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I pericoli di una guerra tra Israele e Giordania

di Andrea Molle, dagli Stati Uniti.

Una guerra tra Israele e Giordania rimane uno scenario improbabile ma potenzialmente catastrofico. Dal trattato di pace del 1994, i due Paesi hanno mantenuto una cooperazione diplomatica e di sicurezza, rendendo un conflitto armato poco realistico. Tuttavia, il Medio Oriente è una regione dove le tensioni possono degenerare rapidamente, e in caso di guerra, le conseguenze sarebbero profonde, andando ben oltre il campo di battaglia e ridisegnando gli equilibri regionali e globali.

Dal punto di vista militare, Israele detiene un vantaggio schiacciante. La sua forza aerea all’avanguardia, i sofisticati sistemi di difesa missilistica e le capacità di guerra cibernetica lo rendono una delle potenze militari più avanzate al mondo. L’esercito giordano, pur essendo professionale e ben addestrato, non ha la potenza offensiva e il livello tecnologico necessari per sostenere una guerra prolungata contro Israele. Sebbene il territorio montuoso della Giordania possa offrire qualche vantaggio difensivo, le sue principali città e infrastrutture sarebbero altamente vulnerabili agli attacchi aerei israeliani. D’altra parte, le città israeliane come Tel Aviv e Gerusalemme sarebbero nel raggio d’azione dei missili giordani, ma la difesa missilistica israeliana, come l’Iron Dome, riuscirebbe probabilmente a neutralizzare gran parte della minaccia.

Se una guerra dovesse scoppiare sotto un’amministrazione statunitense guidata da Donald Trump, lo scenario geopolitico cambierebbe radicalmente. Trump ha dimostrato in passato un sostegno incondizionato a Israele, spostando l’ambasciata americana a Gerusalemme e riconoscendo la sovranità israeliana sulle Alture del Golan. In caso di conflitto, Washington si schiererebbe quasi certamente con Israele, fornendo supporto militare, bloccando iniziative diplomatiche per moderarne le azioni e facendo pressione sulla Giordania affinché de-escalasse rapidamente. Questa posizione potrebbe incoraggiare la leadership israeliana a proseguire le operazioni belliche senza cercare una soluzione negoziata immediata, prolungando così il conflitto. Allo stesso tempo, tale politica alienerebbe ulteriormente gli alleati arabi come Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, mettendoli in una posizione difficile: da un lato il sostegno diplomatico alla Giordania, dall’altro la necessità di preservare le proprie relazioni con Israele.

Le conseguenze economiche di un tale conflitto sarebbero devastanti. La Giordania, già dipendente dagli aiuti esteri e dalla cooperazione economica con Israele, subirebbe danni enormi, con la distruzione delle infrastrutture e il collasso del commercio. Israele, pur avendo un’economia più solida, vedrebbe comunque una forte instabilità nei mercati, un crollo del turismo e possibili interruzioni nei settori tecnologico e della difesa. Se il conflitto si espandesse, le ripercussioni si farebbero sentire anche sul mercato globale del petrolio, causando un’impennata dei prezzi e nuove turbolenze economiche. Oltre agli effetti militari ed economici, uno degli aspetti più preoccupanti di un conflitto tra Israele e Giordania sarebbe la recrudescenza del terrorismo internazionale.

La storia ha dimostrato come la guerra e l’instabilità in Medio Oriente rappresentino un terreno fertile per i gruppi jihadisti, e una guerra tra questi due Paesi potrebbe aprire la strada a nuove offensive terroristiche. L’ISIS-K, già in espansione, potrebbe approfittare del caos per rafforzarsi e lanciare attacchi sia in Israele che in Giordania, utilizzando il conflitto come strumento di propaganda e reclutamento.

Inoltre, il rischio di attentati in Europa, negli Stati Uniti e in altri Paesi occidentali aumenterebbe, alimentato dalla radicalizzazione generata dal conflitto. L’eventualità di una nuova ondata di terrorismo globale costringerebbe i governi a rivedere le loro strategie di sicurezza e a destinare ingenti risorse alla lotta contro il jihadismo. Gli esiti possibili di un tale conflitto sono diversi. Uno scenario relativamente contenuto potrebbe portare a un cessate il fuoco mediato dagli Stati Uniti o da potenze regionali come l’Arabia Saudita e l’Egitto.

Tuttavia, se la guerra si prolungasse e altri attori esterni, come l’Iran, Hezbollah e le fazioni palestinesi, vi prendessero parte, il rischio di una più ampia escalation regionale diventerebbe concreto. La Giordania stessa potrebbe affrontare un periodo di grave instabilità politica, con il regime hashemita indebolito dal conflitto e minacciato da proteste interne o persino da un colpo di stato. Nel peggiore dei casi, la guerra potrebbe segnare l’inizio di una nuova era di caos nel Medio Oriente, rafforzando le organizzazioni estremiste e ridefinendo le alleanze regionali. Alla fine, una guerra tra Israele e Giordania sarebbe disastrosa per entrambi i Paesi e per l’intera regione.

I costi strategici, economici e di sicurezza supererebbero di gran lunga qualsiasi possibile vantaggio, rendendo un conflitto su vasta scala altamente improbabile. Tuttavia, la storia ha dimostrato che errori di calcolo politici, provocazioni esterne o cambiamenti nelle alleanze possono portare nazioni apparentemente stabili verso la guerra. Anche se un conflitto aperto tra Israele e Giordania resta poco plausibile, il rischio di tensioni al confine, scontri indiretti e crisi diplomatiche non deve essere sottovalutato. L’unica vera soluzione rimane il dialogo e l’impegno diplomatico, perché l’alternativa—a un conflitto dalle conseguenze imprevedibili e devastanti—sarebbe una tragedia per l’intero Medio Oriente.


L’espansione nucleare cinese e il dilemma strategico dell’India.

di Andrea Molle, dagli Stati Uniti.

Il recente rapporto dell’United States Peace Institute, “Assessing India’s Perceptions of China’s Nuclear Expansion”, getta nuova luce sulle crescenti preoccupazioni di Nuova Delhi riguardo all’ampliamento dell’arsenale nucleare cinese. Mentre Pechino rafforza il proprio deterrente strategico, l’India si trova ad affrontare un dilemma cruciale: come rispondere senza innescare una pericolosa corsa agli armamenti?

Secondo il rapporto, gli esperti indiani ritengono che l’espansione cinese sia guidata non solo da necessità di sicurezza, ma anche dal desiderio di consolidare il proprio status di superpotenza. La costruzione di nuovi silos missilistici e il rafforzamento delle capacità di secondo attacco rientrano in una strategia più ampia volta a contrastare gli Stati Uniti, con ripercussioni dirette anche sull’Asia meridionale. Questa evoluzione del panorama nucleare spinge l’India a riesaminare la propria dottrina di “No First Use” (NFU), che finora ha garantito stabilità ma potrebbe risultare obsoleta di fronte a una Cina più assertiva. Inoltre, l’approfondirsi del partenariato sino-pakistano in materia di difesa nucleare aggiunge un ulteriore livello di complessità, alimentando il timore di un doppio fronte strategico. La stretta cooperazione tra Pechino e Islamabad rappresenta una sfida significativa per Nuova Delhi, poiché potrebbe consentire al Pakistan di rafforzare il proprio arsenale con il supporto tecnologico cinese.

