla guerra urbana nel conflitto
Israele-Hamas, Gaza Underground: la
guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas. Storia, strategie, tattiche,
guerra cognitiva e intelligenza artificiale, molte le battaglie urbane più
recenti – dalla Battaglia di Mogadiscio del 1993 alla Seconda Battaglia di
Falluja in Iraq nel 2004, alla Battaglia di Shusha nel 2020 nella Seconda
Guerra del Nagorno-Karabakh, e, ancora, Mariupol nel 2022 e Bakhmut nel 2023
nella guerra russo-ucraina – ci consegnano tendenze e lezioni apprese per
comprendere meglio la guerra urbana poiché in un mondo sempre più urbanizzato,
il futuro carattere del conflitto sarà anch’esso sempre più urbano.
L’approccio
israeliano al combattimento urbano: la lezione di Gaza
Sul
piano tattico, i soldati israeliani hanno combattuto l’ultima grande battaglia
terrestre nel 2014, quando Israele schierò le proprie truppe all’interno di
Gaza; dal punto di vista strategico, lo stato maggiore della Difesa israeliana
da allora si è invece concentrato nell’opera di contrasto delle potenziali
minacce dall’Iran, piuttosto che dal nemico della porta accanto. Un quadro
complessivo che ha di fatto distratto le forze armate israeliane da una
minaccia sostanziale, ma di natura diversa.
Al
contrario, rispetto alle origini, Hamas si è rafforzato militarmente rispetto
al 2008/2009, quando dovette affrontare per la prima volta un assalto di terra
da parte israeliana. Allora l’ala militare di Hamas, la brigata Izz ad-Din
al-Qassam, consisteva in 16.000 miliziani e circa 2.000 truppe
“specializzate” nel combattimento. Situazione ben diversa quella alla vigilia
dell’offensiva del 2023, momento in cui, secondo le Idf, Hamas poté contare su
una forza di ben 40.000 combattenti d’élite, un arsenale di droni e circa 30.000 razzi, una quantità che, il 7 ottobre 2023, mise
in difficoltà gli intercettori del sistema Iron
Dome, portato a saturazione di capacità (maggior numero di razzi sparati da
Hamas rispetto alla capacità del sistema di difesa israeliano), al punto da
indurre gli Stati Uniti ad inviare rifornimenti con estrema urgenza
(Bertolotti, 2024).
Con
l’avvio dell’offensiva terrestre dell’operazione Iron Swords, le forze di difesa israeliane impegnate nell’area
urbana di Gaza, la parte più densamente popolata della Striscia, diedero avvio
a una nuova fase del conflitto incentrata principalmente sulla guerra urbana,
una parte della quale nel sottosuolo, in cui le unità del genio sono state
impegnate in operazioni di apertura di varchi per l’accesso ai tunnel,
consentendo alle unità specializzate nel combattimento sotterraneo di
sopraffare il nemico (Schalit, 2023).
Come
parte del loro piano di difesa, i genieri di Hamas ebbero a disposizione
un’enorme serie di tunnel tattici; alcuni interconnessi, altri isolati. Molti,
come abbiamo argomentato in precedenza, scavati a una profondità di sicurezza
dall’azione di bombardamento aereo, altri posti vicini alla superficie per
consentire l’accesso o l’uscita dei miliziani. E ancora, tunnel e “buchi di
topo” furono predisposti da Hamas per consentire ai propri combattenti di
muoversi in maniera occulta tra gli edifici e per attaccare i soldati
israeliani per poi scomparire di nuovo (Schalit, 2023). Oltre a godere di
questi vantaggi tattici per muovere le proprie truppe, i genieri palestinesi allestirono
e predisposero anche dispositivi esplosivi improvvisati (Ied) – alcuni nascosti nei muri per esplodere al passaggio dei
veicoli corazzati, altri più grandi sepolti sotto il manto stradale o i cumuli
di macerie; altri casi, ancora, videro la presenza di tunnel con trappole per
attirare e colpire i soldati israeliani impegnati nella ricerca e recupero di
ostaggi.
La guerra urbana è estremamente lenta
La guerra
ha affrontato una fase critica con l’ingresso delle unità all’interno del
perimetro urbano di Gaza, dove l’esercito israeliano, dotato di competenze di
primo livello in ambito di combattimento urbano, fronteggiò un nemico
determinato a lottare fino all’ultimo che si era preparato per anni per quello
scontro. Una battaglia che si svolse in un contesto favorevole al difensore (Schalit,
2023).
Le
esperienze di combattimento in aree urbane, come quelle vissute a Mosul in Iraq
e Marawi nelle Filippine tra il 2016 e il 2017, offrono importanti
insegnamenti. A Mosul, un contingente iracheno di 100.000 unità sostenuto dagli
Stati Uniti impiegò nove mesi per neutralizzare un gruppo di militanti del
gruppo Stato islamico in una città fortificata, subendo la perdita di 8.000
uomini e di numerose attrezzature militari a causa di esplosivi improvvisati.
Analogamente, a Marawi, le forze filippine impiegarono cinque mesi per superare
i militanti dello Stato islamico-Maute,
affrontando la difficile realtà di poter prendere il controllo di un solo
edificio al giorno, dato il costante rischio di imboscate e la presenza di
esplosivi nascosti. Questi scenari testimoniano le complesse sfide del
combattimento urbano e la resilienza necessaria per affrontarle.
I tre livelli di sfida della guerra
urbana
Come
abbiamo detto, la guerra urbana è una delle sfide più complesse e multiformi
che un esercito possa affrontare. Questo tipo di conflitto si distingue per la
sua intensità e per le implicazioni profonde non solo dal punto di vista
tattico, ma anche percettivo ed etico-morale.
A
livello percettivo, la guerra urbana mette in luce un contrasto marcato tra le
aspettative di una società incline alla moderazione e alla ricerca di una
condotta eticamente accettabile nel conflitto, e la realtà brutale dei
combattimenti urbani, dove i costi in termini di vite umane, distruzione
materiale e perdita di legittimità internazionale possono essere devastanti.
Questa discrepanza crea una sorta di dissonanza cognitiva, rendendo difficile
per gli eserciti moderni, ancorati ai valori delle società liberali, prepararsi
adeguatamente alla brutalità intrinseca di questo tipo di combattimento.
Dal
punto di vista tattico, gli scenari di guerra urbana presentano una serie di
difficoltà uniche, che abbiamo in parte già illustrato. Il combattimento in
ambienti densamente costruiti comporta il rischio di attacchi a distanza
tramite droni o dispositivi esplosivi
improvvisati, aumentando significativamente il pericolo per le forze sul campo.
L’ambiente urbano facilita poi la possibilità per gli avversari di nascondersi
e tendere agguati, creando un clima di incertezza costante. Le truppe in
manovra si trovano esposte a rischi elevati, con il loro potere di fuoco
diluito dalla necessità di disperdersi tra gli edifici, spesso con visibilità
ridotta. A ciò si aggiunge il problema del degrado delle capacità dei sensori e
dei sistemi di comunicazione, fondamentali per la coordinazione delle
operazioni.
Sul
piano etico e morale, la presenza di civili nel teatro di guerra urbano
introduce dilemmi di grande rilevanza. I civili subiscono le conseguenze del
conflitto in maniera sproporzionata, sia direttamente, come vittime degli
scontri, sia indirettamente, a causa degli sfollamenti e delle epidemie
derivanti dalla distruzione delle infrastrutture urbane. I comandanti militari
si trovano di fronte al delicato dilemma della proporzionalità, dovendo
bilanciare la necessità di agire per la sicurezza dei propri soldati con la
responsabilità di evitare danni ai civili, in conformità con il diritto
internazionale umanitario (Diu). Questo equilibrio è complicato ulteriormente
dalla presenza di civili che possono usare dispositivi elettronici e social media, da coloro che si mostrano
ostili o resistono in maniera non armata, e dal peso psicologico e politico che
tali decisioni impongono sui comandanti, potenzialmente influenzando il loro
giudizio e le loro scelte.
Lo sviluppo delle capacità tecniche e
tattiche delle forze israeliane
Le
forze armate israeliane hanno storicamente affrontato numerose sfide nel
contesto urbano di Gaza, soprattutto dopo il ritiro del 2005, con le operazioni
militari del 2008 e le successive del 2014; momenti diversi in cui le forze
israeliane hanno appreso preziose lezioni. Dal punto di vista politico,
Gerusalemme ha riconosciuto l’importanza cruciale di guadagnarsi il favore
dell’opinione pubblica, sia a livello internazionale che nazionale. Sul fronte
militare, si è reso evidente che la potenza aerea da sola non è mai sufficiente,
inducendo a ridefinire le capacità e l’organizzazione delle forze terrestri, in
particolare per quanto riguarda l’acquisizione e l’impiego di robusti veicoli
corazzati e l’applicazione di tecniche, tattiche e procedure innovative
finalizzate a gestire la minaccia proveniente dal sottosuolo.
Come
diretta conseguenza di queste lezioni, le Idf si è equipaggiato con alcune
delle migliori tecnologie per le operazioni urbane; tra queste, spiccano carri
armati e veicoli blindati per il trasporto truppe, considerati tra i più sicuri
al mondo. L’arsenale israeliano comprende anche i bulldozer corazzati tipo “Doobi”
D9 della Caterpillar, progettati per abbattere edifici e creare percorsi sicuri
in ambienti potenzialmente minati, così riducendo il rischio di imboscate e
attacchi con ordigni esplosivi improvvisati (Ied). Questi potenti mezzi, che
possono essere anche comandati a distanza, sono stati oggetto di controversie
per il loro uso nella demolizione di abitazioni, interpretato da alcuni come
misura punitiva.
