Rinascita e Unità: L’inaugurazione di un’America Rinnovata?
di Melissa de Teffè dagli Stati Uniti.
Quando
mi chiamarono per darmi la data in cui avrei dovuto giurare fedeltà alla
bandiera americana, dopo aver fatto domanda di naturalizzazione, fu per me un
momento molto toccante. Questo paese che mi ero trovata ad abbracciare nei suoi
credo e anche contraddizioni mi aveva conquistata.
Ho
sempre amato studiare storia, soprattutto le biografie: da John Quincy Adams, a
Thomas Jefferson, per non parlare della storia di come J.F. Kennedy stabilì e
ne scrisse un libro del Premio “Profiles in Courage”, la narrazione di come
personaggi unici stabilirono diritti e opportunità per tutti, furono i miei
compagni in questo viaggo identitario, convincendomi così che la decisione che
avevo presa, con il cuore e non per necessità, fosse giusta.
In
un cassetto di cimeli di famiglia avevo conservato con gelosia il piccolo
nastrino che si indossa non nei momenti ufficiali, della nota “Presidential Medal
of Freedom”, la più alta onorificenza americana che mio padre ottenne da
Roosvelt durante la seconda guerra mondiale. Quel giorno decisi di indossarla
per onorare quegli stessi valori che hanno reso questa nazione la più generosa
in assoluto.
Chi
mai ha dato soldi a popoli sconfitti perchè potessero come una fenice risorgere
dalle macerie. Truman e Marshall. Ma fu soprattutto quest’ultimo l’ideatore,
perchè questo paese era nato sulla ricerca di libertà, libertà di culto,
principalmente e poi di democrazia, dove tutti potessero convivere. È stato un
tragitto lunghissimo e costosissimo. Pensiamo alla guerra civile. Ma senza di loro
non avremmo vinto due guerre nefaste da dittatori orribili.
Rientrata
qui dopo un’assenza ventennale ho ritrovato un’America in ginocchio. Il gigante
non c’era più, il paese depresso, senza identità propria, incattivito dalle
pessime propagande politiche che hanno visto dialoghi colmi di parole
offensive, invettive che potevano solo appartenere a situazioni storiche
lontane e sicuramente non genuine.
L’inaugurazione
di oggi, di Trump e di JD Vance, è stato un momento, al di là dell’elenco delle
politiche future, già scritte e oggi ribadite, di unione, di orgoglio e di
religiosità.
Ho
ascoltato passaggi biblici ispirati, perchè se scelti con sapienza guariscono
il cuore e non creano un senso divisorio, dove Dio diventa il protettore di
alcuni a scapito del nemico. Oggi ho percepito, un senso di unione, di pace, e
di commozione oltre che di speranza.
Questa
nazione in ginocchio economicamente, con una percentuale di drogati, homeless,
e poveri in procinto di perdere la casa, per non parlare di chi non ce l’ha più
per il fuoco o le inondazioni, oggi questo gigante ferito ha alzato la testa,
ma in modo diverso da quel famoso settembre del 2011.
Sicuramente
la cornice del Campidoglio, ispirato al bellissimo Pantheon di Roma, dove tanti
abili toscani, dagli scalpellini ai pittori, rendendolo un palazzo di bellezza
unica, perchè in Italia sappiamo bene cosa è la bellezza, ci ha commossi di più.
Il
discorso di Trump durato una mezz’ora scarsa, ha toccato tante cose, ma vorrei
citare solo due paragrafi brevi quasi di chiusura:
“Negli ultimi
anni, la nostra nazione ha sofferto molto. Ma la riporteremo indietro e la
renderemo grande di nuovo. Più grande che mai. Saremo una nazione come
nessun’altra. Piena di compassione, coraggio ed eccezionalità. Il nostro potere
fermerà tutte le guerre e porterà un nuovo spirito di unità in un mondo che è
stato arrabbiato, violento e totalmente imprevedibile. L’America sarà
rispettata di nuovo e ammirata di nuovo, anche dalle persone di religione, di
fede e buona volontà. Saremo prosperi. Saremo orgogliosi. Saremo forti e
vinceremo come mai prima d’ora. Non saremo conquistati. Non saremo intimiditi.
