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La nuova strategia di intelligence USA: implicazioni per il Sistema di Informazioni e Sicurezza della Repubblica.

di Niccolò Petrelli, START InSight, Assistant Professor, Strategic Studies

Nell’Agosto 2023 l’US Office of the Director of National Intelligence (ODNI) ha pubblicato una National Intelligence Strategy (NIS) incentrata sulla nuova era di competizione con la Cina che nel corso degli ultimi mesi ha iniziato ad essere attuata.[1] Uno degli elementi centrali del documento, che essenzialmente delinea la visione per il futuro dell’ODNI più che una vera e propria strategia, è la decisione di rafforzare ed espandere la rete internazionale di “collegamenti” con altri servizi informativi (nonché con vari tipi di attori privati).[2] Quale l’eventuale impatto sul Sistema di Informazioni e Sicurezza della Repubblica (SISR)? Esiste la possibilità che la strategia di collegamento USA si traduca in opportunità per il sistema d’intelligence italiano?

Per rispondere a queste domande è possibile partire da un precedente analogo nella storia dell’intelligence USA. Tra la seconda metà del 1945 e la prima metà del 1947 infatti, l’emergere della competizione con l’Unione Sovietica spinse l’apparato informativo statunitense ad investire in maniera sistematica risorse, capacità, expertise, e relazioni personali nella creazione di una massiccia e stratificata infrastruttura di collegamenti con i servizi segreti di numerosi paesi dell’Europa occidentale.[3] In un primo momento a guidare tale strategia furono principalmente requisiti di “accesso” e ampliamento della raccolta informativa sull’URSS e i suoi “alleati” in Europa orientale: i paesi dell’Europa occidentale rappresentavano infatti quella che potremmo definire la più valida “piattaforma” per accedere a tali obiettivi informativi. Nel 1946 ad esempio fu raggiunto un tacito accordo in base al quale la MUST e la FRA, le due agenzie di intelligence militare svedesi, iniziarono a passare all’intelligence USA tutti le informazioni di HUMINT e SIGINT sulle attività militari sovietiche nella regione baltica in cambio di finanziamenti e equipaggiamento per la raccolta informativa tecnica. Un altro esempio, più noto, è quello dell’accordo UKUSA, sempre del 1946, in base a cui la State-Army-Navy Communications Intelligence Board degli Stati Uniti e la London SIGINT Board si impegnavano a condividere ogni prodotto informativo di raccolta tecnica, mettendo di fatto in piedi una ripartizione del lavoro che l’ex direttore del Government Communications Headquarters (GCHQ) David Omand ha definito basata sui “soldi statunitensi e cervelli britannici”.[4]

La situazione iniziò tuttavia a cambiare approssimativamente dal 1949. L’intelligence americana modificò progressivamente la propria azione di collegamento, strutturandola in base alla percezione della natura della competizione prevalente a Washington, ovvero quella di un confronto in primo luogo politico-ideologico con l’URSS. Ciò si riteneva richiedesse una fusione dei paradigmi strategici di “guerra” e “pace” in uno sforzo unitario e coordinato di political warfare,[5] come la definì George Kennan. Tanto la CIA quanto le varie componenti dell’intelligence militare intensificarono dunque le proprie attività di collegamento in Europa occidentale promuovendo, in modi e forme diverse a seconda delle circostanze, lo sviluppo di tutte quelle capacità ritenute essenziali per gestire il nuovo tipo di confronto: propaganda, guerra psicologica, sostegno clandestino a forze politiche locali e, qualora necessario, contro-guerriglia.[6] In Germania ad esempio, oltre alla creazione di diverse reti stay-behind (S/B), documentazione recentemente declassificata ha gettato luce sul sostegno fornito dalla CIA e dall’intelligence militare USA per attività clandestine condotte dall’Organizzazione Gehlen (la prima struttura di intelligence di quella che sarebbe diventata la Repubblica Federale Tedesca), al fine di minare la stabilità della zona di occupazione sovietica della Germania.[7] Dove si rivelò più difficile cooperare ad ampio spettro con le controparti locali la comunità di intelligence statunitense combinò attività di collegamento ad operazioni clandestine. Un approccio di questo tipo fu adottato ad esempio in Italia, dove dalla fine della Seconda Guerra Mondiale l’intelligence americana operò simultaneamente a due diversi livelli: da un lato collaborando con i servizi segreti italiani, in particolare nel programma S/B, dall’altro sviluppando autonomamente reti clandestine per condurre attività di guerra psicologica, propaganda e destabilizzazione.

La strategia di collegamento USA generò dunque effetti trasformativi della struttura, capacità, e funzioni degli apparati informativi europei occidentali, rischi di vario tipo, basti pensare proprio al caso dell’Italia, ma anche opportunità, in particolare di beneficiare di finanziamenti, anche cospicui, nonché di forniture di equipaggiamento tecnologicamente avanzato. Non tutti i servizi europei occidentali tuttavia furono parimenti in grado di sfruttare tali opportunità. Ciò dipese da variabili di vario tipo legate al contesto, la natura delle relazioni diplomatiche con gli USA, il grado di fiducia esistente tra i decisori politici ed i vertici degli apparati informativi, la condizione politica prodotta dalla Seconda Guerra Mondiale e, non da ultimo, la posizione geografica dei vari paesi rispetto agli obiettivi informativi di prioritario interesse per la comunità d’intelligence USA. Di cruciale importanza furono tuttavia anche taluni fattori squisitamente materiali, ovvero il grado di “interoperabilità” con il sistema d’intelligence statunitense, l’adattabilità e funzionalità delle capacità, esistenti e potenziali, dei servizi dell’Europa occidentale rispetto alle missioni affidate al sistema d’intelligence USA nel quadro della political warfare nei confronti del blocco comunista, e da ultimo la complementarietà di capacità e competenze rispetto a quelle espresse dalle varie componenti del sistema USA.

Il GCHQ britannico fu ad esempio in grado, capitalizzando sulle proprie competenze specifiche in termini di analisi politica del sistema internazionale e crittoanalisi, nonché sulla “interoperabilità” tecnica con il sistema USA, di massimizzare i vantaggi derivanti dalla strategia di collegamento attuata dagli USA arrivando, come visto sopra, a siglare un accordo che garantiva accesso ad ogni prodotto (in teoria) di raccolta tecnica statunitense. L’intelligence svedese, da parte sua, riuscì, in particolare in virtù delle proprie autonome capacità di raccolta tecnica in un’area di cruciale importanza strategica per gli USA, ad assicurarsi finanziamenti e equipaggiamento per rafforzare un settore di raccolta prioritario per la sicurezza nazionale del paese. Il caso italiano dimostra invece come, nonostante l’abilità dimostrata in diverse circostanze dai vertici dell’apparato informativo nello sfruttare a proprio vantaggio la propensione USA ad intensificare i collegamenti, come ad esempio nel caso del programma congiunto S/B Italia-USA “Gladio” avviato nel 1951, limiti capacitivi impedirono di cogliere ulteriori potenziali opportunità. Infatti, le scarse competenze analitiche dell’intelligence italiana, in particolare sotto il profilo economico, sociologico e politologico, e la conseguente incapacità di sviluppare analisi ad ampio spettro della base di sostegno e infrastruttura sociale del Partito Comunista Italiano (PCI) contribuì in maniera non trascurabile a far sì che l’intelligence USA procedesse in maniera autonoma sia alla raccolta informativa che ad una serie di attività operative di contrasto nei confronti del PCI.[8] Allo stesso modo la mancanza di una solida capacità di raccolta SIGINT da parte dell’apparato informativo italiano precluse l’opportunità, intorno alla metà degli anni ’50, nel momento in cui Washington era particolarmente interessata a monitorare l’intensificazione dell’attività navale sovietica nel Mediterraneo, di estendere i collegamenti con il sistema d’intelligence USA a condizioni vantaggiose per l’Italia, e rappresentò molto probabilmente una delle ragioni alla base della creazione da parte statunitense nel 1960 di una struttura SIGINT gestita dall’Air Force Security Group (USAFSS) a San Vito dei Normanni.[9]

Basandoci su quanto sopra, si può ipotizzare che l’attuazione della strategia di collegamento delineata nella NIS 2023 presenterà per l’apparato informativo italiano, con buona probabilità, opportunità analoghe a quelle che emersero al principio della Guerra Fredda. Due sono dunque gli elementi su cui concentrare l’attenzione per comprendere come esse potrebbero essere sfruttate nella maniera più efficace: il primo è la percezione USA della natura della competizione con la Cina, il secondo sono le capacità (a livello aggregato) che i vertici dell’intelligence USA stanno sviluppando ed intendono promuovere per i prossimi anni.

Per quanto riguarda il primo elemento, dopo un periodo piuttosto lungo di dibattito, la natura della competizione con la Cina ha iniziato ad essere definita con maggiore precisione. Benché l’assunto di partenza rimanga quello di una competizione globale in ogni ambito, economico, politico, sociale, dell’informazione, e militare, è recentemente emerso un consenso sempre più ampio circa il fatto che la componente centrale di tale competizione sia di natura tecnologico-economica.[10] In altre parole, si ritiene che essa sia incentrata sulla creazione di un vantaggio competitivo duraturo nelle principali tecnologie di frontiera, intelligenza artificiale generale, microprocessori e reti di comunicazione di prossima generazione, produzione avanzata, stoccaggio e produzione di energie, biotecnologie, al fine di poter plasmare l’economia globale della prossima generazione e definire gli standard di accesso e impiego a tali tecnologie.[11]

In merito al secondo elemento, per comprendere il tipo di capacità che l’ODNI intende promuovere nella comunità d’intelligence USA è possibile fare riferimento alla nozione di Revolution in Intelligence Affairs (RIA), da alcuni anni ormai popolare nel dibattito professionale e politico USA sull’intelligence. Benché nella NIS non vi siano espliciti riferimenti al concetto, appare evidente come la RIA rappresenti il costrutto-guida de facto impiegato per coordinare una serie di trasformazioni, nel procurement e integrazione di nuove tecnologie, nella struttura organizzativa, e nelle procedure operative del sistema d’intelligence USA, al fine di porlo nelle condizioni migliori per affrontare le sfide dei prossimi decenni, in primis quelle legate alla competizione con la Cina.

La trasformazione immaginata dall’ODNI prevede di procedere in primo luogo all’acquisizione e integrazione su vasta scala di intelligenza artificiale, sensori all’avanguardia e tecnologie di automazione, evitando approcci incrementali o settoriali. Simultaneamente, alla luce della velocità, della scala, e della complessità a cui opereranno queste tecnologie, verranno promossi rapidi cambiamenti organizzativi e operativi volti ad agevolare forme di integrazione tra raccolta e analisi, promuovere ridondanza tra le varie fasi del ciclo di intelligence, nonché a creare meccanismi più rapidi per la diffusione in tempo reale dei prodotti informativi. In altre parole, si intende promuovere un modus operandi “a rete” per il sistema di intelligence basato sulla fusione completa dei flussi di dati prodotti da ogni tipo di sensori e piattaforme, la sincronia e integrazione di tutte le attività operative, e la trasmissione rapida e continua di prodotti a operatori umani, macchine e decisori in tutti i dominii.[12]  

Quali dunque le capacità e competenze su cui il SISR dovrebbe puntare per essere in grado di cogliere le opportunità generate dalla strategia di collegamento dell’intelligence USA? Essenziale è che esse rispondano alla percezione della competizione come di un confronto essenzialmente tecno-economico, e che siano complementari alle capacità espresse dal sistema d’intelligence USA.

