La nuova strategia di intelligence USA: implicazioni per il Sistema di Informazioni e Sicurezza della Repubblica.
di Niccolò Petrelli, START InSight, Assistant Professor, Strategic Studies
Nell’Agosto 2023 l’US Office of the Director of National Intelligence (ODNI) ha pubblicato una National Intelligence Strategy (NIS) incentrata sulla nuova era di competizione con la Cina che nel corso degli ultimi mesi ha iniziato ad essere attuata.[1] Uno degli elementi centrali del documento, che essenzialmente delinea la visione per il futuro dell’ODNI più che una vera e propria strategia, è la decisione di rafforzare ed espandere la rete internazionale di “collegamenti” con altri servizi informativi (nonché con vari tipi di attori privati).[2] Quale l’eventuale impatto sul Sistema di Informazioni e Sicurezza della Repubblica (SISR)? Esiste la possibilità che la strategia di collegamento USA si traduca in opportunità per il sistema d’intelligence italiano?
Per rispondere a queste domande è
possibile partire da un precedente analogo nella storia dell’intelligence
USA. Tra la seconda metà del 1945 e la prima metà del 1947 infatti, l’emergere
della competizione con l’Unione Sovietica spinse l’apparato informativo
statunitense ad investire in maniera sistematica risorse, capacità, expertise,
e relazioni personali nella creazione di una massiccia e stratificata
infrastruttura di collegamenti con i servizi segreti di numerosi paesi
dell’Europa occidentale.[3]
In un primo momento a guidare tale strategia furono principalmente requisiti di
“accesso” e ampliamento della raccolta informativa sull’URSS e i suoi “alleati”
in Europa orientale: i paesi dell’Europa occidentale rappresentavano infatti
quella che potremmo definire la più valida “piattaforma” per accedere a tali
obiettivi informativi. Nel 1946 ad esempio fu raggiunto un tacito accordo in
base al quale la MUST e la FRA, le due agenzie di intelligence militare
svedesi, iniziarono a passare all’intelligence USA tutti le informazioni
di HUMINT e SIGINT sulle attività militari sovietiche nella regione baltica in
cambio di finanziamenti e equipaggiamento per la raccolta informativa tecnica. Un
altro esempio, più noto, è quello dell’accordo UKUSA, sempre del 1946, in base
a cui la State-Army-Navy Communications Intelligence Board degli Stati
Uniti e la London SIGINT Board si impegnavano a condividere ogni
prodotto informativo di raccolta tecnica, mettendo di fatto in piedi una
ripartizione del lavoro che l’ex direttore del Government Communications Headquarters
(GCHQ) David Omand ha definito basata sui “soldi statunitensi e cervelli
britannici”.[4]
La
situazione iniziò tuttavia a cambiare approssimativamente dal 1949. L’intelligence
americana modificò progressivamente la propria azione di collegamento,
strutturandola in base alla percezione della natura della competizione
prevalente a Washington, ovvero quella di un confronto in primo luogo politico-ideologico
con l’URSS. Ciò si riteneva
richiedesse una fusione dei paradigmi strategici di “guerra” e “pace” in uno sforzo
unitario e coordinato di political warfare,[5] come la definì George Kennan. Tanto la
CIA quanto le varie componenti dell’intelligence militare
intensificarono dunque le proprie attività di collegamento in Europa
occidentale promuovendo, in modi e forme diverse a seconda delle circostanze,
lo sviluppo di tutte quelle capacità ritenute essenziali per gestire il nuovo
tipo di confronto: propaganda, guerra psicologica, sostegno clandestino a forze
politiche locali e, qualora necessario, contro-guerriglia.[6]
In Germania ad esempio, oltre alla creazione di diverse reti stay-behind
(S/B), documentazione recentemente declassificata ha gettato luce sul sostegno
fornito dalla CIA e dall’intelligence militare USA per attività
clandestine condotte dall’Organizzazione Gehlen (la prima struttura di intelligence
di quella che sarebbe diventata la Repubblica Federale Tedesca), al fine di
minare la stabilità della zona di occupazione sovietica della Germania.[7]
Dove si rivelò più difficile cooperare ad ampio spettro con le controparti
locali la comunità di intelligence statunitense combinò attività di
collegamento ad operazioni clandestine. Un approccio di questo tipo fu adottato
ad esempio in Italia, dove dalla fine della Seconda Guerra Mondiale l’intelligence
americana operò simultaneamente a due diversi livelli: da un lato collaborando
con i servizi segreti italiani, in particolare nel programma S/B, dall’altro
sviluppando autonomamente reti clandestine per condurre attività di guerra
psicologica, propaganda e destabilizzazione.
La strategia di collegamento USA generò
dunque effetti trasformativi della struttura, capacità, e funzioni degli
apparati informativi europei occidentali, rischi di vario tipo, basti pensare
proprio al caso dell’Italia, ma anche opportunità, in particolare di
beneficiare di finanziamenti, anche cospicui, nonché di forniture di
equipaggiamento tecnologicamente avanzato. Non tutti i servizi europei
occidentali tuttavia furono parimenti in grado di sfruttare tali opportunità.
Ciò dipese da variabili di vario tipo legate al contesto, la natura delle
relazioni diplomatiche con gli USA, il grado di fiducia esistente tra i
decisori politici ed i vertici degli apparati informativi, la condizione
politica prodotta dalla Seconda Guerra Mondiale e, non da ultimo, la posizione
geografica dei vari paesi rispetto agli obiettivi informativi di prioritario
interesse per la comunità d’intelligence USA. Di cruciale importanza
furono tuttavia anche taluni fattori squisitamente materiali, ovvero il grado di
“interoperabilità” con il sistema d’intelligence statunitense, l’adattabilità
e funzionalità delle capacità, esistenti e potenziali, dei servizi dell’Europa
occidentale rispetto alle missioni affidate al sistema d’intelligence USA
nel quadro della political warfare nei confronti del blocco comunista, e
da ultimo la complementarietà di capacità e competenze rispetto a quelle
espresse dalle varie componenti del sistema USA.
Il GCHQ britannico fu ad esempio in grado, capitalizzando sulle proprie
competenze specifiche in termini di analisi politica del sistema internazionale
e crittoanalisi, nonché sulla “interoperabilità” tecnica con il sistema USA, di
massimizzare i vantaggi derivanti dalla strategia di collegamento attuata dagli
USA arrivando, come visto sopra, a siglare un accordo che garantiva accesso ad
ogni prodotto (in teoria) di raccolta tecnica statunitense. L’intelligence
svedese, da parte sua, riuscì, in particolare in virtù delle proprie autonome
capacità di raccolta tecnica in un’area di cruciale importanza strategica per
gli USA, ad assicurarsi finanziamenti e equipaggiamento per rafforzare un
settore di raccolta prioritario per la sicurezza nazionale del paese. Il caso
italiano dimostra invece come, nonostante l’abilità dimostrata in diverse
circostanze dai vertici dell’apparato informativo nello sfruttare a proprio
vantaggio la propensione USA ad intensificare i collegamenti, come ad esempio
nel caso del programma congiunto S/B Italia-USA “Gladio” avviato nel 1951,
limiti capacitivi impedirono di cogliere ulteriori potenziali opportunità. Infatti,
le scarse competenze analitiche dell’intelligence italiana, in
particolare sotto il profilo economico, sociologico e politologico, e la
conseguente incapacità di sviluppare analisi ad ampio spettro della base di
sostegno e infrastruttura sociale del Partito Comunista Italiano (PCI)
contribuì in maniera non trascurabile a far sì che l’intelligence USA
procedesse in maniera autonoma sia alla raccolta informativa che ad una serie
di attività operative di contrasto nei confronti del PCI.[8]
Allo stesso modo la mancanza di una solida capacità di raccolta SIGINT da parte
dell’apparato informativo italiano precluse l’opportunità, intorno alla metà
degli anni ’50, nel momento in cui Washington era particolarmente interessata a
monitorare l’intensificazione dell’attività navale sovietica nel Mediterraneo,
di estendere i collegamenti con il sistema d’intelligence USA a
condizioni vantaggiose per l’Italia, e rappresentò molto probabilmente una
delle ragioni alla base della creazione da parte statunitense nel 1960 di una
struttura SIGINT gestita dall’Air Force Security Group (USAFSS) a San
Vito dei Normanni.[9]
Basandoci su quanto sopra, si può ipotizzare che l’attuazione della strategia
di collegamento delineata nella NIS 2023 presenterà per l’apparato informativo
italiano, con buona probabilità, opportunità analoghe a quelle che emersero al
principio della Guerra Fredda. Due sono dunque gli elementi su cui concentrare
l’attenzione per comprendere come esse potrebbero essere sfruttate nella
maniera più efficace: il primo è la percezione USA della natura della
competizione con la Cina, il secondo sono le capacità (a livello aggregato) che
i vertici dell’intelligence USA stanno sviluppando ed intendono
promuovere per i prossimi anni.
Per quanto riguarda il primo elemento, dopo un periodo piuttosto lungo
di dibattito, la natura della competizione con la Cina ha iniziato ad essere
definita con maggiore precisione. Benché l’assunto di partenza rimanga quello
di una competizione globale in ogni ambito, economico, politico, sociale, dell’informazione,
e militare, è recentemente emerso un consenso sempre più ampio circa il fatto
che la componente centrale di tale competizione sia di natura tecnologico-economica.[10]
In altre parole, si ritiene che essa sia incentrata sulla creazione di un
vantaggio competitivo duraturo nelle principali tecnologie di frontiera, intelligenza
artificiale generale, microprocessori e reti di comunicazione di prossima
generazione, produzione avanzata, stoccaggio e produzione di energie,
biotecnologie, al fine di poter plasmare l’economia globale della prossima
generazione e definire gli standard di accesso e impiego a tali tecnologie.[11]
In merito al secondo elemento, per comprendere il tipo di capacità che
l’ODNI intende promuovere nella comunità d’intelligence USA è possibile
fare riferimento alla nozione di Revolution in Intelligence Affairs (RIA),
da alcuni anni ormai popolare nel dibattito professionale e politico USA sull’intelligence.
Benché nella NIS non vi siano espliciti riferimenti al concetto, appare
evidente come la RIA rappresenti il costrutto-guida de facto impiegato per
coordinare una serie di trasformazioni, nel procurement e integrazione
di nuove tecnologie, nella struttura organizzativa, e nelle procedure operative
del sistema d’intelligence USA, al fine di porlo nelle condizioni
migliori per affrontare le sfide dei prossimi decenni, in primis quelle legate
alla competizione con la Cina.
La trasformazione immaginata dall’ODNI prevede di procedere in primo
luogo all’acquisizione e integrazione su vasta scala di intelligenza
artificiale, sensori all’avanguardia e tecnologie di automazione, evitando
approcci incrementali o settoriali. Simultaneamente, alla luce della velocità,
della scala, e della complessità a cui opereranno queste tecnologie, verranno
promossi rapidi cambiamenti organizzativi e operativi volti ad agevolare forme
di integrazione tra raccolta e analisi, promuovere ridondanza tra le varie fasi
del ciclo di intelligence, nonché a creare meccanismi più rapidi per la
diffusione in tempo reale dei prodotti informativi. In altre parole, si intende
promuovere un modus operandi “a rete” per il sistema di intelligence
basato sulla fusione completa dei flussi di dati prodotti da ogni tipo di
sensori e piattaforme, la sincronia e integrazione di tutte le attività
operative, e la trasmissione rapida e continua di prodotti a operatori umani,
macchine e decisori in tutti i dominii.[12]
Quali dunque le capacità e competenze su cui il SISR dovrebbe puntare
per essere in grado di cogliere le opportunità generate dalla strategia di
collegamento dell’intelligence USA? Essenziale è che esse rispondano
alla percezione della competizione come di un confronto essenzialmente
tecno-economico, e che siano complementari alle capacità espresse dal sistema
d’intelligence USA.