Questo scenario complica ulteriormente la posizione dell’India, che deve gestire contemporaneamente due rivali nucleari con una crescente coordinazione strategica. A livello diplomatico, Nuova Delhi deve affrontare una sfida difficile: mantenere un dialogo costruttivo con Pechino senza apparire debole agli occhi dei propri alleati e della comunità internazionale. L’India ha già intensificato i propri rapporti con il Quadrilateral Security Dialogue (QUAD), un’alleanza informale con Stati Uniti, Giappone e Australia, per contrastare l’influenza cinese nella regione Indo-Pacifica. Tuttavia, questa strategia potrebbe aumentare le tensioni con Pechino, portando a una maggiore instabilità geopolitica. Un altro aspetto da considerare è il contesto più ampio dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), un gruppo che, pur rappresentando una piattaforma di cooperazione economica e politica tra potenze emergenti, è segnato da tensioni latenti. In particolare, la crescente asimmetria di potere tra India e Cina mina la coesione interna del gruppo, con Pechino che cerca di affermarsi come leader, spesso in contrasto con gli interessi strategici di Nuova Delhi.

Un altro fattore da considerare è il ruolo della deterrenza convenzionale. Sebbene l’India disponga di un arsenale nucleare credibile, la capacità di rispondere efficacemente a eventuali provocazioni cinesi dipende anche dalla modernizzazione delle forze armate convenzionali. L’incremento del budget per la difesa e l’acquisto di nuove tecnologie militari sono passi essenziali per garantire la sicurezza del paese senza ricorrere esclusivamente alla minaccia nucleare. Inoltre, l’India deve valutare la possibilità di rafforzare la propria presenza navale nell’Oceano Indiano, un’area strategicamente cruciale dove la Cina sta ampliando la sua influenza attraverso la Belt and Road Initiative e le basi militari nei paesi vicini. Allo stesso tempo, l’India deve affrontare il problema della proliferazione nucleare nella regione.

La cooperazione tra Cina e Pakistan in ambito nucleare desta notevoli preoccupazioni, soprattutto per il rischio che la tecnologia avanzata venga trasferita a gruppi non statali o utilizzata per scopi offensivi. Un rafforzamento della sicurezza alle frontiere e delle capacità di intelligence sarà fondamentale per prevenire potenziali minacce asimmetriche. Inoltre, Nuova Delhi deve lavorare a stretto contatto con i propri alleati per sviluppare strategie di contenimento e ridurre il rischio di instabilità regionale. Per evitare un’escalation, l’India deve bilanciare deterrenza e diplomazia. Rafforzare le proprie capacità missilistiche e di difesa senza compromettere il dialogo con Pechino sarà essenziale per garantire la sicurezza regionale.

Il mondo assiste a una trasformazione degli equilibri strategici, e la risposta di Nuova Delhi definirà il futuro della stabilità in Asia. Nel lungo periodo, la sfida più grande sarà quella di trovare un equilibrio tra la sicurezza nazionale e la cooperazione internazionale, evitando di cadere in una spirale di competizione nucleare senza fine. In definitiva, la strategia dell’India nei confronti dell’espansione nucleare cinese dovrà essere multidimensionale, combinando deterrenza, diplomazia e modernizzazione delle capacità difensive. Solo attraverso un approccio strategico complessivo sarà possibile affrontare questa sfida con successo, mantenendo la pace e la stabilità nella regione. La capacità di Nuova Delhi di gestire la crescente pressione strategica della Cina e del Pakistan definirà non solo il futuro della sicurezza indiana, ma anche l’equilibrio generale dell’Asia nel XXI secolo.


L’Italia in prima linea nel Sahel: sfide e opportunità dopo il ritiro francese.

di Andrea Molle, dagli Stati Uniti.

Dopo il ritiro dell’ultima presenza francese, l’Italia rimane l’unico paese europeo con una presenza rilevante nel Sahel. Una situazione che apre a diverse opportunità, ma che pone anche diverse sfide che Roma dovrà affrontare con una strategia il più possibile integrata. L’Italia ha infatti una presenza militare significativa nell’Africa subsahariana, con diverse missioni volte a garantire sicurezza, contrastare il terrorismo e sostenere la stabilità della regione. Queste missioni vedono Roma impegnata in Niger, Ciad, Gibuti, Somalia e nel Golfo di Guinea, sia attraverso operazioni bilaterali sia nel contesto di missioni UE, NATO e ONU. L’Italia ha una presenza militare in Niger nell’ambito della missione “MISIN” (Missione Bilaterale di Supporto nella Repubblica del Niger), avviata nel 2018 con l’obiettivo di supportare le autorità locali nella lotta al terrorismo, al traffico di esseri umani e al crimine organizzato. L’operazione si inquadra in un più ampio impegno dell’Italia nel Sahel, volto a garantire stabilità e sicurezza nella regione, contrastando le minacce che possono avere ripercussioni anche sull’Europa, come il flusso migratorio irregolare.

La missione italiana in Niger

La missione italiana in Niger prevede principalmente attività di addestramento e formazione delle forze di sicurezza locali, con lo scopo di migliorare le loro capacità operative. I militari italiani, appartenenti a diverse unità delle Forze Armate, forniscono corsi su tecniche di combattimento, operazioni speciali, sorveglianza e gestione delle frontiere. Inoltre, il supporto logistico e sanitario è una componente essenziale dell’operazione. Il contingente italiano in Niger è composto da alcune centinaia di unità, con la possibilità di impiegare fino a 470 militari, 130 veicoli e mezzi aerei per esigenze logistiche e di ricognizione. L’Italia ha stabilito la sua base operativa a Niamey, la capitale del Niger, collaborando con le autorità locali e con altri partner internazionali, tra cui Stati Uniti e in passato la Francia. L’operazione si inserisce anche in un contesto più ampio di cooperazione tra Italia e Niger, che comprende iniziative di sviluppo, aiuti umanitari e investimenti per migliorare le condizioni economiche e sociali del paese africano. Tuttavia, la situazione politica in Niger è instabile, con il recente colpo di Stato del 2023 che ha portato alla revisione delle relazioni tra il governo nigerino e gli stati occidentali, incluso l’Italia.

Nonostante le incertezze geopolitiche, la missione italiana in Niger rappresenta un tassello importante nella strategia di difesa e sicurezza dell’Italia nel Sahel, contribuendo alla stabilizzazione di un’area cruciale per gli equilibri geopolitici ed economici della regione e dell’Europa. Oltre al Niger, l’Italia mantiene anche una presenza militare limitata nel vicino Ciad, focalizzandosi principalmente su attività di collegamento, addestramento e supporto alle missioni internazionali presenti nella regione del Sahel. Questo impegno si inserisce in un contesto più ampio di cooperazione multilaterale finalizzata al contrasto del terrorismo, alla stabilizzazione dell’area e al rafforzamento delle capacità delle forze di sicurezza locali. L’attività italiana si sviluppa in sinergia con le operazioni condotte da organizzazioni internazionali come l’Unione Europea, le Nazioni Unite e il G5 Sahel, fornendo supporto strategico e operativo attraverso la condivisione di intelligence, l’addestramento delle forze armate locali e il coordinamento con altri contingenti militari presenti nell’area. Infine, l’Italia partecipa a iniziative volte a migliorare la sicurezza delle frontiere del paese, prevenire il traffico di armi e contrastare la radicalizzazione, elementi chiave per la stabilità del Ciad e dell’intero Sahel.