Non saremo spezzati. E non falliremo.”
In questo viaggio di rinascita, l’America avrà
l’opportunità di riscoprire le sue radici e il suo spirito indomito. Con una
nuova energia, riaffermeremo il nostro ruolo nel mondo, come faro di libertà,
opportunità e giustizia. Le sfide che ci attendono saranno affrontate con il
coraggio di chi sa che ogni grande nazione può cadere, ma solo chi ha una
volontà incrollabile può rialzarsi e prosperare.
Indipendentemente dalle fazioni è bello vedere pace,
serenità e sperare in una prosperità non volgare come quella di starlette e
affamati di notorietà, ma piuttosto quella semplice del focolare famigliare,
qualunque esso sia, dove i talenti vengono remunerati e dove tutti hanno un
loro posto colmo di affetti.
L’eredità di Joe Biden: una valutazione della sua presidenza.
di Melissa de Teffè dagli Stati Uniti.
La presidenza di Joe Biden, iniziata a gennaio del 2021 e conclusasi venerdì 18, 2025, ha segnato un periodo significativo nella storia americana, sfortunatamente più per le controversie interne e internazionali che per le innovazioni e i progressi che le società oggi richiedono. Sicuramente le sfide che questa amministrazione ha dovuto affrontare sono state molteplici e gravi. Il Covid, due guerre militari da distinguere da quelle economiche, lo spionaggio cinese sfacciato e aggressivo, e infine, la malattia di Biden, che da prima del famoso dibattito con Trump, (pensiamo alle immagini di Biden che vaga durante il G7 in Puglia) ci ha portati a porci questa domanda: “Ma chi sta governando gli Stati Uniti?”. L’eredità di qualsiasi presidente è definita dalla sua leadership durante periodi storici difficili e sicuramente Biden è stato il protagonista di questo. Se i primi due anni sono stati vissuti, almeno dalla popolazione, come una rinascita positiva, dove il grande Padre della nazione iniziava a prendersi cura del “popolo” afflitto dall’inflazione, dalla perdita di lavoro per il Covid, e da un’economia internazionale ferma, l’arrivo di milioni di immigrati illegali le cui sovvenzioni federali hanno prosciugato diverse casse dello Stato. Qui analizziamo in sintesi i pro e i contro.
L’avvio: ripresa
economica e vittorie legislative
Uno degli aspetti
più significativi della politica Biden è stato il suo ruolo nel guidare
l’economia degli Stati Uniti dopo le conseguenze della pandemia di COVID-19.
Quando Biden è entrato in carica nel gennaio 2021, il paese stava ancora
affrontando le ripercussioni economiche della pandemia, che aveva causato una
diffusa perdita di posti di lavoro, interruzioni nelle catene di
approvvigionamento e una grave crisi sanitaria pubblica. L’amministrazione
Biden ha subito iniziato a lavorare per stabilizzare l’economia.
American Rescue Plan (ARP):
Nel marzo del 2021,
Biden ha approvato l’American Rescue Plan, un pacchetto di stimolo da 1,9
trilioni di dollari progettato per dare assistenza finanziaria diretta alla
popolazione, sovvenzionare la distribuzione dei vaccini e supportare le
economie di quegli Stati federali o città in gravi difficoltà economiche. Il
piano includeva incentivazioni come l’estensione dei benefici di disoccupazione
e altre misure di soccorso volte a mitigare l’impatto finanziario della
pandemia. L’ARP è stato accreditato per aver aiutato milioni di americani ad
affrontare la tempesta economica, portando a una rapida ripresa della spesa dei
consumatori e a una riduzione dei tassi di povertà.