In primo luogo dunque il SISR dovrebbe rafforzare le proprie capacità
di raccolta e analisi in ambito economico e tecnologico. La questione non è
nuova, il dibattito sul rafforzamento dell’intelligence economica risale
agli anni 90, con il lavoro delle commissioni Ortona (1992) e Jucci (1997).[13]
Approssimativamente nello stesso periodo inoltre in seno al Comitato Esecutivo
per i Servizi di Informazione e Sicurezza (CESIS) fu attivato un “gruppo
permanente per l’intelligence economica”. Di recente l’ex direttore del SISDE
Mori ha rilanciato l’idea di un organismo collegiale dove siano rappresentati il
Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza (DIS), le due agenzie (Aisi e
Aise), i ministeri interessati e le associazioni degli imprenditori. Nel caso
specifico tuttavia la questione chiave sarebbe, in coerenza con quello che è
l’approccio USA all’intelligence economico-tecnologica, adottare una
postura proattiva, che includa attività offensive su base continuativa nei
confronti non solo della Cina e dei suoi principali partner economici e
tecnologici, ma anche di imprese e enti privati riconducibili a quello che
potremmo chiamare “l’ecosistema tecno-economico” cinese.
In secondo luogo, il SISR dovrebbe investire sullo sviluppo ulteriore
delle proprie capacità operative in aree in cui gode di un vantaggio competitivo,
ed in cui esse possano impiegarsi in maniera complementare a quelle del sistema
d’intelligence statunitense. La scelta più logica appare l’area del
Mediterraneo, dove da diversi decenni ormai il sistema d’intelligence
italiano conduce attività operativa di ampio respiro. Proprio nel Mediterraneo
infatti negli ultimi anni la Cina ha, con discrezione, ampliato la propria
presenza attraverso grandi aziende private (Shanghai
International Port Group, China Merchants) e pubbliche (COSCO, China
Communications and Construction Company) stipulando accordi commerciali di
vario tipo, accordi per partecipazioni nei porti di paesi situati lungo rotte
marittime vitali per la Belt and Road Initiative, e acquisendo aziende di medie
dimensioni, spesso allo scopo di avere accesso a tecnologie Europee.[14]
Il necessario presupposto ovviamente, come evidenziano gli esempi di UK
e Svezia durante la Guerra Fredda, è che il sistema d’intelligence
italiano goda di un buon livello di “interoperabilità” con quello USA. Ciò, a
sua volta, richiede che i vertici dell’apparato informativo proseguano, e
auspicabilmente diano ulteriore impulso, a quel processo di acquisizione e
integrazione di tecnologie dell’informazione di ultima generazione, sensori
avanzati, Intelligenza Artificiale e sistemi di apprendimento automatico, che
sembra essere iniziato da qualche anno.
[1] https://oversight.house.gov/wp-content/uploads/2024/05/05062024-ODNI-Letter.pdf.
[2]
https://www.voanews.com/a/new-us-intelligence-strategy-calls-for-more-partners-more-sharing-/7220725.html
[3] Michael Warner AID
[4] https://media.defense.gov/2021/Jul/15/2002763709/-1/-1/0/AGREEMENT_OUTLINE_5MAR46.PDF;
https://www.securityweek.com/britains-gchq-listening-post-tune-nsa.
[5] George F. Kennan, The
Inauguration of Organized Political Warfare [Redacted Version], 30 aprile
1948, Woodrow Wilson Center, History and Public Policy Program Digital Archive,
https://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/114320.pdf?v=94.
[6] US Department of
State, Foreign Relations of the United States,
1951, Vol. I, National Security Affairs, Foreign Economic
Policy, Washington DC, Government
Printing Office, 1979 (FRUS 1951), Doc. 18 Attachment to Memorandum for the
National Security Council by the Executive Secretary, 8 maggio 1951.
[7] https://nsarchive.gwu.edu/briefing-book/openness-russia-and-eastern-europe-intelligence/2022-05-11/secret-war-germany-cias.
[8] Niccolò Petrelli, “Alcide De Gasperi e le Origini
del Servizio Informazioni Forze Armate (SIFAR)”, in Mario Caligiuri (a
cura di) De Gasperi e L’Intelligence (in corso di pubblicazione).
[9]
https://www.cia.gov/readingroom/docs/DOC_0000278476.pdf
[10] Intelligence
Innovation. Repositioning for Future Technology Competition, Second Intelligence Interim Panel Report (IPR) of the Special
Competitive Studies Project (SCSP), Aprile 2024.
[11] Brandon Kirk
Williams, The Innovation Race: US-China Science and Technology Competition
and the Quantum Revolution (Washington DC: Woodrow Wilson Center, 2023).
[12] Creating Cross-Domain Kill Webs in Real Time, DARPA (Sept. 18, 2020), https://www.darpa.mil/news-events/2020-09-18a e AI Fusion: Enabling Distributed Artificial Intelligence to Enhance
Multi-Domain Operations & Real-Time Situational Awareness, Carnegie
Mellon University (2020), http://www.cs.cmu.edu/~ai-fusion/overview.
[13] Gabriele Carrer, Perché all’Italia serve intelligence
economica. Intervista al generale Mori, Formiche 9 Giugno 2024 https://formiche.net/2024/06/intervista-intelligence-economica-mario-mori/#content..
[14] Claudia De Martino,
The Growing Chinese Presence in the Mediterranean, Med-Or Geopolitics, 22 April
2024, https://www.med-or.org/en/news/la-crescente-penetrazione-cinese-nel-mediterraneo.
Atlante geopolitico del Mediterraneo 2024: la recensione.
di Claudio Bertolotti.
Abstract (Italian)
L’Atlante geopolitico del Mediterraneo 2024, giunto alla sua decima edizione, sottolinea l’importanza cruciale del Mediterraneo per Europa, Africa e Asia, evidenziando il ruolo chiave dell’Italia come ponte strategico nella regione. Esamina lo sviluppo della politica estera italiana dal dopoguerra, mostrando come la stabilità del Mediterraneo sia fondamentale per gli interessi del paese. Celebrando figure storiche italiane come Fanfani, Gronchi, La Pira e Mattei, il testo sottolinea l’importanza dell’Italia nella gestione delle risorse energetiche, sicurezza marittima e flussi migratori, promuovendo una collaborazione equa e sostenibile tra le nazioni mediterranee. L’Atlante affronta anche le attuali instabilità regionali, come le tensioni in Libia, la svolta autoritaria in Tunisia e il conflitto israelo-palestinese, proponendo la soluzione a due Stati come via per una pace duratura. La stabilizzazione del Mediterraneo è vista come essenziale per la crescita delle nazioni rivierasche. L’edizione esplora le dinamiche politiche e socio-economiche attuali e future del Mediterraneo, offrendo uno strumento per comprendere e affrontare le sfide della regione, enfatizzando il ruolo cruciale dell’Italia nella politica estera e nella gestione delle sfide regionali.
Atlante geopolitico del Mediterraneo 2024, a cura di Francesco Anghelone e Andrea Ungari; prefazione Di Paolo De Nardis; introduzione di Gianluigi Rossi, ed. Istituto di Studi Politici “S. Pio V”, Roma, pp. 570.
Keywords: Mediterraneo, Piano Mattei.
L’Atlante geopolitico del Mediterraneo 2024, giunto alla
sua decime edizione, discute il ruolo cruciale del Mediterraneo nelle dinamiche
geopolitiche globali, evidenziando la sua importanza storica, culturale ed
economica per tre continenti: Europa, Africa ed Asia. In particolare sottolinea
come l’Italia, grazie alla sua posizione strategica, giochi un ruolo chiave
nella regione, agendo come ponte tra Nord e Sud, Est e Ovest. La decima
edizione dell’Atlante Geopolitico del Mediterraneo esamina, in particolare, lo
sviluppo della politica estera italiana dal dopoguerra, dimostrando come gli
interessi dell’Italia siano strettamente legati alla stabilità della regione.
Un’evoluzione storica che evoca il ruolo giocato dalla politica estera italiana
nelle relazioni internazionali, richiamando i nomi di coloro che ne hanno
definito le direttrici, oggi in parte non più così ben definite, da Amintore
Fanfani a Giovanni Gronchi a Giorgio La Pira ed Enrico Mattei, il cui nome è
oggi il punto di riferimento ideale di un importante e ambizioso progetto di
cooperazione e collaborazione regionale particolarmente caro all’Italia.
Come storico non ho potuto che apprezzare lo sforzo degli
autori – e dunque dei curatori – nel ricostruire il ruolo dell’Italia nel
Mediterraneo negli ultimi settant’anni, evidenziando l’importanza del paese in settori
come la gestione delle risorse energetiche, la sicurezza marittima e i flussi migratori.
Il testo sottolinea la necessità di superare le vecchie dinamiche coloniali per
promuovere una collaborazione equa e sostenibile tra le nazioni mediterranee.
La regione, viene rilevato nel testo, è attualmente
segnata da instabilità, come le tensioni in Libia, la svolta autoritaria in
Tunisia e il conflitto israelo-palestinese. La soluzione a due Stati è vista
come l’unica strada per la pace duratura in Medio Oriente. Stabilizzare il
Mediterraneo è essenziale per la crescita delle nazioni rivierasche.
Questa edizione dell’Atlante mira a esplorare le attuali
dinamiche politiche e socio-economiche del Mediterraneo e le prospettive
future, offrendo uno strumento essenziale per comprendere e affrontare le sfide
della regione. Il testo evidenzia l’importanza dell’Italia nel Mediterraneo,
sottolineando il suo ruolo cruciale nella politica estera e nella gestione
delle sfide regionali.
PARTE
PRIMA: APPROFONDIMENTI
“La
dimensione mediterranea della politica estera italiana fra Atlantico ed Europa
(1949-1969)” (di Bruna Bagnato).
Nel suo saggio l’Autrice
esamina le tre principali direttrici della politica estera italiana nel secondo
dopoguerra: europea, atlantica e mediterranea. Queste direttrici non sono
statiche ma si sono evolute in risposta ai cambiamenti geopolitici.
L’Italia, pur
geograficamente europea e mediterranea, ha dovuto integrare la sua
partecipazione all’alleanza atlantica (NATO) dal 1949, il che ha influenzato la
sua politica estera, spingendola ad adattarsi ai contesti della Guerra Fredda e
agli interessi occidentali. La divisione dell’Europa in blocchi orientale e
occidentale e le tensioni Est-Ovest hanno complicato la politica mediterranea italiana,
che ha dovuto affrontare le eredità coloniali e le sfide della
decolonizzazione.
La politica italiana,
influenzata dalle diverse stagioni politiche interne, ha oscillato tra
strategie mediterranee e europee. Negli anni ’50, con l’avvento del “neo-atlantismo”,
l’Italia ha cercato di coniugare l’impegno atlantico con una nuova politica
mediterranea, adottando posizioni anticoloniali per allinearsi con gli Stati
Uniti e differenziarsi dall’imperialismo anglo-francese.
Il testo, in
particolare, sottolinea come il “neo-atlantismo” abbia cercato di
dare all’Italia un ruolo più dinamico nel Mediterraneo, basato su una
cooperazione con gli Stati Uniti e una maggiore attenzione alle aspirazioni dei
paesi arabi. Tuttavia, questo approccio ha dovuto confrontarsi con le complessità
della politica europea, soprattutto con la posizione francese riguardo ai
territori d’oltremare e l’associazione dei paesi africani alla Comunità
Economica Europea (CEE).
Con la crisi di Suez
del 1956, l’Italia ha visto un’opportunità per consolidare la propria politica
mediterranea in sintonia con l’orientamento anticoloniale americano. Italia
che, negli anni ’60, ha dovuto affrontare le sfide del boom economico, della decolonizzazione e del cambiamento nelle
dinamiche della Guerra Fredda. La politica estera italiana nel Mediterraneo ha
dovuto adattarsi a un nuovo contesto internazionale, segnato dalla distensione
tra Stati Uniti e Unione Sovietica e dall’evoluzione delle relazioni
euro-arabe.