Ma l’impiego
operativo dei D9, contrariamente alle critiche che si inseriscono nel più ampio
panorama di opposizione strumentale, prevede di aprire vie sicure attraverso
aree rischiose, creare percorsi alternativi distruggendo parzialmente gli
edifici, e costruire barriere protettive intorno a zone strategiche per
consolidare le conquiste territoriali delle unità militari. Questo approccio
riflette una combinazione di forza e ingegnosità, segnando la continua
evoluzione delle strategie militari israeliane di fronte alle sfide uniche
della guerra urbana.
L’esercito israeliano, nel suo vasto arsenale
di veicoli specialistici, dispone poi di un veicolo particolare, il “Puma”, dedicato alla neutralizzazione
dei campi minati e nel contrasto agli ordigni improvvisati. Dotato di un
elaborato sistema di sgombero mine chiamato “Ied Carpet”,[1]
il “Puma” ha la capacità di far
detonare o neutralizzare dispositivi esplosivi nascosti tramite esplosioni
controllate con razzi. Oltre a questa tecnologia di punta, gli stessi veicoli
in dotazione alle unità del genio militare sono equipaggiati con dispositivi in
grado di disturbare i circuiti o le trasmissioni utilizzate per l’attivazione
controllata degli Ied, alcuni dei
quali includono il sistema “Thor” che
utilizza laser di precisione per innescare gli ordigni a distanza (Schalit,
2023).
Nell’ambito del combattimento sotterraneo, l’esercito
israeliano vanta poi unità specializzate, come gli elementi del Sarayet Yahalom, addestrati
nell’individuazione, nella manovra e nella distruzione di tunnel. Queste forze
speciali fanno uso di cariche esplosive speciali, droni e robot sotterranei
per condurre le loro operazioni, con ciò confermando quanto Israele sia
all’avanguardia nella ricerca di tecnologie di rilevamento sotterraneo,
impiegando un ampio ventaglio di strumentazioni che spaziano dall’ambito
geo-spaziale a quelli acustico, sismico, tomografico a resistività elettrica
(Ert), fino al radar a penetrazione del suolo, in grado di mappare tunnel fino
a venti metri di profondità.
L’approccio delle Idf nei confronti dei tunnel è volto
prevalentemente alla loro distruzione dalla superficie, evitando ove possibile
l’ingresso e la messa in pericolo degli operatori militari. Tuttavia, per
missioni specifiche come il recupero di ostaggi, sono state addestrate unità
speciali, incluse squadre di ricognizione Yahalom
e l’unità cinofila Oketz, dotate di
attrezzature specifiche per operazioni sotterranee. La possibilità di dover
effettuare ricognizioni dirette mediante l’impiego di soldati all’interno di
questa vasta rete di tunnel suggerisce l’impiego di tecniche operative
altamente specializzate, potenzialmente affidate alle unità di élite Mista’arvim, capaci di operare sotto copertura e mimetizzarsi tra i
combattenti avversari.
In questo scenario di confronto tecnologico e tattico,
entrambi gli schieramenti potrebbero riservarsi sorprese impreviste e
devastanti. Se da un lato le Idf dispongono della superiorità tecnologica e
militare necessaria a prevalere, dall’altro l’esito della battaglia e le sue
ripercussioni umane e geopolitiche rimangono avvolte in un velo di incertezza,
testimoniando la complessità e l’imprevedibilità del conflitto moderno (Schalit, 2023).
Bibliografia
Bertolotti C. (2024), Gaza Underground: la guerra sotterranea e
urbana tra Israele e Hamas. Storia, strategie, tattiche, guerra cognitiva e
intelligenza artificiale, ed. START InSight, Lugano, pp. 325.
Collins L, Spencer J. (2022), Understanding Urban Warfare, Howgate
Publishing Limited, pp. 392.
Schalit A. (2023), Hidden tunnels, ambushes and explosives in
walls: the Israel-Hamas war enters a precarious new phase, The
Conversation, 23 novembre 2023, in
https://theconversation.com/hidden-tunnels-ambushes-and-explosives-in-walls-the-israel-hamas-war-enters-a-precarious-new-phase-216830.
[1] Sgombero Campi Minati
e Neutralizzazione Ied: il Carpet è
un sistema moderno di sgombero campi minati e neutralizzazione Ied, prodotto dall’israeliana Rafael,
che può aprire un percorso di cento metri in un campo minato con alta
efficienza di bonifica e può neutralizzare tutti i tipi di Ied. Per raggiungere la massima sopravvivenza dell’equipaggio, il
sistema è operato da due soldati all’interno del veicolo. Il sistema Carpet
consiste in un lanciatore che contiene venti razzi dotati di testate Fae (Fuel-Air Explosive). Il lanciatore è un
kit aggiuntivo autonomo che può essere assemblato facilmente e rapidamente sul
campo su qualsiasi veicolo. Il Carpet è il sistema più efficiente per lo
sgombero di campi minati e la neutralizzazione/detonazione di Ied in qualsiasi
terreno e in tutte le condizioni atmosferiche, mantenendo al contempo la
sicurezza dell’equipaggio.
Articolo tratto dal libro: C. Bertolotti (2024), Gaza Underground: la guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas. Storia, strategie, tattiche, guerra cognitiva e intelligenza artificiale, START InSight Lugano (Link: https://www.amazon.it/dp/8832294230)
La nuova strategia di intelligence USA: implicazioni per il Sistema di Informazioni e Sicurezza della Repubblica.
di Niccolò Petrelli, START InSight, Assistant Professor, Strategic Studies
Nell’Agosto 2023 l’US Office of the Director of National Intelligence (ODNI) ha pubblicato una National Intelligence Strategy (NIS) incentrata sulla nuova era di competizione con la Cina che nel corso degli ultimi mesi ha iniziato ad essere attuata.[1] Uno degli elementi centrali del documento, che essenzialmente delinea la visione per il futuro dell’ODNI più che una vera e propria strategia, è la decisione di rafforzare ed espandere la rete internazionale di “collegamenti” con altri servizi informativi (nonché con vari tipi di attori privati).[2] Quale l’eventuale impatto sul Sistema di Informazioni e Sicurezza della Repubblica (SISR)? Esiste la possibilità che la strategia di collegamento USA si traduca in opportunità per il sistema d’intelligence italiano?
Per rispondere a queste domande è
possibile partire da un precedente analogo nella storia dell’intelligence
USA. Tra la seconda metà del 1945 e la prima metà del 1947 infatti, l’emergere
della competizione con l’Unione Sovietica spinse l’apparato informativo
statunitense ad investire in maniera sistematica risorse, capacità, expertise,
e relazioni personali nella creazione di una massiccia e stratificata
infrastruttura di collegamenti con i servizi segreti di numerosi paesi
dell’Europa occidentale.[3]
In un primo momento a guidare tale strategia furono principalmente requisiti di
“accesso” e ampliamento della raccolta informativa sull’URSS e i suoi “alleati”
in Europa orientale: i paesi dell’Europa occidentale rappresentavano infatti
quella che potremmo definire la più valida “piattaforma” per accedere a tali
obiettivi informativi. Nel 1946 ad esempio fu raggiunto un tacito accordo in
base al quale la MUST e la FRA, le due agenzie di intelligence militare
svedesi, iniziarono a passare all’intelligence USA tutti le informazioni
di HUMINT e SIGINT sulle attività militari sovietiche nella regione baltica in
cambio di finanziamenti e equipaggiamento per la raccolta informativa tecnica. Un
altro esempio, più noto, è quello dell’accordo UKUSA, sempre del 1946, in base
a cui la State-Army-Navy Communications Intelligence Board degli Stati
Uniti e la London SIGINT Board si impegnavano a condividere ogni
prodotto informativo di raccolta tecnica, mettendo di fatto in piedi una
ripartizione del lavoro che l’ex direttore del Government Communications Headquarters
(GCHQ) David Omand ha definito basata sui “soldi statunitensi e cervelli
britannici”.[4]
La
situazione iniziò tuttavia a cambiare approssimativamente dal 1949. L’intelligence
americana modificò progressivamente la propria azione di collegamento,
strutturandola in base alla percezione della natura della competizione
prevalente a Washington, ovvero quella di un confronto in primo luogo politico-ideologico
con l’URSS. Ciò si riteneva
richiedesse una fusione dei paradigmi strategici di “guerra” e “pace” in uno sforzo
unitario e coordinato di political warfare,[5] come la definì George Kennan. Tanto la
CIA quanto le varie componenti dell’intelligence militare
intensificarono dunque le proprie attività di collegamento in Europa
occidentale promuovendo, in modi e forme diverse a seconda delle circostanze,
lo sviluppo di tutte quelle capacità ritenute essenziali per gestire il nuovo
tipo di confronto: propaganda, guerra psicologica, sostegno clandestino a forze
politiche locali e, qualora necessario, contro-guerriglia.[6]
In Germania ad esempio, oltre alla creazione di diverse reti stay-behind
(S/B), documentazione recentemente declassificata ha gettato luce sul sostegno
fornito dalla CIA e dall’intelligence militare USA per attività
clandestine condotte dall’Organizzazione Gehlen (la prima struttura di intelligence
di quella che sarebbe diventata la Repubblica Federale Tedesca), al fine di
minare la stabilità della zona di occupazione sovietica della Germania.[7]
Dove si rivelò più difficile cooperare ad ampio spettro con le controparti
locali la comunità di intelligence statunitense combinò attività di
collegamento ad operazioni clandestine. Un approccio di questo tipo fu adottato
ad esempio in Italia, dove dalla fine della Seconda Guerra Mondiale l’intelligence
americana operò simultaneamente a due diversi livelli: da un lato collaborando
con i servizi segreti italiani, in particolare nel programma S/B, dall’altro
sviluppando autonomamente reti clandestine per condurre attività di guerra
psicologica, propaganda e destabilizzazione.