Crescita economica e creazione di
posti di lavoro:
Gli sforzi di recupero economico di Biden sono stati in gran parte efficaci
nella creazione di posti di lavoro. Alla fine del 2021, l’economia degli Stati
Uniti aveva assicurato 6,6 milioni di posti di lavoro, segnando così una svolta
storica. Il tasso di disoccupazione, che durante la pandemia era salito alle
stelle, è sceso sotto la leadership di Biden, raggiungendo i livelli
pre-pandemia già a metà del 2021, con una crescita economica complessiva per il
2021 del 5,9%, il tasso più alto in quasi quattro decenni.
Investimenti in
infrastrutture: The infrastructure Investment Act and the Job Act. A novembre 2021
sono stati allocati 1,2 trilioni di dollari per progetti infrastrutturali in
tutto il paese. Questo storico disegno di legge ha finanziato la riparazione e
l’aggiornamento di strade, ponti, trasporti pubblici e reti a banda larga, tra
le altre infrastrutture critiche, creando quindi anche posti di lavoro. Questo
disegno di legge, acclamato perchè più
che necessario, è stato visto come un importante successo per l’agenda politica
interna di questa amministrazione.
Contemporaneamente,
la Federal Reserve, sotto la guida di Jerome Powell, ha adottato politiche
monetarie espansive, abbassando i tassi di interesse e acquistando asset per
garantire liquidità nei mercati finanziari. Questo ha stabilizzato l’economia
momentaneamente. Nel complesso, le politiche economiche di Biden hanno
stimolato una rapida ripresa, con una crescita del PIL del 5,9% nel 2021 e una
significativa riduzione della disoccupazione. Tuttavia, l’aumento dei prezzi al
consumo, secondo il CPI (l’Indice dei Prezzi al Consumo) depurato dagli
aggiustamenti stagionali, è del 19,4% da quando Biden è entrato in carica, evidenziando
la difficoltà di gestire gli effetti collaterali delle politiche di stimolo in
un contesto di forte crescita.
4. Inflation Reduction Act (IRA):
Ad agosto del 2022, Biden ha firmato l’ Inflation Reduction Act in legge.
Nonostante il nome, l’oggetto della legge era quello di combattere il
cambiamento climatico, abbassare i prezzi dei farmaci da prescrizione e
riformare il codice fiscale. L’IRA è forse meglio conosciuto per il suo storico
investimento in energie rinnovabili, con disposizioni volte a ridurre le
emissioni di gas serra e promuovere fonti di energia alternative. Supportato da
ambo i partiti questa legislazione è stata uno dei principali successi di Biden
nell’ambito della politica climatica e della sanità.
Politiche
sociali: progressi nei diritti civili: La presidenza di
Biden si è occupata anche di diritti civili e giustizia sociale.
1. Respect for Marriage Act:
Nel dicembre 2022, Biden ha firmato in legge il Respect for Marriage Act. Questa legislazione cruciale ha abrogato il Defense of Marriage Act e
ha sancito nel diritto federale il matrimonio tra persone dello stesso sesso e
tra persone di razze diverse, offrendo protezione legale per le coppie LGBTQ+ e
per quelle interrazziali. Questo è stato visto come una vittoria monumentale
per il movimento per i diritti LGBTQ+ e ha segnato un cambiamento storico nel
panorama giuridico riguardo all’uguaglianza matrimoniale negli Stati Uniti. (*Il
Defense of Marriage Act (DOMA) era una legge federale degli Stati Uniti,
firmata dal presidente Bill Clinton nel 1996, che definiva il matrimonio come
l’unione esclusiva tra un uomo e una donna, impedendo così il riconoscimento
del matrimonio tra persone dello stesso sesso a livello federale. Inoltre, la
legge permetteva agli stati di non riconoscere i matrimoni tra persone dello
stesso sesso celebrati in altri Stati. Nel 2013, la Corte Suprema degli Stati
Uniti ha dichiarato incostituzionale una parte fondamentale del DOMA,
affermando che impedire il riconoscimento federale dei matrimoni tra persone
dello stesso sesso violava il principio di uguaglianza protetto dalla
Costituzione. Di conseguenza, il DOMA è stato progressivamente smantellato, e
nel 2022, la Respect for Marriage Act ha abrogato definitivamente il
DOMA, garantendo il riconoscimento federale del matrimonio tra persone dello
stesso sesso.)