La politica
mediterranea italiana si è quindi spostata verso un approccio multilaterale,
integrando le istanze comunitarie europee e ponendo le basi per una
collaborazione più stretta con i partner europei per la stabilizzazione
politica ed economica della regione. Questo cambiamento ha rappresentato un
allontanamento dalla precedente enfasi atlantica, con una maggiore enfasi sulla
cooperazione europea nel Mediterraneo.
La politica estera italiana e il
“Mediterraneo allargato” dalla crisi del centro-sinistra a oggi (di Antonio Varsori).
Premessa storica e contesto iniziale. Dalla fine della
Seconda guerra mondiale alla metà degli anni Cinquanta, l’Italia, guidata dalla
Democrazia Cristiana (DC), ha cercato di superare le difficoltà derivanti dalla
sconfitta e dal trattato di pace, ricostruendo il proprio ruolo all’interno del
sistema occidentale e del sottosistema europeo dominato dagli Stati Uniti.
Questa fase è stata caratterizzata da una scelta “atlantica” ed
“europea” che ha incluso l’adesione al Piano Marshall e al Patto
Atlantico, oltre alla partecipazione al Consiglio d’Europa e al Piano Schuman.
La politica estera degli anni ’90. Con la crisi di “Tangentopoli” e la fine della
Guerra fredda, l’Italia ha subito un ripiegamento sui problemi interni e un
ridimensionamento del proprio ruolo nel Mediterraneo allargato. Le priorità si
sono spostate verso la partecipazione all’Unione Europea e all’adozione
dell’euro. Tuttavia, un tentativo significativo di mantenere un ruolo attivo
nella regione è stato l’invio di un contingente militare in Somalia nel 1992
per partecipare a una missione di peacekeeping
delle Nazioni Unite; una partecipazione importante sul piano delle relazioni
internazionali che, per contro, ha avuto esiti complessi e drammatici.
L’era Berlusconi. Durante i governi
Berlusconi, l’Italia ha affrontato diverse sfide nel Mediterraneo allargato. Un
esempio è stato il controverso impegno militare in Iraq, che ha sollevato forti
opposizioni interne e divergenze con le politiche di altri paesi europei come Francia
e Germania. Berlusconi ha anche rafforzato i rapporti con la Libia di Gheddafi,
culminati in un accordo che prevedeva riparazioni per il passato coloniale
italiano e un maggiore controllo sui flussi migratori illegali.
La politica migratoria e le crisi recenti. L’immigrazione è
diventata una questione centrale nella politica mediterranea italiana. Dagli
anni Novanta, l’Italia ha visto un crescente flusso di immigrati provenienti
dai Balcani, dal Maghreb e dall’Africa subsahariana. Questo ha portato a
tensioni e accordi, come quello con la Libia per controllare l’immigrazione
clandestina. La crisi libica del 2011 e le Primavere arabe hanno ulteriormente
complicato la situazione, provocando instabilità e nuovi flussi migratorie.
Sfide contemporanee. La recente escalation
della questione palestinese e la ricerca di nuovi partner energetici dopo
l’interruzione dei rapporti con la Russia a causa della guerra in Ucraina,
insieme all’aumento dei flussi migratori da Tunisia e Libia, rappresentano le
attuali sfide per l’Italia. In questo contesto, il “Piano Mattei” e
un nuovo attivismo mediterraneo sono stati proposti come soluzioni, ma i loro
esiti rimangono incerti.
Conclusioni. Dal dopoguerra a oggi,
la politica estera italiana nel Mediterraneo allargato ha attraversato diverse
fasi, influenzate da cambiamenti interni e globali. Dalla costruzione iniziale
di un ruolo nell’ambito del sistema occidentale, passando per le crisi politiche
ed economiche degli anni ’90, fino alle sfide contemporanee legate alla
migrazione e alla sicurezza energetica, l’Italia ha costantemente cercato di
mantenere una presenza significativa nella regione, adattandosi ai mutamenti
del contesto internazionale.
“La politica estera
italiana e il Medio Oriente negli anni della Repubblica” (di Luca
Riccardi).
Dopo la Seconda Guerra
Mondiale, l’Italia attraversò un periodo di ricostruzione economica e di
riorganizzazione della propria politica estera. Questo periodo segnò il
passaggio dall’ambizione di essere una grande potenza a una media potenza
integrata nel sistema internazionale dominato dagli Stati Uniti.
Origini della politica mediorientale. Subito dopo la guerra,
l’Italia si concentrò sul mantenimento della stabilità politica nel
Mediterraneo orientale, sostenendo soluzioni accettabili sia per gli arabi che
per gli ebrei. L’obiettivo principale era la stabilità, vista come necessaria
per perseguire gli interessi economici italiani e proteggere le comunità italiane
presenti nella regione.
Neo-atlantismo e rafforzamento dei legami con gli Stati Uniti
Negli anni Cinquanta,
l’Italia sviluppò una politica chiamata “neo-atlantismo”, che mirava
a rafforzare la presenza politica ed economica nel Mediterraneo e nel Medio
Oriente. Questa politica cercava di conciliare gli interessi italiani con
quelli americani, fungendo da collegamento tra gli Stati Uniti e il mondo
arabo. Protagonisti di questa politica furono Amintore Fanfani, Giovanni
Gronchi, Giorgio La Pira ed Enrico Mattei.
Gli anni Sessanta e Settanta. Durante gli anni Sessanta e Settanta, l’Italia,
sotto la guida di Aldo Moro, cercò di stabilizzare la regione attraverso una
politica di contatti e un crescente coordinamento con i paesi della Comunità
Europea. Tuttavia, la crisi petrolifera del 1973 e le sue conseguenze
economiche influenzarono negativamente la politica italiana, rendendo il paese
dipendente dalle forniture di petrolio dai paesi arabi.
Gli anni Ottanta. Negli anni Ottanta, con
Bettino Craxi come Presidente del Consiglio e Giulio Andreotti come Ministro
degli Esteri, l’Italia mantenne una forte presenza nel Mediterraneo allargato.
Craxi e Andreotti cercarono di promuovere il coinvolgimento dell’OLP nel processo
di pace, sostenendo il diritto dei palestinesi a una patria propria, senza
compromettere l’esistenza dello Stato di Israele. L’Italia cercò di bilanciare
le relazioni tra gli Stati Uniti e il mondo arabo, mantenendo una posizione di
equidistanza.
Declino e marginalizzazione. Verso la fine della Prima Repubblica, l’Italia
iniziò a perdere rilevanza nella politica mediorientale, diventando sempre più
allineata con le politiche degli Stati Uniti. La conferenza di Madrid del 1991
segnò un’ulteriore marginalizzazione dell’Italia e dell’Europa nel processo di
pace in Medio Oriente.
In sintesi, la politica
estera italiana verso il Medio Oriente è stata caratterizzata da tentativi di
mantenere la stabilità nella regione, rafforzare i legami economici e politici
con i paesi arabi, e bilanciare le relazioni tra gli Stati Uniti e il mondo
arabo, pur affrontando periodi di crisi economica e declino politico.
PARTE SECONDA: SCHEDE PAESI
Marocco
La Storia. La storia del
Marocco è caratterizzata da un lungo periodo di colonizzazione europea iniziata
ufficialmente nel 1912 con il Trattato di Fez, che sanciva l’istituzione di un
protettorato francese e spagnolo sul paese. Durante il periodo coloniale, il
Marocco vide una vasta politica di modernizzazione, con la costruzione di
infrastrutture e nuove città ad opera dei coloni francesi. La resistenza contro
il dominio coloniale portò a frequenti rivolte, culminate nella
“Rivoluzione del re e del popolo” del 1953, che contribuì
all’indipendenza del paese, riconosciuta dalla Francia nel 1956. Mohammed V
divenne re, avviando un processo di riforme che portarono alla modernizzazione
del paese e alla creazione di una monarchia costituzionale.
Oggi. Negli ultimi
decenni, il Marocco ha affrontato numerose sfide e trasformazioni. Sotto il
regno di Mohammed VI, iniziato nel 1999, il paese ha intrapreso un percorso di
riforme economiche e politiche, tra cui la promozione dei diritti umani e la
modernizzazione delle istituzioni. Tuttavia, permangono criticità relative ai
diritti umani e alla questione del Sahara Occidentale. Il Marocco ha anche
consolidato il suo ruolo geopolitico nella regione, ristabilendo relazioni
diplomatiche con Israele nel 2020 e giocando un ruolo chiave nella gestione
delle migrazioni tra Africa ed Europa.
Algeria
La Storia. L’Algeria,
colonizzata dalla Francia dal 1830, visse un periodo di modernizzazione nel
primo dopoguerra. Tuttavia, la crescente consapevolezza nazionale portò alla
guerra di indipendenza algerina (1954-1962), un conflitto sanguinoso che
culminò con l’indipendenza del paese nel 1962. Il periodo post-indipendenza fu
caratterizzato da una forte centralizzazione del potere sotto il Fronte di
Liberazione Nazionale (FLN), che governò in modo autoritario, affrontando
periodi di instabilità politica e economica.
Oggi. L’Algeria
contemporanea è una repubblica semipresidenziale con una popolazione di circa
44,9 milioni di abitanti. Il paese continua a confrontarsi con questioni di governance, diritti umani e diversificazione
economica. Le elezioni del 2019 e del 2021 hanno portato Abdelmadjid Tebboune
alla presidenza, con il governo che cerca di bilanciare le richieste di riforme
politiche con la stabilità sociale. Le relazioni con il Marocco rimangono tese,
specialmente a causa delle dispute territoriali e delle accuse reciproche di
interferenze politiche.
Tunisia
La Storia. La Tunisia,
anch’essa colonizzata dalla Francia, ottenne l’indipendenza nel 1956 sotto la
guida di Habib Bourguiba, che instaurò un regime modernizzatore ma autoritario.
Dopo il colpo di stato del 1987, Zine El Abidine Ben Ali salì al potere,
governando fino alla Rivoluzione dei Gelsomini del 2011, che portò alla sua
destituzione e avviò un processo di transizione democratica.
Oggi. La Tunisia è considerata una delle storie di successo della Primavera Araba, con un processo democratico ancora in corso. Tuttavia, il paese affronta sfide significative, tra cui instabilità politica, disoccupazione giovanile e minacce terroristiche. Le recenti elezioni e le riforme costituzionali mirano a consolidare un modello di democrazia fortemente presidenziale e uno stato consapevole del proprio ruolo all’interno dell’area geopolitica regionale.
Libia
La Storia. La storia moderna
della Libia è segnata dalla colonizzazione italiana e dalla dittatura di
Muammar Gheddafi, che governò dal 1969 fino alla sua deposizione nel 2011
durante la guerra civile libica. Il regime di Gheddafi era caratterizzato da
politiche autoritarie e di centralizzazione del potere, con una forte retorica
anti-occidentale.
Oggi. La Libia odierna
è divisa e instabile, con vari gruppi armati e fazioni politiche che competono
per il controllo del paese. Nonostante gli sforzi internazionali per
stabilizzare la situazione, la Libia rimane in gran parte frammentata, con un
governo di unità nazionale che lotta per affermare la propria autorità. La
situazione umanitaria e la sicurezza continuano a essere problematiche.
Egitto
La Storia. L’Egitto ha una
lunga storia di civiltà antiche e dominazioni straniere. Nel XX secolo,
l’Egitto ottenne l’indipendenza dal Regno Unito nel 1922, ma rimase sotto
un’influenza britannica significativa fino alla rivoluzione del 1952 che portò
Gamal Abdel Nasser al potere. Nasser attuò politiche di nazionalizzazione e
panarabismo. Successivamente, sotto Anwar Sadat e Hosni Mubarak, il paese si
orientò verso politiche più aperte e relazioni con l’Occidente.
Oggi. L’Egitto
contemporaneo, sotto il presidente Abdel Fattah al-Sisi, affronta sfide
economiche e politiche significative. Le riforme economiche hanno portato a una
crescita economica, ma anche a un aumento della povertà e delle disuguaglianze.
La repressione politica rimane forte, con limitazioni alle libertà civili e
politiche. L’Egitto continua a svolgere un ruolo chiave nella geopolitica del
Medio Oriente, mantenendo relazioni strategiche con vari attori internazionali.