L’approccio italiano

L’approccio italiano si distingue per una forte attenzione alla cooperazione civile-militare, promuovendo non solo la sicurezza, ma anche lo sviluppo e la resilienza delle comunità locali. L’Italia dispone poi di una base militare a Gibuti, la Base Militare Italiana di Supporto (BMIS), operativa dal 2013. Situata in una posizione strategica nel Corno d’Africa, la BMIS funge da hub logistico e operativo, sviluppando capacità di intelligence, per le forze armate italiane impegnate in missioni nella regione dell’Africa orientale e nell’Oceano Indiano. Questa base rappresenta un’infrastruttura chiave per il supporto delle operazioni di contrasto alla pirateria marittima, contribuendo alla sicurezza delle rotte commerciali e al pattugliamento delle acque internazionali. Inoltre, fornisce supporto logistico e operativo a diverse missioni italiane ed europee nella regione, tra cui la partecipazione italiana alle operazioni EUNAVFOR Atalanta (contro la pirateria nel Golfo di Aden) e EUTM Somalia, dedicata all’addestramento delle forze armate somale.

La presenza della BMIS consente inoltre il rapido dispiegamento di unità italiane in caso di emergenze o crisi nell’area, rafforzando il ruolo dell’Italia nella sicurezza e stabilizzazione del Corno d’Africa. La base ospita personale militare e infrastrutture di supporto avanzate, permettendo la manutenzione dei mezzi, il rifornimento e l’assistenza alle forze italiane e alle missioni alleate. Oltre agli aspetti militari, la BMIS rappresenta anche un punto di cooperazione con le autorità locali gibutiane, contribuendo a rafforzare le relazioni diplomatiche tra Italia e Gibuti e a sostenere iniziative di sicurezza regionale, stabilità e sviluppo. Naturalmente, l’Italia mantiene una presenza significativa in Somalia, contribuendo attivamente alla sicurezza e alla stabilizzazione del paese attraverso due principali missioni internazionali. Si tradda di EUTM Somalia (European Union Training Mission in Somalia): una missione dell’Unione Europea attiva dal 2010, finalizzata all’addestramento e alla formazione dell’Esercito Nazionale Somalo (SNA) per rafforzarne le capacità operative e consentire al governo somalo di affrontare minacce alla sicurezza interna, in particolare quelle rappresentate dal gruppo terroristico Al-Shabaab.

Gli istruttori militari italiani: strumento politico

L’Italia svolge un ruolo di primo piano in questa missione, fornendo istruttori militari, consulenti e supporto strategico. Il personale italiano è impegnato nella formazione di ufficiali somali su aspetti tattici, strategici e logistici, nonché nella promozione dei principi del diritto internazionale umanitario. L’obiettivo è costruire un esercito somalo professionale ed efficiente, capace di garantire la sicurezza del paese in autonomia. Oltre alla formazione militare, la missione si concentra sullo sviluppo della leadership militare somala e sul rafforzamento delle istituzioni della difesa, contribuendo alla creazione di una catena di comando e controllo più efficace. La seconda operazione, denominata Operazione Atalanta, è una missione navale dell’Unione Europea (EUNAVFOR Atalanta) avviata nel 2008, con l’obiettivo di contrastare la pirateria nel Golfo di Aden e nell’Oceano Indiano, proteggere le navi mercantili e garantire la sicurezza delle rotte marittime strategiche. L’Italia partecipa attivamente all’operazione con unità navali, elicotteri e personale militare, svolgendo pattugliamenti e scorte a navi commerciali e umanitarie, in particolare quelle del Programma Alimentare Mondiale (WFP) dirette in Somalia.

I compiti della marina Militare

La Marina Militare Italiana ha avuto un ruolo di rilievo nella missione, contribuendo alla deterrenza della pirateria e al mantenimento della sicurezza nelle acque internazionali. L’Operazione Atalanta ha avuto un impatto significativo, riducendo drasticamente gli attacchi dei pirati e rafforzando la cooperazione tra le forze navali internazionali. L’Italia, oltre al contributo operativo, ha avuto spesso comandi di alto livello all’interno della missione, confermando il suo impegno nella sicurezza marittima globale. Oltre alla partecipazione a queste missioni, l’Italia mantiene forti legami storici e diplomatici con la Somalia, un paese che è stato colonia italiana fino alla metà del XX secolo. L’impegno italiano va oltre l’aspetto militare e include cooperazione allo sviluppo, supporto umanitario e iniziative per la stabilizzazione politica.

Attraverso le missioni EUTM Somalia e Operazione Atalanta, l’Italia contribuisce in modo significativo alla sicurezza e alla stabilità del Corno d’Africa, consolidando il proprio ruolo come attore chiave nelle operazioni internazionali della regione. Infine, con l’Operazione Gabinia, l’Italia si è impegnata a rafforzare la sicurezza marittima nel Golfo di Guinea, un’area cruciale per il traffico internazionale di petrolio e merci, ma anche una delle zone più colpite dalla pirateria marittima. L’invio di unità navali italiane mira a contrastare gli atti di pirateria, proteggere le navi commerciali (in particolare quelle battenti bandiera italiana) e garantire la sicurezza delle infrastrutture marittime essenziali per gli interessi economici globali. Tutte queste operazioni si inseriscono in un contesto più ampio di impegno italiano nella regione, che include cooperazione economica, militare e diplomatica con diversi paesi dell’Africa occidentale.

L’Italia sta cercando di sviluppare partnership strategiche che comprendano iniziative di sviluppo, aiuti umanitari e investimenti per migliorare le condizioni economiche e sociali dei paesi coinvolti, contribuendo così alla loro stabilità e alla riduzione delle cause profonde di instabilità e migrazione forzata. Tra le principali aree di intervento figurano la formazione delle forze di sicurezza locali, il controllo delle frontiere, il contrasto ai traffici illeciti (droga, armi, esseri umani) e la lotta al terrorismo jihadista, che rappresenta una minaccia crescente nella regione del Sahel. In particolare, il rafforzamento delle capacità di sicurezza e intelligence locali è cruciale per contrastare gruppi estremisti come Al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM), Boko Haram e lo Stato Islamico nel Grande Sahara (ISGS), che sfruttano le fragilità istituzionali e le tensioni etniche per espandere la loro influenza.

Mosca e Pechino: una sfida?

Un ulteriore obiettivo che l’Italia dovrà perseguire con maggiore decisione in futuro riguarda la contenzione della crescente penetrazione geopolitica di Russia e Cina nella regione. Mosca ha rafforzato la propria presenza militare e politica attraverso l’azione dei gruppi paramilitari, come il Wagner Group, offrendo supporto ai regimi autoritari e alle giunte militari in cambio di risorse naturali e basi strategiche.