2. Diritti LGBTQ+:
L’amministrazione Biden ha preso misure rapide per proteggere i diritti LGBTQ+
in vari ambiti, tra cui l’istruzione, la sanità e il lavoro. La sua
amministrazione ha annullato politiche discriminatorie, tra cui il divieto per
le persone transgender di servire nell’esercito, e ha adottato misure per
proteggere gli studenti LGBTQ+ nelle scuole dalla discriminazione. Biden ha
anche emesso ordini esecutivi per garantire l’accesso all’assistenza sanitaria
per gli individui LGBTQ+, affrontare le disparità sanitarie e combattere la
discriminazione contro gli LGBTQ+.
Politica estera:
la scena globale
La politica estera di Biden è stata
segnata da molte controversie. Il suo approccio radicato nel rinnovato impegno
con il mondo dopo la dottrina “America First”
dell’amministrazione Trump, si è concentrato sul multilateralismo, inizialmente
capovolgendo quasi tutte le scelte fatte dall’amministrazione precedente e cercando
di affrontare le molteplici sfide globali come il cambiamento climatico e
l’autoritarismo.
1. Risposta all’invasione russa dell’Ucraina:
Uno degli aspetti definitivi della politica estera di Biden è stata la sua
risposta all’invasione russa dell’Ucraina nel 2022. Biden ha rapidamente
imposto una serie di sanzioni economiche contro la Russia, incluso il
congelamento dei beni di funzionari e oligarchi russi in mano agli americani, ha coordinato il supporto internazionale per
l’Ucraina, guidando gli alleati NATO nel fornire armamenti, finanziamenti miliardari
e aiuti umanitari. Il sostegno di Biden all’Ucraina ha consolidato la sua
posizione come leader impegnato a difendere la democrazia contro l’aggressione
autoritaria.
2. Posizionamento riguardo la Cina:
L’amministrazione Biden ha preso diverse azioni contro la Cina, sia dirette che
indirette, concentrandosi su una serie di settori strategici che vanno dalla
sicurezza, alla difesa militare ed economica della nazione, ai diritti umani.
Ecco alcune delle principali azioni:
3. Politica di Confronto sulla
Sicurezza e la Difesa:
AUKUS (2021): Come parte della strategia per contrastare l’influenza crescente della
Cina nell’Indo-Pacifico, Biden ha collaborato con il Regno Unito e l’Australia
per creare l’alleanza AUKUS, che include la fornitura di sottomarini nucleari
all’Australia e altre iniziative di cooperazione militare. Questa alleanza costituisce
un contrappeso alla potenza navale crescente della Cina nella regione.
Quad (2021): L’amministrazione Biden ha rafforzato l’alleanza del Quad (Stati
Uniti, Giappone, India e Australia), che mira a rafforzare la cooperazione in
ambito di sicurezza, commercio, e altre aree strategiche, rispondendo così alle
crescenti sfide poste dalla Cina nell’Indo-Pacifico.
Tecnologia 5G e cyber security: La Cina è vista come una minaccia alla sicurezza digitale, e Biden ha
sostenuto iniziative per difendersi da attacchi informatici provenienti dalla
Cina. Ha vietato la partecipazione di Huawei nelle reti 5G.