Israele
La Storia. Israele, fondato
nel 1948, ha una storia complessa segnata da conflitti con i paesi vicini e
tensioni interne. La guerra di indipendenza del 1948-49, le guerre
arabo-israeliane e il conflitto israelo-palestinese hanno definito gran parte
della sua storia. Israele ha anche vissuto periodi di crescita economica e
tecnologica, affermandosi come una delle economie più avanzate della regione.
Oggi. Israele è una
democrazia parlamentare con una popolazione diversificata. Le questioni di
sicurezza nazionale, il conflitto con i gruppi palestinesi e le dinamiche
politiche interne sono al centro dell’attenzione. Le recenti normalizzazioni
delle relazioni con alcuni paesi arabi rappresentano sviluppi significativi, ma
permangono tensioni e sfide sul fronte interno e regionale.
Autorità Nazionale Palestinese
La Storia. L’Autorità
Nazionale Palestinese (ANP) è stata istituita nel 1994 a seguito degli Accordi
di Oslo tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP).
L’ANP è responsabile del governo dei territori palestinesi della Cisgiordania e
della Striscia di Gaza, ma ha affrontato numerose difficoltà, inclusi conflitti
interni e tensioni con Israele.
Oggi. Oggi, l’ANP è
divisa tra la Cisgiordania, controllata da Fatah, e Gaza, sotto il controllo di
Hamas. La situazione politica ed economica è instabile, con frequenti tensioni
e scontri con Israele. Gli sforzi per la riconciliazione interna e per una
soluzione del conflitto con Israele continuano, ma le prospettive di pace
rimangono incerte.
Libano
La Storia. Il Libano,
indipendente dalla Francia dal 1943, ha una storia segnata da conflitti civili
e interventi stranieri. La guerra civile libanese (1975-1990) ha devastato il
paese, seguito da un periodo di ricostruzione e di tensioni politiche e
settarie. La presenza di Hezbollah e l’influenza siriana hanno contribuito alla
complessità politica del Libano.
Oggi.Il Libano contemporaneo è afflitto da
una grave crisi economica, politica e sociale. Le proteste popolari, la
corruzione diffusa e l’esplosione del porto di Beirut nel 2020 hanno aggravato
la situazione. Il paese lotta per superare le divisioni settarie e per trovare
stabilità politica ed economica.
Siria
La Storia. La Siria,
indipendente dalla Francia nel 1946, ha una storia di instabilità politica e
colpi di stato. Il regime di Hafez al-Assad, iniziato nel 1970, ha stabilito
una dittatura che è stata portata avanti dal figlio Bashar al-Assad. La Siria
ha giocato un ruolo centrale nella politica del Medio Oriente, spesso in
conflitto con Israele e coinvolta nelle dinamiche regionali.
Oggi. La Siria è
devastata da una guerra civile iniziata nel 2011, con milioni di rifugiati e
sfollati interni. Il regime di Bashar al-Assad, con il sostegno di Russia e
Iran, ha riconquistato gran parte del territorio, ma il paese rimane diviso e
instabile. La ricostruzione e la riconciliazione sono sfide enormi, mentre la
situazione umanitaria è critica.
Giordania
La Storia. La Giordania,
creata dal mandato britannico nel 1921 e indipendente dal 1946, è stata
governata dalla dinastia hashemita. Il paese ha mantenuto una relativa
stabilità nonostante le turbolenze regionali, giocando un ruolo moderato nella
politica mediorientale e ospitando un gran numero di rifugiati palestinesi.
Oggi. La Giordania
continua ad affrontare sfide economiche e sociali, aggravate dall’afflusso di
rifugiati siriani e dalle pressioni regionali. Il re Abdullah II guida il paese
verso riforme economiche e politiche, cercando di mantenere la stabilità in un
contesto regionale difficile.
Turchia
La Storia. La Turchia
moderna, fondata da Mustafa Kemal Atatürk nel 1923, è stata costruita sui
principi della laicità e del nazionalismo. Dopo decenni di governo secolare e
militare, il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) di Recep Tayyip
Erdoğan ha trasformato il paese con un mix di islamismo e nazionalismo,
portando a una maggiore centralizzazione del potere.
Oggi. La Turchia è una
potenza regionale con ambizioni internazionali, ma affronta problemi interni
come la repressione dei diritti civili e le tensioni economiche. Le politiche
di Erdoğan, sia interne che estere, hanno suscitato controversie e criticità,
ma il paese continua a giocare un ruolo cruciale nella geopolitica del Medio
Oriente e oltre.
PARTE TERZA: DIALOGHI
MEDITERRANEI
“Italia e Tunisia: sfide e
criticità nel più ampio contesto internazionale” (di Mario Savina).
Il testo tratta delle complesse relazioni tra i due paesi nel contesto del
Mediterraneo, evidenziando i principali dossier di cooperazione e le sfide che
caratterizzano il rapporto bilaterale.
Relazioni Bilaterali e Contesto Mediterraneo. Le relazioni tra Italia e Tunisia sono
profondamente radicate nel contesto mediterraneo, caratterizzato da interessi
comuni in vari settori, tra cui migrazione, energia, economia e dialogo con
l’Unione Europea. Le turbolenze politiche ed economiche degli ultimi anni in
Tunisia hanno creato sfide significative per i governi italiani e i decisori
europei, ma Tunisi rimane un partner strategico sia per Roma che per Bruxelles.
Dossier Migratorio. Il tema migratorio è centrale nei colloqui tra
Italia e Tunisia, specialmente dopo l’aumento delle partenze dalle coste
tunisine negli ultimi due anni. Nel 2023, oltre 96.000 migranti sono arrivati
in Italia dalla Tunisia, un numero triplicato rispetto all’anno precedente. La
lotta ai migranti subsahariani in Tunisia, promossa dal presidente Kaïs Saïed,
mira a distogliere l’attenzione dalla crisi socioeconomica interna. Gli accordi
tra Roma e Tunisi sul controllo dei flussi migratori si basano su una logica di
sicurezza, con l’Italia e l’UE che finanziano progetti per arginare i flussi
migratori e facilitare i rimpatri.
Sfide Politico-Economiche e Relazioni Internazionali. La Tunisia affronta
una perenne instabilità politica ed economica, con dinamiche internazionali
complesse. Il paese sta cercando di diversificare le sue relazioni estere,
coinvolgendo Russia e Cina, e considera l’adesione ai BRICS. Le relazioni con
l’Unione Europea e gli Stati Uniti sono strategiche, specialmente in un
contesto di rivalità con la Russia.
Cooperazione Energetica e Commerciale.
L’Italia guarda alla Tunisia come a un partner fondamentale nel settore
energetico, soprattutto per il gasdotto Transmed che collega l’Algeria
all’Italia attraverso la Tunisia. La cooperazione commerciale è forte, con
l’Italia che rappresenta il principale partner commerciale di Tunisi. Le
imprese italiane sono ben radicate nel paese, contribuendo significativamente
all’occupazione e all’economia locale.
Sfide Regionali e Sicurezza. Le relazioni tra
Italia e Tunisia sono inserite in un contesto regionale complesso, con
influenze di potenze come la Russia e la Cina. La stabilità del Nord Africa è
cruciale per la sicurezza europea, e l’Italia è impegnata nel supportare la
Tunisia attraverso accordi bilaterali e dialoghi internazionali. La
collaborazione tra i due paesi è essenziale per affrontare le sfide comuni e
promuovere la stabilità regionale.
In sintesi, il capitolo
evidenzia la necessità di un impegno costante e di una strategia integrata per
affrontare le sfide.
La Proiezione Futura dei
Rapporti Energetici tra Algeria e Italia (di Laura Ponte).
Il capitolo esplora il
futuro dei rapporti energetici tra Algeria e Italia nel contesto della guerra
in Ucraina e delle conseguenti sanzioni imposte alla Russia. Con l’obiettivo di
ridurre la dipendenza energetica dalla Russia, l’Italia ha cercato di
diversificare le sue fonti di approvvigionamento energetico, puntando in
particolare sull’Algeria, che è diventata un partner strategico fondamentale.
Contesto Storico e Relazioni Energetiche.Storicamente, le
relazioni energetiche tra i due paesi sono solide, risalenti agli anni ’50 e
’60, quando Enrico Mattei sostenne il percorso di liberazione nazionale
dell’Algeria, culminato con l’indipendenza del 1962. Questo ha portato alla
firma del primo contratto di fornitura di gas nel 1973, stabilendo una lunga
collaborazione energetica.
Sforzi Recenti e Progetti Futuri. Recentemente, gli sforzi italiani si sono
intensificati per aumentare le importazioni di gas algerino e ridurre quelle
russe. L’Italia ha firmato numerosi contratti con l’Algeria per aumentare la
capacità di esportazione di gas, sia tramite gasdotti che GNL (gas naturale
liquefatto). Nel 2022, Sonatrach ha incrementato le esportazioni di gas verso
l’Italia, con l’obiettivo di raggiungere 9 miliardi di metri cubi all’anno
entro il 2024.
Sfide Politiche e Tecniche. Nonostante le prospettive positive, esistono criticità sia politiche che tecniche. Politicamente, l’Italia ha scelto di non comprare gas dalla Russia a causa della sua inaffidabilità come partner commerciale. Tuttavia, l’Algeria è anch’essa considerata un paese “non libero” dal Freedom House, con bassi standard democratici, limitata trasparenza elettorale, corruzione e repressione delle proteste.
Possibili Rischi Geopolitici. C’è il timore che l’instabilità politica in Algeria possa influenzare i rapporti energetici, come già successo con la Spagna riguardo alla disputa del Sahara Occidentale. Inoltre, l’Algeria mantiene buone relazioni con la Russia, cooperando attivamente nel settore militare ed energetico, il che potrebbe complicare ulteriormente le dinamiche geopolitiche.
Progetti Integrativi e Energie
Rinnovabili. Per mitigare i rischi e aumentare la sostenibilità,
sarebbe utile che la cooperazione energetica tra Italia e Algeria includa anche
le energie rinnovabili. L’Algeria ha il potenziale per diventare leader nella
produzione di energia solare ed eolica, grazie al deserto del Sahara. Progetti
come il South H2 Corridor, che collegherà l’Algeria alla Germania, potrebbero
essere cruciali per trasformare l’Italia in un hub energetico, riducendo al
contempo la dipendenza dai combustibili fossili.
Conclusioni. Il futuro dei
rapporti energetici tra Algeria e Italia appare promettente ma non privo di
sfide. La diversificazione delle fonti di approvvigionamento e l’inclusione
delle energie rinnovabili sono passi fondamentali per garantire la sicurezza
energetica e la sostenibilità a lungo termine.
“Nato e Ue al cospetto
della crisi libica: dall’apice al tramonto del «crisis management»
occidentale?” (di Stefano Marcuzzi).
Il capitolo analizza la
gestione e le conseguenze della crisi libica da parte di Nato e Unione Europea,
evidenziando i fallimenti e le lezioni apprese.
Contesto della crisi. Nel marzo 2011, una coalizione di paesi sotto l’ombrello dell’ONU e guidata militarmente dalla Nato lanciò una campagna aerea contro il regime di Gheddafi in Libia per fermare la repressione violenta contro i civili. Nonostante la caduta di Gheddafi e il collasso del suo regime, la Libia è rimasta intrappolata in una crisi pluridecennale, caratterizzata da conflitti interni ed esterni, che hanno visto la partecipazione di attori regionali e globali come Russia, Turchia, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Francia e Arabia Saudita.
Terrorismo: lo Stato islamico e i campionati di calcio.
di Claudio Bertolotti. Dall’intervista di Giampaolo Musumeci per Radio 24 – Nessun Luogo è Lontano del 9 aprile 2024.