La strategia di collegamento USA generò
dunque effetti trasformativi della struttura, capacità, e funzioni degli
apparati informativi europei occidentali, rischi di vario tipo, basti pensare
proprio al caso dell’Italia, ma anche opportunità, in particolare di
beneficiare di finanziamenti, anche cospicui, nonché di forniture di
equipaggiamento tecnologicamente avanzato. Non tutti i servizi europei
occidentali tuttavia furono parimenti in grado di sfruttare tali opportunità.
Ciò dipese da variabili di vario tipo legate al contesto, la natura delle
relazioni diplomatiche con gli USA, il grado di fiducia esistente tra i
decisori politici ed i vertici degli apparati informativi, la condizione
politica prodotta dalla Seconda Guerra Mondiale e, non da ultimo, la posizione
geografica dei vari paesi rispetto agli obiettivi informativi di prioritario
interesse per la comunità d’intelligence USA. Di cruciale importanza
furono tuttavia anche taluni fattori squisitamente materiali, ovvero il grado di
“interoperabilità” con il sistema d’intelligence statunitense, l’adattabilità
e funzionalità delle capacità, esistenti e potenziali, dei servizi dell’Europa
occidentale rispetto alle missioni affidate al sistema d’intelligence USA
nel quadro della political warfare nei confronti del blocco comunista, e
da ultimo la complementarietà di capacità e competenze rispetto a quelle
espresse dalle varie componenti del sistema USA.
Il GCHQ britannico fu ad esempio in grado, capitalizzando sulle proprie
competenze specifiche in termini di analisi politica del sistema internazionale
e crittoanalisi, nonché sulla “interoperabilità” tecnica con il sistema USA, di
massimizzare i vantaggi derivanti dalla strategia di collegamento attuata dagli
USA arrivando, come visto sopra, a siglare un accordo che garantiva accesso ad
ogni prodotto (in teoria) di raccolta tecnica statunitense. L’intelligence
svedese, da parte sua, riuscì, in particolare in virtù delle proprie autonome
capacità di raccolta tecnica in un’area di cruciale importanza strategica per
gli USA, ad assicurarsi finanziamenti e equipaggiamento per rafforzare un
settore di raccolta prioritario per la sicurezza nazionale del paese. Il caso
italiano dimostra invece come, nonostante l’abilità dimostrata in diverse
circostanze dai vertici dell’apparato informativo nello sfruttare a proprio
vantaggio la propensione USA ad intensificare i collegamenti, come ad esempio
nel caso del programma congiunto S/B Italia-USA “Gladio” avviato nel 1951,
limiti capacitivi impedirono di cogliere ulteriori potenziali opportunità. Infatti,
le scarse competenze analitiche dell’intelligence italiana, in
particolare sotto il profilo economico, sociologico e politologico, e la
conseguente incapacità di sviluppare analisi ad ampio spettro della base di
sostegno e infrastruttura sociale del Partito Comunista Italiano (PCI)
contribuì in maniera non trascurabile a far sì che l’intelligence USA
procedesse in maniera autonoma sia alla raccolta informativa che ad una serie
di attività operative di contrasto nei confronti del PCI.[8]
Allo stesso modo la mancanza di una solida capacità di raccolta SIGINT da parte
dell’apparato informativo italiano precluse l’opportunità, intorno alla metà
degli anni ’50, nel momento in cui Washington era particolarmente interessata a
monitorare l’intensificazione dell’attività navale sovietica nel Mediterraneo,
di estendere i collegamenti con il sistema d’intelligence USA a
condizioni vantaggiose per l’Italia, e rappresentò molto probabilmente una
delle ragioni alla base della creazione da parte statunitense nel 1960 di una
struttura SIGINT gestita dall’Air Force Security Group (USAFSS) a San
Vito dei Normanni.[9]
Basandoci su quanto sopra, si può ipotizzare che l’attuazione della strategia
di collegamento delineata nella NIS 2023 presenterà per l’apparato informativo
italiano, con buona probabilità, opportunità analoghe a quelle che emersero al
principio della Guerra Fredda. Due sono dunque gli elementi su cui concentrare
l’attenzione per comprendere come esse potrebbero essere sfruttate nella
maniera più efficace: il primo è la percezione USA della natura della
competizione con la Cina, il secondo sono le capacità (a livello aggregato) che
i vertici dell’intelligence USA stanno sviluppando ed intendono
promuovere per i prossimi anni.
Per quanto riguarda il primo elemento, dopo un periodo piuttosto lungo
di dibattito, la natura della competizione con la Cina ha iniziato ad essere
definita con maggiore precisione. Benché l’assunto di partenza rimanga quello
di una competizione globale in ogni ambito, economico, politico, sociale, dell’informazione,
e militare, è recentemente emerso un consenso sempre più ampio circa il fatto
che la componente centrale di tale competizione sia di natura tecnologico-economica.[10]
In altre parole, si ritiene che essa sia incentrata sulla creazione di un
vantaggio competitivo duraturo nelle principali tecnologie di frontiera, intelligenza
artificiale generale, microprocessori e reti di comunicazione di prossima
generazione, produzione avanzata, stoccaggio e produzione di energie,
biotecnologie, al fine di poter plasmare l’economia globale della prossima
generazione e definire gli standard di accesso e impiego a tali tecnologie.[11]
In merito al secondo elemento, per comprendere il tipo di capacità che
l’ODNI intende promuovere nella comunità d’intelligence USA è possibile
fare riferimento alla nozione di Revolution in Intelligence Affairs (RIA),
da alcuni anni ormai popolare nel dibattito professionale e politico USA sull’intelligence.
Benché nella NIS non vi siano espliciti riferimenti al concetto, appare
evidente come la RIA rappresenti il costrutto-guida de facto impiegato per
coordinare una serie di trasformazioni, nel procurement e integrazione
di nuove tecnologie, nella struttura organizzativa, e nelle procedure operative
del sistema d’intelligence USA, al fine di porlo nelle condizioni
migliori per affrontare le sfide dei prossimi decenni, in primis quelle legate
alla competizione con la Cina.
La trasformazione immaginata dall’ODNI prevede di procedere in primo
luogo all’acquisizione e integrazione su vasta scala di intelligenza
artificiale, sensori all’avanguardia e tecnologie di automazione, evitando
approcci incrementali o settoriali. Simultaneamente, alla luce della velocità,
della scala, e della complessità a cui opereranno queste tecnologie, verranno
promossi rapidi cambiamenti organizzativi e operativi volti ad agevolare forme
di integrazione tra raccolta e analisi, promuovere ridondanza tra le varie fasi
del ciclo di intelligence, nonché a creare meccanismi più rapidi per la
diffusione in tempo reale dei prodotti informativi. In altre parole, si intende
promuovere un modus operandi “a rete” per il sistema di intelligence
basato sulla fusione completa dei flussi di dati prodotti da ogni tipo di
sensori e piattaforme, la sincronia e integrazione di tutte le attività
operative, e la trasmissione rapida e continua di prodotti a operatori umani,
macchine e decisori in tutti i dominii.[12]
Quali dunque le capacità e competenze su cui il SISR dovrebbe puntare
per essere in grado di cogliere le opportunità generate dalla strategia di
collegamento dell’intelligence USA? Essenziale è che esse rispondano
alla percezione della competizione come di un confronto essenzialmente
tecno-economico, e che siano complementari alle capacità espresse dal sistema
d’intelligence USA.
In primo luogo dunque il SISR dovrebbe rafforzare le proprie capacità
di raccolta e analisi in ambito economico e tecnologico. La questione non è
nuova, il dibattito sul rafforzamento dell’intelligence economica risale
agli anni 90, con il lavoro delle commissioni Ortona (1992) e Jucci (1997).[13]
Approssimativamente nello stesso periodo inoltre in seno al Comitato Esecutivo
per i Servizi di Informazione e Sicurezza (CESIS) fu attivato un “gruppo
permanente per l’intelligence economica”. Di recente l’ex direttore del SISDE
Mori ha rilanciato l’idea di un organismo collegiale dove siano rappresentati il
Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza (DIS), le due agenzie (Aisi e
Aise), i ministeri interessati e le associazioni degli imprenditori. Nel caso
specifico tuttavia la questione chiave sarebbe, in coerenza con quello che è
l’approccio USA all’intelligence economico-tecnologica, adottare una
postura proattiva, che includa attività offensive su base continuativa nei
confronti non solo della Cina e dei suoi principali partner economici e
tecnologici, ma anche di imprese e enti privati riconducibili a quello che
potremmo chiamare “l’ecosistema tecno-economico” cinese.
In secondo luogo, il SISR dovrebbe investire sullo sviluppo ulteriore
delle proprie capacità operative in aree in cui gode di un vantaggio competitivo,
ed in cui esse possano impiegarsi in maniera complementare a quelle del sistema
d’intelligence statunitense. La scelta più logica appare l’area del
Mediterraneo, dove da diversi decenni ormai il sistema d’intelligence
italiano conduce attività operativa di ampio respiro. Proprio nel Mediterraneo
infatti negli ultimi anni la Cina ha, con discrezione, ampliato la propria
presenza attraverso grandi aziende private (Shanghai
International Port Group, China Merchants) e pubbliche (COSCO, China
Communications and Construction Company) stipulando accordi commerciali di
vario tipo, accordi per partecipazioni nei porti di paesi situati lungo rotte
marittime vitali per la Belt and Road Initiative, e acquisendo aziende di medie
dimensioni, spesso allo scopo di avere accesso a tecnologie Europee.[14]
Il necessario presupposto ovviamente, come evidenziano gli esempi di UK
e Svezia durante la Guerra Fredda, è che il sistema d’intelligence
italiano goda di un buon livello di “interoperabilità” con quello USA. Ciò, a
sua volta, richiede che i vertici dell’apparato informativo proseguano, e
auspicabilmente diano ulteriore impulso, a quel processo di acquisizione e
integrazione di tecnologie dell’informazione di ultima generazione, sensori
avanzati, Intelligenza Artificiale e sistemi di apprendimento automatico, che
sembra essere iniziato da qualche anno.