Sanzioni contro aziende cinesi: Queste misure proibiscono alle
aziende americane di vendere tecnologie e componenti critici a queste società,
limitando l’accesso a componenti essenziali per la costruzione di
infrastrutture 5G e la produzione di semiconduttori avanzati. L’obiettivo principale
di queste restrizioni è ridurre il rischio di spionaggio e sabotaggio
informatico, proteggendo così le reti e i sistemi sensibili degli Stati Uniti. Inoltre,
l’amministrazione ha introdotto nuove limitazioni, come l’inserimento di
ulteriori aziende cinesi nella lista nera del Dipartimento del Commercio,
vietando loro l’accesso al mercato statunitense.
TikTok e Preoccupazioni sulla
Sicurezza dei Dati: TikTok, una delle piattaforme social
più popolari al mondo, è di proprietà della compagnia cinese ByteDance
ed è in questo momento soggetto incriminato per la manipolazione di dati di
milioni di americani. La legge richiede
che la società madre di TikTok, ByteDance, venda l’applicazione a un acquirente
approvato dagli Stati Uniti entro il 19 gennaio 2025, altrimenti la famosa app sarà rimossa dagli store di applicazioni
statunitensi. Il presidente eletto,
Donald Trump, ha dichiarato che è probabile che conceda un’estensione di 90
giorni, una volta assunto l’incarico. La situazione rimane incerta.
4. Diplomazia e Alleanze Globali:
Rinnovato impegno con alleati globali: Biden ha lavorato per rafforzare le alleanze con alleati storici come
l’Unione Europea, il Giappone, e l’India, cercando di costruire una coalizione
contro le politiche economiche e geostrategiche della Cina. L’obiettivo è
rendere più efficace una risposta collettiva alle pratiche commerciali cinesi
percepite come sleali.
5. Diritti Umani:
Sostegno alla causa dei diritti umani
in Xinjiang: Biden ha preso una posizione forte
contro le violazioni dei diritti umani in Xinjiang, denunciando la
repressione della minoranza uigura e definendo le azioni cinesi come genocidio.
Ha imposto sanzioni contro i funzionari cinesi accusati di essere responsabili
di abusi.
Hong Kong e le libertà civili: Biden ha denunciato la crescente repressione delle libertà civili a Hong
Kong, dopo l’approvazione della legge sulla sicurezza nazionale da parte della
Cina. L’amministrazione ha imposto sanzioni a funzionari cinesi e hongkonghesi
coinvolti nella repressione.
Aspetti negativi:
critiche e sfide
A partire dal 2022, l’amministrazione
Biden ha dovuto affrontare le conseguenze negative delle scelte
politico-economiche adottate all’inizio del suo mandato, con un impatto diretto
sul contesto interno del paese.
1. Inflazione e difficoltà economiche:
Nonostante le scelte economiche iniziali abbiano risposto a necessità urgenti,
a partire dalla seconda metà del suo mandato, il paese ha affrontato una
crescente inflazione. Le misure di stimolo fiscale e monetario, sebbene
necessarie per sostenere l’economia durante la pandemia, hanno aumentato la
domanda aggregata. Secondo la Banca
Centrale Europea, l’inflazione negli Stati Uniti è stata più persistente a
causa di una componente interna più forte, legata a una ripresa dei consumi più
rapida rispetto all’Eurozona. Inoltre,
l’aumento dei prezzi dell’energia, aggravato dalla guerra in Ucraina, ha avuto
un impatto significativo sull’inflazione. Le interruzioni nelle catene di
approvvigionamento hanno portato a un aumento dei costi delle materie prime e
dei semilavorati, influenzando i prezzi al consumo. Di conseguenza, la
presidenza di Biden ha affrontato critiche per non essere riuscita a contenere
l’inflazione, che ha avuto un impatto diretto sul potere d’acquisto delle
famiglie americane.
2. Problemi di confine e immigrazione:
La politica sull’immigrazione è stata un altro punto di contesa e nonostante la
sistuazione ereditata fosse complessa e volatile soprattutto al confine
meridionale, la gestione della crisi al confine ha suscitato forti critiche, e
molte divisioni. Accusati di mal governo l’amministrazione solo in ultimis ha
messo in atto una politica di controllo restrittiva, ma soprattutto per le
continue pressioni nazionali. L’impatto economico e la sicurezza pubblica ne
hanno risentito in modo significativo, diventando una chiara testimonianza di
questa cattiva gestione. Includo due esempi esplicativi.