In primo luogo dunque il SISR dovrebbe rafforzare le proprie capacità di raccolta e analisi in ambito economico e tecnologico. La questione non è nuova, il dibattito sul rafforzamento dell’intelligence economica risale agli anni 90, con il lavoro delle commissioni Ortona (1992) e Jucci (1997).[13] Approssimativamente nello stesso periodo inoltre in seno al Comitato Esecutivo per i Servizi di Informazione e Sicurezza (CESIS) fu attivato un “gruppo permanente per l’intelligence economica”. Di recente l’ex direttore del SISDE Mori ha rilanciato l’idea di un organismo collegiale dove siano rappresentati il Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza (DIS), le due agenzie (Aisi e Aise), i ministeri interessati e le associazioni degli imprenditori. Nel caso specifico tuttavia la questione chiave sarebbe, in coerenza con quello che è l’approccio USA all’intelligence economico-tecnologica, adottare una postura proattiva, che includa attività offensive su base continuativa nei confronti non solo della Cina e dei suoi principali partner economici e tecnologici, ma anche di imprese e enti privati riconducibili a quello che potremmo chiamare “l’ecosistema tecno-economico” cinese.

In secondo luogo, il SISR dovrebbe investire sullo sviluppo ulteriore delle proprie capacità operative in aree in cui gode di un vantaggio competitivo, ed in cui esse possano impiegarsi in maniera complementare a quelle del sistema d’intelligence statunitense. La scelta più logica appare l’area del Mediterraneo, dove da diversi decenni ormai il sistema d’intelligence italiano conduce attività operativa di ampio respiro. Proprio nel Mediterraneo infatti negli ultimi anni la Cina ha, con discrezione, ampliato la propria presenza attraverso grandi aziende private ​​(Shanghai International Port Group, China Merchants) e pubbliche (COSCO, China Communications and Construction Company) stipulando accordi commerciali di vario tipo, accordi per partecipazioni nei porti di paesi situati lungo rotte marittime vitali per la Belt and Road Initiative, e acquisendo aziende di medie dimensioni, spesso allo scopo di avere accesso a tecnologie Europee.[14]

Il necessario presupposto ovviamente, come evidenziano gli esempi di UK e Svezia durante la Guerra Fredda, è che il sistema d’intelligence italiano goda di un buon livello di “interoperabilità” con quello USA. Ciò, a sua volta, richiede che i vertici dell’apparato informativo proseguano, e auspicabilmente diano ulteriore impulso, a quel processo di acquisizione e integrazione di tecnologie dell’informazione di ultima generazione, sensori avanzati, Intelligenza Artificiale e sistemi di apprendimento automatico, che sembra essere iniziato da qualche anno.


[1] https://oversight.house.gov/wp-content/uploads/2024/05/05062024-ODNI-Letter.pdf.

[2] https://www.voanews.com/a/new-us-intelligence-strategy-calls-for-more-partners-more-sharing-/7220725.html

[3] Michael Warner AID

[4] https://media.defense.gov/2021/Jul/15/2002763709/-1/-1/0/AGREEMENT_OUTLINE_5MAR46.PDF; https://www.securityweek.com/britains-gchq-listening-post-tune-nsa.

[5] George F. Kennan, The Inauguration of Organized Political Warfare [Redacted Version], 30 aprile 1948, Woodrow Wilson Center, History and Public Policy Program Digital Archive, https://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/114320.pdf?v=94.

[6] US Department of State, Foreign Relations of the United States, 1951, Vol. I, National Security Affairs, Foreign Economic Policy, Washington DC, Government Printing Office, 1979 (FRUS 1951), Doc. 18 Attachment to Memorandum for the National Security Council by the Executive Secretary, 8 maggio 1951.

[7] https://nsarchive.gwu.edu/briefing-book/openness-russia-and-eastern-europe-intelligence/2022-05-11/secret-war-germany-cias.

[8] Niccolò Petrelli, “Alcide De Gasperi e le Origini del Servizio Informazioni Forze Armate (SIFAR)”, in Mario Caligiuri (a cura di) De Gasperi e L’Intelligence (in corso di pubblicazione).

[9] https://www.cia.gov/readingroom/docs/DOC_0000278476.pdf

[10] Intelligence Innovation. Repositioning for Future Technology Competition, Second Intelligence Interim Panel Report (IPR) of the Special Competitive Studies Project (SCSP), Aprile 2024.

[11] Brandon Kirk Williams, The Innovation Race: US-China Science and Technology Competition and the Quantum Revolution (Washington DC: Woodrow Wilson Center, 2023).

[12] Creating Cross-Domain Kill Webs in Real Time, DARPA (Sept. 18, 2020), https://www.darpa.mil/news-events/2020-09-18a e AI Fusion: Enabling Distributed Artificial Intelligence to Enhance Multi-Domain Operations & Real-Time Situational Awareness, Carnegie Mellon University (2020), http://www.cs.cmu.edu/~ai-fusion/overview.

[13] Gabriele Carrer, Perché all’Italia serve intelligence economica. Intervista al generale Mori, Formiche 9 Giugno 2024 https://formiche.net/2024/06/intervista-intelligence-economica-mario-mori/#content..

[14] Claudia De Martino, The Growing Chinese Presence in the Mediterranean, Med-Or Geopolitics, 22 April 2024, https://www.med-or.org/en/news/la-crescente-penetrazione-cinese-nel-mediterraneo.


Atlante geopolitico del Mediterraneo 2024: la recensione.

di Claudio Bertolotti.

Abstract (Italian)

L’Atlante geopolitico del Mediterraneo 2024, giunto alla sua decima edizione, sottolinea l’importanza cruciale del Mediterraneo per Europa, Africa e Asia, evidenziando il ruolo chiave dell’Italia come ponte strategico nella regione. Esamina lo sviluppo della politica estera italiana dal dopoguerra, mostrando come la stabilità del Mediterraneo sia fondamentale per gli interessi del paese. Celebrando figure storiche italiane come Fanfani, Gronchi, La Pira e Mattei, il testo sottolinea l’importanza dell’Italia nella gestione delle risorse energetiche, sicurezza marittima e flussi migratori, promuovendo una collaborazione equa e sostenibile tra le nazioni mediterranee. L’Atlante affronta anche le attuali instabilità regionali, come le tensioni in Libia, la svolta autoritaria in Tunisia e il conflitto israelo-palestinese, proponendo la soluzione a due Stati come via per una pace duratura. La stabilizzazione del Mediterraneo è vista come essenziale per la crescita delle nazioni rivierasche. L’edizione esplora le dinamiche politiche e socio-economiche attuali e future del Mediterraneo, offrendo uno strumento per comprendere e affrontare le sfide della regione, enfatizzando il ruolo cruciale dell’Italia nella politica estera e nella gestione delle sfide regionali.

Atlante geopolitico del Mediterraneo 2024, a cura di Francesco Anghelone e Andrea Ungari; prefazione Di Paolo De Nardis; introduzione di Gianluigi Rossi, ed. Istituto di Studi Politici “S. Pio V”, Roma, pp. 570.

Keywords: Mediterraneo, Piano Mattei.

L’Atlante geopolitico del Mediterraneo 2024, giunto alla sua decime edizione, discute il ruolo cruciale del Mediterraneo nelle dinamiche geopolitiche globali, evidenziando la sua importanza storica, culturale ed economica per tre continenti: Europa, Africa ed Asia. In particolare sottolinea come l’Italia, grazie alla sua posizione strategica, giochi un ruolo chiave nella regione, agendo come ponte tra Nord e Sud, Est e Ovest. La decima edizione dell’Atlante Geopolitico del Mediterraneo esamina, in particolare, lo sviluppo della politica estera italiana dal dopoguerra, dimostrando come gli interessi dell’Italia siano strettamente legati alla stabilità della regione. Un’evoluzione storica che evoca il ruolo giocato dalla politica estera italiana nelle relazioni internazionali, richiamando i nomi di coloro che ne hanno definito le direttrici, oggi in parte non più così ben definite, da Amintore Fanfani a Giovanni Gronchi a Giorgio La Pira ed Enrico Mattei, il cui nome è oggi il punto di riferimento ideale di un importante e ambizioso progetto di cooperazione e collaborazione regionale particolarmente caro all’Italia.

Come storico non ho potuto che apprezzare lo sforzo degli autori – e dunque dei curatori – nel ricostruire il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo negli ultimi settant’anni, evidenziando l’importanza del paese in settori come la gestione delle risorse energetiche, la sicurezza marittima e i flussi migratori. Il testo sottolinea la necessità di superare le vecchie dinamiche coloniali per promuovere una collaborazione equa e sostenibile tra le nazioni mediterranee.

La regione, viene rilevato nel testo, è attualmente segnata da instabilità, come le tensioni in Libia, la svolta autoritaria in Tunisia e il conflitto israelo-palestinese. La soluzione a due Stati è vista come l’unica strada per la pace duratura in Medio Oriente. Stabilizzare il Mediterraneo è essenziale per la crescita delle nazioni rivierasche.

Questa edizione dell’Atlante mira a esplorare le attuali dinamiche politiche e socio-economiche del Mediterraneo e le prospettive future, offrendo uno strumento essenziale per comprendere e affrontare le sfide della regione. Il testo evidenzia l’importanza dell’Italia nel Mediterraneo, sottolineando il suo ruolo cruciale nella politica estera e nella gestione delle sfide regionali.

PARTE PRIMA: APPROFONDIMENTI

“La dimensione mediterranea della politica estera italiana fra Atlantico ed Europa (1949-1969)” (di Bruna Bagnato).

Nel suo saggio l’Autrice esamina le tre principali direttrici della politica estera italiana nel secondo dopoguerra: europea, atlantica e mediterranea. Queste direttrici non sono statiche ma si sono evolute in risposta ai cambiamenti geopolitici.

L’Italia, pur geograficamente europea e mediterranea, ha dovuto integrare la sua partecipazione all’alleanza atlantica (NATO) dal 1949, il che ha influenzato la sua politica estera, spingendola ad adattarsi ai contesti della Guerra Fredda e agli interessi occidentali. La divisione dell’Europa in blocchi orientale e occidentale e le tensioni Est-Ovest hanno complicato la politica mediterranea italiana, che ha dovuto affrontare le eredità coloniali e le sfide della decolonizzazione.