Il Cairo, 9 apr. (Adnkronos) – Il sedicente Stato Islamico, tornato a spaventare l’Europa dopo l’attentato a Mosca, ha minacciato di lanciare un attacco contro i quattro stadi in cui da stasera si disputeranno i quarti di finale di Champions League. Al-Azaim, uno degli organi di propaganda dell’Isis, ha confermato queste intenzioni pubblicando l’immagine dei quattro stadi in cui si disputeranno le partite di andata – il Parco dei Principi di Parigi, il Santiago Bernabeu di Madrid, il Metropolitan sempre di Madrid e l’Emirates di Londra – accompagnata dalla didascalia “Uccideteli tutti”.
Una necessaria premessa: l’esperienza dell’ISIS, così come l’abbiamo conosciuta in Iraq e Siria si è conclusa nel giugno 2014 con la proclamazione del Califfato da parte di al-Baghdadi e l’istituzione dello Stato islamico. L’ISIS non esiste più, al suo posto lo Stato islamico dunque. Non è una precisazione da poco, perché segna l’avvio dell’epoca post-territoriale del movimento, quella che stiamo osservando e subendo oggi, sia in Occidente, sia in Medioriente come dimostra la forza sempre più manifesta di questo gruppo in particolare in Siria e Afghanistan.
Quanto seria è questa minaccia? Ricordiamo una allerta simile il 30 marzo in Germania.
Un primo aspetto. In questo caso, come nella maggior parte degli episodi, non è lo Stato islamico ma i suoi gruppi affiliati a chiamare alla lotta. E quella attuale sembra non tanto una avvisaglia quanto un appello a colpire, e dunque non una minaccia diretta. Anche perchè, come ci ha dimostrato la storia recente dello Stato islamico e dei suoi affiliati in franchise, quando il gruppo colpisce lo fa senza preavvertire – di fatto sfruttando l’effetto sorpresa per ottenere il massimo dei risultati. Quanto accaduto in Russia ne è una conferma. Però, e questo è il secondo aspetto, coerentemente con gli attacchi degli ultimi anni, attribuiti o rivendicati dallo Stato islamico, è l’appello a colpire che viene colto da singoli soggetti, o più raramente da parte di piccoli gruppi, spesso disorganizzati o scarsamente organizzati, che costituisce la forza propulsiva del gruppo che, di norma e per evidente opportunità, rivendica solamente quelli di successo, una minima parte, non citando quelli invece più numerosi che si concludono con un risultato fallimentare.
Dopo l’attentato a Mosca, queste minacce e l’arresto ieri a Roma di un tajiko ex miliziano Isis, ci sono a tuo parere le condizioni per capire quale sia la strategia dell’Isis? Sta rialzando la testa? Riacquisendo forza?
Lo Stato islamico sta rialzando la testa, e lo sta facendo in maniera dirompente ed efficace, riportandoci sul piano emotivo e del terrore ai terribili anni 2015-2017 quando l’Europa fu travolta da una serie di eventi dirompenti, a loro volta in grado di riportare le emozioni agli attacchi di al-Qa’ida in Europa del 2004, a Madrid e a Londra. Oggi è sufficiente guardare alla Siria, dove si pensava – complici anche i riflettori mediatici rivolti altrove – che lo Stato islamico fosse stato sconfitto: non è così. Al contrario, l’aumento progressivo di attacchi dello Stato islamico, gli assalti continui e ripetuti alle carceri per liberare i combattenti detenuti dal regime siriano, la capacità di colpire sostanzialmente ovunque. È un campanello d’allarme che suona molto forte e che anticipa una nuova ondata che si autoalimenta: dalla retorica della vittoria talebana in Afghanistan, alla competizione con i talebani, all’aumentare degli affiliati, singoli e gruppi dal Medioriente al Sud-Est asiatico, fino all’Europa. Non uno Stato islamico ex-novo, ma è un fenomeno che si sta risvegliando.
Tre palestinesi arrestati a L’Aquila per terrorismo: “Attentati per conto delle Brigate Tulkarem” (al-Aqsa).
di Claudio Bertolotti
La Polizia di Stato italiana
ha arrestato a L’Aquila tre cittadini palestinesi – tra cui Anan Yaeesh, 37 enne palestinese
attualmente in carcere a Terni dopo essere stato arrestato il 27 gennaio scorso
su richiesta delle autorità israeliane che ne chiedono l’estradizione –
accusati di aver pianificato attacchi terroristici, nell’ambito di
un’operazione contro l’estremismo. Sono stati presi in custodia in seguito
all’emissione di un’ordinanza di custodia cautelare per il reato di
associazione con scopi di terrorismo, inclusi obiettivi internazionali, e
sovversione dell’ordine democratico. Secondo le forze dell’ordine, gli
arrestati erano coinvolti in attività di proselitismo e divulgazione a favore
dell’organizzazione e avevano l’intento di compiere attacchi, incluso il
sacrificio personale, contro bersagli civili e militari fuori dai confini
nazionali. Il ministro dell’Interno, Matteo
Piantedosi, ha espresso la sua soddisfazione per l’arresto dei tre
individui ritenuti estremamente pericolosi, sottolineando l’impegno e
l’eccellenza investigativa delle forze dell’ordine italiane. Questa operazione
dimostra, secondo il ministro, l’efficace vigilanza e l’azione preventiva
contro l’estremismo e la radicalizzazione, per cui ha esteso i suoi
ringraziamenti alla polizia e alla magistratura per il significativo successo
ottenuto, che evidenzia la costante attenzione alle minacce alla sicurezza
interna.
Chi sono e quali le origini e gli obiettivi Brigate
dei Martiri di Al-Aqsa?
Le “Brigate dei Martiri di Al-Aqsa” rappresentano un’ala militante del movimento Fatah, fondato nel tardo 1950 da Yasser Arafat e altri leader palestinesi. Emerse all’inizio dell’Intifada di Al-Aqsa nel settembre 2000, questo gruppo ha giocato un ruolo significativo nel conflitto israelo-palestinese, conducendo attacchi contro obiettivi israeliani sia militari che civili. Le Brigate hanno dichiarato di voler combattere l’occupazione israeliana e hanno rivendicato responsabilità per numerosi attacchi suicidi, sparatorie e lanci di missili.
All’interno di questa organizzazione, il “Gruppo di Risposta Rapida –
Brigate Tulkarem” rappresenta una specifica articolazione operativa che
opera principalmente nell’area di Tulkarem, una città situata nella parte
occidentale della Cisgiordania. Questo gruppo specifico è stato costituito con
l’obiettivo di fornire una risposta rapida alle incursioni militari israeliane,
sfruttando la conoscenza del terreno locale e la capacità di mobilitare
rapidamente i suoi membri in caso di conflitto.
La natura del “Gruppo di Risposta Rapida” si caratterizza per la
sua agilità operativa e la capacità di condurre attacchi mirati. Il gruppo
utilizza tattiche di guerriglia urbana e si adatta rapidamente alle dinamiche
del campo di battaglia, il che lo rende una componente efficace all’interno
della più ampia strategia delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa. La loro
attività è volta a creare un senso di insicurezza continua tra le forze
israeliane, cercando di impedire o rallentare le operazioni militari nella loro
area di influenza.
Nonostante la loro determinazione, l’azione di gruppi come il “Gruppo
di Risposta Rapida – Brigate Tulkarem” solleva questioni significative
riguardo al ciclo di violenza nel conflitto israelo-palestinese. Le loro operazioni,
spesso dirette contro obiettivi civili, hanno portato a condanne internazionali
e hanno accentuato la sofferenza umana su entrambi i lati del conflitto. La
complessità della loro esistenza e operazioni riflette l’intricata rete di
cause, identità e lealtà che caratterizzano il lungo e doloroso scontro tra
israeliani e palestinesi.
La presenza e le azioni di gruppi come le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa e
il loro “Gruppo di Risposta Rapida – Brigate Tulkarem” in Italia
come, è possibile valutare, sia in Europa che negli Stati Uniti, sono testimoni
della profonda capacità di permeazione da parte del terrorismo jihadista associato
ad Hamas che, attraverso una serie di appelli alla “rabbia” dei musulmani ha
chiamato i suoi accoliti a colpire, in difesa dell’Islam. Di fatto spingendo
verso quel fenomeno ormai consolidato di terrorismo emulativo, improvvisato e
prevalentemente individuale che ha ormai imposta le proprie presenza e volontà
d’azione, in Europa, dall’avvento del fenomeno Stato Islamico (già ISIS) negli anni 2014/2017. Oggi, quel
terrorismo di fatto autonomo e spesso fallimentare, si è inserito in una nuova
dinamica competitiva tra i brand Stato islamico e il “nuovo” attore del jihad,
Hamas, che pur ponendosi come “movimento di liberazione nazionale” non ha
mancato di estendere sul piano comunicativo, ideologico e propagandistico la propria
visione e l’appello a colpire ovunque, con atti di “jihad” atti a difendere l’islam
dalla corruzione e dalla violenza dell’occidente.
Biden: lo stato dell’Unione.
di Melissa de Teffé
Nel suo discorso sullo Stato dell’Unione al Congresso, il Presidente Joe Biden ha sorpreso tutti per il tono combattivo e aggressivo, in netto contrasto con le sue consuete apparizioni sempre pacate.
Come noto il secondo articolo della Costituzione americana richiede al capo dell’esecutivo di presentare un rapporto scritto, letto a camere unite, sullo Stato dell’Unione, non solo raccontando i successi ottenuti, ma elencando quali misure adottare per risolvere sfide e problematiche nazionali. Biden invece ha fatto una scelta comunicativa insolita, mirata a dissipare i dubbi sulla sua idoneità al ruolo, dati i suoi 81 anni, è attualmente il presidente più anziano nella storia degli Stati Uniti. Una delle battute più divertenti seppur sarcastica, dei media americani è stata: “Qualunque cosa abbiano dato a Biden, ogni uomo, donna e qualsiasi altra persona americana dovrebbe essere autorizzato a prender-lo,” insomma un po’ di pesante ironia nei confronti di 68 “intensi” minuti di discorso, ma che in realtà sono stati più un’ accalorata arringa contro l’amministrazione precedente che la consueta, storica presentazione a cui siamo abituati.
Biden ha aperto il suo discorso paragonando l’attuale periodo storico sia a quello di Lincoln durante la guerra civile che al discorso di Delano Roosevelt del 1941, in piena seconda guerra mondiale. Questa audace dichiarazione, che sembra quasi un j’accuse contro i repubblicani, parrebbe voler definirsi come l’unico vero paladino, difensore supremo, della “vera” democrazia.
Tra i temi principali affrontati, spicca in primis, la richiesta d’inviare il prima possibile i finanziamenti all’Ucraina, (60 miliardi di $) che erano inclusi nella legge sull’immigrazione e l’asilo politico, bocciata il mese scorso; proseguendo, altro punto molto antipatico e scottante è stata la critica ai giudici della Corte Suprema, per altro presenti come gesto di rispetto e cortesia, e seduti in prima fila, per aver ribaltato il famosissimo caso Roe vs Wade sull’aborto, promettendo che, se rieletto, sarebbe certamente riuscito a influenzare la Corte Costituzionale e a capovolgere la loro decisione. Sicuramente” non solo un affronto ma una manifestazione arrogante da parte di un presidente”, dice il noto commentatore politico Ben Shapiro.
Altro punto chiave riguarda la lotta contro l’inflazione, dove Biden certo del prossimo abbassamento dei tassi di interesse incentiverebbe il settore immobiliare con una regalia mensile di $400 per due anni consecutivi sugli acquisti di nuove proprietà. Inoltre Biden non si fa sfuggire l’opportunità di attribuire il problema dell’inflazione al suo predecessore. Pure il Wall Street Journal non ne è convinto, infatti la “shrinkinflation” ossia l’inflazione ristretta, così definita da Biden, che porta come esempio la riduzione dei quantitativi di patatine o pezzetti di dolcetti da parte dei produttori di merendine e patatine, senza però aver cambiato la grandezza del sacchetto, viene denigrata da questo titolo: “Il Presidente non sa nulla su come funzioni l’economia privata”.