Pechino, invece, continua a espandere la sua influenza economica tramite ingenti investimenti infrastrutturali e finanziari, spesso attraverso il meccanismo del debito che vincola i governi locali agli interessi cinesi. Di fronte a questi sviluppi, l’Italia, in coordinamento con gli Stati Uniti e i gli altri partner NATO, dovrà rafforzare la propria presenza politico-militare, intensificare la cooperazione con i governi locali e promuovere modelli di sviluppo alternativi, basati sulla sostenibilità e sull’autodeterminazione economica dei paesi africani.

L’impegno italiano in Africa occidentale si configura quindi sempre più come un delicato equilibrio tra sicurezza, diplomazia, cooperazione allo sviluppo e protezione degli interessi strategici nazionali ed europei.


L’Etiopia, l’interesse dell’Italia tra competitor e alleati: il “piano Mattei”.

di Claudio Bertolotti.

Grazie al sostegno italiano, verrà aperto in Etiopia un nuovo incubatore di imprese tecnologicamente innovative, nell’ambito di una cooperazione per il rafforzamento dei servizi digitali nel Paese del Corno d’Africa. È questo uno dei principali risultati della missione in Etiopia del Ministro italiano dell’Università e della Ricerca, Anna Maria Bernini. È “un grande piacere essere ad Addis Abeba al fianco del Ministro delle Finanze etiope, Ahmed Shide”, ha scritto il Ministro sui social network, sottolineando che il progetto mira a formare e sostenere giovani talenti etiopi con idee imprenditoriali innovative(AGI).

L’Etiopia non è solo il cuore pulsante dell’Africa orientale, ma anche un crocevia di interessi geopolitici ed economici di primaria importanza per l’Italia. Con una popolazione in rapida crescita e un’economia tra le più dinamiche del continente, il paese rappresenta un potenziale strategico ancora in gran parte inesplorato.

Sebbene la sua storia sia segnata da conflitti e tensioni interne, l’Etiopia si proietta verso il futuro con ambizioni di sviluppo e modernizzazione. La sua posizione geografica, che la rende un nodo essenziale per le rotte commerciali del Corno d’Africa, e il suo ruolo di leadership nel continente africano, con Addis Abeba sede dell’Unione Africana, la collocano al centro di dinamiche cruciali per la stabilità e la sicurezza regionale.

Per l’Italia, l’Etiopia rappresenta un’opportunità unica. Dalle collaborazioni nel settore energetico e infrastrutturale alla sicurezza e alla lotta al terrorismo, passando per il rilancio degli scambi commerciali, il legame tra i due paesi può rafforzarsi ulteriormente grazie alle iniziative del Piano Mattei, volto a rilanciare il ruolo italiano in Africa attraverso una cooperazione concreta e mirata.

Ma quali sono le sfide da affrontare? E quali le reali opportunità che l’Italia può cogliere in questo contesto? Un’analisi approfondita di questa relazione
(disponibile nell’allegato documento in formato Pdf) permetterà di comprendere come e perché l’Etiopia sia un partner chiave per il futuro della politica estera ed economica italiana.

Lo abbiamo anticipato, l’Etiopia si conferma come un attore chiave nel contesto geopolitico dell’Africa orientale. Con una popolazione che supera i 120 milioni di abitanti e un’economia in crescita sostenuta dagli investimenti infrastrutturali e dal settore agricolo, il paese rappresenta una realtà con cui l’Italia intende rafforzare i rapporti. La sua posizione strategica, tra il Corno d’Africa e le principali rotte commerciali internazionali, la rende un perno per la stabilità dell’intera regione. Tuttavia, le sfide interne, tra cui tensioni etniche e instabilità politica, rappresentano fattori critici da gestire con una strategia di lungo termine. In questo contesto, il “Piano Mattei” emerge come un’opportunità per consolidare la presenza italiana nel paese attraverso una cooperazione che spazia dalla sicurezza allo sviluppo economico.

L’importanza dell’Etiopia nel contesto geopolitico

L’Etiopia confina con Eritrea, Sudan, Sud Sudan, Kenya, Somalia e Gibuti, trovandosi al centro di una regione attraversata da profonde tensioni geopolitiche. La mancanza di uno sbocco marittimo dal 1993 ha reso essenziale l’accesso ai porti di Gibuti per il commercio internazionale, rafforzando la necessità di investimenti infrastrutturali. Inoltre, la presenza della sede dell’Unione Africana ad Addis Abeba sottolinea il ruolo politico centrale del paese nel continente.

Struttura politica e sfide interne

L’Etiopia è organizzata come una Repubblica Federale Parlamentare, con un assetto politico che, nonostante le riforme, continua a essere segnato da divisioni etniche e conflitti interni. Dal 2018, il governo del Primo Ministro Abiy Ahmed ha tentato di modernizzare il paese, ma ha dovuto fronteggiare una grave crisi nel Tigray (2020-2022) e continue tensioni nelle regioni di Oromia e Amhara. L’instabilità politica si riflette anche nella sicurezza interna, con la presenza di milizie locali che spesso sfidano l’autorità centrale.

Economia e opportunità di sviluppo

Nonostante le difficoltà, l’Etiopia mantiene un tasso di crescita economica significativo, sostenuto dai settori chiave:

– Agricoltura (40% del PIL): principale fonte di reddito del paese, con l’export di caffè e sesamo tra i più rilevanti.

– Industria (25%): in forte espansione, grazie agli investimenti nelle infrastrutture e nella manifattura.

– Energia e trasporti: con la modernizzazione della rete ferroviaria Addis Abeba-Gibuti e il potenziamento della produzione idroelettrica, sebbene la costruzione della Grand Ethiopian Renaissance Dam (GERD) abbia generato tensioni con Egitto e Sudan.

Il Piano Mattei e le opportunità di collaborazione con l’Italia

L’Italia ha una lunga storia di rapporti con l’Etiopia, caratterizzata da momenti di difficoltà ma anche da significative collaborazioni. Oggi, il “Piano Mattei” si configura come un’iniziativa strategica per rafforzare i legami tra i due paesi attraverso azioni mirate nei seguenti ambiti:

1. Sviluppo delle infrastrutture: progetti per il miglioramento delle reti di trasporto, con particolare attenzione ai collegamenti ferroviari e stradali per potenziare il commercio regionale.

2. Settore della difesa e sicurezza: programmi di formazione per le forze armate etiopi, cooperazione nella lotta al terrorismo e supporto tecnico per la gestione della sicurezza interna.

3. Collaborazione energetica: investimenti nel settore delle energie rinnovabili, in particolare per lo sviluppo di progetti idroelettrici e solari.

4. Innovazione agricola e sicurezza alimentare: trasferimento di tecnologie italiane per la modernizzazione dell’agricoltura etiope, migliorando la produttività e la sostenibilità del settore.

5. Relazioni bilaterali e sviluppo economico: promozione di investimenti italiani in Etiopia per incentivare la crescita industriale e manifatturiera, con il supporto di aziende e istituzioni finanziarie.