La politica italiana, influenzata dalle diverse stagioni politiche interne, ha oscillato tra strategie mediterranee e europee. Negli anni ’50, con l’avvento del “neo-atlantismo”, l’Italia ha cercato di coniugare l’impegno atlantico con una nuova politica mediterranea, adottando posizioni anticoloniali per allinearsi con gli Stati Uniti e differenziarsi dall’imperialismo anglo-francese.

Il testo, in particolare, sottolinea come il “neo-atlantismo” abbia cercato di dare all’Italia un ruolo più dinamico nel Mediterraneo, basato su una cooperazione con gli Stati Uniti e una maggiore attenzione alle aspirazioni dei paesi arabi. Tuttavia, questo approccio ha dovuto confrontarsi con le complessità della politica europea, soprattutto con la posizione francese riguardo ai territori d’oltremare e l’associazione dei paesi africani alla Comunità Economica Europea (CEE).

Con la crisi di Suez del 1956, l’Italia ha visto un’opportunità per consolidare la propria politica mediterranea in sintonia con l’orientamento anticoloniale americano. Italia che, negli anni ’60, ha dovuto affrontare le sfide del boom economico, della decolonizzazione e del cambiamento nelle dinamiche della Guerra Fredda. La politica estera italiana nel Mediterraneo ha dovuto adattarsi a un nuovo contesto internazionale, segnato dalla distensione tra Stati Uniti e Unione Sovietica e dall’evoluzione delle relazioni euro-arabe.

La politica mediterranea italiana si è quindi spostata verso un approccio multilaterale, integrando le istanze comunitarie europee e ponendo le basi per una collaborazione più stretta con i partner europei per la stabilizzazione politica ed economica della regione. Questo cambiamento ha rappresentato un allontanamento dalla precedente enfasi atlantica, con una maggiore enfasi sulla cooperazione europea nel Mediterraneo.

La politica estera italiana e il “Mediterraneo allargato” dalla crisi del centro-sinistra a oggi (di Antonio Varsori).

Premessa storica e contesto iniziale. Dalla fine della Seconda guerra mondiale alla metà degli anni Cinquanta, l’Italia, guidata dalla Democrazia Cristiana (DC), ha cercato di superare le difficoltà derivanti dalla sconfitta e dal trattato di pace, ricostruendo il proprio ruolo all’interno del sistema occidentale e del sottosistema europeo dominato dagli Stati Uniti. Questa fase è stata caratterizzata da una scelta “atlantica” ed “europea” che ha incluso l’adesione al Piano Marshall e al Patto Atlantico, oltre alla partecipazione al Consiglio d’Europa e al Piano Schuman.

La politica estera degli anni ’90. Con la crisi di “Tangentopoli” e la fine della Guerra fredda, l’Italia ha subito un ripiegamento sui problemi interni e un ridimensionamento del proprio ruolo nel Mediterraneo allargato. Le priorità si sono spostate verso la partecipazione all’Unione Europea e all’adozione dell’euro. Tuttavia, un tentativo significativo di mantenere un ruolo attivo nella regione è stato l’invio di un contingente militare in Somalia nel 1992 per partecipare a una missione di peacekeeping delle Nazioni Unite; una partecipazione importante sul piano delle relazioni internazionali che, per contro, ha avuto esiti complessi e drammatici.

L’era Berlusconi. Durante i governi Berlusconi, l’Italia ha affrontato diverse sfide nel Mediterraneo allargato. Un esempio è stato il controverso impegno militare in Iraq, che ha sollevato forti opposizioni interne e divergenze con le politiche di altri paesi europei come Francia e Germania. Berlusconi ha anche rafforzato i rapporti con la Libia di Gheddafi, culminati in un accordo che prevedeva riparazioni per il passato coloniale italiano e un maggiore controllo sui flussi migratori illegali.

La politica migratoria e le crisi recenti. L’immigrazione è diventata una questione centrale nella politica mediterranea italiana. Dagli anni Novanta, l’Italia ha visto un crescente flusso di immigrati provenienti dai Balcani, dal Maghreb e dall’Africa subsahariana. Questo ha portato a tensioni e accordi, come quello con la Libia per controllare l’immigrazione clandestina. La crisi libica del 2011 e le Primavere arabe hanno ulteriormente complicato la situazione, provocando instabilità e nuovi flussi migratorie.

Sfide contemporanee. La recente escalation della questione palestinese e la ricerca di nuovi partner energetici dopo l’interruzione dei rapporti con la Russia a causa della guerra in Ucraina, insieme all’aumento dei flussi migratori da Tunisia e Libia, rappresentano le attuali sfide per l’Italia. In questo contesto, il “Piano Mattei” e un nuovo attivismo mediterraneo sono stati proposti come soluzioni, ma i loro esiti rimangono incerti.

Conclusioni. Dal dopoguerra a oggi, la politica estera italiana nel Mediterraneo allargato ha attraversato diverse fasi, influenzate da cambiamenti interni e globali. Dalla costruzione iniziale di un ruolo nell’ambito del sistema occidentale, passando per le crisi politiche ed economiche degli anni ’90, fino alle sfide contemporanee legate alla migrazione e alla sicurezza energetica, l’Italia ha costantemente cercato di mantenere una presenza significativa nella regione, adattandosi ai mutamenti del contesto internazionale.

“La politica estera italiana e il Medio Oriente negli anni della Repubblica” (di Luca Riccardi).

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’Italia attraversò un periodo di ricostruzione economica e di riorganizzazione della propria politica estera. Questo periodo segnò il passaggio dall’ambizione di essere una grande potenza a una media potenza integrata nel sistema internazionale dominato dagli Stati Uniti.

Origini della politica mediorientale. Subito dopo la guerra, l’Italia si concentrò sul mantenimento della stabilità politica nel Mediterraneo orientale, sostenendo soluzioni accettabili sia per gli arabi che per gli ebrei. L’obiettivo principale era la stabilità, vista come necessaria per perseguire gli interessi economici italiani e proteggere le comunità italiane presenti nella regione.

Neo-atlantismo e rafforzamento dei legami con gli Stati Uniti

Negli anni Cinquanta, l’Italia sviluppò una politica chiamata “neo-atlantismo”, che mirava a rafforzare la presenza politica ed economica nel Mediterraneo e nel Medio Oriente. Questa politica cercava di conciliare gli interessi italiani con quelli americani, fungendo da collegamento tra gli Stati Uniti e il mondo arabo. Protagonisti di questa politica furono Amintore Fanfani, Giovanni Gronchi, Giorgio La Pira ed Enrico Mattei.

Gli anni Sessanta e Settanta. Durante gli anni Sessanta e Settanta, l’Italia, sotto la guida di Aldo Moro, cercò di stabilizzare la regione attraverso una politica di contatti e un crescente coordinamento con i paesi della Comunità Europea. Tuttavia, la crisi petrolifera del 1973 e le sue conseguenze economiche influenzarono negativamente la politica italiana, rendendo il paese dipendente dalle forniture di petrolio dai paesi arabi.

Gli anni Ottanta. Negli anni Ottanta, con Bettino Craxi come Presidente del Consiglio e Giulio Andreotti come Ministro degli Esteri, l’Italia mantenne una forte presenza nel Mediterraneo allargato. Craxi e Andreotti cercarono di promuovere il coinvolgimento dell’OLP nel processo di pace, sostenendo il diritto dei palestinesi a una patria propria, senza compromettere l’esistenza dello Stato di Israele. L’Italia cercò di bilanciare le relazioni tra gli Stati Uniti e il mondo arabo, mantenendo una posizione di equidistanza.

Declino e marginalizzazione. Verso la fine della Prima Repubblica, l’Italia iniziò a perdere rilevanza nella politica mediorientale, diventando sempre più allineata con le politiche degli Stati Uniti. La conferenza di Madrid del 1991 segnò un’ulteriore marginalizzazione dell’Italia e dell’Europa nel processo di pace in Medio Oriente.

In sintesi, la politica estera italiana verso il Medio Oriente è stata caratterizzata da tentativi di mantenere la stabilità nella regione, rafforzare i legami economici e politici con i paesi arabi, e bilanciare le relazioni tra gli Stati Uniti e il mondo arabo, pur affrontando periodi di crisi economica e declino politico.

PARTE SECONDA: SCHEDE PAESI

Marocco

La Storia. La storia del Marocco è caratterizzata da un lungo periodo di colonizzazione europea iniziata ufficialmente nel 1912 con il Trattato di Fez, che sanciva l’istituzione di un protettorato francese e spagnolo sul paese. Durante il periodo coloniale, il Marocco vide una vasta politica di modernizzazione, con la costruzione di infrastrutture e nuove città ad opera dei coloni francesi. La resistenza contro il dominio coloniale portò a frequenti rivolte, culminate nella “Rivoluzione del re e del popolo” del 1953, che contribuì all’indipendenza del paese, riconosciuta dalla Francia nel 1956. Mohammed V divenne re, avviando un processo di riforme che portarono alla modernizzazione del paese e alla creazione di una monarchia costituzionale.

Oggi. Negli ultimi decenni, il Marocco ha affrontato numerose sfide e trasformazioni. Sotto il regno di Mohammed VI, iniziato nel 1999, il paese ha intrapreso un percorso di riforme economiche e politiche, tra cui la promozione dei diritti umani e la modernizzazione delle istituzioni. Tuttavia, permangono criticità relative ai diritti umani e alla questione del Sahara Occidentale. Il Marocco ha anche consolidato il suo ruolo geopolitico nella regione, ristabilendo relazioni diplomatiche con Israele nel 2020 e giocando un ruolo chiave nella gestione delle migrazioni tra Africa ed Europa.

Algeria

La Storia. L’Algeria, colonizzata dalla Francia dal 1830, visse un periodo di modernizzazione nel primo dopoguerra. Tuttavia, la crescente consapevolezza nazionale portò alla guerra di indipendenza algerina (1954-1962), un conflitto sanguinoso che culminò con l’indipendenza del paese nel 1962. Il periodo post-indipendenza fu caratterizzato da una forte centralizzazione del potere sotto il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN), che governò in modo autoritario, affrontando periodi di instabilità politica e economica.

Oggi. L’Algeria contemporanea è una repubblica semipresidenziale con una popolazione di circa 44,9 milioni di abitanti. Il paese continua a confrontarsi con questioni di governance, diritti umani e diversificazione economica. Le elezioni del 2019 e del 2021 hanno portato Abdelmadjid Tebboune alla presidenza, con il governo che cerca di bilanciare le richieste di riforme politiche con la stabilità sociale. Le relazioni con il Marocco rimangono tese, specialmente a causa delle dispute territoriali e delle accuse reciproche di interferenze politiche.

Tunisia

La Storia. La Tunisia, anch’essa colonizzata dalla Francia, ottenne l’indipendenza nel 1956 sotto la guida di Habib Bourguiba, che instaurò un regime modernizzatore ma autoritario. Dopo il colpo di stato del 1987, Zine El Abidine Ben Ali salì al potere, governando fino alla Rivoluzione dei Gelsomini del 2011, che portò alla sua destituzione e avviò un processo di transizione democratica.