[1] https://oversight.house.gov/wp-content/uploads/2024/05/05062024-ODNI-Letter.pdf.
[2]
https://www.voanews.com/a/new-us-intelligence-strategy-calls-for-more-partners-more-sharing-/7220725.html
[3] Michael Warner AID
[4] https://media.defense.gov/2021/Jul/15/2002763709/-1/-1/0/AGREEMENT_OUTLINE_5MAR46.PDF;
https://www.securityweek.com/britains-gchq-listening-post-tune-nsa.
[5] George F. Kennan, The
Inauguration of Organized Political Warfare [Redacted Version], 30 aprile
1948, Woodrow Wilson Center, History and Public Policy Program Digital Archive,
https://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/114320.pdf?v=94.
[6] US Department of
State, Foreign Relations of the United States,
1951, Vol. I, National Security Affairs, Foreign Economic
Policy, Washington DC, Government
Printing Office, 1979 (FRUS 1951), Doc. 18 Attachment to Memorandum for the
National Security Council by the Executive Secretary, 8 maggio 1951.
[7] https://nsarchive.gwu.edu/briefing-book/openness-russia-and-eastern-europe-intelligence/2022-05-11/secret-war-germany-cias.
[8] Niccolò Petrelli, “Alcide De Gasperi e le Origini
del Servizio Informazioni Forze Armate (SIFAR)”, in Mario Caligiuri (a
cura di) De Gasperi e L’Intelligence (in corso di pubblicazione).
[9]
https://www.cia.gov/readingroom/docs/DOC_0000278476.pdf
[10] Intelligence
Innovation. Repositioning for Future Technology Competition, Second Intelligence Interim Panel Report (IPR) of the Special
Competitive Studies Project (SCSP), Aprile 2024.
[11] Brandon Kirk
Williams, The Innovation Race: US-China Science and Technology Competition
and the Quantum Revolution (Washington DC: Woodrow Wilson Center, 2023).
[12] Creating Cross-Domain Kill Webs in Real Time, DARPA (Sept. 18, 2020), https://www.darpa.mil/news-events/2020-09-18a e AI Fusion: Enabling Distributed Artificial Intelligence to Enhance
Multi-Domain Operations & Real-Time Situational Awareness, Carnegie
Mellon University (2020), http://www.cs.cmu.edu/~ai-fusion/overview.
[13] Gabriele Carrer, Perché all’Italia serve intelligence
economica. Intervista al generale Mori, Formiche 9 Giugno 2024 https://formiche.net/2024/06/intervista-intelligence-economica-mario-mori/#content..
[14] Claudia De Martino,
The Growing Chinese Presence in the Mediterranean, Med-Or Geopolitics, 22 April
2024, https://www.med-or.org/en/news/la-crescente-penetrazione-cinese-nel-mediterraneo.
Atlante geopolitico del Mediterraneo 2024: la recensione.
di Claudio Bertolotti.
Abstract (Italian)
L’Atlante geopolitico del Mediterraneo 2024, giunto alla sua decima edizione, sottolinea l’importanza cruciale del Mediterraneo per Europa, Africa e Asia, evidenziando il ruolo chiave dell’Italia come ponte strategico nella regione. Esamina lo sviluppo della politica estera italiana dal dopoguerra, mostrando come la stabilità del Mediterraneo sia fondamentale per gli interessi del paese. Celebrando figure storiche italiane come Fanfani, Gronchi, La Pira e Mattei, il testo sottolinea l’importanza dell’Italia nella gestione delle risorse energetiche, sicurezza marittima e flussi migratori, promuovendo una collaborazione equa e sostenibile tra le nazioni mediterranee. L’Atlante affronta anche le attuali instabilità regionali, come le tensioni in Libia, la svolta autoritaria in Tunisia e il conflitto israelo-palestinese, proponendo la soluzione a due Stati come via per una pace duratura. La stabilizzazione del Mediterraneo è vista come essenziale per la crescita delle nazioni rivierasche. L’edizione esplora le dinamiche politiche e socio-economiche attuali e future del Mediterraneo, offrendo uno strumento per comprendere e affrontare le sfide della regione, enfatizzando il ruolo cruciale dell’Italia nella politica estera e nella gestione delle sfide regionali.
Atlante geopolitico del Mediterraneo 2024, a cura di Francesco Anghelone e Andrea Ungari; prefazione Di Paolo De Nardis; introduzione di Gianluigi Rossi, ed. Istituto di Studi Politici “S. Pio V”, Roma, pp. 570.
Keywords: Mediterraneo, Piano Mattei.
L’Atlante geopolitico del Mediterraneo 2024, giunto alla
sua decime edizione, discute il ruolo cruciale del Mediterraneo nelle dinamiche
geopolitiche globali, evidenziando la sua importanza storica, culturale ed
economica per tre continenti: Europa, Africa ed Asia. In particolare sottolinea
come l’Italia, grazie alla sua posizione strategica, giochi un ruolo chiave
nella regione, agendo come ponte tra Nord e Sud, Est e Ovest. La decima
edizione dell’Atlante Geopolitico del Mediterraneo esamina, in particolare, lo
sviluppo della politica estera italiana dal dopoguerra, dimostrando come gli
interessi dell’Italia siano strettamente legati alla stabilità della regione.
Un’evoluzione storica che evoca il ruolo giocato dalla politica estera italiana
nelle relazioni internazionali, richiamando i nomi di coloro che ne hanno
definito le direttrici, oggi in parte non più così ben definite, da Amintore
Fanfani a Giovanni Gronchi a Giorgio La Pira ed Enrico Mattei, il cui nome è
oggi il punto di riferimento ideale di un importante e ambizioso progetto di
cooperazione e collaborazione regionale particolarmente caro all’Italia.
Come storico non ho potuto che apprezzare lo sforzo degli
autori – e dunque dei curatori – nel ricostruire il ruolo dell’Italia nel
Mediterraneo negli ultimi settant’anni, evidenziando l’importanza del paese in settori
come la gestione delle risorse energetiche, la sicurezza marittima e i flussi migratori.
Il testo sottolinea la necessità di superare le vecchie dinamiche coloniali per
promuovere una collaborazione equa e sostenibile tra le nazioni mediterranee.
La regione, viene rilevato nel testo, è attualmente
segnata da instabilità, come le tensioni in Libia, la svolta autoritaria in
Tunisia e il conflitto israelo-palestinese. La soluzione a due Stati è vista
come l’unica strada per la pace duratura in Medio Oriente. Stabilizzare il
Mediterraneo è essenziale per la crescita delle nazioni rivierasche.
Questa edizione dell’Atlante mira a esplorare le attuali
dinamiche politiche e socio-economiche del Mediterraneo e le prospettive
future, offrendo uno strumento essenziale per comprendere e affrontare le sfide
della regione. Il testo evidenzia l’importanza dell’Italia nel Mediterraneo,
sottolineando il suo ruolo cruciale nella politica estera e nella gestione
delle sfide regionali.
PARTE
PRIMA: APPROFONDIMENTI
“La
dimensione mediterranea della politica estera italiana fra Atlantico ed Europa
(1949-1969)” (di Bruna Bagnato).
Nel suo saggio l’Autrice
esamina le tre principali direttrici della politica estera italiana nel secondo
dopoguerra: europea, atlantica e mediterranea. Queste direttrici non sono
statiche ma si sono evolute in risposta ai cambiamenti geopolitici.
L’Italia, pur
geograficamente europea e mediterranea, ha dovuto integrare la sua
partecipazione all’alleanza atlantica (NATO) dal 1949, il che ha influenzato la
sua politica estera, spingendola ad adattarsi ai contesti della Guerra Fredda e
agli interessi occidentali. La divisione dell’Europa in blocchi orientale e
occidentale e le tensioni Est-Ovest hanno complicato la politica mediterranea italiana,
che ha dovuto affrontare le eredità coloniali e le sfide della
decolonizzazione.
La politica italiana,
influenzata dalle diverse stagioni politiche interne, ha oscillato tra
strategie mediterranee e europee. Negli anni ’50, con l’avvento del “neo-atlantismo”,
l’Italia ha cercato di coniugare l’impegno atlantico con una nuova politica
mediterranea, adottando posizioni anticoloniali per allinearsi con gli Stati
Uniti e differenziarsi dall’imperialismo anglo-francese.
Il testo, in
particolare, sottolinea come il “neo-atlantismo” abbia cercato di
dare all’Italia un ruolo più dinamico nel Mediterraneo, basato su una
cooperazione con gli Stati Uniti e una maggiore attenzione alle aspirazioni dei
paesi arabi. Tuttavia, questo approccio ha dovuto confrontarsi con le complessità
della politica europea, soprattutto con la posizione francese riguardo ai
territori d’oltremare e l’associazione dei paesi africani alla Comunità
Economica Europea (CEE).
Con la crisi di Suez
del 1956, l’Italia ha visto un’opportunità per consolidare la propria politica
mediterranea in sintonia con l’orientamento anticoloniale americano. Italia
che, negli anni ’60, ha dovuto affrontare le sfide del boom economico, della decolonizzazione e del cambiamento nelle
dinamiche della Guerra Fredda. La politica estera italiana nel Mediterraneo ha
dovuto adattarsi a un nuovo contesto internazionale, segnato dalla distensione
tra Stati Uniti e Unione Sovietica e dall’evoluzione delle relazioni
euro-arabe.