Sul fronte dell’immigrazione, il Presidente afferma che gli immigrati sono anch’essi cittadini americani e ancora una volta attribuisce la crisi al confine alla precedente amministrazione. Durante l’amministrazione del presidente Joe Biden, oltre 7,2 milioni di migranti sono entrati illegalmente negli Stati Uniti. Questa cifra supera la popolazione di 36 stati degli Stati Uniti. (fonte CBP- Customs and Border Protection, Factcheck.org ecc.)
Il numero di 7,3 milioni rappresenta una parte significativa della popolazione di diversi stati di grandi dimensioni: 18,7% della popolazione della California (39 milioni di abitanti); 23,9% della popolazione del Texas (circa 31 milioni di residenti), 32,3% della popolazione della Florida, 37,3% della popolazione di New York. È importante notare che questa cifra totale di 7,3 mill. non include un ulteriore (stimato) 1,6 milioni di immigrati indocumentati che sono entrati negli Stati Uniti da altre località, né 1,8 milioni di “fuggitivi” noti, sfuggiti alle forze dell’ordine. Considerando questi numeri aggiuntivi, il totale sarebbe persino superiore alla popolazione di New York.
I critici dell’amministrazione Biden sostengono che questo aumento senza precedenti dell’immigrazione illegale non sia casuale, ma piuttosto il risultato di scelte politiche deliberate . Oltre ai vari applausi che hanno visto il vicepresidente alzarsi quasi ad ogni frase per applaudire, la prima interrompere al discorso è stata della rappresentante Marjorie Taylor Greene (R-Ga.) che ha gridato: “e l’omicidio di Laken Raley?”, che Biden forse già stanco, la ribattezza Lincoln Riley, un noto allenatore di football recentemente su tutti i giornali per i recenti successi sportivi.
Non poteva mancare un accenno alle politiche transgender che stanno da mesi infiammando gli animi di questa nazione per la partecipazione di maschi transgender fra le fila sportive femminili Anche qui, Biden le supporta facendo uno specifico accenno anche alle politiche di “trasformazione, o cambio di sesso”, dedicate ai più giovani. La broche di chiusura al discorso è ovviamente una ennesima critica al suo rivale politico, su quanto avvenuto il 6 gennaio di tre anni fa, prima del giuramento presidenziale, paragonando l’insurrezione all’invasione dell’Ucraina da parte di Putin.
Da giovedì tutte le affermazioni di Biden sono oggetto di dubbi e controversie, specialmente in relazione alle dichiarazioni sulla diminuzione della criminalità. Questa posizione è stata messa in discussione da fatti evidenti, come la decisione da parte del governatore dello Stato di New York insieme al sindaco di New York, Adams, di aumentare il numero delle forze dell’ordine soprattutto lungo i diversi percorsi della metropolitana, oggi soggetti a rapine e illeciti di ogni tipo. Il governatore in concerto con il sindaco, oltre aver aumentato il numero degli agenti di polizia, ha aggiunto 1000 soldati della guardia nazionale. Inoltre tutte le forze dell’ordine sono state autorizzare a perquisire qualsiasi borsa o valigia. Queste misure di sicurezza sono in risposta all’ aumento del 45% dei reati registrati questo gennaio rispetto all’anno precedente.
Ultimo a intervenire dal pubblico interrompendo il discorso del presidente urlando: “ Si ricordi di Abbey Gate”, è stato il padre di uno dei 13 marines uccisi durante la tragica evacuazione dall’Afghanistan). Allontanato subito dall’aula e arrestato, il grido è caduto nel vuoto. Più fortunati invece alcune decine di manifestanti che hanno tentato di bloccare l’accesso al Capitol in difesa dei palestinesi. Nessuno è stato ammonito o ammanettato.
L’infelice stato dell’Unione, definito così da molti è purtroppo facile da constatare, basti guardare la quantità di senza tetto, drogati e malati mentali in diverse città dell’unione, da Los Angeles, a Philadelphia, da Portland a San Francisco, da Chicago a Austin; l’assenza di una politica migratoria, le dimostrazioni anti-semite nei più prestigiosi campus universitari, che hanno visto il licenziamento dei rispettivi presidenti; ancora le feroci sparatorie su innocenti durante festeggiamenti, l’inflazione alta e un mercato immobiliare fermo.
Analizzando i sondaggi a ridosso del discorso presidenziale, secondo Hanson, classicista, storico militare e opinionista politico, Trump è in testa, soprattutto considerando quelle fasce di elettori che storicamente hanno sempre votato democratico. Questi risultati positivi per Trump tra gli afroamericani, i latinos e le donne delle zone rurali o suburbane sono una reazione alle insufficienze di questa amministrazione. Nel paese si percepisce un’atmosfera di malessere e dolore che politicamente si riflette sul presidente, da sempre individuato come il colpevole principale.
L’immigrazione tema di campagna elettorale negli Stati Uniti.
di Melissa de Teffé
Articolo originale pubblicato su Panoràmica Latinoamericana, plataforma informativa, de investigación y análisis, especializada en las relaciones birregionales Unión europea-América Latina y Caribe o CELAC-UE.
Entrambi il presidente Joe Biden e l’ex presidente Donald Trump hanno fatto visita al confine meridionale giovedì, per affrontare quello che oggi è considerato il problema cruciale di questa campagna presidenziale del 2024: l’immigrazione e il traffico di esseri umani.
Ad aprire le danze politiche, con mezz’ora di differenza è Trump, che da Eagle Pass, Texas, ormai simbolo di questa sfida politica, circondato da agenti federali e dal Governatore Greg Abbott, dopo un iniziale elogio per i risultati ottenuti dalle azioni di forza dei federali locali, ha proseguito citando alcune statistiche non verificabili: “milioni e milioni di persone hanno attraversato i nostri confini; potrebbero essere 15 milioni, potrebbero essere 18 milioni entro la fine del mandato presidenziale (di Biden). ….L’anno scorso quasi la metà di tutti gli arresti effettuati dall’Immigration and Customs Enforcement (ICE) riguardavano criminali imputati, più di 33.000 aggressioni, 3.000 rapine, 6.900 furti, 7.500 crimini legati ad armi, 4.300 reati sessuali, 1.600 sequestri e 1.700 omicidi: questi sono i crimini commessi dalle persone che stanno entrando nel nostro paese e provengono dalle carceri, dalle prigioni, dagli istituti mentali e dagli ospedali psichiatrici. Sono terroristi a cui è permesso entrare nel nostro paese ed è terribile. Non solo dal Sud America, ma da tutto il mondo: dal Congo, con una popolazione molto numerosa che proviene dalle carceri, Cina, Iran, paesi non amici degli Stati Uniti.”
Per appesantire le accuse contro Biden, Trump cita l’orribile assassinio di Laken Riley, una studentessa di 22 anni laureata in infermieristica, uccisa il 22 febbraio, mentre faceva jogging vicino all’Università della Georgia, perpetrato da un illegale. Prima di giungere a Eagle Pass, Texas, l’ex presidente ha fatto visita ai genitori della giovane. Dopo aver dialogato con i Riley, ha dichiarato: «Sono individui straordinari profondamente colpiti al di là di ogni immaginazione».
Ma sono molti i conservatori del resto degli Stati Uniti che hanno identificato nella morte di Riley un esempio di crimine commesso da migranti, dopo che l’assassino, un venezuelano senza documenti, entrato illegalmente, è stato accusato in relazione alla morte della ragazza. Trump ha anche definito la crisi migratoria come «L’invasione di Joe Biden» è una «violazione brutale del nostro paese».
Biden, invece, dopo aver ringraziato gli agenti di frontiera per il loro lavoro, ha promesso che avrebbe inviato più risorse a supporto della crisi frontaliera. «È passato molto tempo dall’ultimo intervento», ha detto, aggiungendo che il controllo delle frontiere ha «disperatamente» bisogno di più risorse.
Biden ha continuato lanciando un appello diretto a Trump, invitandolo a unirsi a lui nell’esortare il Congresso a ratificare il disegno di legge. Quest’ultimo era stato bloccato quando Trump aveva mobilitato i suoi sostenitori nel Congresso contro di esso. «Tu e io sappiamo che è il disegno di legge sulla sicurezza delle frontiere più difficile, efficiente ed efficace che questo paese abbia mai visto», ha detto Biden. «Quindi, anziché fare politica usando questo problema, perché non ci uniamo e lo facciamo?”
Biden ha elogiato il disegno di legge bipartisan sulla frontiera come «una vittoria per il popolo americano», definendolo un «iniziativa veramente bipartisan». Ha esortato il Senato a riesaminare il disegno di legge, chiedendo ai senatori di «mettere da parte la politica» e a Mike Johnson, R-La., presidente della Camera, di portare il disegno di legge in aula. «Dobbiamo agire», ha detto Biden, aggiungendo che i repubblicani al Congresso devono «mostrare un po’ di fermezza».
La tanto attesa proposta di legge del Senato di 118 miliardi di dollari sulla “Sicurezza delle frontiere e aiuti in tempo di guerra», pubblicata domenica 4 febbraio, a cui si riferisce Biden è stata affondata. Insieme al finanziamento per l’Ucraina e Israele, così come all’assistenza umanitaria per le persone che fuggono da Gaza, questo disegno di legge rappresenta una riscrittura drammatica del sistema di asilo statunitense.
Dei 118$ miliardi, 60$ andrebbero all’Ucraina, 14,1$ a Israele, 4,83$ alla regione Indo-Pacifico, 10$ per aiuti umanitari per Ucraina, Israele, Gaza e pochi altri, 20$ per migliorare la sicurezza al confine americano, 2, 72$ per l’arricchimento dell’uranio. La maggior parte dei fondi destinati all’Ucraina, tuttavia, non verrà devoluta, invece, decine di miliardi di dollari affluiranno nelle casse del Pentagono per acquistare nuove armi da aziende statunitensi al fine di rimpinguare le riserve intaccate per aiutare l’Ucraina, finanziare operazioni militari e stipulare contratti per nuove armi per Kiev. Il senatore Rand Paul (R-Ky.), contrario a ulteriori finanziamenti per assistere l’Ucraina, ha scritto sui social media: «Quello che sappiamo ad oggi è: 60$ miliardi per il regime corrotto ucraino e nessuna vera sicurezza delle frontiere per il nostro paese». «Questo deve finire.» E supportando quanto scritto da Paul, prosegue il senatore Mike Lee (R-Utah) con tono sarcastico- «un fatto curioso: «... il bilancio del Corpo dei Marines degli Stati Uniti nell’anno fiscale 2023 era di 53,8 miliardi di dollari. Questo disegno di legge darebbe all’Ucraina più di 60 miliardi di dollari».
Dopo il discorso di Biden, la risposta di Trump attraverso il suo portavoce Karoline Leavitt, non si è fatta aspettare, ribattendo all’appello di Biden così: «Anziché scaricare la colpa su tutti tranne che su se stesso, Joe Biden dovrebbe assumersi la responsabilità della crisi al confine, delle morti e delle distruzioni che le sue politiche hanno causato, il come Laken Riley e utilizzare il suo potere esecutivo per chiudere il confine oggi».
Un sondaggio della NBC News di gennaio ha rilevato che il 57% degli elettori registrati ha dichiarato che Trump sarebbe più idoneo ad occuparsi della sicurezza al confine, mentre solo il 22% ha detto lo stesso riguardo a Biden. Essendo stato bocciato il progetto di legge che disciplina l’immigrazione, Biden sta valutando se usare il “Presidential Executive Order” o provvedimento presidenziale, per limitare le regole sull’asilo bypassando il Congresso. I sostenitori per una immigrazione “umana” dei migranti e democratici progressisti lo hanno esortato a non seguire questa strada, sostenendo che renderebbe più difficile per gli immigrati richiedere asilo, esponendoli a situazioni e condizioni pericolose in Messico.