Oggi. La Tunisia è considerata una delle storie di successo della Primavera Araba, con un processo democratico ancora in corso. Tuttavia, il paese affronta sfide significative, tra cui instabilità politica, disoccupazione giovanile e minacce terroristiche. Le recenti elezioni e le riforme costituzionali mirano a consolidare un modello di democrazia fortemente presidenziale e uno stato consapevole del proprio ruolo all’interno dell’area geopolitica regionale.

Libia

La Storia. La storia moderna della Libia è segnata dalla colonizzazione italiana e dalla dittatura di Muammar Gheddafi, che governò dal 1969 fino alla sua deposizione nel 2011 durante la guerra civile libica. Il regime di Gheddafi era caratterizzato da politiche autoritarie e di centralizzazione del potere, con una forte retorica anti-occidentale.

Oggi. La Libia odierna è divisa e instabile, con vari gruppi armati e fazioni politiche che competono per il controllo del paese. Nonostante gli sforzi internazionali per stabilizzare la situazione, la Libia rimane in gran parte frammentata, con un governo di unità nazionale che lotta per affermare la propria autorità. La situazione umanitaria e la sicurezza continuano a essere problematiche.

Egitto

La Storia. L’Egitto ha una lunga storia di civiltà antiche e dominazioni straniere. Nel XX secolo, l’Egitto ottenne l’indipendenza dal Regno Unito nel 1922, ma rimase sotto un’influenza britannica significativa fino alla rivoluzione del 1952 che portò Gamal Abdel Nasser al potere. Nasser attuò politiche di nazionalizzazione e panarabismo. Successivamente, sotto Anwar Sadat e Hosni Mubarak, il paese si orientò verso politiche più aperte e relazioni con l’Occidente.

Oggi. L’Egitto contemporaneo, sotto il presidente Abdel Fattah al-Sisi, affronta sfide economiche e politiche significative. Le riforme economiche hanno portato a una crescita economica, ma anche a un aumento della povertà e delle disuguaglianze. La repressione politica rimane forte, con limitazioni alle libertà civili e politiche. L’Egitto continua a svolgere un ruolo chiave nella geopolitica del Medio Oriente, mantenendo relazioni strategiche con vari attori internazionali.

Israele

La Storia. Israele, fondato nel 1948, ha una storia complessa segnata da conflitti con i paesi vicini e tensioni interne. La guerra di indipendenza del 1948-49, le guerre arabo-israeliane e il conflitto israelo-palestinese hanno definito gran parte della sua storia. Israele ha anche vissuto periodi di crescita economica e tecnologica, affermandosi come una delle economie più avanzate della regione.

Oggi. Israele è una democrazia parlamentare con una popolazione diversificata. Le questioni di sicurezza nazionale, il conflitto con i gruppi palestinesi e le dinamiche politiche interne sono al centro dell’attenzione. Le recenti normalizzazioni delle relazioni con alcuni paesi arabi rappresentano sviluppi significativi, ma permangono tensioni e sfide sul fronte interno e regionale.

Autorità Nazionale Palestinese

La Storia. L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) è stata istituita nel 1994 a seguito degli Accordi di Oslo tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). L’ANP è responsabile del governo dei territori palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, ma ha affrontato numerose difficoltà, inclusi conflitti interni e tensioni con Israele.

Oggi. Oggi, l’ANP è divisa tra la Cisgiordania, controllata da Fatah, e Gaza, sotto il controllo di Hamas. La situazione politica ed economica è instabile, con frequenti tensioni e scontri con Israele. Gli sforzi per la riconciliazione interna e per una soluzione del conflitto con Israele continuano, ma le prospettive di pace rimangono incerte.

Libano

La Storia. Il Libano, indipendente dalla Francia dal 1943, ha una storia segnata da conflitti civili e interventi stranieri. La guerra civile libanese (1975-1990) ha devastato il paese, seguito da un periodo di ricostruzione e di tensioni politiche e settarie. La presenza di Hezbollah e l’influenza siriana hanno contribuito alla complessità politica del Libano.

Oggi.Il Libano contemporaneo è afflitto da una grave crisi economica, politica e sociale. Le proteste popolari, la corruzione diffusa e l’esplosione del porto di Beirut nel 2020 hanno aggravato la situazione. Il paese lotta per superare le divisioni settarie e per trovare stabilità politica ed economica.

Siria

La Storia. La Siria, indipendente dalla Francia nel 1946, ha una storia di instabilità politica e colpi di stato. Il regime di Hafez al-Assad, iniziato nel 1970, ha stabilito una dittatura che è stata portata avanti dal figlio Bashar al-Assad. La Siria ha giocato un ruolo centrale nella politica del Medio Oriente, spesso in conflitto con Israele e coinvolta nelle dinamiche regionali.

Oggi. La Siria è devastata da una guerra civile iniziata nel 2011, con milioni di rifugiati e sfollati interni. Il regime di Bashar al-Assad, con il sostegno di Russia e Iran, ha riconquistato gran parte del territorio, ma il paese rimane diviso e instabile. La ricostruzione e la riconciliazione sono sfide enormi, mentre la situazione umanitaria è critica.

Giordania

La Storia. La Giordania, creata dal mandato britannico nel 1921 e indipendente dal 1946, è stata governata dalla dinastia hashemita. Il paese ha mantenuto una relativa stabilità nonostante le turbolenze regionali, giocando un ruolo moderato nella politica mediorientale e ospitando un gran numero di rifugiati palestinesi.

Oggi. La Giordania continua ad affrontare sfide economiche e sociali, aggravate dall’afflusso di rifugiati siriani e dalle pressioni regionali. Il re Abdullah II guida il paese verso riforme economiche e politiche, cercando di mantenere la stabilità in un contesto regionale difficile.

Turchia

La Storia. La Turchia moderna, fondata da Mustafa Kemal Atatürk nel 1923, è stata costruita sui principi della laicità e del nazionalismo. Dopo decenni di governo secolare e militare, il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) di Recep Tayyip Erdoğan ha trasformato il paese con un mix di islamismo e nazionalismo, portando a una maggiore centralizzazione del potere.

Oggi. La Turchia è una potenza regionale con ambizioni internazionali, ma affronta problemi interni come la repressione dei diritti civili e le tensioni economiche. Le politiche di Erdoğan, sia interne che estere, hanno suscitato controversie e criticità, ma il paese continua a giocare un ruolo cruciale nella geopolitica del Medio Oriente e oltre.

PARTE TERZA: DIALOGHI MEDITERRANEI

“Italia e Tunisia: sfide e criticità nel più ampio contesto internazionale” (di Mario Savina).

Il testo tratta delle complesse relazioni tra i due paesi nel contesto del Mediterraneo, evidenziando i principali dossier di cooperazione e le sfide che caratterizzano il rapporto bilaterale.

Relazioni Bilaterali e Contesto Mediterraneo. Le relazioni tra Italia e Tunisia sono profondamente radicate nel contesto mediterraneo, caratterizzato da interessi comuni in vari settori, tra cui migrazione, energia, economia e dialogo con l’Unione Europea. Le turbolenze politiche ed economiche degli ultimi anni in Tunisia hanno creato sfide significative per i governi italiani e i decisori europei, ma Tunisi rimane un partner strategico sia per Roma che per Bruxelles.

Dossier Migratorio. Il tema migratorio è centrale nei colloqui tra Italia e Tunisia, specialmente dopo l’aumento delle partenze dalle coste tunisine negli ultimi due anni. Nel 2023, oltre 96.000 migranti sono arrivati in Italia dalla Tunisia, un numero triplicato rispetto all’anno precedente. La lotta ai migranti subsahariani in Tunisia, promossa dal presidente Kaïs Saïed, mira a distogliere l’attenzione dalla crisi socioeconomica interna. Gli accordi tra Roma e Tunisi sul controllo dei flussi migratori si basano su una logica di sicurezza, con l’Italia e l’UE che finanziano progetti per arginare i flussi migratori e facilitare i rimpatri.

Sfide Politico-Economiche e Relazioni Internazionali. La Tunisia affronta una perenne instabilità politica ed economica, con dinamiche internazionali complesse. Il paese sta cercando di diversificare le sue relazioni estere, coinvolgendo Russia e Cina, e considera l’adesione ai BRICS. Le relazioni con l’Unione Europea e gli Stati Uniti sono strategiche, specialmente in un contesto di rivalità con la Russia.

Cooperazione Energetica e Commerciale. L’Italia guarda alla Tunisia come a un partner fondamentale nel settore energetico, soprattutto per il gasdotto Transmed che collega l’Algeria all’Italia attraverso la Tunisia. La cooperazione commerciale è forte, con l’Italia che rappresenta il principale partner commerciale di Tunisi. Le imprese italiane sono ben radicate nel paese, contribuendo significativamente all’occupazione e all’economia locale.

Sfide Regionali e Sicurezza. Le relazioni tra Italia e Tunisia sono inserite in un contesto regionale complesso, con influenze di potenze come la Russia e la Cina. La stabilità del Nord Africa è cruciale per la sicurezza europea, e l’Italia è impegnata nel supportare la Tunisia attraverso accordi bilaterali e dialoghi internazionali. La collaborazione tra i due paesi è essenziale per affrontare le sfide comuni e promuovere la stabilità regionale.

In sintesi, il capitolo evidenzia la necessità di un impegno costante e di una strategia integrata per affrontare le sfide.

La Proiezione Futura dei Rapporti Energetici tra Algeria e Italia (di Laura Ponte).

Il capitolo esplora il futuro dei rapporti energetici tra Algeria e Italia nel contesto della guerra in Ucraina e delle conseguenti sanzioni imposte alla Russia. Con l’obiettivo di ridurre la dipendenza energetica dalla Russia, l’Italia ha cercato di diversificare le sue fonti di approvvigionamento energetico, puntando in particolare sull’Algeria, che è diventata un partner strategico fondamentale.

Contesto Storico e Relazioni Energetiche.Storicamente, le relazioni energetiche tra i due paesi sono solide, risalenti agli anni ’50 e ’60, quando Enrico Mattei sostenne il percorso di liberazione nazionale dell’Algeria, culminato con l’indipendenza del 1962. Questo ha portato alla firma del primo contratto di fornitura di gas nel 1973, stabilendo una lunga collaborazione energetica.

Sforzi Recenti e Progetti Futuri. Recentemente, gli sforzi italiani si sono intensificati per aumentare le importazioni di gas algerino e ridurre quelle russe. L’Italia ha firmato numerosi contratti con l’Algeria per aumentare la capacità di esportazione di gas, sia tramite gasdotti che GNL (gas naturale liquefatto). Nel 2022, Sonatrach ha incrementato le esportazioni di gas verso l’Italia, con l’obiettivo di raggiungere 9 miliardi di metri cubi all’anno entro il 2024.