La politica
mediterranea italiana si è quindi spostata verso un approccio multilaterale,
integrando le istanze comunitarie europee e ponendo le basi per una
collaborazione più stretta con i partner europei per la stabilizzazione
politica ed economica della regione. Questo cambiamento ha rappresentato un
allontanamento dalla precedente enfasi atlantica, con una maggiore enfasi sulla
cooperazione europea nel Mediterraneo.
La politica estera italiana e il
“Mediterraneo allargato” dalla crisi del centro-sinistra a oggi (di Antonio Varsori).
Premessa storica e contesto iniziale. Dalla fine della
Seconda guerra mondiale alla metà degli anni Cinquanta, l’Italia, guidata dalla
Democrazia Cristiana (DC), ha cercato di superare le difficoltà derivanti dalla
sconfitta e dal trattato di pace, ricostruendo il proprio ruolo all’interno del
sistema occidentale e del sottosistema europeo dominato dagli Stati Uniti.
Questa fase è stata caratterizzata da una scelta “atlantica” ed
“europea” che ha incluso l’adesione al Piano Marshall e al Patto
Atlantico, oltre alla partecipazione al Consiglio d’Europa e al Piano Schuman.
La politica estera degli anni ’90. Con la crisi di “Tangentopoli” e la fine della
Guerra fredda, l’Italia ha subito un ripiegamento sui problemi interni e un
ridimensionamento del proprio ruolo nel Mediterraneo allargato. Le priorità si
sono spostate verso la partecipazione all’Unione Europea e all’adozione
dell’euro. Tuttavia, un tentativo significativo di mantenere un ruolo attivo
nella regione è stato l’invio di un contingente militare in Somalia nel 1992
per partecipare a una missione di peacekeeping
delle Nazioni Unite; una partecipazione importante sul piano delle relazioni
internazionali che, per contro, ha avuto esiti complessi e drammatici.
L’era Berlusconi. Durante i governi
Berlusconi, l’Italia ha affrontato diverse sfide nel Mediterraneo allargato. Un
esempio è stato il controverso impegno militare in Iraq, che ha sollevato forti
opposizioni interne e divergenze con le politiche di altri paesi europei come Francia
e Germania. Berlusconi ha anche rafforzato i rapporti con la Libia di Gheddafi,
culminati in un accordo che prevedeva riparazioni per il passato coloniale
italiano e un maggiore controllo sui flussi migratori illegali.
La politica migratoria e le crisi recenti. L’immigrazione è
diventata una questione centrale nella politica mediterranea italiana. Dagli
anni Novanta, l’Italia ha visto un crescente flusso di immigrati provenienti
dai Balcani, dal Maghreb e dall’Africa subsahariana. Questo ha portato a
tensioni e accordi, come quello con la Libia per controllare l’immigrazione
clandestina. La crisi libica del 2011 e le Primavere arabe hanno ulteriormente
complicato la situazione, provocando instabilità e nuovi flussi migratorie.
Sfide contemporanee. La recente escalation
della questione palestinese e la ricerca di nuovi partner energetici dopo
l’interruzione dei rapporti con la Russia a causa della guerra in Ucraina,
insieme all’aumento dei flussi migratori da Tunisia e Libia, rappresentano le
attuali sfide per l’Italia. In questo contesto, il “Piano Mattei” e
un nuovo attivismo mediterraneo sono stati proposti come soluzioni, ma i loro
esiti rimangono incerti.
Conclusioni. Dal dopoguerra a oggi,
la politica estera italiana nel Mediterraneo allargato ha attraversato diverse
fasi, influenzate da cambiamenti interni e globali. Dalla costruzione iniziale
di un ruolo nell’ambito del sistema occidentale, passando per le crisi politiche
ed economiche degli anni ’90, fino alle sfide contemporanee legate alla
migrazione e alla sicurezza energetica, l’Italia ha costantemente cercato di
mantenere una presenza significativa nella regione, adattandosi ai mutamenti
del contesto internazionale.
“La politica estera
italiana e il Medio Oriente negli anni della Repubblica” (di Luca
Riccardi).
Dopo la Seconda Guerra
Mondiale, l’Italia attraversò un periodo di ricostruzione economica e di
riorganizzazione della propria politica estera. Questo periodo segnò il
passaggio dall’ambizione di essere una grande potenza a una media potenza
integrata nel sistema internazionale dominato dagli Stati Uniti.
Origini della politica mediorientale. Subito dopo la guerra,
l’Italia si concentrò sul mantenimento della stabilità politica nel
Mediterraneo orientale, sostenendo soluzioni accettabili sia per gli arabi che
per gli ebrei. L’obiettivo principale era la stabilità, vista come necessaria
per perseguire gli interessi economici italiani e proteggere le comunità italiane
presenti nella regione.
Neo-atlantismo e rafforzamento dei legami con gli Stati Uniti
Negli anni Cinquanta,
l’Italia sviluppò una politica chiamata “neo-atlantismo”, che mirava
a rafforzare la presenza politica ed economica nel Mediterraneo e nel Medio
Oriente. Questa politica cercava di conciliare gli interessi italiani con
quelli americani, fungendo da collegamento tra gli Stati Uniti e il mondo
arabo. Protagonisti di questa politica furono Amintore Fanfani, Giovanni
Gronchi, Giorgio La Pira ed Enrico Mattei.
Gli anni Sessanta e Settanta. Durante gli anni Sessanta e Settanta, l’Italia,
sotto la guida di Aldo Moro, cercò di stabilizzare la regione attraverso una
politica di contatti e un crescente coordinamento con i paesi della Comunità
Europea. Tuttavia, la crisi petrolifera del 1973 e le sue conseguenze
economiche influenzarono negativamente la politica italiana, rendendo il paese
dipendente dalle forniture di petrolio dai paesi arabi.
Gli anni Ottanta. Negli anni Ottanta, con
Bettino Craxi come Presidente del Consiglio e Giulio Andreotti come Ministro
degli Esteri, l’Italia mantenne una forte presenza nel Mediterraneo allargato.
Craxi e Andreotti cercarono di promuovere il coinvolgimento dell’OLP nel processo
di pace, sostenendo il diritto dei palestinesi a una patria propria, senza
compromettere l’esistenza dello Stato di Israele. L’Italia cercò di bilanciare
le relazioni tra gli Stati Uniti e il mondo arabo, mantenendo una posizione di
equidistanza.
Declino e marginalizzazione. Verso la fine della Prima Repubblica, l’Italia
iniziò a perdere rilevanza nella politica mediorientale, diventando sempre più
allineata con le politiche degli Stati Uniti. La conferenza di Madrid del 1991
segnò un’ulteriore marginalizzazione dell’Italia e dell’Europa nel processo di
pace in Medio Oriente.
In sintesi, la politica
estera italiana verso il Medio Oriente è stata caratterizzata da tentativi di
mantenere la stabilità nella regione, rafforzare i legami economici e politici
con i paesi arabi, e bilanciare le relazioni tra gli Stati Uniti e il mondo
arabo, pur affrontando periodi di crisi economica e declino politico.
PARTE SECONDA: SCHEDE PAESI
Marocco
La Storia. La storia del
Marocco è caratterizzata da un lungo periodo di colonizzazione europea iniziata
ufficialmente nel 1912 con il Trattato di Fez, che sanciva l’istituzione di un
protettorato francese e spagnolo sul paese. Durante il periodo coloniale, il
Marocco vide una vasta politica di modernizzazione, con la costruzione di
infrastrutture e nuove città ad opera dei coloni francesi. La resistenza contro
il dominio coloniale portò a frequenti rivolte, culminate nella
“Rivoluzione del re e del popolo” del 1953, che contribuì
all’indipendenza del paese, riconosciuta dalla Francia nel 1956. Mohammed V
divenne re, avviando un processo di riforme che portarono alla modernizzazione
del paese e alla creazione di una monarchia costituzionale.
Oggi. Negli ultimi
decenni, il Marocco ha affrontato numerose sfide e trasformazioni. Sotto il
regno di Mohammed VI, iniziato nel 1999, il paese ha intrapreso un percorso di
riforme economiche e politiche, tra cui la promozione dei diritti umani e la
modernizzazione delle istituzioni. Tuttavia, permangono criticità relative ai
diritti umani e alla questione del Sahara Occidentale. Il Marocco ha anche
consolidato il suo ruolo geopolitico nella regione, ristabilendo relazioni
diplomatiche con Israele nel 2020 e giocando un ruolo chiave nella gestione
delle migrazioni tra Africa ed Europa.
Algeria
La Storia. L’Algeria,
colonizzata dalla Francia dal 1830, visse un periodo di modernizzazione nel
primo dopoguerra. Tuttavia, la crescente consapevolezza nazionale portò alla
guerra di indipendenza algerina (1954-1962), un conflitto sanguinoso che
culminò con l’indipendenza del paese nel 1962. Il periodo post-indipendenza fu
caratterizzato da una forte centralizzazione del potere sotto il Fronte di
Liberazione Nazionale (FLN), che governò in modo autoritario, affrontando
periodi di instabilità politica e economica.
Oggi. L’Algeria
contemporanea è una repubblica semipresidenziale con una popolazione di circa
44,9 milioni di abitanti. Il paese continua a confrontarsi con questioni di governance, diritti umani e diversificazione
economica. Le elezioni del 2019 e del 2021 hanno portato Abdelmadjid Tebboune
alla presidenza, con il governo che cerca di bilanciare le richieste di riforme
politiche con la stabilità sociale. Le relazioni con il Marocco rimangono tese,
specialmente a causa delle dispute territoriali e delle accuse reciproche di
interferenze politiche.
Tunisia
La Storia. La Tunisia,
anch’essa colonizzata dalla Francia, ottenne l’indipendenza nel 1956 sotto la
guida di Habib Bourguiba, che instaurò un regime modernizzatore ma autoritario.