Competitor e potenziali partner nell’area

L’Italia non è l’unico attore internazionale a guardare con interesse all’Etiopia. Tra i principali competitor si annoverano la Cina, fortemente presente nel settore infrastrutturale con investimenti nella ferrovia Addis Abeba-Gibuti e nella costruzione di grandi opere; la Turchia, che ha consolidato la propria presenza attraverso investimenti manifatturieri e la vendita di armamenti, tra cui droni militari; la Russia, che cerca di rafforzare i rapporti nel settore della difesa e dell’energia; e gli Stati Uniti, tradizionalmente coinvolti in programmi di sviluppo e sicurezza nella regione.

Tuttavia, l’Italia può contare su potenziali alleati strategici. La Francia, con cui condivide l’interesse per la stabilità del Corno d’Africa e il rafforzamento delle infrastrutture regionali, potrebbe essere un partner complementare. Anche l’Unione Europea, nell’ambito delle proprie politiche di sviluppo e investimenti in Africa, rappresenta un interlocutore di rilievo per un’azione congiunta in Etiopia. A livello regionale, il Kenya e Gibuti si configurano come partner commerciali cruciali per sviluppare corridoi logistici e sinergie economiche.

Prospettive future e implicazioni strategiche

L’Etiopia si trova a un crocevia: da un lato, il suo potenziale economico e la sua posizione strategica la rendono un partner cruciale per l’Italia e per l’Europa; dall’altro, le tensioni interne e le sfide regionali rappresentano un rischio per la stabilità. Il successo del “Piano Mattei” dipenderà dalla capacità di garantire investimenti efficaci e sostenibili, mantenendo un dialogo diplomatico costante e supportando il rafforzamento della sicurezza interna. Per l’Italia, consolidare i rapporti con l’Etiopia significa non solo ampliare le opportunità economiche, ma anche contribuire alla stabilità del Corno d’Africa, con implicazioni positive per l’intero Mediterraneo.


Gaza: attacco all’ospedale Kamal Adwan. Israele e il precedente di al-Shifa: nuovo standard umanitario.

di Claudio Bertolotti.

Articolo tratto dal libro di C. Bertolotti, Gaza underground. La guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas. ed. START InSight (2024).

Le Forze di difesa israeliane (IDF) nel raid all’ospedale Kamal Adwan nel nord di Gaza, utilizzato da Hamas come posto di Comando per l’organizzazione terrorista, ha eliminato 19 miliziani, tra i quali alcuni responsabili dell’attacco a Israele del 7 ottobre 2023.
Le IDF, in coordinamento con lo Shin Bet (Agenzia per la sicurezza israeliana), ha inoltre arrestato oltre 240 terroristi nell’operazione mirata a contrastare l’ultimo tentativo di Hamas di ricostituirsi nel nord di Gaza; un tentativo da parte del comando dei miliziani palestinesi che ha intenzionalmente sfruttato la struttura dell’ospedale Kamal Adwan a Jabaliya, utilizzando la nota strategia degli scudi umani, in questo casi cittadini ricoverati all’interno dell’ospedale. Un episodio che, da un lato conferma la volontà criminale di Hamas e, dall’altro, evidenzia come le forze armate israeliane stiano facendo il possibile per ridurre l’impatto della guerra sulla popolazione civile palestinese. Contrariamente a quanto il mainstream mediatico tenda a descrivere la condotta di una guerra che, seppur molto violenta, è storicamente l’evento con il più basso numero di vittime collaterali tra i non combattenti.

Operazione nell’ospedale al-Shifa: un nuovo standard umanitario?

La guerra Israele-Hamas ha dato modo alle forze israeliane di concettualizzare e implementare uno standard innovativo di guerra urbana che non trova precedenti nella storia militare. Nel marzo 2024, le Idf condussero un’operazione mirata nell’ospedale al-Shifa nella Striscia di Gaza – utilizzato come base logistica e operativa da Hamas – adottando precauzioni eccezionali per la protezione di civili nella fase di avvicinamento, accesso e gestione della struttura. Un approccio che vide l’impiego, unitamente a militari, di unità di medici e paramedici israeliani deputati all’assistenza dei pazienti civili palestinesi ricoverati nell’infrastruttura sanitaria, e squadre logistiche di supporto per il rifornimento di cibo, acqua e forniture mediche per gli stessi.[1]

Dunque, un approccio volto a limitare i danni causati dalla presenza di Hamas all’interno dell’infrastruttura sostenendo, al contempo, il massimo sforzo per andare incontro alle necessità dei pazienti ricoverati e per minimizzare le vittime civili. Primo esempio nella storia della guerra urbana, questo metodo rappresenta l’adozione di uno standard innovativo quanto oneroso, sia in termini di risorse impiegate sia per l’accettazione di un maggiore rischio intrinseco per il personale militare impegnato all’interno dell’infrastruttura. Dal punto di vista dottrinale, come su quello storico, è il primo caso di un esercito che abbia preso tali misure per occuparsi della popolazione civile avversaria, tenuto conto della concomitanza delle operazioni militari offensive all’interno dello stesso edificio. Secondo l’opinione dell’analista John Spencer, pubblicata nel suo articolo Israel has created a new standard for urban warfare. Why will no one admit it?, Israele avrebbe adottato «più precauzioni per prevenire danni ai civili di qualsiasi altro esercito nella storia, andando ben oltre ciò che richiede il diritto internazionale e più di quanto fatto dagli Stati Uniti nelle loro più recenti guerre in Iraq e Afghanistan».[2]

Un precedente, quello di al-Shifa, che si pone come caso studio per la gestione dello spazio urbano e la sicurezza dei civili in aree operative che, a fronte di un evidente svantaggio tattico, consente alle forze militari impegnate in operazioni dal potenziale forte impatto mediatico di prevenire accuse di violazioni dello jus in bello e delle convenzioni internazionali. Questo precedente apre doverosamente a una riflessione su tali applicazioni tattiche e sui limiti auto-imposti a tutela della popolazione civile, non solamente per ragioni prettamente umanitarie ma anche, e forse prevalentemente, in un’ottica difensiva sul piano della cognitive warfare e della propaganda avversaria che, da un lato e come abbiamo visto, utilizza infrastrutture civili per scopi militari e, dall’altro, strumentalizza a proprio favore le eventuali vittime civili in conseguenza dello scontro militare all’interno di quei siti (il law-fare).