Sfide Politiche e Tecniche. Nonostante le prospettive positive, esistono criticità sia politiche che tecniche. Politicamente, l’Italia ha scelto di non comprare gas dalla Russia a causa della sua inaffidabilità come partner commerciale. Tuttavia, l’Algeria è anch’essa considerata un paese “non libero” dal Freedom House, con bassi standard democratici, limitata trasparenza elettorale, corruzione e repressione delle proteste.

Possibili Rischi Geopolitici. C’è il timore che l’instabilità politica in Algeria possa influenzare i rapporti energetici, come già successo con la Spagna riguardo alla disputa del Sahara Occidentale. Inoltre, l’Algeria mantiene buone relazioni con la Russia, cooperando attivamente nel settore militare ed energetico, il che potrebbe complicare ulteriormente le dinamiche geopolitiche.

Progetti Integrativi e Energie Rinnovabili. Per mitigare i rischi e aumentare la sostenibilità, sarebbe utile che la cooperazione energetica tra Italia e Algeria includa anche le energie rinnovabili. L’Algeria ha il potenziale per diventare leader nella produzione di energia solare ed eolica, grazie al deserto del Sahara. Progetti come il South H2 Corridor, che collegherà l’Algeria alla Germania, potrebbero essere cruciali per trasformare l’Italia in un hub energetico, riducendo al contempo la dipendenza dai combustibili fossili.

Conclusioni. Il futuro dei rapporti energetici tra Algeria e Italia appare promettente ma non privo di sfide. La diversificazione delle fonti di approvvigionamento e l’inclusione delle energie rinnovabili sono passi fondamentali per garantire la sicurezza energetica e la sostenibilità a lungo termine.

“Nato e Ue al cospetto della crisi libica: dall’apice al tramonto del «crisis management» occidentale?” (di Stefano Marcuzzi).

Il capitolo analizza la gestione e le conseguenze della crisi libica da parte di Nato e Unione Europea, evidenziando i fallimenti e le lezioni apprese.

Contesto della crisi. Nel marzo 2011, una coalizione di paesi sotto l’ombrello dell’ONU e guidata militarmente dalla Nato lanciò una campagna aerea contro il regime di Gheddafi in Libia per fermare la repressione violenta contro i civili. Nonostante la caduta di Gheddafi e il collasso del suo regime, la Libia è rimasta intrappolata in una crisi pluridecennale, caratterizzata da conflitti interni ed esterni, che hanno visto la partecipazione di attori regionali e globali come Russia, Turchia, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Francia e Arabia Saudita​.


Gaza Underground: la guerra sotterranea e urbana tra Israele-Hamas – il nuovo libro di C. Bertolotti

Storia, strategie, tattiche, guerra cognitiva e intelligenza artificiale

Il nuovo libro di C. Bertolotti è disponibile su Amazon

Nel cuore della terra, sotto il confine tra Israele e Gaza, si è sviluppata una guerra invisibile, tanto silenziosa quanto pericolosa. Questa è la storia della guerra sotterranea combattuta da Israele contro Hamas. La lotta contro l’uso strategico dei tunnel da parte del movimento islamista rappresenta un capitolo oscuro e complesso del conflitto israelo-palestinese, un fronte di battaglia che si è esteso ben al di là della vista e della percezione pubblica.

La dimensione sotterra­nea della nuova guerra

Mentre il mondo guarda le immagini di distruzione e ascolta i racconti di chi è colpito dalla violenza in superficie, pochi comprendono la portata e la complessità della guerra svolta nel ventre della terra: la dimensione sotterra­nea della nuova guerra. Ma i tunnel di Gaza non sono semplici passaggi sotterranei; sono arterie di un vasto organismo vivente, pulsante di armi, di strategie e di intenti terroristici. Sono la manifestazione fisica di un conflitto che ha abbracciato una nuova dimensione, quella sotterranea, dove il buio e il silenzio nascondono operazioni di infiltrazione, attacchi a sorpresa e tattiche di guerriglia.

Strategie e conseguenze della guerra invisibile

GAZA UNDERGROUND: la guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas, il nuovo libro di Claudio Bertolotti, esplora questa guerra nascosta, partendo dalle origini dell’utilizzo dei tunnel nella storia del conflitto israelo-palestinese, analizzando come Hamas li abbia trasformati in uno strumento chiave della propria strategia militare. Attraverso la ricerca d’archivio, documenti ufficiali, nonché testimonianze dirette, cercheremo di capire come Israele abbia risposto a questa minaccia, sviluppando tecnologie e tattiche per rilevare, distruggere o neutralizzare queste via di attacco nascoste.

La guerra sotterranea tra Israele e Hamas a Gaza è una lotta continua di ingegno, risorse e determinazione. È una dimostrazione di come il campo di battaglia si sia evoluto, richiedendo a entrambe le parti di adattarsi a nuove realtà. L’obbiettivo posto a premessa del nuovo libro di Claudio Bertolotti consiste nell’analizzare e comprendere le sfide, le strategie e le conseguenze di questa guerra invisibile, offrendo al lettore una comprensione più profonda di uno degli aspetti più inquietanti e meno conosciuti del conflitto israelo-palestinese, aprendo la prospettiva sui futuri scenari di guerra che, per ragioni demografiche, sociali, economiche e tecnologiche, vedranno le città e le loro dimensioni sotterranee assumere un ruolo sempre più determinante.

SCHEDA DEL LIBRO: ORDINA LA TUA COPIA CON COPERTINA RIGIDA (EURO 25,00)

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Il petrolio ombra di Mosca: il segreto della buona economia russa.

di Andrea Molle

Abstract (Italian)

Questo articolo esamina l’origine della robusta condizione finanziaria della Russia alle soglie del terzo anno del conflitto in Ucraina, rilevando come il sostanziale afflusso di denaro dalle esportazioni di petrolio, in particolare all’India, abbia rafforzato le casse dello Stato russo. L’Autore, discute inoltre sul ruolo della Flotta Ombra del Cremlino, una forza marittima clandestina che elude le normative internazionali, facilitando il commercio di petrolio e oro insanguinato e contribuendo a mantenere il flusso di entrate verso la Russia. Infine, viene analizzata la dipendenza dell’India dal petrolio russo come strategia per mantenere stabili i prezzi globali del petrolio, nonostante le critiche internazionali.

Keywords: Petrolio, flotta ombra, economia russa

L’economia russa è robusta

La Russia, nel terzo anno del conflitto in Ucraina, si trova in una posizione finanziaria robusta, con le casse dello Stato rifornite da un notevole afflusso di denaro. Nel 2023, le entrate federali della Russia hanno raggiunto un record di 320 miliardi di dollari e si prevede che continueranno ad aumentare. Secondo alcuni analisti, circa un terzo di queste entrate è stato destinato alla guerra in Ucraina l’anno precedente, mentre una percentuale ancora maggiore finanzierà il conflitto nel 2024. I notevoli fondi a disposizione del Cremlino posizionano Mosca in una posizione più favorevole per sostenere una guerra prolungata rispetto a Kiev, che lotta per mantenere il vitale flusso di denaro occidentale.

Oltre all’oro insanguinato proveniente dall’Africa, questo incremento di entrate è stato alimentato dalle vendite eccezionali di petrolio grezzo all’India. Transazioni che hanno generato introiti stimati intorno ai 37 miliardi di dollari a cui si aggiungono circa 1 miliardo di dollari provienienti dal petrolio raffinato in India e poi esportato negli Stati Uniti. Tale flusso di entrate è il risultato diretto dell’aumento degli acquisti di petrolio russo da parte di Delhi, che secondo un’analisi del Centre for Research on Energy and Clean Air (CREA), riportata di recente dalla CNN, ora superano di 13 volte i livelli prebellici.

L’analisi delle rotte di trasporto del greggio

L’analisi delle rotte di trasporto del greggio suggerisce inoltre un coinvolgimento della cosiddetta Flotta Ombra del Cremlino. Con questo termine ci si riferisce a una forza marittima clandestina russa, composta da navi che operano al di fuori delle norme marittime internazionali. L’indagine sulla Flotta Ombra è iniziata nei primi anni 2010, quando le principali agenzie di intelligence occidentali e diversi analisti marittimi hanno notato comportamenti sospetti in navi russe o battenti bandiere di paradisi fiscali. Queste navi sono spesso osservate ad operare in aree strategicamente significative, come vicino a cavi di comunicazione sottomarini e installazioni militari, spesso spegnendo i loro sistemi di identificazione automatica per sfuggire al monitoraggio. Le implicazioni della Flotta Ombra russa sono molteplici e tutte potenzialmente pericolose. In primo luogo, c’è preoccupazione per il suo ruolo nel sostenere le operazioni militari russe e nel violare le norme internazionali e le leggi marittime. La presenza di questa flotta mina la sicurezza e la stabilità marittime globali, complicando gli sforzi affinchè la Russia sia tenuta a rispondere delle sue azioni illegali in mare. Una delle attività tipiche della Flotta Ombra nel settore petrolifero è lo scambio di greggio tra due navi con l’obiettivo di mascherarne l’origine e la destinazione finale, confondendo le autorità riguardo alla provenienza e all’acquirente finale. Decine di tali trasferimenti avvengono ad esempio ogni settimana nel Golfo Laconico in Grecia, un punto di passaggio strategico verso il Canale di Suez e i mercati asiatici. Alla fine del 2022, con il supporto di diversi paesi, gli Stati Uniti hanno imposto un limite di prezzo, impegnandosi a non acquistare petrolio russo oltre i 60 dollari al barile.

La flotta ombra

Questi paesi hanno anche vietato alle proprie compagnie di navigazione e di assicurazione, attori chiave nel trasporto marittimo globale, di facilitare il commercio di petrolio russo oltre tale prezzo. Tuttavia, questo limite di prezzo ha paradossalmente alimentato la creazione della Flotta Ombra. Con catene di approvvigionamento più lunghe, è infatti più difficile individuare i trasferimenti da nave a nave e determinare il costo effettivo di un barile di petrolio russo e diventa facile aggirare le sanzioni. La Flotta Ombra ha pertanto consentito alla Russia di creare una rete di navigazione fantasma parallela a quella legale, in grado di eludere il monitoriaggio e aggirare le sanzioni occidentali, con centinaia di petroliere la cui proprietà non è chiara e che seguono rotte così complicate da risultare impossibili da seguire. Secondo le analisi effettuate grazie all’intelligenza artificiale della società di analisi marittima Windward, questa flotta è cresciuta fino a includere nel 2023 circa 1.800 navi.