New York City: Crisi Finanziaria e
Sociale
New York City, una delle principali
città santuario, (non tutte le città o gli Stati hanno deciso di alloggiare gl’immigrati,
come ad esempio la Florida), ha affrontato una crisi migratoria senza
precedenti. Dal 2022, la città ha accolto oltre 100.000 migranti, con un costo
stimato di 12 miliardi di dollari entro il 2025. Il sindaco Eric Adams ha dichiarato che la
crisi migratoria “sta distruggendo” la città, sottolineando la
necessità di un supporto federale e statale per affrontare l’emergenza che sta causando
la bancarotta.
Aurora, Colorado: Invasione e
Occupazione di Edifici e Problemi di Sicurezza
Aurora, una città suburbana di Denver,
ha vissuto un aumento significativo della criminalità legata all’afflusso di
migranti, in particolare quelli provenienti da Venezuela. Un esempio drammatico
di questo fenomeno è stato l’invasione e l’occupazione di due palazzi da parte
di gruppi di migranti delinquenti. Questi edifici, sono stati occupati
illegalmente. I residenti hanno
denunciato atti di violenza, traffico di droga e altri crimini, attribuiti a
una banda organizzata come il “Tren de Aragua”, un gruppo criminale
che si sta espandendo anche in altre aree degli Stati Uniti. L’incapacità delle
autorità locali di intervenire ha esacerbato la situazione. Questo caso ha
sollevato una serie di interrogativi sul controllo della migrazione e sul tipo
di supporto dato dalle città rifugio non a migranti “meritevoli”, ma a veri e
propri delinquenti, dove, chi ne paga le conseguenze sono residenti espropriati
dei loro averi e della casa.
Le forze dell’ordine locali hanno
intensificato gli sforzi per affrontare queste sfide, ma le risorse sono
limitate. Inoltre, la collaborazione tra le autorità locali e le agenzie
federali, come l’ICE, (U.S. Immigration and Customs Enforcement), è stata più
che carente per motivi cos’ detti etici. Questa politica di accoglienza ha
avuto risvolti inaspettati apportando sfide significative in termini di risorse
economiche e sicurezza pubblica.
3. Valutazioni di approvazione e
polarizzazione politica:
Le valutazioni di approvazione di Biden sono fluttuate durante la sua
presidenza, principalmente a causa di fattori come l’inflazione, l’aumento dei
prezzi dell’energia e la continua polarizzazione politica. Una volta iniziato
il periodo elettorale, agli inizi del 2024, i valori di approvazione sono
diminuiti drasticamente, soprattutto sapendo che il contendente era Donald
Trump e la sua nota imprevedibilità. Da quel momento l’America si è divisa.
4. Il ritiro dall’Afghanistan:
Il ritiro dall’Afghanistan, già considerato un fallimento, merita una
riflessione approfondita. Le modalità con cui è stato gestito hanno suscitato
ampie critiche da parte di entrambe le fazioni politiche. La decisione di Biden
di ritirare le forze americane entro settembre 2021 è stata vista come una
grave mancanza di responsabilità, poiché non è riuscito a garantire una
transizione pacifica e ordinata oltre al non dare il tempo necessario per
traslocare la grande quantità di armamenti in loco. Questo errore ha avuto
ripercussioni devastanti non solo nel contesto internazionale, ma ha minato la
propria immagine all’interno sia del mondo militare che quello civile
dimostrando l’incapacità di gestire crisi complesse e di mantenere la stabilità
in questa regione strategica del mondo.