Dopo il colpo di stato del 1987, Zine El Abidine Ben Ali salì al potere,
governando fino alla Rivoluzione dei Gelsomini del 2011, che portò alla sua
destituzione e avviò un processo di transizione democratica.
Oggi. La Tunisia è considerata una delle storie di successo della Primavera Araba, con un processo democratico ancora in corso. Tuttavia, il paese affronta sfide significative, tra cui instabilità politica, disoccupazione giovanile e minacce terroristiche. Le recenti elezioni e le riforme costituzionali mirano a consolidare un modello di democrazia fortemente presidenziale e uno stato consapevole del proprio ruolo all’interno dell’area geopolitica regionale.
Libia
La Storia. La storia moderna
della Libia è segnata dalla colonizzazione italiana e dalla dittatura di
Muammar Gheddafi, che governò dal 1969 fino alla sua deposizione nel 2011
durante la guerra civile libica. Il regime di Gheddafi era caratterizzato da
politiche autoritarie e di centralizzazione del potere, con una forte retorica
anti-occidentale.
Oggi. La Libia odierna
è divisa e instabile, con vari gruppi armati e fazioni politiche che competono
per il controllo del paese. Nonostante gli sforzi internazionali per
stabilizzare la situazione, la Libia rimane in gran parte frammentata, con un
governo di unità nazionale che lotta per affermare la propria autorità. La
situazione umanitaria e la sicurezza continuano a essere problematiche.
Egitto
La Storia. L’Egitto ha una
lunga storia di civiltà antiche e dominazioni straniere. Nel XX secolo,
l’Egitto ottenne l’indipendenza dal Regno Unito nel 1922, ma rimase sotto
un’influenza britannica significativa fino alla rivoluzione del 1952 che portò
Gamal Abdel Nasser al potere. Nasser attuò politiche di nazionalizzazione e
panarabismo. Successivamente, sotto Anwar Sadat e Hosni Mubarak, il paese si
orientò verso politiche più aperte e relazioni con l’Occidente.
Oggi. L’Egitto
contemporaneo, sotto il presidente Abdel Fattah al-Sisi, affronta sfide
economiche e politiche significative. Le riforme economiche hanno portato a una
crescita economica, ma anche a un aumento della povertà e delle disuguaglianze.
La repressione politica rimane forte, con limitazioni alle libertà civili e
politiche. L’Egitto continua a svolgere un ruolo chiave nella geopolitica del
Medio Oriente, mantenendo relazioni strategiche con vari attori internazionali.
Israele
La Storia. Israele, fondato
nel 1948, ha una storia complessa segnata da conflitti con i paesi vicini e
tensioni interne. La guerra di indipendenza del 1948-49, le guerre
arabo-israeliane e il conflitto israelo-palestinese hanno definito gran parte
della sua storia. Israele ha anche vissuto periodi di crescita economica e
tecnologica, affermandosi come una delle economie più avanzate della regione.
Oggi. Israele è una
democrazia parlamentare con una popolazione diversificata. Le questioni di
sicurezza nazionale, il conflitto con i gruppi palestinesi e le dinamiche
politiche interne sono al centro dell’attenzione. Le recenti normalizzazioni
delle relazioni con alcuni paesi arabi rappresentano sviluppi significativi, ma
permangono tensioni e sfide sul fronte interno e regionale.
Autorità Nazionale Palestinese
La Storia. L’Autorità
Nazionale Palestinese (ANP) è stata istituita nel 1994 a seguito degli Accordi
di Oslo tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP).
L’ANP è responsabile del governo dei territori palestinesi della Cisgiordania e
della Striscia di Gaza, ma ha affrontato numerose difficoltà, inclusi conflitti
interni e tensioni con Israele.
Oggi. Oggi, l’ANP è
divisa tra la Cisgiordania, controllata da Fatah, e Gaza, sotto il controllo di
Hamas. La situazione politica ed economica è instabile, con frequenti tensioni
e scontri con Israele. Gli sforzi per la riconciliazione interna e per una
soluzione del conflitto con Israele continuano, ma le prospettive di pace
rimangono incerte.
Libano
La Storia. Il Libano,
indipendente dalla Francia dal 1943, ha una storia segnata da conflitti civili
e interventi stranieri. La guerra civile libanese (1975-1990) ha devastato il
paese, seguito da un periodo di ricostruzione e di tensioni politiche e
settarie. La presenza di Hezbollah e l’influenza siriana hanno contribuito alla
complessità politica del Libano.
Oggi.Il Libano contemporaneo è afflitto da
una grave crisi economica, politica e sociale. Le proteste popolari, la
corruzione diffusa e l’esplosione del porto di Beirut nel 2020 hanno aggravato
la situazione. Il paese lotta per superare le divisioni settarie e per trovare
stabilità politica ed economica.
Siria
La Storia. La Siria,
indipendente dalla Francia nel 1946, ha una storia di instabilità politica e
colpi di stato. Il regime di Hafez al-Assad, iniziato nel 1970, ha stabilito
una dittatura che è stata portata avanti dal figlio Bashar al-Assad. La Siria
ha giocato un ruolo centrale nella politica del Medio Oriente, spesso in
conflitto con Israele e coinvolta nelle dinamiche regionali.
Oggi. La Siria è
devastata da una guerra civile iniziata nel 2011, con milioni di rifugiati e
sfollati interni. Il regime di Bashar al-Assad, con il sostegno di Russia e
Iran, ha riconquistato gran parte del territorio, ma il paese rimane diviso e
instabile. La ricostruzione e la riconciliazione sono sfide enormi, mentre la
situazione umanitaria è critica.
Giordania
La Storia. La Giordania,
creata dal mandato britannico nel 1921 e indipendente dal 1946, è stata
governata dalla dinastia hashemita. Il paese ha mantenuto una relativa
stabilità nonostante le turbolenze regionali, giocando un ruolo moderato nella
politica mediorientale e ospitando un gran numero di rifugiati palestinesi.
Oggi. La Giordania
continua ad affrontare sfide economiche e sociali, aggravate dall’afflusso di
rifugiati siriani e dalle pressioni regionali. Il re Abdullah II guida il paese
verso riforme economiche e politiche, cercando di mantenere la stabilità in un
contesto regionale difficile.
Turchia
La Storia. La Turchia
moderna, fondata da Mustafa Kemal Atatürk nel 1923, è stata costruita sui
principi della laicità e del nazionalismo. Dopo decenni di governo secolare e
militare, il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) di Recep Tayyip
Erdoğan ha trasformato il paese con un mix di islamismo e nazionalismo,
portando a una maggiore centralizzazione del potere.
Oggi. La Turchia è una
potenza regionale con ambizioni internazionali, ma affronta problemi interni
come la repressione dei diritti civili e le tensioni economiche. Le politiche
di Erdoğan, sia interne che estere, hanno suscitato controversie e criticità,
ma il paese continua a giocare un ruolo cruciale nella geopolitica del Medio
Oriente e oltre.
PARTE TERZA: DIALOGHI
MEDITERRANEI
“Italia e Tunisia: sfide e
criticità nel più ampio contesto internazionale” (di Mario Savina).
Il testo tratta delle complesse relazioni tra i due paesi nel contesto del
Mediterraneo, evidenziando i principali dossier di cooperazione e le sfide che
caratterizzano il rapporto bilaterale.
Relazioni Bilaterali e Contesto Mediterraneo. Le relazioni tra Italia e Tunisia sono
profondamente radicate nel contesto mediterraneo, caratterizzato da interessi
comuni in vari settori, tra cui migrazione, energia, economia e dialogo con
l’Unione Europea. Le turbolenze politiche ed economiche degli ultimi anni in
Tunisia hanno creato sfide significative per i governi italiani e i decisori
europei, ma Tunisi rimane un partner strategico sia per Roma che per Bruxelles.
Dossier Migratorio. Il tema migratorio è centrale nei colloqui tra
Italia e Tunisia, specialmente dopo l’aumento delle partenze dalle coste
tunisine negli ultimi due anni. Nel 2023, oltre 96.000 migranti sono arrivati
in Italia dalla Tunisia, un numero triplicato rispetto all’anno precedente. La
lotta ai migranti subsahariani in Tunisia, promossa dal presidente Kaïs Saïed,
mira a distogliere l’attenzione dalla crisi socioeconomica interna. Gli accordi
tra Roma e Tunisi sul controllo dei flussi migratori si basano su una logica di
sicurezza, con l’Italia e l’UE che finanziano progetti per arginare i flussi
migratori e facilitare i rimpatri.
Sfide Politico-Economiche e Relazioni Internazionali. La Tunisia affronta
una perenne instabilità politica ed economica, con dinamiche internazionali
complesse. Il paese sta cercando di diversificare le sue relazioni estere,
coinvolgendo Russia e Cina, e considera l’adesione ai BRICS. Le relazioni con
l’Unione Europea e gli Stati Uniti sono strategiche, specialmente in un
contesto di rivalità con la Russia.
Cooperazione Energetica e Commerciale.
L’Italia guarda alla Tunisia come a un partner fondamentale nel settore
energetico, soprattutto per il gasdotto Transmed che collega l’Algeria
all’Italia attraverso la Tunisia. La cooperazione commerciale è forte, con
l’Italia che rappresenta il principale partner commerciale di Tunisi. Le
imprese italiane sono ben radicate nel paese, contribuendo significativamente
all’occupazione e all’economia locale.
Sfide Regionali e Sicurezza. Le relazioni tra
Italia e Tunisia sono inserite in un contesto regionale complesso, con
influenze di potenze come la Russia e la Cina. La stabilità del Nord Africa è
cruciale per la sicurezza europea, e l’Italia è impegnata nel supportare la
Tunisia attraverso accordi bilaterali e dialoghi internazionali. La
collaborazione tra i due paesi è essenziale per affrontare le sfide comuni e
promuovere la stabilità regionale.