In questo quadro, gli acquisti di petrolio da parte dell’India hanno avuto l’effetto di alleviare la pressione delle sanzioni sulla Russia. L’India difende le sue politiche di approvvigionamento energetico da Mosca come un modo per mantenere i prezzi globali del petrolio più stabili, evitando di competere con le nazioni occidentali per il petrolio del Medio Oriente. Il governo di Delhi ha dichiarato che qualora l’India dovesse smettere di comprare greggio da Mosca e più petrolio dal Medio Oriente, il prezzo del petrolio salirebbe a 150 dollari avviando una spirale di aumento dei costi che il mondo non può permettersi. Ma una parte di questo petrolio grezzo viene raffinato nelle raffinerie lungo la costa occidentale dell’India e successivamente esportato negli Stati Uniti e in altri paesi che hanno imposto sanzioni sul petrolio russo. Questi prodotti raffinati, non essendo soggetti a sanzioni, costituiscono ciò che gli analisti chiamano la “scappatoia delle raffinerie”. Sempre secondo l’analisi del CREA, gli Stati Uniti sono stati il principale acquirente di prodotti raffinati dall’India derivati dal petrolio grezzo russo nel 2023, per un valore di 1,3 miliardi di dollari. E il valore di queste esportazioni di prodotti petroliferi aumenta notevolmente quando si considerano anche gli alleati degli Stati Uniti che applicano sanzioni contro la Russia. Il CREA ha stimato che questi paesi abbiano importato prodotti petroliferi dal petrolio grezzo russo per un valore di 9,1 miliardi di dollari nel 2023, registrando un aumento del 44% rispetto all’anno precedente.

Mosca ha beneficiato di questo processo sia attraverso la tassazione diretta delle esportazioni che attraverso i profitti ottenuti da Rosneft, la società petrolifera di stato russa, nell’ambito della raffinazione e dalla rivendita ai paesi occidentali.

Entrate e spese russe: un record

Secondo un’analisi condotta dal think tank RAND sui conti del Ministero delle Finanze russo, nel 2023 le entrate e le spese federali della Russia hanno raggiunto entrambe livelli record. Sebbene per adesso Mosca non sia ancora arrivata al pareggio di bilancio, a causa del pesante costo della guerra e delle perdite di entrate dovute in generale alle sanzioni il deficit di bilancio federale è in tendenza decrescente. Le imposte interne sulla produzione e sull’importazione sono entrambe significative ed efficienti, il che implica che la popolazione russa è pesantemente tassata per finanziare il conflitto. Tuttavia, gli analisti avvertono che in questo quadro economico anche la più piccola violazione delle sanzioni contro la Russia può generare ingenti profitti, date le enormi somme coinvolte nel commercio petrolifero e dell’oro, e questo potrebbe portare il regime a diminuire la pressione fiscale generando un maggior supporto per le operazioni militari correnti e future. Per questo è di primaria importanza affrontare efficacemente questa minaccia con una maggiore vigilanza, cooperazione e impegno diplomatico internazionale che includa nuove misure contro le navi della Flotta Ombra e le aziende sospettate di agevolare il trasporto illegale del petrolio e dell’oro russo.


Azione israeliana in Libano e rischio di escalation regionale: il punto del Direttore.

Dall’intervista di Stefano Leszczynski a Claudio Bertolotti, per Radio Vaticana, trasmissione Il Mondo alla Radio del 3 gennaio 2024 (VAI AL PODCAST)

L’azione israeliana in Libano e il rischio di escalation.

Gli attentati a Beirut e in Iran infiammano la crisi medio orientale. La guerra di Israele tra battaglie nella Striscia di Gaza e omicidi mirati.

Federica Saini Fasanotti – storica militare e studiosa dell’ISPI

Eric Salerno – giornalista esperto di questioni medio orientali e relazioni internazionali

Claudio Bertolotti – direttore di Start Insight e ricercatore ISPI

Il 2 gennaio 2024, un attacco nel sud di Beirut, Libano, in cui è avvenuta l’uccisione del numero due di Hamas, Saleh al-Arouri, è stato attribuito a Israele e ha preso di mira una roccaforte del gruppo sciita e filo-iraniano Hezbollah. L’attacco ha causato anche vittime collaterali, suscitando la condanna di Hezbollah e la promessa che l'”assassinio” di al Arouri a Beirut non resterà impunito. Le forze armate israeliane hanno diffuso video dell’attacco, sottolineando il loro coinvolgimento nell’incidente. L’evento ha sollevato preoccupazioni riguardo a una possibile escalation tra Libano e Israele.

Dottor Bertolotti, c’è il rischio che le operazioni mirate israeliane come quella in Libano inneschino davvero un conflitto regionale?

Dal punto di vista razionale – secondo Bertolotti – nessuno degli attori coinvolti vuole un allargamento del conflitto a livello regionale. Non lo vuole Israele e non lo vuole l’Iran che, invece, punta a una serie di micro-conflitti e coinvolgimento dei piccoli attori regionali, dagli Houthi nello Yemen ad Hezbollah in Libano per distrarre lo sforzo militare di Israele, indebolendolo. Ma al di la della volontà razionale ci sono le scelte emotive, che spesso condizionano le dinamiche delle relazioni internazionali che possono portare ad effetti incontrollabili. E il rischio di un’escalation orizzontale a livello regionale, in questo senso, è un rischio possibile.

Dott. Bertolotti, la prudenza del governo libanese, che ha chiesto a Hezbollah di non reagire a Israele in maniera autonoma, che cosa suggerisce?

Il governo di Beirut è il primo a voler scongiurare un allargamento del conflitto, perchè ciò significherebbe il collasso dello stato libanese e l’avvio di una nuova guerra civile che sarebbe micidiale per la sopravvivenza dello stesso stato libanese. Questa la ragione per cui il governo libanese svolge un ruolo di intermediario con Hezbollah che noN è, come non è mai stato, sotto controllo governativo, ponendosi come milizia, esercito autonomo legato ai gruppi di potere sciiti a loro volta legati con l’Iran, che di Hezbollah ne sta facendo un uso opportunistico in funzione anti-israeliana, senza però farsi direttamente coinvolgere.

Direttore, la posizione di Ankara (membro della NATO) in questa crisi pone alcuni interrogativi sul proprio ruolo e affidabilità?

La Turchia persegue un proprio e ben definito progetto di proiezione di influenza in tutto l’arco mediterraneo allargato, dal Corno d’Africa ai paesi del Maghreb. La vicinanza ad Hamas, che si lega alla pericolosa organizzazione dei Fratelli Musulmani, è coerente con questa visione di potenza che prevede il consolidamento dei rapporti con i governi e le organizzazioni locali in un’ottica di ricostituzione di un perimetro geopolitico artificiosamente coerente con la storia e con l’ego sproporzionato del presidente Erdogan. Ma non illudiamoci che una qualsiasi alternativa a Erdogan possa avere una visione differente, questa è l’ambizione della Turchia contemporanea.


Guerra Israele-Hamas: quale scenario dopo la tregua? RaiNews24

di Claudio Bertolotti


Dall’intervento del direttore Claudio Bertolotti a In un’ora, RaiNews 24, puntata del 27 novembre 2023.

La tregua e le sue dinamiche

Guardando alla striscia di Gaza e al territorio israeliano, al momento non sembrano esserci stati episodi significativi in grado di influire sulla tenuta della tregua tra le parti, comprese eventuali iniziative da parte del libanese Hezbollah. Ad oggi sembra che entrambe le parti siano interessate ad estendere il cessate il fuoco per altri 4 giorni. Per Israele è un’opzione vantaggiosa dal punto di vista politico e di ricerca di consenso, anche perché ciò offrirebbe maggiori garanzie per eventuali altri prigionieri rapiti che potrebbero essere rilasciati dai terroristi di Hamas. Per contro, lo svantaggio per Israele sarebbe tattico e operativo, perché lascia le truppe schierate sul terreno in una posizione di relativa vulnerabilità e darebbe ad Hamas il tempo per riorganizzare la propria capacità di comando e controllo e logistica, fortemente compromessa dall’uccisione di ben cinque comandanti di medio-alto livello negli ultimi giorni[1].

Per Hamas, si rileva un apparente risultato politico nell’aver ottenuto una tregua con Israele, ma non dobbiamo dimenticare che questa non è una concessione da parte di Hamas, bensì il risultato di un’operazione controffensiva israeliana che ha messo sotto pressione la leardership palestinese, sia quella politica che quella militare. Va però rilevato che lo stesso Hamas ha tratto grande vantaggio sul piano militare poiché, oltre alla riorganizzazione in atto, una consistente parte degli aiuti umanitari, in particolare il carburante, verrebbe dirottata prioritariamente a sostegno dei combattenti e non della popolazione civile.

Quale lo scenario futuro?

Sul prolungamento del cessate il fuoco sembra che ci sia una posizione condivisa nel proseguirlo poichè, di solito, o sono estesi da un accordo fatto mentre sono in vigore o sono infranti prima della scadenza. E al momento non sembrano esserci violazioni significative in corso.

Difficile anche fare previsioni circa l’andamento della guerra, per quanto appaia imprescindibile il risultato di una vittoria israeliana e questo non per una ragione limitata all’andamento della guerra, bensì per l’esistenza stessa dello Stato di Israele che, se non fosse in grado di imporre con la forza la propria superiorità su Hamas, creerebbe un pericoloso precedente a cui seguirebbero altre azioni offensive a danno dei cittadini israeliani all’interno di Israele e non solo da parte palestinese. È dunque una questione di sopravvivenza per Israele, che non farà sconto alcuno, nonostante il prolungamento del cessate il fuoco.

Per contro, Hamas guarda al futuro immediato con la speranza di un allargamento del conflitto che sembra però uno scenario che si allontana sempre di più, con un Iran sempre più convinto a non spingere verso un’escalation che sarebbe devastante per Teheran. Iran, che non vuole essere coinvolto direttamente in una guerra regionale ma che persiste nel sostenere ed alimentare azioni di disturbo da parte dei suoi attori di prossimità, dal libanese Hezbollah alle milizie nello Yemen e in Iraq.

E allora ad Hamas, esclusa l’ipotesi di un’escalation orizzontale che coinvolga tutti gli attori regionali, resta l’opzione dell’allargamento interno, con il coinvolgimento delle milizie palestinesi della Cisgiordania che otterrebbero il risultato di impegnare le truppe israeliane su un secondo eventuale fronte.


[1] I comandanti uccisi sarebbero: il comandante della Brigata della Striscia di Gaza settentrionale Ahmed Ghandour, a capo delle attività di Hamas nel nord della Striscia di Gaza. Gli attacchi aerei israeliani avrebbero anche ucciso Farsan Khalifa, il capo del Comitato Tulkarm di Hamas responsabile di aver reclutato e formato le cellule di combattenti nel campo profughi di Nur al Shams, vicino a Tulkarm, in Cisgiordania.


L’informazione “dettata” da Hamas: la guerra cognitiva dei terroristi. Dal commento di C. Bertolotti a Start (SKY TG24).