Un episodio che ha ulteriormente
acuito le critiche sul ritiro è avvenuto durante il discorso sullo Stato
dell’Unione del 2024, quando, verso la fine, Steven Nikoui, padre di Kareem
Nikoui, un marine statunitense ucciso durante l’attacco all’Abbey Gate
di Kabul nel 2021, è stato arrestato per aver urlato “Signor Presidente si
ricordi di Abbey Gate” e “dei Marines americani”, in riferimento all’attacco terroristico che ha
causato la morte di suo figlio e di altri 12 soldati americani, oltre a diversi
civili afghani. L’arresto, seppur temporaneo, ha evidenziato il fallimento nel
proteggere i diritti e le vite dei propri soldati e dei cittadini afghani. La
scena ha scatenato indignazione, ha accentuato le divisioni all’interno della
società americana, minando ulteriormente la leadership di Biden.
5. Politica Transgender
La politica sulla questione dei diritti
delle persone transgender, in particolare nello sport, ha subìto un
significativo contraccolpo durante la presidenza di Joe Biden. Da subito sono
state sostenute le richieste degli atleti mashi transgender di partecipare alle
competizioni femminili. La questione è divenuta sempre più divisiva, con ampi
settori della società e della politica che hanno sollevato preoccupazioni
riguardo alla parità di opportunità per le donne cisgender. Ad opporsi da ambo
i versanti politici sono stati in tanti che si è culminato con la decisione
della Camera dei Rappresentanti, che il 14 gennaio 2025 ha approvato il “Protection
of Women and Girls in Sports Act”. La legge vieta alle atlete
transgender di partecipare a competizioni sportive femminili nelle scuole e
università che ricevono fondi federali, ribaltando così le politiche sostenute
dall’amministrazione Biden. Questa decisione rappresenta un evidente fallimento
delle politiche pro-transgender del presidente, mettendo in luce l’ampia
opposizione che continua a esistere sia a livello legislativo che sociale
riguardo ai diritti delle persone transgender.
Conclusioni: un’eredità mista
La presidenza di Joe Biden è stata
segnata da alcuni temporanei successi e da sfide significative. Le soluzioni
adottate per affrontare i disastri economici causati dalla pandemia, gli sforzi
di recupero economico, gli investimenti in infrastrutture e le vittorie
legislative in ambiti come il cambiamento climatico e una riforma sanitaria
piuttosto limitata (senza dimenticare che la principale causa di bancarotta
personale è l’incapacità di pagare i farmaci prescritti) saranno presto
dimenticate. Sulla bilancia pesano l’inflazione, la criminalità di immigrati
illegali, gli assalti sessuali di ragazzini dichiaratisi falsamente trans nei
bagni pubblici femminili, i morti di Abbey Gate in Afghanistan, l’incapacità di
dialogare e con Putin e con Netanyahu, senza poi dimenticare d’aver dato la grazia
totale e incondizionata al figlio cocainomane condannato a 17 anni di carcere.
Come per tutti i presidenti, l’eredità
di Biden sarà valutata nel tempo. Sebbene alcune delle sue politiche abbiano
gettato le basi per miglioramenti a lungo termine nel posizionamento globale,
le turbolenze della seconda metà del suo mandato soprattutto riguardo alle
politiche interne, probabilmente plasmeranno la narrativa storica. Alla fine,
la presidenza di Biden rappresenta un periodo di confusione identitaria, di violenze
verbali mai vissute prima, una volontà di obnubilare le radici storiche di
questa nazione, ma senza una linea politica chiara. Ai posteri la sentenza
finale.
Charlie Hebdo: una riflessione a 10 anni dall’attacco jihadista
Il 7
gennaio 2015, dieci anni fa, un attacco terroristico colpì la redazione
parigina di Charlie Hebdo, lasciando dietro di sé una scia di sangue e dodici
vittime. I due assalitori, vestiti di nero, irruppero negli uffici del giornale
satirico, aprendo il fuoco come ritorsione per le vignette su Maometto.
Nonostante il tragico evento, lo spirito e la missione della rivista non si
sono mai spenti. Charlie Hebdo rimane un simbolo di libertà di espressione,
continuando a pubblicare con la stessa irriverenza che l’ha resa famosa.