Due anni di guerra russo-ucraina
di Claudio Bertolotti
Abstract
A due anni dall’inizio del conflitto russo-ucraino, la
situazione rimane critica, con un apparente stallo sul campo di battaglia che
cela complesse dinamiche e gravi conseguenze. La Russia ha mantenuto il
vantaggio tattico acquisito, consolidando il controllo sui territori occupati e
mostrando disinteresse per le proprie perdite, in una strategia che privilegia
le vittorie di grande risonanza mediatica. Al contrario, l’Ucraina, nonostante
l’aiuto occidentale sotto forma di equipaggiamenti avanzati, si trova in
difficoltà a causa della quantità insufficiente di sostegni, limitando la sua
capacità di recuperare i territori occupati. La stanchezza dell’Occidente
rischia di minare il supporto all’Ucraina, ignorando le implicazioni
strategiche di lungo termine e potenzialmente consentendo alla Russia di usare
i successi ottenuti per rafforzare le sue ambizioni future. Il conflitto
sottolinea l’importanza di un impegno rinnovato e di una riflessione strategica
per preservare l’ordine internazionale.
Due
anni di guerra russo-ucraina
All’alba
del secondo anniversario della guerra russo-ucraina, il conflitto rimane una
ferita aperta nell’ordine mondiale. Nonostante gli sforzi incessanti e gli
appelli internazionali alla pace, la situazione sul campo di battaglia riflette
una realtà segnata da un apparente stallo operativo che, tuttavia, nasconde
dinamiche complesse e conseguenze profonde.
Il vantaggio tattico inizialmente guadagnato dalla Russia è stato mantenuto nel corso di questi due anni, evidenziando una strategia militare che, nonostante le gravi perdite, ha permesso a Mosca di consolidare le sue posizioni nei territori occupati. Questo dominio tattico si è manifestato non solo attraverso la conquista territoriale ma anche tramite la capacità russa di infliggere significative perdite all’Ucraina, pur mostrando un disinteresse quasi totale per le proprie perdite. Questa indifferenza verso le perdite tra i soldati si inserisce in una narrazione più ampia che privilegia la vittoria in battaglie di alto impatto simbolico ed emotivo, mirando a rafforzare il sostegno interno e a intimidire la comunità internazionale.
Dall’altro lato, l’Ucraina, sostenuta da equipaggiamenti e munizioni di alto livello qualitativo forniti dall’Occidente, si trova di fronte a un’amara realtà. Nonostante la superiorità tecnologica di alcuni degli armamenti ricevuti, la quantità di questi sostegni si è rivelata insufficiente per ribaltare le sorti del conflitto. La scarsità di risorse ha limitato le capacità ucraine di lanciare offensive significative per liberare i territori occupati, congelando di fatto il conflitto in una logorante guerra di posizione.
L’impossibilità dell’Ucraina di avanzare significativamente sul campo di battaglia solleva ampi interrogativi sulla sostenibilità del sostegno occidentale. La stanchezza dei Paesi europei e dei contribuenti statunitensi si manifesta in una crescente riluttanza a investire in un conflitto che appare senza fine e, in ultima analisi, a svantaggio dell’Ucraina. Questa visione, seppur comprensibile alla luce degli ingenti costi umani ed economici, rischia di trascurare le implicazioni strategiche di lungo termine. La Russia, interpretando ogni cedimento o concessione occidentale come una vittoria, potrebbe utilizzare i successi territoriali e politici ottenuti per alimentare le sue future ambizioni, modificando irreversibilmente l’equilibrio geopolitico a suo favore.
Il fronte
Le truppe russe hanno intrapreso un’azione offensiva coordinata su vari fronti per raggiungere un traguardo operativamente significativo in Ucraina, un evento che non si verificava da oltre diciotto mesi. L’esito di questa avanzata nel settore Kharkiv-Luhansk rimane incerto, tuttavia, la pianificazione e l’implementazione iniziale di questa offensiva indicano cambiamenti importanti nella strategia operativa russa (Fonte ISW).
Fin dalla primavera del 2022, gli sforzi russi volti a conquistare città e villaggi di dimensioni ridotte nell’est dell’Ucraina non hanno raggiunto traguardi operativi di rilievo, nonostante tali azioni abbiano causato intensi combattimenti e gravi perdite sia per l’Ucraina che per la Russia. Durante l’offensiva di inverno-primavera del 2023, le forze russe hanno apparentemente puntato a obiettivi operativamente più ambiziosi, ma l’inefficacia della pianificazione e della realizzazione di tale offensiva ha impedito progressi significativi, di fatto non raggiungendo la maggior parte degli obiettivi prefissati.
Il disegno dell’offensiva russa
Fino ad ora, le offensive russe si sono concentrate sullo sforzo di grandi quantità di truppe contro singoli obiettivi (come Bakhmut e Avdiivka) o hanno compreso attacchi simultanei lungo linee di avanzamento troppo distanti per fornire reciproco sostegno e/o divergenti tra di loro. Al contrario, l’offensiva in atto nel settore Kharkiv-Luhansk si è sviluppata su attacchi lungo quattro direttrici parallele, strutturate in maniera coordinata al fine di collaborare vicendevolmente per raggiungere obiettivi multipli che, se conseguiti, potrebbero portare a vantaggi operativi determinanti per il proseguimento dell’azione offensiva. In particolare, il processo di pianificazione operativa di questa offensiva merita un’attenzione particolare poiché confermerebbe la capacità dei comandi russi di far tesoro delle lezioni apprese nelle più recenti battaglie, sia di successo che fallimentari (Fonte ISW). Tuttavia, le abilità tattiche russe in questa area non sembrano aver subito miglioramenti sostanziali rispetto al passato, almeno dal punto di vista tattico; un elemento che potrebbe contribuire, non tanto al fallimento dell’operazione complessiva, ma ad aumentarne i già elevati costi in termini di risorse materiali e umane.
Avdiivka: quanto è grave la caduta di questa
cittadina?
Avdiivka non è mai stata un obiettivo strategico, lo è su quello della propaganda strategica come lo è sul piano operativo e tattico. La sua caduta in mano russa ha avuto un forte impatto emotivo per gli ucraini, poiché è la prima città conquistata dai russi dopo Bakhmut, e segue la sfortunata offensiva ucraina lanciata prima dell’estate dello scorso anno. La sua conquista ha richiesto circa 4 mesi ai russi, a fronte di un elevato dispendio di risorse: ma è comunque una vittoria russa e una sconfitta ucraina e questo peserà sia sull’opinione pubblica russa, sia sul morale dei soldati ucraini.
L’importanza tattica di Avdiivka sta nell’essere a pochi chilometri dalla città di Donetsk, e da li le forze ucraine potevano colpire con l’artiglieria il capoluogo del bacino minerario del Donbass, di fatto rendendo la città il perno di manovra del dispositivo militare ucraino sul fronte di Donetsk. Ora questo è venuto meno, e le posizioni arretrate che le forze di Kiev hanno dovuto assumere sono sia uno svantaggio tattico per gli ucraini sia, e questo deve preoccuparci, la conferma di un indebolimento progressivo del fronte ucraino, anche in conseguenza delle disponibilità in termini di uomini e munizioni.
Potrebbe essere l’inizio di un’offensiva più vasta?
È la
lenta avanzata russa, che non si è mai fermata e che concentra in punti chiave
il proprio sforzo. I russi sono numericamente superiori in termini di
personale, artiglieria e aviazione. La quantità russa prevale sulla qualità
ucraina.
Il nord è un fronte che almeno al momento non sembra essere interessato dall’ipotesi di una nuova offensiva. Ma non si può escluderlo, e questo per la Russia è un vantaggio perché l’Ucraina è obbligata a tenere truppe ferme in attesa di contenere una qualsiasi minaccia su quel settore del fronte.
Oggi però
la grande offensiva russa è duplice: comunicativa e sul campo di battaglia. In
entrambi gli ambiti la Russia è molto aggressiva e capace di ottenere risultati
favorevoli. La disinformazione, la propaganda, il fatto che intellettuali e
giornalisti occidentali facciano da cassa di risonanza alla propaganda russa
sono elementi che confermano la scelta vincente di Mosca. Poi c’è l’offensiva
sul campo di battaglia: l’obiettivo primario di Mosca è l’Oblast’ di Luhansk,
per poi spingersi verso ovest nell’Oblast’ di Kharkiv orientale e, da qui,
circondare l’Oblast’ di Donetsk settentrionale e occuparlo.
Le direttrici dell’offensiva russa
La
campagna offensiva russa sta procedendo attualmente su quattro assi, da nord a
sud, includendo le aree intorno a Kupyansk e Synkivka; da Tabaivka a
Kruhlyakivka; da Makiivka a Raihorodka e/o Borova; e da Kreminna a Drobysheve
e/o Lyman.
Il
contingente militare russo dislocato nella regione occidentale ha amplificato
le sue attività offensive lungo l’asse Kupyansk-Svatove-Kreminna, concentrando
i suoi sforzi su quattro principali direzioni di movimento. Queste forze stanno
avanzando in maniera offensiva a nord-est di Kupyansk, a nord-ovest e a
sud-ovest di Svatove, nonché a ovest di Kreminna. Il raggruppamento occidentale
russo, che si compone principalmente di unità del distretto militare
occidentale (WMD), ha assunto la responsabilità dell’asse Kharkiv-Luhansk dopo
che la linea del fronte si è stabilizzata a seguito della riuscita
controffensiva ucraina nell’area di Kharkiv nell’autunno del 2022 (Fonte
ISW).
Il comando centrale delle forze (prevalentemente costituito da unità del Distretto Militare Centrale [CMD]) ha gestito la sezione meridionale di questo fronte in direzione di Lyman fino all’autunno del 2023, momento in cui il WMD avrebbe preso il comando della zona settentrionale vicino a Lyman, a seguito del trasferimento di un significativo contingente di truppe del CMD per supportare, all’inizio di ottobre 2023, l’attacco offensivo su Avdiivka nella regione di Donetsk.
Il 6
ottobre 2023, la 6ª Armata Combinata (CAA) e la 1ª Armata Corazzata della
Guardia (1ª GTA) del WMD hanno rilanciato un’offensiva localizzata a nord-est
di Kupyansk, incrementando sporadicamente le operazioni in altre aree vicino a
Kupyansk. Questo tentativo offensivo russo di avanzare verso Kupyansk da
nord-est ha tuttavia portato solamente a modesti successi tattici entro gennaio
2024 (Fonte
ISW).
A gennaio 2024, le autorità ucraine hanno segnalato con crescente frequenza che le forze russe stavano preparando il terreno per un’offensiva di più ampia portata sia nella direzione di Kupyansk che di Lyman. Le unità WMD hanno iniziato a intensificare le operazioni su quattro fronti lungo l’asse all’inizio di gennaio, e il capo della Direzione principale dell’intelligence militare (GUR) ucraina, il tenente generale Kyrylo Budanov, ha confermato l’inizio dell’offensiva russa d’inverno-primavera 2024 sull’asse Kharkiv-Luhansk, scattata il 30 gennaio (Fonte ISW).
Il tema delle armi: forniture di aerei F16 e
mancanza munizioni.
Dopo aver superato le varie linee rosse rispetto alle quali inizialmente era stato detto che non si sarebbe mai andati oltre, dalla fornitura prima di artiglieria, poi dei sistemi missilistici a medio raggio, e poi ancora i carri armati pesanti, è giunta l’ora degli aerei da caccia F16, che saranno un sollievo per Kiev, ma non determinanti se non accompagnati da un massiccio rifornimento di munizioni ed equipaggiamenti pesanti.
Se Fino
allo scorso anno la qualità degli equipaggiamenti militari forniti
dall’Occidente e l’addestramento fornito ai soldati ucraini hanno compensato la
quantità degli arsenali russi che, per quanto obsoleti hanno comunque ottenuto
lo scopo di garantire alla Russia un vantaggio tattico pressoché costante in
questa lenta guerra di attrito e logoramento.
Ad oggi
l’Ucraina non ha più le forze sufficienti per la condotta di operazioni
offensive su media e larga scala. Di fatto archiviando qualunque ipotesi di
liberazione dei territori ucraini occupati dalla Russia. Gli aiuti militari
occidentali, che fino a oggi hanno consentito a Kiev di tenere il fronte,
conducendo una controffensiva lo scorso anno che si è rivelata molto
sfortunata, ma non sotto le aspettative
Quanto pesa non ricevere armi a sufficienza?