I commenti di Claudio Bertolotti, Direttore di START inSight e Natalie Tocci, Direttore IAI a START, trasmissione di SKY TG24 (puntata del 19 ottobre 2023)

(Bertolotti) “Guardando al caso dell’ospedale nella striscia di Gaza colpito da un razzo palestinese, emerge quanto sia pericoloso dar credito a informazioni non verificate in grado di incidere in maniera significativa, sia sull’opinione pubblica, sia sui processi decisionali, politici e militari.

In questo specifico caso, così come in molti altri, la percezione ha prevalso sulla realtà: e questo è l’effetto della guerra cognitiva, volta a indirizzare il nostro pensiero. Una guerra che Hamas sta conducendo in maniera estremamente abile e che ha portato a definire i tempi e le modalità delle relazioni internazionali, annullando o posticipando gli incontri tra le parti. La responsabilità di Israele è stata esclusa, ammesso che ci sia mai stata. E questa, da un lato è la sconfitta del giornalismo che non è stato in grado di verificare, prestandosi alla propaganda di un gruppo jihadista, e, dall’altro è stata la grande vittoria della disinformazione di Hamas, che è così riuscita a spingere le masse arabe nelle piazze e, al contempo, ha smosso la mole di utili inconsapevoli che in Occidente sono caduti nel tranello, o meglio nell’operazione.”


Israele: una guerra diversa. Il punto della situazione e l’analisi

di Claudio Bertolotti

dall’intervento di Claudio Bertolotti a SKY TG24 Mondo (Puntata del 13 ottobre 2023)

Intervento video di Claudio Bertolotti a SKY TG24 Mondo, ospite di Roberto Tallei

Il punto della guerra contro Hamas a Gaza (13 ottobre)

A quasi una settimana dagli attacchi di Hamas contro le città e le comunità israeliane, continuano gli attacchi dell’IDF contro siti terroristici a Gaza, mirati alle capacità militari e amministrative di Hamas. L’aviazione israeliana ha colpito alti dirigenti, centri di comando e controllo, siti di lancio di razzi, istituzioni finanziarie e governative chiave di Hamas che contribuiscono alle sue operazioni militari. In totale, oltre 1.000 terroristi sono stati uccisi (Fonte IDF).

L’IDF continua a fare affidamento sull’intelligence per eseguire questi attacchi. Una serie di obiettivi colpiti includeva una rete di siti di lancio di UAV all’interno e sopra le case di Gaza. Il sito preso di mira la scorsa notte includeva le case di un agente della forza Nukhba, un sito operativo di Hamas in cui sembra si trovasse il fratello di Yahya Sinwar e una postazione dell’intelligence di Hamas utilizzata per tracciare i movimenti delle forze (fonte IDF).

Venerdì, in vista di una continuazione degli attacchi operativi dell’IDF, l’IDF ha chiesto ai civili di Gaza di spostarsi a sud di Wadi Gaza attraverso una varietà di canali, compresi i media tradizionali e i media digitali, tutti in arabo. L’obiettivo è quello di fornire allarmi efficaci e anticipati in modo che i civili possano proteggersi evacuando, cercando riparo o intraprendendo altre azioni appropriate (fonte IDF).

Il valico di Erez rimane non utilizzabile a seguito degli attacchi di Hamas, mentre il valico di Kerem continua ad essere sotto attacco. 9 delle 10 linee elettriche da Israele a Gaza sono state distrutte dal lancio di razzi di Hamas. Israele ha dichiarato che non riparerà queste infrastrutture né continuerà la sua fornitura di elettricità e carburante a Gaza, che Hamas sfrutta per uso militare e impedisce che raggiunga la popolazione civile (fonte IDF).

Difesa del sud di Israele

Le forze dell’IDF nel sud di Israele continuano a respingere i tentativi di attacchi di infiltrazione, così come gli attacchi isolati da parte di cellule terroristiche rimaste nel sud di Israele. Ciò includeva la neutralizzazione di un terrorista vicino al Kibbutz Kissufim giovedì sera, una delle città che erano state attaccate durante il massacro di sabato. In totale, almeno cinque terroristi sono stati neutralizzati dalle forze dell’IDF nelle ultime 24 ore.

Altri settori militari

L’esercito è in uno stato di elevata capacità e preparato a qualsiasi minaccia. Nell’ambito della valutazione della situazione in corso, l’IDF ha dichiarato l’area di Metula, la parte più settentrionale di Israele, come zona militare interdetta. Le forze dell’IDF sono dispiegate e monitorano attivamente l’area.

Nel corso delle operazioni notturne in Giudea e Samaria, sono stati arrestati 47 soggetti, 34 dei quali appartenevano ad Hamas. Ad Azun è stato trovato anche un laboratorio di esplosivi di Hamas. In totale, 130 agenti di Hamas sono stati arrestati nella regione di Giudea, Samaria e Beka’a da sabato.

Il fronte interno

Il lancio di razzi da Gaza è continuato, comprese raffiche di razzi verso il sud e il centro di Israele, con una salva sparata verso il nord di Israele venerdì pomeriggio. Sbarramenti particolarmente pesanti furono sparati verso Ashkelon (132.000 abitanti) e Sderot (27.000 abitanti). A partire da ieri, oltre 6.000 razzi sono stati lanciati contro Israele.

Analisi generale

Perché questa guerra sarà diversa da quelle affrontate negli anni precedenti dall’esercito israeliano?

Questa guerra sarà diversa da quelle affrontate negli anni precedenti perché a differenza delle precedenti rischia di sfociare in una guerra regionale in grado di coinvolgere l’Iran, la Siria, il Libano e gli Stati Uniti, e di allargarsi ulteriormente con strascichi di lungo periodo difficili da prevedere.

L’allargamento regionale del conflitto, da un punto di vista razionale in realtà non è auspicato da nessuno, in primo luogo da Hezbollah e dal Libano a causa del rischio di implosione economica e sociale dello stato libanese, con il rischio di una nuova guerra civile. Ma neanche l’Iran vuole dare il via a un’escalation che allarghi il conflitto. Ma da un punto di vista emotivo c’è sempre il rischio che le parti siano spinte o si lascino trascinare verso una crescente partecipazione alla guerra contro Israele e questo rappresenterebbe un punto di non ritorno che determinerebbe la ridefinizione violenta degli equilibri dell’intero vicino e medioriente.

Differenze tra Hamas, Hezbollah, Jihad dal punto di vista della possibile offensiva e della reazione all’offensiva israeliana

Nella sostanza, e sposando l’approccio israeliano dobbiamo considerare le due organizzazioni non come “insorti” o “guerriglieri”, ma come “eserciti organizzati, ben addestrati, ben equipaggiati per le loro missioni”. Questo da un punto di vista sostanziale che li colloca all’interno della medesima categoria di nemici sul campo di battaglia.

E sempre sul piano sostanziale sono due minacce dirette alla sicurezza dello Stato di Israele, e per questo inserite negli obiettivi primari della strategia di difesa israeliana.

Da un punto di vista storico e ideologico, le differenze ci sono, e non solamente dal punto di vista religioso, sciiti gli appartenenti a Hezbollah, sunniti gli appartenenti ad Hamas. Non sono ideologicamente vicini, tant’è che nella guerra in Siria hanno combattuto su fronti contrapposti, ma entrambi ambiscono a distruggere Israele.

Hezbollah movimento jihadista islamico sciita che nasce come movimento di resistenza anti-israeliano. Il suo obiettivo è la difesa del Libano contro la “probabile aggressione israeliana” e la creazione di uno Stato islamico libanese, però in contrapposizione alla visione dello Stato islamico, già ISIS.

Hamas nasce anch’esso come movimento islamista, ma sunnita e fortemente legato alla Fratellanza musulmana, con chiare connotazioni radicali. L’obiettivo primario è la liberazione dei territori palestinesi e la distruzione dello Stato di Israele, non riconosce le Nazioni Unite e rifiuta di accettare qualunque conferenza di pace e qualunque forma di compromesso con Israele, rifiutando di fatto l’ipotesi dei due stati per due popoli.

Quanto sono “fondamentali” per Hamas ostaggi e residenti? Hamas si è detta contraria a corridoio umanitario

Hamas, accecato dalla propria visione e immerso nella propria battaglia ideologica, ha sottovalutato gli effetti di questa operazione a danno di Israele e pagherà con la propria esistenza l’eccesso di violenza. In questo momento la presenza degli ostaggi viene sfruttato da Hamas per indurre Israele a un minore livello di violenza contro Gaza. Ma questo non avverrà. E allora Hamas ricorre alla carta estrema di trasformare l’intera popolazione di Gaza in un immenso scudo umano da sfruttare a proprio favore o da trasformare in martiri utili alla propaganda jihadista che verrà sfruttata ed ereditata dai movimenti jihadisti che raccoglieranno il testimone di Hamas dopo la sua scomparsa.

È vero che Israele ha abbandonato lo spionaggio “sul campo” per affidarsi tutto alla tecnologia? È per questo che un attacco pianificato per due anni sia stato completamente ignorato?

La dottrina strategica di Israele del 2015 e il più recente concetto operativo delle forze armate israeliane prevede, come pilastro e elemento di successo, il funzionamento dello strumento intelligence. Sia in termini di raccolta informazioni ad alto livello tecnologico sia attraverso la raccolta informazioni diretta dagli uomini sul campo. Nessuna delle due è venuta meno nel corso degli anni, ma è evidente che qualcosa non ha funzionato, in parte per aver sopravvalutato l’effettiva propria capacità informativa, in parte per l’alto livello di depistaggio attuato da Hamas e, forse in parte, per la competizione interna tra Shin Bet e Mossad, le due agenzie di intelligence israeliane.

Come potrà svilupparsi l’operazione di terra? Chirurgica o più su vasta scala? Quanto può durare? Con quali fasi?

La somma delle due opzioni: una prima attività di bombardamento mirato e chirurgico a cui seguirà un’invasione massiccia mista: mezzi corazzati e fanteria leggera per il combattimento nel centro urbano di Gaza, che rappresenta la più pericolosa delle fasi della guerra e che potrebbe portare a un elevato numero di vittime da entrambe le parti. Rimando alla lettura dell’analisi dettagliata pubblicata con ISPI (Spazio e tempo dell’offensiva israeliana a Gaza).

Alle operazioni militari si affiancano operazioni psicologiche per influenzare opinione pubblica e attivazione canali diplomatici. Quanto sarà fondamentale il sostegno della popolazione di Gaza ad Hamas?

Hamas e Israele sfruttano entrambe le operazioni psicologiche. Israele per indurre il terrore nei confronti di Hamas; basta la frase di Netanyahu “ogni uomo di Hamas è un uomo morto” per far capire il peso e la gravità della situazione. Al tempo stesso Hamas spaccia per mera propaganda la possibilità che Israele attacchi violentemente Gaza, e questo per tenere la popolazione nell’area degli obiettivi militari, arrivando anche a minacciare le stesse famiglie palestinesi in cerca di salvezza.

Il sostegno della popolazione per Hamas è certamente importante ma, a questo punto credo non risolutivo. Se Hamas è dovuta ricorrere alla minaccia per tenere la popolazione di Gaza all’interno della città significa che la fiducia nell’organizzazione politica e terrorista è venuta meno.