La teoria occidentale predominante nella gestione delle operazioni militari, così come abbiamo descritto in apertura di questo capitolo, si basa sul concetto di “guerra di manovra”, tesa a cercare di frantumare moralmente e fisicamente un nemico con forza e velocità sorprendenti e schiaccianti, colpendo i centri di gravità, politici e militari, affinché il nemico sia distrutto o si arrenda rapidamente. Questo è stato il caso nelle invasioni di Panama nel 1989, dell’Afghanistan nel 2001, dell’Iraq nel 2003 e del tentativo della Russia di prendere in tempi rapidi l’Ucraina nel 2022. In tutti questi casi, non è stato dato nessun preavviso o tempo sufficiente ai civili per evacuare le città, con ciò provocando la morte di un significativo numero di non combattenti. Israele ha abbandonato questo consolidato “approccio da manuale”, e lo ha fatto nell’ottica primaria di prevenire danni ai civili. Le Idf hanno annunciato con anticipo quasi ogni azione affinché i non combattenti potessero trasferirsi, così rinunciando quasi sempre all’elemento sorpresa. Ciò ha permesso a Hamas di riposizionare in aree sicure i propri vertici militari e i leader politici (e con essi anche gli ostaggi israeliani) attraverso il tessuto urbano, nascondendoli tra i civili durante le evacuazioni o sfruttando i tunnel sotterranei.[3] I combattenti di Hamas, a differenza delle Idf, non indossano uniformi, e questo è un vantaggio tattico che ha consentito loro di colpire nascosti tra i civili e, con i civili, lasciare il campo di battaglia. La conseguenza è che Hamas è riuscito nella sua duplice strategia, da un lato, di generare sofferenza alla popolazione palestinese e, dall’altro, di creare una narrazione distruttiva attraverso le immagini, funzionale a ottenere una pressione internazionale su Israele affinché interrompesse le sue operazioni.


[1] Spenser J., Israel Has Created a New Standard for Urban Warfare. Why Will No One Admit It?, Opinion, Newsweek, 25 marzo 2024, in https://www.newsweek.com/israel-has-created-new-standard-urban-warfare-why-will-no-one-admit-it-opinion-1883286.

[2] Ibidem.

[3] Ibidem.

Articolo tratto dal libro di C. Bertolotti, Gaza underground. La guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas. ed. START InSight (2024).


Tensioni settarie in Siria e scontro USA-Turchia.

a cura di Claudio Bertolotti.

Il conflitto in Siria ha esacerbato le tensioni tra Stati Uniti e Turchia, entrambi membri della NATO con interessi strategici divergenti. La recente proposta di sanzioni da parte dei senatori statunitensi Chris Van Hollen e Lindsey Graham, in risposta a una possibile operazione turca contro le Forze Democratiche Siriane (SDF) nel nord della Siria, evidenzia l’approfondirsi di questo divario.

Quale la proposta di Sanzioni Statunitensi?

I senatori Van Hollen e Graham hanno presentato il “Countering Türkiye’s Aggression Act 2024”, mirato a impedire operazioni turche contro le SDF, considerate dagli Stati Uniti partner chiave nella lotta contro l’ISIS. La proposta include l’istituzione di una zona demilitarizzata lungo il confine siriano per facilitare un cessate il fuoco. Van Hollen ha sottolineato che gli attacchi delle forze sostenute dalla Turchia contro i partner curdi siriani compromettono la sicurezza regionale e ha avvertito che, in assenza di un accordo, potrebbero essere imposte sanzioni simili a quelle del 2019 legate all’acquisto turco dei sistemi russi S-400.

E quale la posizione della Turchia?

Preoccupazioni di Sicurezza da parte di Ankara: la Turchia considera le Unità di Protezione Popolare (YPG), componente principale delle SDF, come un’estensione del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), classificato come organizzazione terroristica. Ankara teme che il sostegno statunitense alle milizie curde possa portare alla formazione di uno stato curdo indipendente lungo i suoi confini, scenario inaccettabile per la sicurezza nazionale turca. In risposta alle sue preoccupazioni, la Turchia ha intensificato la presenza militare nel nord della Siria, mirando a prevenire l’espansione dell’influenza curda e a stabilire una zona cuscinetto lungo il confine.

Proposta delle SDF: una zona demilitarizzata: il comandante delle SDF, Mazloum Abdi, ha suggerito l’istituzione di una zona demilitarizzata controllata dagli Stati Uniti a Kobani, area di preparazione per un’operazione da parte dell’Esercito Nazionale Siriano (SNA) sostenuto dalla Turchia. Abdi ha indicato che, in caso di cessate il fuoco, i combattenti non siriani potrebbero essere rimossi dal paese.

Implicazioni Geopolitiche

  • Relazioni USA-Turchia: Il sostegno continuo degli Stati Uniti alle milizie curde, nonostante le obiezioni turche, ha creato una frattura significativa tra i due alleati della NATO, complicando ulteriormente le dinamiche regionali.
  • Stabilità Regionale: La possibilità di sanzioni statunitensi contro la Turchia e le operazioni militari turche nel nord della Siria sollevano preoccupazioni riguardo alla stabilità della regione e al futuro delle relazioni tra gli attori coinvolti.

In sintesi, le divergenze tra Stati Uniti e Turchia riguardo al sostegno alle milizie curde in Siria hanno intensificato le tensioni, con potenziali implicazioni per la sicurezza regionale e le relazioni bilaterali.

La Crescita delle tensioni settarie in Siria.
La Siria si trova a un bivio che rischia di portare a un conflitto etno-settario su larga scala. La situazione è aggravata dagli omicidi e rapimenti perpetrati da individui affiliati a Hayat Tahrir al Sham (HTS) contro membri della comunità alawita e altri accusati di legami con il regime di Assad. Queste azioni, condotte al di fuori di processi giudiziari formali, rischiano di intensificare le tensioni tra la maggioranza sunnita e la minoranza alawita.

Strategie di Mediazione e Riconciliazione
Il governo transitorio guidato da Ahmed al Shara ha tentato di placare le paure degli alawiti, ma le misure concrete per proteggere le minoranze restano limitate. Un programma di amnistia per gli ex membri del regime è stato istituito, ma la sua trasparenza è messa in discussione, alimentando ulteriori sospetti di vendette settarie.

L’Influenza Iraniana e il Rischio di Escalation
L’Iran continua a esercitare una forte influenza retorica, incitando alla ribellione giovanile in Siria e provocando divisioni settarie simili a quelle osservate in Iraq. Queste dichiarazioni hanno incontrato la ferma opposizione del ministro degli Esteri siriano, Asaad Hassan al Shaibani, il quale ha avvertito Teheran del rischio di destabilizzazione.

Nomina Controversia e Scontri Interni
La nomina di Anas Hasan Khattab, ex membro di al-Qaeda, come capo dell’intelligence siriana da parte del governo provvisorio HTS riflette la tendenza a favorire alleati leali e rischia di compromettere ulteriormente la stabilità interna. Contestualmente, scontri tra forze pro-Assad e milizie HTS hanno causato vittime, alimentando il ciclo di violenza.

Conflitto tra Turchia e SDF
Nel nord della Siria, la Turchia sostiene la formazione di un esercito siriano unificato che esclude le Forze Democratiche Siriane (SDF). Gli scontri tra l’esercito nazionale siriano (SNA) e l’SDF continuano, con Ankara che cerca di consolidare la propria influenza a Manbij e oltre.

Prospettive
La complessità della situazione siriana, con l’intreccio di tensioni settarie, rivalità geopolitiche e interessi stranieri, suggerisce che senza un intervento diplomatico efficace, il paese rischia di scivolare ulteriormente nel conflitto.


La caduta di Damasco e lo sgretolamento dell’Asse della Resistenza iraniano.

di Claudio Bertolotti.