Gli aiuti
Occidentali sono stati e sono determinanti per l’esito della guerra. Se
proseguisse l’aiuto occidentale in maniera coerente con quanto fatto nei due
anni appena trascorsi, l’Ucraina potrebbe continuare a difendersi, tenendo le
attuali posizioni, ma nulla di più. Se diminuissero anche solo di poco,
l’Ucraina sarebbe destinata a soccombere alla pressione Russa, con un pericolo
concreto di crollo del fronte e avanzata di Mosca. Per consentire all’Ucraina
di imporre la propria volontà sul campo di battaglia e anche per non uscire
sconfitta all’eventuale tavolo negoziale, è necessario uno sforzo di molto
superiore a quanto fatto sino a oggi.
Gli avvicendamenti allo stato maggiore: indicatore
di forza o debolezza della politica di Zelensky?
Il cambio
ai vertici della difesa ucraina imposto da Zelensky è frutto di un braccio di
ferro tra due gruppi di pensiero. Da una parte l’entourage presidenziale che
insiste sul cambiamento, ad uso e consumo dell’opinione pubblica interna e
degli alleati all’estero, con un “cambiamento” da realizzare. E
dall’altra parte c’è “l’entourage della Difesa, che insieme alla massa dei
soldati, guardava a Valerii Zaluzhny come punto di riferimento
importante”, un “uomo straordinario perché è riuscito a fare
moltissimo con poco” ed è “riuscito a impiegare in maniera
estremamente razionale le truppe sul terreno nonostante le direttive politiche
a cui si è dovuto piegare” archiviando “la dottrina militare
ereditata dall’Unione sovietica e sposando fin da subito l’approccio
occidentale della Nato, anche rispetto alla struttura delle Forze Armate
ucraine”. Con la nomina a capo di stato maggiore della difesa del generale
Oleksandr Syrsky, appartenente alla generazione precedente rispetto Zaluzhny,
il rischio è quello di tornare a vedere meno innovazione ma, elemento di
maggior conto, vedere diminuire l’entusiasmo dei soldati così come lo abbiamo
visto con il suo predecessore. Ma un cambiamento, almeno sul piano politico,
era opportuno, e così è stato.
Lotte intestine sul reclutamento di migliaia di
giovani che Zelensky a quanto pare non vuole.
La
mancanza di armi e munizioni è un problema, ma oggi, a due anni dall’inizio
della guerra, il problema più grande è la diminuzione del potenziale umano.
Mancano i soldati, specialmente i giovani. Chi è al fronte ha un’età media
molto elevata, con soldati di 45 anni che combattono da due anni, molti con
brevi periodi di riposo, altri senza mai essere stati sostituiti.
Preoccupa
l’elevato dato di possibili renitenti alla leva tra i più giovani, forse
800.000, molti dei quali fuggiti all’estero. Una chiamata di massa potrebbe
rivelarsi un boomerang per un Zelensky nei confronti del quale il sostegno
entusiastico dell’opinione pubblica, ucraina e straniera, ha cominciato a
ridursi progressivamente. Lo scontro è prevalentemente politico, tra chi spinge
per un accordo negoziale e chi invece vuole proseguire la guerra a oltranza.
In
conclusione, il secondo anniversario della guerra russo-ucraina non è soltanto
un tragico promemoria della persistente violenza e instabilità nella regione,
ma anche un monito sulle sfide future che attendono la comunità internazionale.
Affrontare queste sfide richiederà non solo un rinnovato impegno verso
l’Ucraina ma anche una riflessione strategica più ampia su come preservare
l’ordine internazionale di fronte a un aggressore determinato a riscrivere le
regole attraverso la forza.
Il petrolio ombra di Mosca: il segreto della buona economia russa.
di Andrea Molle
Abstract (Italian)
Questo articolo esamina l’origine della robusta condizione finanziaria della Russia alle soglie del terzo anno del conflitto in Ucraina, rilevando come il sostanziale afflusso di denaro dalle esportazioni di petrolio, in particolare all’India, abbia rafforzato le casse dello Stato russo. L’Autore, discute inoltre sul ruolo della Flotta Ombra del Cremlino, una forza marittima clandestina che elude le normative internazionali, facilitando il commercio di petrolio e oro insanguinato e contribuendo a mantenere il flusso di entrate verso la Russia. Infine, viene analizzata la dipendenza dell’India dal petrolio russo come strategia per mantenere stabili i prezzi globali del petrolio, nonostante le critiche internazionali.
Keywords:
Petrolio, flotta ombra, economia russa
L’economia
russa è robusta
La Russia, nel terzo anno del conflitto in Ucraina, si
trova in una posizione finanziaria robusta, con le casse dello Stato rifornite
da un notevole afflusso di denaro. Nel 2023, le entrate federali della Russia
hanno raggiunto un record di 320 miliardi di dollari e si prevede che
continueranno ad aumentare. Secondo alcuni analisti, circa un terzo di queste
entrate è stato destinato alla guerra in Ucraina l’anno precedente, mentre una
percentuale ancora maggiore finanzierà il conflitto nel 2024. I notevoli fondi
a disposizione del Cremlino posizionano Mosca in una posizione più favorevole
per sostenere una guerra prolungata rispetto a Kiev, che lotta per mantenere il
vitale flusso di denaro occidentale.
Oltre all’oro insanguinato proveniente dall’Africa,
questo incremento di entrate è stato alimentato dalle vendite eccezionali di
petrolio grezzo all’India. Transazioni che hanno generato introiti stimati
intorno ai 37 miliardi di dollari a cui si aggiungono circa 1 miliardo di
dollari provienienti dal petrolio raffinato in India e poi esportato negli
Stati Uniti. Tale flusso di entrate è il risultato diretto dell’aumento degli
acquisti di petrolio russo da parte di Delhi, che secondo un’analisi del Centre
for Research on Energy and Clean Air (CREA), riportata di recente dalla CNN,
ora superano di 13 volte i livelli prebellici.
L’analisi delle
rotte di trasporto del greggio
L’analisi delle rotte di trasporto del greggio suggerisce
inoltre un coinvolgimento della cosiddetta Flotta Ombra del Cremlino. Con
questo termine ci si riferisce a una forza marittima clandestina russa,
composta da navi che operano al di fuori delle norme marittime internazionali.
L’indagine sulla Flotta Ombra è iniziata nei primi anni 2010, quando le
principali agenzie di intelligence occidentali e diversi analisti marittimi
hanno notato comportamenti sospetti in navi russe o battenti bandiere di
paradisi fiscali. Queste navi sono spesso osservate ad operare in aree
strategicamente significative, come vicino a cavi di comunicazione sottomarini
e installazioni militari, spesso spegnendo i loro sistemi di identificazione
automatica per sfuggire al monitoraggio. Le implicazioni della Flotta Ombra
russa sono molteplici e tutte potenzialmente pericolose. In primo luogo, c’è
preoccupazione per il suo ruolo nel sostenere le operazioni militari russe e
nel violare le norme internazionali e le leggi marittime. La presenza di questa
flotta mina la sicurezza e la stabilità marittime globali, complicando gli
sforzi affinchè la Russia sia tenuta a rispondere delle sue azioni illegali in
mare. Una delle attività tipiche della Flotta Ombra nel settore petrolifero è
lo scambio di greggio tra due navi con l’obiettivo di mascherarne l’origine e
la destinazione finale, confondendo le autorità riguardo alla provenienza e
all’acquirente finale. Decine di tali trasferimenti avvengono ad esempio ogni settimana
nel Golfo Laconico in Grecia, un punto di passaggio strategico verso il Canale
di Suez e i mercati asiatici. Alla fine del 2022, con il supporto di diversi
paesi, gli Stati Uniti hanno imposto un limite di prezzo, impegnandosi a non
acquistare petrolio russo oltre i 60 dollari al barile.
La flotta ombra
Questi paesi hanno anche vietato alle proprie compagnie
di navigazione e di assicurazione, attori chiave nel trasporto marittimo
globale, di facilitare il commercio di petrolio russo oltre tale prezzo.
Tuttavia, questo limite di prezzo ha paradossalmente alimentato la creazione
della Flotta Ombra. Con catene di approvvigionamento più lunghe, è infatti più
difficile individuare i trasferimenti da nave a nave e determinare il costo
effettivo di un barile di petrolio russo e diventa facile aggirare le sanzioni.
La Flotta Ombra ha pertanto consentito alla Russia di creare una rete di
navigazione fantasma parallela a quella legale, in grado di eludere il
monitoriaggio e aggirare le sanzioni occidentali, con centinaia di petroliere
la cui proprietà non è chiara e che seguono rotte così complicate da risultare
impossibili da seguire. Secondo le analisi effettuate grazie all’intelligenza
artificiale della società di analisi marittima Windward, questa flotta è
cresciuta fino a includere nel 2023 circa 1.800 navi.
In questo quadro, gli acquisti di petrolio da parte
dell’India hanno avuto l’effetto di alleviare la pressione delle sanzioni sulla
Russia. L’India difende le sue politiche di approvvigionamento energetico da
Mosca come un modo per mantenere i prezzi globali del petrolio più stabili,
evitando di competere con le nazioni occidentali per il petrolio del Medio
Oriente. Il governo di Delhi ha dichiarato che qualora l’India dovesse smettere
di comprare greggio da Mosca e più petrolio dal Medio Oriente, il prezzo del
petrolio salirebbe a 150 dollari avviando una spirale di aumento dei costi che
il mondo non può permettersi. Ma una parte di questo petrolio grezzo viene
raffinato nelle raffinerie lungo la costa occidentale dell’India e
successivamente esportato negli Stati Uniti e in altri paesi che hanno imposto
sanzioni sul petrolio russo. Questi prodotti raffinati, non essendo soggetti a
sanzioni, costituiscono ciò che gli analisti chiamano la “scappatoia delle
raffinerie”. Sempre secondo l’analisi del CREA, gli Stati Uniti sono stati
il principale acquirente di prodotti raffinati dall’India derivati dal petrolio
grezzo russo nel 2023, per un valore di 1,3 miliardi di dollari. E il valore di
queste esportazioni di prodotti petroliferi aumenta notevolmente quando si
considerano anche gli alleati degli Stati Uniti che applicano sanzioni contro
la Russia. Il CREA ha stimato che questi paesi abbiano importato prodotti
petroliferi dal petrolio grezzo russo per un valore di 9,1 miliardi di dollari
nel 2023, registrando un aumento del 44% rispetto all’anno precedente.
Mosca ha beneficiato di questo processo sia attraverso la
tassazione diretta delle esportazioni che attraverso i profitti ottenuti da
Rosneft, la società petrolifera di stato russa, nell’ambito della raffinazione
e dalla rivendita ai paesi occidentali.
Entrate e spese
russe: un record
Secondo un’analisi condotta dal think tank RAND sui conti
del Ministero delle Finanze russo, nel 2023 le entrate e le spese federali
della Russia hanno raggiunto entrambe livelli record. Sebbene per adesso Mosca
non sia ancora arrivata al pareggio di bilancio, a causa del pesante costo
della guerra e delle perdite di entrate dovute in generale alle sanzioni il
deficit di bilancio federale è in tendenza decrescente. Le imposte interne
sulla produzione e sull’importazione sono entrambe significative ed efficienti,
il che implica che la popolazione russa è pesantemente tassata per finanziare
il conflitto. Tuttavia, gli analisti avvertono che in questo quadro economico
anche la più piccola violazione delle sanzioni contro la Russia può generare
ingenti profitti, date le enormi somme coinvolte nel commercio petrolifero e
dell’oro, e questo potrebbe portare il regime a diminuire la pressione fiscale
generando un maggior supporto per le operazioni militari correnti e future. Per
questo è di primaria importanza affrontare efficacemente questa minaccia con
una maggiore vigilanza, cooperazione e impegno diplomatico internazionale che
includa nuove misure contro le navi della Flotta Ombra e le aziende sospettate
di agevolare il trasporto illegale del petrolio e dell’oro russo.