In sintesi, il capitolo
evidenzia la necessità di un impegno costante e di una strategia integrata per
affrontare le sfide.
La Proiezione Futura dei
Rapporti Energetici tra Algeria e Italia (di Laura Ponte).
Il capitolo esplora il
futuro dei rapporti energetici tra Algeria e Italia nel contesto della guerra
in Ucraina e delle conseguenti sanzioni imposte alla Russia. Con l’obiettivo di
ridurre la dipendenza energetica dalla Russia, l’Italia ha cercato di
diversificare le sue fonti di approvvigionamento energetico, puntando in
particolare sull’Algeria, che è diventata un partner strategico fondamentale.
Contesto Storico e Relazioni Energetiche.Storicamente, le
relazioni energetiche tra i due paesi sono solide, risalenti agli anni ’50 e
’60, quando Enrico Mattei sostenne il percorso di liberazione nazionale
dell’Algeria, culminato con l’indipendenza del 1962. Questo ha portato alla
firma del primo contratto di fornitura di gas nel 1973, stabilendo una lunga
collaborazione energetica.
Sforzi Recenti e Progetti Futuri. Recentemente, gli sforzi italiani si sono
intensificati per aumentare le importazioni di gas algerino e ridurre quelle
russe. L’Italia ha firmato numerosi contratti con l’Algeria per aumentare la
capacità di esportazione di gas, sia tramite gasdotti che GNL (gas naturale
liquefatto). Nel 2022, Sonatrach ha incrementato le esportazioni di gas verso
l’Italia, con l’obiettivo di raggiungere 9 miliardi di metri cubi all’anno
entro il 2024.
Sfide Politiche e Tecniche. Nonostante le prospettive positive, esistono criticità sia politiche che tecniche. Politicamente, l’Italia ha scelto di non comprare gas dalla Russia a causa della sua inaffidabilità come partner commerciale. Tuttavia, l’Algeria è anch’essa considerata un paese “non libero” dal Freedom House, con bassi standard democratici, limitata trasparenza elettorale, corruzione e repressione delle proteste.
Possibili Rischi Geopolitici. C’è il timore che l’instabilità politica in Algeria possa influenzare i rapporti energetici, come già successo con la Spagna riguardo alla disputa del Sahara Occidentale. Inoltre, l’Algeria mantiene buone relazioni con la Russia, cooperando attivamente nel settore militare ed energetico, il che potrebbe complicare ulteriormente le dinamiche geopolitiche.
Progetti Integrativi e Energie
Rinnovabili. Per mitigare i rischi e aumentare la sostenibilità,
sarebbe utile che la cooperazione energetica tra Italia e Algeria includa anche
le energie rinnovabili. L’Algeria ha il potenziale per diventare leader nella
produzione di energia solare ed eolica, grazie al deserto del Sahara. Progetti
come il South H2 Corridor, che collegherà l’Algeria alla Germania, potrebbero
essere cruciali per trasformare l’Italia in un hub energetico, riducendo al
contempo la dipendenza dai combustibili fossili.
Conclusioni. Il futuro dei
rapporti energetici tra Algeria e Italia appare promettente ma non privo di
sfide. La diversificazione delle fonti di approvvigionamento e l’inclusione
delle energie rinnovabili sono passi fondamentali per garantire la sicurezza
energetica e la sostenibilità a lungo termine.
“Nato e Ue al cospetto
della crisi libica: dall’apice al tramonto del «crisis management»
occidentale?” (di Stefano Marcuzzi).
Il capitolo analizza la
gestione e le conseguenze della crisi libica da parte di Nato e Unione Europea,
evidenziando i fallimenti e le lezioni apprese.
Contesto della crisi. Nel marzo 2011, una coalizione di paesi sotto l’ombrello dell’ONU e guidata militarmente dalla Nato lanciò una campagna aerea contro il regime di Gheddafi in Libia per fermare la repressione violenta contro i civili. Nonostante la caduta di Gheddafi e il collasso del suo regime, la Libia è rimasta intrappolata in una crisi pluridecennale, caratterizzata da conflitti interni ed esterni, che hanno visto la partecipazione di attori regionali e globali come Russia, Turchia, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Francia e Arabia Saudita.
Gaza Underground: la guerra sotterranea e urbana tra Israele-Hamas – il nuovo libro di C. Bertolotti
Storia, strategie, tattiche, guerra cognitiva e intelligenza artificiale
Il nuovo libro di C. Bertolotti è disponibile su Amazon
Nel cuore della terra, sotto il confine tra Israele e Gaza, si è sviluppata una guerra invisibile, tanto silenziosa quanto pericolosa. Questa è la storia della guerra sotterranea combattuta da Israele contro Hamas. La lotta contro l’uso strategico dei tunnel da parte del movimento islamista rappresenta un capitolo oscuro e complesso del conflitto israelo-palestinese, un fronte di battaglia che si è esteso ben al di là della vista e della percezione pubblica.
La dimensione sotterranea della nuova guerra
Mentre il mondo guarda le immagini di distruzione e ascolta i racconti di chi è colpito dalla violenza in superficie, pochi comprendono la portata e la complessità della guerra svolta nel ventre della terra: la dimensione sotterranea della nuova guerra. Ma i tunnel di Gaza non sono semplici passaggi sotterranei; sono arterie di un vasto organismo vivente, pulsante di armi, di strategie e di intenti terroristici. Sono la manifestazione fisica di un conflitto che ha abbracciato una nuova dimensione, quella sotterranea, dove il buio e il silenzio nascondono operazioni di infiltrazione, attacchi a sorpresa e tattiche di guerriglia.
Strategie e conseguenze della guerra invisibile
GAZA UNDERGROUND: la guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas, il nuovo libro di Claudio Bertolotti, esplora questa guerra nascosta, partendo dalle origini dell’utilizzo dei tunnel nella storia del conflitto israelo-palestinese, analizzando come Hamas li abbia trasformati in uno strumento chiave della propria strategia militare. Attraverso la ricerca d’archivio, documenti ufficiali, nonché testimonianze dirette, cercheremo di capire come Israele abbia risposto a questa minaccia, sviluppando tecnologie e tattiche per rilevare, distruggere o neutralizzare queste via di attacco nascoste.
La guerra sotterranea tra Israele e Hamas a Gaza è una lotta continua di ingegno, risorse e determinazione. È una dimostrazione di come il campo di battaglia si sia evoluto, richiedendo a entrambe le parti di adattarsi a nuove realtà. L’obbiettivo posto a premessa del nuovo libro di Claudio Bertolotti consiste nell’analizzare e comprendere le sfide, le strategie e le conseguenze di questa guerra invisibile, offrendo al lettore una comprensione più profonda di uno degli aspetti più inquietanti e meno conosciuti del conflitto israelo-palestinese, aprendo la prospettiva sui futuri scenari di guerra che, per ragioni demografiche, sociali, economiche e tecnologiche, vedranno le città e le loro dimensioni sotterranee assumere un ruolo sempre più determinante.
SCHEDA DEL LIBRO: ORDINA LA TUA COPIA CON COPERTINA RIGIDA (EURO 25,00)
DISPONIBILE CON COPERTINA IN BROSSURA (EURO 16,00)
Il petrolio ombra di Mosca: il segreto della buona economia russa.
di Andrea Molle
Abstract (Italian)
Questo articolo esamina l’origine della robusta condizione finanziaria della Russia alle soglie del terzo anno del conflitto in Ucraina, rilevando come il sostanziale afflusso di denaro dalle esportazioni di petrolio, in particolare all’India, abbia rafforzato le casse dello Stato russo. L’Autore, discute inoltre sul ruolo della Flotta Ombra del Cremlino, una forza marittima clandestina che elude le normative internazionali, facilitando il commercio di petrolio e oro insanguinato e contribuendo a mantenere il flusso di entrate verso la Russia. Infine, viene analizzata la dipendenza dell’India dal petrolio russo come strategia per mantenere stabili i prezzi globali del petrolio, nonostante le critiche internazionali.
Keywords:
Petrolio, flotta ombra, economia russa
L’economia
russa è robusta
La Russia, nel terzo anno del conflitto in Ucraina, si
trova in una posizione finanziaria robusta, con le casse dello Stato rifornite
da un notevole afflusso di denaro. Nel 2023, le entrate federali della Russia
hanno raggiunto un record di 320 miliardi di dollari e si prevede che
continueranno ad aumentare. Secondo alcuni analisti, circa un terzo di queste
entrate è stato destinato alla guerra in Ucraina l’anno precedente, mentre una
percentuale ancora maggiore finanzierà il conflitto nel 2024. I notevoli fondi
a disposizione del Cremlino posizionano Mosca in una posizione più favorevole
per sostenere una guerra prolungata rispetto a Kiev, che lotta per mantenere il
vitale flusso di denaro occidentale.
Oltre all’oro insanguinato proveniente dall’Africa,
questo incremento di entrate è stato alimentato dalle vendite eccezionali di
petrolio grezzo all’India. Transazioni che hanno generato introiti stimati
intorno ai 37 miliardi di dollari a cui si aggiungono circa 1 miliardo di
dollari provienienti dal petrolio raffinato in India e poi esportato negli
Stati Uniti. Tale flusso di entrate è il risultato diretto dell’aumento degli
acquisti di petrolio russo da parte di Delhi, che secondo un’analisi del Centre
for Research on Energy and Clean Air (CREA), riportata di recente dalla CNN,
ora superano di 13 volte i livelli prebellici.
L’analisi delle
rotte di trasporto del greggio
L’analisi delle rotte di trasporto del greggio suggerisce
inoltre un coinvolgimento della cosiddetta Flotta Ombra del Cremlino. Con
questo termine ci si riferisce a una forza marittima clandestina russa,
composta da navi che operano al di fuori delle norme marittime internazionali.