La Siria di Bashar al-Assad non esiste più.

La rapida avanzata degli insorti islamisti, guidati dall’Hayat Tahrir al-Sham (HTS), contro il governo di Bashar al-Assad segna un punto di svolta critico nel panorama mediorientale. Dopo quasi quattordici anni di guerra civile, con un conflitto alimentato da interessi internazionali e influenze regionali, l’architettura di potere costruita dalla famiglia Assad – ereditata nel 2000 da Bashar dopo la lunga presidenza del padre Hafez – è oggi in disfacimento. L’offensiva, partita circa dieci giorni fa da Idlib, ha messo in ginocchio un regime un tempo ritenuto solido, sconfiggendo unità militari e paramilitari sostenute sia dall’Iran sia dalla Russia, pilastri di quell’“Asse della Resistenza” ideato per contenere le pressioni occidentali e israeliane.

I risultati tattici ottenuti dai gruppi islamisti e jihadisti, in parte sostenuti dalle forze del Syrian DDefense Forces curde, ma principalmente riconducibili a Hayat Tahrir al-Sham (HTS) guidata da Abu Mohammed al-Jolani, si sono rivelati decisivi: Aleppo, Hama e Homs – nodi strategici e simbolici del potere di Damasco – sono cadute senza una reale capacità di reazione da parte dei difensori. Il contenimento dell’opposizione armata, agevolato sin dal 2015 dall’intervento militare russo, è venuto meno. Mosca, impegnata su altri fronti e consapevole del mutato contesto strategico, sembra aver rivisto i propri interessi, lasciando indebolire la tenuta del regime. Di fronte a questa svolta, la stessa Teheran, uno dei principali sponsor del governo siriano, appare costretta a ridimensionare il proprio coinvolgimento, concentrandosi sulla preservazione di aree costiere e comunità tradizionalmente legate agli Assad.

La fuga di Assad, su cui insistono numerose fonti, non è ancora confermata ufficialmente, ma le sue smentite appaiono deboli. Damasco, un tempo simbolo dell’autorità presidenziale, è caduta. Sul piano diplomatico, il Qatar ospita una complessa trama negoziale: da un lato i ministri degli Esteri di Russia, Iran e Turchia; dall’altro, il “quartetto” occidentale (Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Germania) con i rappresentanti dell’UE e l’inviato ONU Geir Pedersen. Il risultato degli incontri è la proposta di una transizione politica a Ginevra, volta a salvaguardare le strutture statali e a coinvolgere figure del vecchio establishment non direttamente responsabili degli abusi del regime. Contemporaneamente si guarda alla pericolosa ipotesi di integrare componenti dell’opposizione armata, compresi alcuni elementi legati ad HTS, nonostante sia un “gruppo terroristico” riconosciuto da diverse potenze occidentali. Si tratta, evidentemente, di una necessaria concessione strategica: il nuovo equilibrio sul terreno costringe gli attori internazionali ad aprire canali di dialogo prima impensabili.

La posta in gioco è elevata: evitare un nuovo bagno di sangue e impedire il collasso dello Stato siriano, distinguendo nettamente l’apparato istituzionale dal regime uscente. Sullo sfondo, la riconfigurazione degli assetti regionali. L’indebolimento dell’Asse della Resistenza – costruito su un solido legame tra Damasco, Teheran, i proxy armati filo-iraniani e il supporto russo – mina l’influenza iraniana nel Levante e apre nuovi scenari di competizione. Il Libano, l’Iraq e persino le relazioni tra Israele e Iran risentiranno di queste dinamiche, così come la lotta al jihadismo internazionale.

Inoltre, l’accesso alle prigioni simbolo della repressione siriana, come Adra e Saydnaya, potrebbe rivelare le dimensioni degli abusi perpetrati negli ultimi decenni. Il rilascio e la restituzione di informazione sui prigionieri scomparsi potrebbero costituire gesti emblematici per favorire una qualche forma di riconciliazione post-conflitto.

La comunità internazionale, stretta tra il rischio di una deriva jihadista e la necessità di ristabilire un ordine politico sostenibile, si trova di fronte a un nuovo paradigma: la Siria come l’Afghanistan. Dinamiche simili, prospettive preoccupanti legate allo jihadismo internazionale che dalla Siria potrebbe minacciare la regione e l’Occidente. Ma ciò che più preoccupa è il ruolo che la Turchia, dopo aver sostenuto la caduta del regime attraverso il sostegno diretto agli islamisti dell’HTS – che ricordiamo, affondano le loro radici in al-Qa’ida e nell’ISIS – vorrà giocare coerentemente con la sua ambizione di influenza del Medioriente e del Nord Africa.


Siria: al-Jolani verso Damasco. Le preoccupazioni di Iran, Russia e Israele.

di Claudio Bertolotti.

Dall’intervista di Francesco De Leo a Radio Radicale – Spazio Transnazionale (puntata del 7.12.2024): vai all’intervista radio (AUDIO).

Abu Mohammed al-Jolani, nato con il nome Ahmed Al Sharaa, è il leader di Hayat Tahrir al-Sham (HTS), gruppo armato attivo nella guerra civile siriana e tuttora designato dagli Stati Uniti come organizzazione terroristica. Originariamente affiliato ad al-Qa’ida e noto come capo di Jabhat Al Nusra, Jolani ha esordito come jihadista radicale, inviato in Siria nel 2011 con fondi e sostegno di Abu Bakr al-Baghdadi, futuro leader dell’ISIS, per stabilire la filiale siriana del network qaedista.

Nel corso degli anni ha trasformato la propria immagine e la propria strategia. In un primo momento ha annunciato la separazione formale da Al Qaeda, per poi concentrarsi principalmente sul rovesciamento del regime di Bashar al-Assad e sul controllo di aree chiave come la provincia di Idlib. Questa “rottura” è stata ampiamente vista come mossa tattica, volta a evitare gli attacchi internazionali diretti contro le formazioni jihadiste transnazionali.

Parallelamente, Jolani ha anche cambiato l’aspetto e la retorica pubblica: dalla mimetica è passato a indossare giacca e camicia in stile occidentale, presentandosi come un rivoluzionario siriano moderato, impegnato in una lotta contro il regime di Damasco anziché a una guerra globale contro l’Occidente. Durante interviste recenti, ha minimizzato riferimenti al jihad globale, puntando invece sulla “liberazione” della Siria e sul ruolo di HTS come forza locale, impegnata a garantire sicurezza e amministrazione a milioni di persone in aree sotto il suo controllo.

Nonostante questa strategia di rebranding e il tentativo di mostrarsi come un interlocutore più pragmatico, Jolani rimane un personaggio estremamente controverso e indubbiamente legato allo jihadismo insurrezionale, di cui oggi è uno dei principali leader. Alle spalle ha un passato profondamente radicato nelle reti jihadiste internazionali, ed è a capo di un’organizzazione che resta considerata terroristica da Washington. Il suo percorso è quindi quello di un leader che cerca di distanziarsi dall’estremismo transnazionale per guadagnare legittimità locale e, possibilmente, internazionale, presentandosi come un attore politico rivoluzionario più che come un leader jihadista.