Rispetto alla geografia di Gaza, dove potrebbe avvenire lo schieramento?

Guardando alle forze in campo e alla geografia del territorio, limitandoci alla componente terrestre possiamo ipotizzare un primo schieramento di carri armati israeliani a sud di Gaza City dove c’è una linea di cresta che domina il centro urbano; area che potrebbe essere strategica per il controllo del terreno e per il supporto di fuoco. Al tempo stesso, una seconda aliquota potrebbe posizionarsi all’estremo nord di Gaza, vicino al valico di Erez, dove si trovano aree rurali e ampi terreni utili allo schieramento di unità di supporto al combattimento.  Un terzo punto di accesso potrebbe essere l’estremo sud, vicino a Rafah. 

Un’altra area di possibile schieramento a supporto delle unità di fanteria si trova a est di Khan Yunis, a sud della città di Gaza, dove i mezzi corazzati possono muoversi più facilmente e prendere posizioni di fuoco.

Una nota sull’uso fosforo bianco

L’uso di munizionamento al fosforo bianco è legittimo quando usato contro obiettivi militari isolati, per illuminare il campo di battaglia di notte o per creare cortine di fumo utili a nascondere il movimento delle truppe sul terreno. È invece vietato il suo utilizzo in ogni caso in cui vi sia il rischio di colpire obiettivi civili. E in questo senso va la decisione israeliana di imporre alla popolazione di Gaza di abbandonare il centro urbano; ed è lo stesso motivo per cui Hamas starebbe obbligando con la minaccia e la violenza la popolazione di Gaza a rimanere nelle proprie case, come scudi umani in funzione di deterrenza.


Israele: la risposta e lo scenario di guerra

di Claudio Bertolotti

Il 7 ottobre, Hamas attraverso la sua ala militante, la Brigata Al Qassem, ha lanciato un attacco a sorpresa, terrestre e aereo, contro Israele. Un fatto che si è imposto come la più significativa escalation di violenza tra le due parti degli ultimi decenni. Centinaia di combattenti di Hamas hanno attraversato la Striscia di Gaza in territorio israeliano e hanno attaccato i posti di confine, investendo con la loro violenza obiettivi militari e aree residenziali (fonte ISW).

In tale contesto di violenza, Hamas e la Brigata Al Qassem hanno invitato le milizie palestinesi e i membri dell’Asse della Resistenza a unirsi alla lotta contro Israele.

Un appello, rivolto e raccolto dal gruppo libanese Hezbollah che, unitamente alle milizie palestinesi, hanno condotto attacchi contro le posizioni israeliane rispettivamente dal Libano meridionale e dalla Cisgiordania (fonte ISW)

Quali le ragioni all’origine di questa azione coordinata e strutturata su ampia scala?

Due i principali fattori determinanti il conflitto in corso: interni ed esterni alla questione palestinese.

Il principale fattore interno è rappresentato dalla competizione tra l’ala politica e militare di Hamas e l’Autorità nazionale palestinese (Anp), dove il primo attore intende esautorare il secondo per divenire unico punto di riferimento della popolazione palestinese e nei rapporti internazionali.

Parallelamente al fattore interno si impone quello esterno, conseguente al processo di normalizzazione dei rapporti tra paesi arabi (Arabia Saudita in primis) e Israele. Un effetto destabilizzante per le ambizioni regionali dell’Iran.

Guardando ad entrambe le dimensioni, interne ed esterne, è ovvio che fosse nell’interesse di Hamas e dell’Iran minare tale accordo. Dunque una convergenza di interessi, sebbene su basi molto diverse.

L’aver inflitto un così grave danno ad Israele, oltre ad aver evidenziato la vulnerabilità di Gerusalemme, ha dimostrato forza e volontà di Hamas (e dell’Iran) e la debolezza della classe politica dell’ANP, disposta a concedere molto (troppo) agli israeliani.

Un recente articolo di Samia Nakhoul e Jonathan Saul per Reuters getta luce su alcuni aspetti interessanti, che dovranno presto essere approfonditi per comprendere le dinamiche che hanno determinato lo scenario a cui stiamo assistendo. In primis, Hamas avrebbe costruito un finto insediamento israeliano a Gaza per addestrarsi in preparazione dell’attacco; in secondo luogo, la preparazione sarebbe durata due anni, durante i quali Hamas ha dato l’impressione di non voler entrare in conflitto aperto ma di essere piuttosto focalizzato su economia/assicurare i diritti dei lavoratori della Striscia di Gaza; infine, terzo elemento, molti leaders di Hamas sarebbero stati all’oscuro dell’operazione.

In ogni caso, il risultato ottenuto è stato quello di minare nel breve periodo l’accordo tra le parti, ricollocando la questione palestinese al centro delle dinamiche mediorientali e di tutto il mondo arabo, dopo la sostanziale marginalizzazione di fatto avvenuta negli ultimi anni.

Quali gli sviluppi possibili del conflitto in corso?

Cosa accadrà (e cosa sta già accadendo)? Gli israeliani cercheranno di decapitare la leadership di Hamas. E se questo non bastasse (e non basterà) per indurre Hamas a cessare il lancio di razzi e ad avviare negoziati per liberare gli ostaggi, allora potremmo assistere a un’invasione israeliana su vasta scala di Gaza. Con ciò proponendo uno scenario simile a quello del 2005, quando Israele lasciò Gaza dopo averla occupata, con grande sforzo e oneri straordinari (intervista a Martin Indyk, per Foreign affairs del 7 ottobre 2023).

In questo caso, sul piano operativo si pone il problema della gestione di un conflitto in un’area ad alta densità di popolazione, dove la manovrabilità delle truppe di terra e il rischio di provocare un elevato numero di vittime potrebbe provocare una reazione di massa non solo da parte degli arabi a Gaza, ma anche dei profughi palestinesi nel vicino Libano e il molto probabile coinvolgimento di Hezbollah, anche questo sostenuto dall’Iran, e contemporanee rivolte violente in Cisgiordania e nella capitale Gerusalemme. Dunque un conflitto su più fronti, veramente difficile da sostenere, nonostante il massiccio e indiscusso supporto degli Stati Uniti.

E proprio per evitare il pantano di una guerriglia urbana è molto probabile che la prima fase della risposta di Gerusalemme possa svilupparsi attraverso l’impiego massiccio dell’aviazione e di droni per attacchi mirati, con l’obiettivo di indurre Hamas a desistere dall’offensiva intrapresa. Un’opzione operativa che potrebbe avere qualche speranza di successo solo se i paesi arabi più influenti su Hamas (Arabia Saudita, Qatar, Egitto) riuscissero attraverso un’azione diplomatica ad incidere sul gruppo palestinese. È una possibilità, ma la probabilità che ciò avvenga è molto limitata.

Al contrario, almeno nelle intenzioni di Hamas, è l’escalation di violenza il risultato fortemente voluto e ricercato dal gruppo. E questo perché è l’unica opzione per far rivoltare le opinioni pubbliche dei paesi arabi nei confronti delle rispettive leadership di governo (in particolare Arabia Saudita, l’Egitto, la Giordania, insieme a quelli che hanno aderito all’“accordo di Abramo” avviato dall’allora presidente statunitense Donald J. Trump), perché l’obiettivo strategico di Hamas è quello di cancellare Israele dalla faccia della terra.

Insomma, l’unica carta vincente di Hamas (a dispetto delle esigenze e delle priorità dei palestinesi di Gaza), è l’intensificazione e l’allargamento del conflitto che coinvolga quanti più attori possibili, così da ottenere la sconfitta e la distruzione di Israele, l’unica democrazia liberale in tutto il Medioriente.


Competizione NATO e Cina-Russia nel Mar del Giappone

di Andrea Molle

La reazione sino-russa alla diplomazia NATO nell’indo-pacifico, che include anche i recenti sforzi italiani, non si fa attendere. Dopo la conferma delle indiscrezioni di una futura apertura di un liaison office dell’Alleanza in Giappone, ipotesi peraltro volutamente omessa dalle dichiarazioni ufficiali dell’incontro di Vilnius, i due paesi annunciano un’esercitazione navale comune nel Mar del Giappone.

Il Mar del Giappone è un fondamentale teatro strategico sia per la Cina che per la Russia. In particolare gli stretti di Soya, di Tsushima e Tsugaru hanno importanti implicazioni per la sicurezza nazionale di Beijin e Mosca. Sabato, il Ministro della Difesa cinese ha dichiarato che forze navali e aeree russe prenderanno parte alle esercitazioni militari “Northern/Interaction”, organizzate dal comando del teatro settentrionale dell’Esercito Popolare di Liberazione (PLA). Va precisato che le relazioni militari tra i due paesi non sono una novità; basti ricordare, ad esempio, che a partire dal 2018, la Cina ha partecipato regolarmente alle principali esercitazioni annuali russe tra cui “Vostok 2018”, “Tsentr-2019” e “Kavkaz-2020”. Nell’agosto 2021, la Russia ha anche preso parte all’esercitazione “Western/Interaction”, condotta nella regione autonoma dello Ningxia Hui, nella Cina nord-occidentale, la prima in cui la Cina ha invitato a partecipare forze armate straniere. Successivamente, nel 2022, Beijin ha inviato componenti delle sue forze terrestri, navali e aeree in Russia per partecipare alle esercitazioni “Vostok 2022” le cui attività si sono svolte in ben 13 siti addestrativi russi e in diverse aree di interesse del Mar del Giappone.

Tuttavia, quest’ultima campagna addestrativa comune, che si aggiunge all’attività di pattugliamento congiunto del Mar del Giappone e del Mar Cinese Orientale da parte delle due Forze Armate iniziata lo scorso giugno, sembra rappresentare un salto di qualità verso un vero e proprio partenariato strategico. Il Ministero della Difesa ha infatti sottolineato come questa esercitazione congiunta abbia sì uno scopo prettamente operativo, cioè di acquisire le capacità necessarie al mantenimento della sicurezza delle rotte marittime strategiche, ma ha anche aggiunto che, tramite lo sviluppo di più strette relazioni militari, Cina e Russia intendono affermarsi politicamente come i reali garanti della pace e della stabilità nella regione.

Diversi esperti militari prevedono anche che queste attività addestrative andranno ad aumentare in futuro, anche grazie alla probabile rotazione tra tutti e cinque i comandi del PLA che potranno interessare diversi teatri strategici e scenari di conflitto tra i quali naturalmente spicca l’isola di Taiwan.

Ancora non si conosce l’entità nè la configurazione del contingente navale russo, ma la componente navale cinese sembra includere i cacciatorpedinieri missilistici Qiqihar e Guiyang, le fregate missilistiche Zaozhuang e Rizhao e la nave da rifornimento Taihu, salpate dal porto di Qingdao, sito nella provincia dello Shandong nella Cina orientale.

Fotografia di Michael Afonso