L’indagine sulla Flotta Ombra è iniziata nei primi anni 2010, quando le
principali agenzie di intelligence occidentali e diversi analisti marittimi
hanno notato comportamenti sospetti in navi russe o battenti bandiere di
paradisi fiscali. Queste navi sono spesso osservate ad operare in aree
strategicamente significative, come vicino a cavi di comunicazione sottomarini
e installazioni militari, spesso spegnendo i loro sistemi di identificazione
automatica per sfuggire al monitoraggio. Le implicazioni della Flotta Ombra
russa sono molteplici e tutte potenzialmente pericolose. In primo luogo, c’è
preoccupazione per il suo ruolo nel sostenere le operazioni militari russe e
nel violare le norme internazionali e le leggi marittime. La presenza di questa
flotta mina la sicurezza e la stabilità marittime globali, complicando gli
sforzi affinchè la Russia sia tenuta a rispondere delle sue azioni illegali in
mare. Una delle attività tipiche della Flotta Ombra nel settore petrolifero è
lo scambio di greggio tra due navi con l’obiettivo di mascherarne l’origine e
la destinazione finale, confondendo le autorità riguardo alla provenienza e
all’acquirente finale. Decine di tali trasferimenti avvengono ad esempio ogni settimana
nel Golfo Laconico in Grecia, un punto di passaggio strategico verso il Canale
di Suez e i mercati asiatici. Alla fine del 2022, con il supporto di diversi
paesi, gli Stati Uniti hanno imposto un limite di prezzo, impegnandosi a non
acquistare petrolio russo oltre i 60 dollari al barile.
La flotta ombra
Questi paesi hanno anche vietato alle proprie compagnie
di navigazione e di assicurazione, attori chiave nel trasporto marittimo
globale, di facilitare il commercio di petrolio russo oltre tale prezzo.
Tuttavia, questo limite di prezzo ha paradossalmente alimentato la creazione
della Flotta Ombra. Con catene di approvvigionamento più lunghe, è infatti più
difficile individuare i trasferimenti da nave a nave e determinare il costo
effettivo di un barile di petrolio russo e diventa facile aggirare le sanzioni.
La Flotta Ombra ha pertanto consentito alla Russia di creare una rete di
navigazione fantasma parallela a quella legale, in grado di eludere il
monitoriaggio e aggirare le sanzioni occidentali, con centinaia di petroliere
la cui proprietà non è chiara e che seguono rotte così complicate da risultare
impossibili da seguire. Secondo le analisi effettuate grazie all’intelligenza
artificiale della società di analisi marittima Windward, questa flotta è
cresciuta fino a includere nel 2023 circa 1.800 navi.
In questo quadro, gli acquisti di petrolio da parte
dell’India hanno avuto l’effetto di alleviare la pressione delle sanzioni sulla
Russia. L’India difende le sue politiche di approvvigionamento energetico da
Mosca come un modo per mantenere i prezzi globali del petrolio più stabili,
evitando di competere con le nazioni occidentali per il petrolio del Medio
Oriente. Il governo di Delhi ha dichiarato che qualora l’India dovesse smettere
di comprare greggio da Mosca e più petrolio dal Medio Oriente, il prezzo del
petrolio salirebbe a 150 dollari avviando una spirale di aumento dei costi che
il mondo non può permettersi. Ma una parte di questo petrolio grezzo viene
raffinato nelle raffinerie lungo la costa occidentale dell’India e
successivamente esportato negli Stati Uniti e in altri paesi che hanno imposto
sanzioni sul petrolio russo. Questi prodotti raffinati, non essendo soggetti a
sanzioni, costituiscono ciò che gli analisti chiamano la “scappatoia delle
raffinerie”. Sempre secondo l’analisi del CREA, gli Stati Uniti sono stati
il principale acquirente di prodotti raffinati dall’India derivati dal petrolio
grezzo russo nel 2023, per un valore di 1,3 miliardi di dollari. E il valore di
queste esportazioni di prodotti petroliferi aumenta notevolmente quando si
considerano anche gli alleati degli Stati Uniti che applicano sanzioni contro
la Russia. Il CREA ha stimato che questi paesi abbiano importato prodotti
petroliferi dal petrolio grezzo russo per un valore di 9,1 miliardi di dollari
nel 2023, registrando un aumento del 44% rispetto all’anno precedente.
Mosca ha beneficiato di questo processo sia attraverso la
tassazione diretta delle esportazioni che attraverso i profitti ottenuti da
Rosneft, la società petrolifera di stato russa, nell’ambito della raffinazione
e dalla rivendita ai paesi occidentali.
Entrate e spese
russe: un record
Secondo un’analisi condotta dal think tank RAND sui conti
del Ministero delle Finanze russo, nel 2023 le entrate e le spese federali
della Russia hanno raggiunto entrambe livelli record. Sebbene per adesso Mosca
non sia ancora arrivata al pareggio di bilancio, a causa del pesante costo
della guerra e delle perdite di entrate dovute in generale alle sanzioni il
deficit di bilancio federale è in tendenza decrescente. Le imposte interne
sulla produzione e sull’importazione sono entrambe significative ed efficienti,
il che implica che la popolazione russa è pesantemente tassata per finanziare
il conflitto. Tuttavia, gli analisti avvertono che in questo quadro economico
anche la più piccola violazione delle sanzioni contro la Russia può generare
ingenti profitti, date le enormi somme coinvolte nel commercio petrolifero e
dell’oro, e questo potrebbe portare il regime a diminuire la pressione fiscale
generando un maggior supporto per le operazioni militari correnti e future. Per
questo è di primaria importanza affrontare efficacemente questa minaccia con
una maggiore vigilanza, cooperazione e impegno diplomatico internazionale che
includa nuove misure contro le navi della Flotta Ombra e le aziende sospettate
di agevolare il trasporto illegale del petrolio e dell’oro russo.
Azione israeliana in Libano e rischio di escalation regionale: il punto del Direttore.
Dall’intervista di Stefano Leszczynski a Claudio Bertolotti, per Radio Vaticana, trasmissione Il Mondo alla Radio del 3 gennaio 2024 (VAI AL PODCAST)
L’azione israeliana in Libano e il rischio di escalation.
Gli attentati a Beirut e in Iran infiammano la crisi medio orientale. La guerra di Israele tra battaglie nella Striscia di Gaza e omicidi mirati.
Federica Saini Fasanotti – storica militare e studiosa dell’ISPI
Eric Salerno – giornalista esperto di questioni medio orientali e relazioni internazionali
Claudio Bertolotti – direttore di Start Insight e ricercatore ISPI
Il 2 gennaio 2024, un attacco nel sud di Beirut, Libano, in cui è avvenuta l’uccisione del numero due di Hamas, Saleh al-Arouri, è stato attribuito a Israele e ha preso di mira una roccaforte del gruppo sciita e filo-iraniano Hezbollah. L’attacco ha causato anche vittime collaterali, suscitando la condanna di Hezbollah e la promessa che l'”assassinio” di al Arouri a Beirut non resterà impunito. Le forze armate israeliane hanno diffuso video dell’attacco, sottolineando il loro coinvolgimento nell’incidente. L’evento ha sollevato preoccupazioni riguardo a una possibile escalation tra Libano e Israele.
Dottor Bertolotti, c’è il rischio che le operazioni mirate israeliane come quella in Libano inneschino davvero un conflitto regionale?
Dal punto di vista razionale – secondo Bertolotti – nessuno degli attori coinvolti vuole un allargamento del conflitto a livello regionale. Non lo vuole Israele e non lo vuole l’Iran che, invece, punta a una serie di micro-conflitti e coinvolgimento dei piccoli attori regionali, dagli Houthi nello Yemen ad Hezbollah in Libano per distrarre lo sforzo militare di Israele, indebolendolo. Ma al di la della volontà razionale ci sono le scelte emotive, che spesso condizionano le dinamiche delle relazioni internazionali che possono portare ad effetti incontrollabili. E il rischio di un’escalation orizzontale a livello regionale, in questo senso, è un rischio possibile.
Dott. Bertolotti, la prudenza del governo libanese, che ha chiesto a Hezbollah di non reagire a Israele in maniera autonoma, che cosa suggerisce?
Il governo di Beirut è il primo a voler scongiurare un allargamento del conflitto, perchè ciò significherebbe il collasso dello stato libanese e l’avvio di una nuova guerra civile che sarebbe micidiale per la sopravvivenza dello stesso stato libanese. Questa la ragione per cui il governo libanese svolge un ruolo di intermediario con Hezbollah che noN è, come non è mai stato, sotto controllo governativo, ponendosi come milizia, esercito autonomo legato ai gruppi di potere sciiti a loro volta legati con l’Iran, che di Hezbollah ne sta facendo un uso opportunistico in funzione anti-israeliana, senza però farsi direttamente coinvolgere.
Direttore, la posizione di Ankara (membro della NATO) in questa crisi pone alcuni interrogativi sul proprio ruolo e affidabilità?
La Turchia persegue un proprio e ben definito progetto di proiezione di influenza in tutto l’arco mediterraneo allargato, dal Corno d’Africa ai paesi del Maghreb. La vicinanza ad Hamas, che si lega alla pericolosa organizzazione dei Fratelli Musulmani, è coerente con questa visione di potenza che prevede il consolidamento dei rapporti con i governi e le organizzazioni locali in un’ottica di ricostituzione di un perimetro geopolitico artificiosamente coerente con la storia e con l’ego sproporzionato del presidente Erdogan. Ma non illudiamoci che una qualsiasi alternativa a Erdogan possa avere una visione differente, questa è l’ambizione della Turchia contemporanea.