La situazione sul campo

I gruppi islamisti stanno avanzando verso Damasco con il sostegno turco e assediano Homs, snodo strategico verso il Mediterraneo e roccaforte del regime.

Mentre a Doha è previsto un incontro fra Russia, Turchia e Iran per negoziare una possibile transizione politica che escluda Assad, sul campo le forze filoiraniane sembrano ritirarsi, la Russia appare indebolita, non più proattiva, mentre l’ONU registra una massiccia ondata di sfollati.

Il leader ribelle al Jolani rivendica il diritto a usare ogni mezzo contro il regime, ma promette di non perseguitare le minoranze. Vedremo.

Da parte sua, il felice e preoccupante presidente turco Recep Tayyip Erdogan annuncia apertamente Damasco come prossimo obiettivo, mentre l’Iran, la Siria e l’Iraq si dichiarano uniti nella lotta al “terrorismo”.

Nel sud del Paese, gruppi antigovernativi si spostano verso nord, conquistando facilmente posizioni lasciate dai lealisti, e le comunità druse di Suwayda stanno creando una regione semi-autonoma.

Intanto, il Libano chiude i confini per timore di un contagio del conflitto e proseguono scontri tra forze filo-turche e milizie curde.

Preoccupazioni di Iran e Israele (e Mosca)

Certo è che, nella situazione attuale, questo è un problema sia per l’Iran, oltre che per la Russia, ma anche per Israele: tutti guardano con grande preoccupazione a quanto sta accadendo. Se per Mosca è un grande problema legato alla capacità di muovere all’interno del Mediterraneo con la propria marina, per Teheran è una quesitone di tenuta complessiva dell’Asse della resistenza poiché la caduta siriana potrebbe precludere il collegamento vitale con il Libano, e dunque con Hezbollah. E forse gli accordi di Doha sono intesi a trovare una soluzione mediata che consenta all’Iran di mantenere il controllo di una striscia di territorio siriano funzionale proprio al collegamento con Hezbollah.

E per Israele? Israele è molto preoccupata perché la presenza di un regime siriano debole è la condizione migliore mentre la caduta della Siria sotto il controllo degli islamisti potrebbe aprire un fronte di ulteriore instabilità ai confini israeliani. Senza dimenticare che “al-Jolani” prende il suo nome dal Golan, attualmente occupato da Israele, e la sua posizione è sempre stata apertamente anti-occidentale e anti-israeliana.


Azione di Israele in Libano via mare: perché? Il commento di C. Bertolotti a RaiNews 24

di Claudio Bertolotti.

Azione di Israele in Libano via mare: perché? Il commento di C. Bertolotti a RaiNews 24 – Focus (puntata dell’8 ottobre 2024)

In primo luogo va detto che la capacità difensiva di Hezbollah si fonda su un sostegno militare e finanziario dell’Iran che sta facendo del Libano il fronte di scontro diretto con Israele, non volendo Teheran essere direttamente coinvolta. Un sostegno militare che garantisce a Hezbollah una capacità militare offensiva – messa in atto dal 7 ottobre di un anno fa a danno di Israele, in violazione della risoluzione 1701 del CdS dell’ONU – e una difensiva. E proprio la capacità difensiva, la resistenza di Hezbollah sul fronte terrestre a sud, ha suggerito alle forze israeliane di optare per l’apertura di un secondo fronte, non presidiato da postazioni organizzate, bunker e tunnel, lungo la costa. Questo offre un doppio vantaggio: il primo è la dispersione delle forze di Hezbollah, così costretto a dividersi e a diluirsi su due settori; il secondo è una minore esposizione delle forze israeliane alla difesa organizzata così come lo è a sud, riuscendo così a prendere le posizioni tenute da Hezbollah con minori rischi.

Le forze armate libanesi non sono coinvolte nel conflitto, che è uno scontro tra Israele e Hezbollah, e non contro il Libano. Come confermano la posizione del governo libanese e delle forze armate nazionali (il generale Joseph Aoun, ha fatto visita al presidente del parlamento Nabih Berri), che di fatto risponderanno solo nel caso in cui i soldati libanesi fossero oggetto del fuoco israeliano, di fatto dando carta bianca a Israele per contenere o eliminare Hezbollah. A ciò si contrappone però il rischio di un collasso dello stato libanese, poiché l’indebolimento di Hezbollah o la sua scomparse determinerebbe il riaccendersi di competizioni tra gruppi di potere su base settaria. Insomma il rischio di una nuova guerra civile.


L’attacco di Israele a Hezbollah: tra politica e strategia militare

di Claudio Bertolotti.

Sul piano politico-strategico Israele persegue l’obiettivo di distruggere l’asse della resistenza, che è la prima minaccia che incombe su Israele (forse non più). Una scelta che determinerà, in primis, una ridefinizione degli equilibri in Medioriente, con una progressiva erosione della minaccia attraverso l’indebolimento o la disarticolazione irreversibile dei suoi attori di prossimità (Hamas, Hezbollah, Ansar-Allah yemeniti, milizie sciite irachene, Siria). Aspetto prioritario rimane il proseguimento del processo di normalizzazione dei rapporti con i paesi arabi avviato con gli “Accordi di Abramo”, sponsorizzato dagli Stati Uniti che, sebbene rallentato dal conflitto in atto, rimane la priorità condivisa da Washington, Gerusalemme e Riad.

Sul piano strategico-militare l’azione contro Hezbollah ha un intento preventivo a un’eventuale minaccia simultanea da parte del cd. “Asse della Resistenza” guidato da Teheran che metterebbe in crisi il sistema contraereo Iron Dome israeliano in conseguenza della saturazione della capacità di risposta (più attacchi rispetto alla capacità di reazione israeliana). Questo coerentemente con la visione israeliana che percepisce la minaccia iraniana come esistenziale e adotta un approccio preventivo.

Scelte, quella politica e quella militare, che concretizzano l’approccio teorico e di prontezza operativa definito nei documenti di “Strategia per la sicurezza nazionale” e la “Dottrina strategica militare”.

Con la serie di azioni a danno di Hezbollah, Israele è riuscito a scardinare non tanto la sostanza di un’alleanza, ma la sua illusione di potenza e deterrenza. L’Iran ormai è nudo, è debole, e i suoi alleati pregiati, da Hamas e Hezbollah sono stati drasticamente ridimensionati sia sul piano politico (uccisioni targeting) sia militare. Hamas è ormai ridotto ai minimi termini militarmente parlando, Hezbollah è privo di capacita di comando, controllo e comunicazione, e questo dimostra come la retorica iraniana sia ormai stata smentita dai fatti.

E la preoccupazione di Teheran aumenta con l’avvicinarsi delle elezioni statunitensi. Oggi gli Stati Uniti sostengono senza sé e senza ma Gerusalemme. E se è comprensibile una certa ritrosia dell’amministrazione democratica a un’intensificazione dello scontro regionale (a cui Washington non farebbe comunque mancare il proprio appoggio), un’eventuale vittoria repubblicana di fatto rafforzerebbe la linea politica israeliana già consolidata.