L’attacco a Charlie Hebdo, rivendicato dalla branca yemenita di al-Qāʿida (o Ansar al-Sharia), si inserisce in una lunga sequenza di attentati terroristici che hanno colpito l’Europa dopo il 2001. Eventi come quelli di Madrid nel 2004, Londra nel 2005 e Bruxelles nel 2014 fanno parte di questa tragica scia. E tanti altri che sarebbero seguiti nei dieci anni intercorsi da allora: da Nizza e Berlino nel 2016 a Brokstedt e Magdeburgo in Germania nel 2023 e 2024. L’attentato a Parigi causò la morte di 17 persone, tra cui figure di spicco del giornale satirico.
Dopo
l’attacco a Charlie Hebdo e l’omicidio del poliziotto Ahmed Merabet, i due
terroristi jihadisti, i fratelli Saïd e Chérif Kouachi, si diedero alla fuga a
bordo di un’auto. Nonostante l’allarme diffuso nella regione parigina, riuscirono
a nascondersi nei boschi a nord del Paese. Il 9 gennaio, vennero individuati e,
dopo un assedio da parte delle forze di polizia e militari, ed eliminati.
Il 9 gennaio
2015, Amedy Coulibaly, complice dei fratelli Kouachi e affiliato allo Stato
Islamico, si barricò in un supermercato kosher a Parigi dopo aver ucciso una
poliziotta il giorno precedente. Durante il sequestro, quattro ostaggi vennero
uccisi. Coulibaly venne ucciso a seguito dell’irruzione da parte della polizia.
Successivamente emerse che l’attacco era parte di un piano più ampio, con altri
complici fuggiti verso la Siria.
L’11 gennaio
2015, milioni di persone si riversarono per le strade di Parigi per manifestare
solidarietà dopo gli attacchi terroristici contro Charlie Hebdo e l’Hyper Cacher.
La marcia, simbolo di difesa della libertà di espressione, vide la
partecipazione di leader mondiali e rappresentanti di varie nazioni. Pochi
giorni dopo, il nuovo numero di Charlie Hebdo, realizzato dai sopravvissuti,
venne pubblicato in diverse lingue e distribuito a milioni di copie in tutto il
mondo, sottolineando la resistenza contro il terrorismo e l’importanza della
libertà di stampa.
L’attacco
del 7 gennaio 2015 fu un atto di natura politica e segnò l’inizio di una serie
di attentati che avrebbero sconvolto la Francia nei mesi successivi. Le stragi
del 13 novembre 2015 a Parigi e del 14 luglio 2016 a Nizza confermarono la
vulnerabilità del Paese. Nel 2020, il processo per l’attacco a Charlie Hebdo si
concluse con 14 condanne, segnando un passo importante nella lotta contro il
terrorismo. A dieci anni di distanza, Charlie Hebdo resta un simbolo della
libertà di espressione, resistente alle minacce e alla violenza.
Il terrorismo oggi:
opportuna riflessione.
Il
terrorismo attuale, ponendo le proprie radici nella profondità di un’evoluzione
storica molto complessa, rappresenta una minaccia ideologica diffusa. E la
minaccia del terrorismo jihadista è oggi particolarmente rilevante, collegata
alle dinamiche storiche, conflittuali, delle relazioni internazionali e della
competizione in Medio Oriente, in Africa e alla violenza discendente dalla
lettura radicale dell’Islam; una dinamica conflittuale che oggi si associa
sempre più spesso alla ricerca di identità di gruppi e individui attraverso l’opposizione
culturale di una componente non marginale degli immigrati maghrebini di seconda
e terza generazione in Europa. E parliamo di una galassia jihadista frammentata
e caratterizzata da diverse ideologie e approcci pratici, tanto da indurre una
riflessione sul concetto di terrorismo contemporaneo che si impone come
fenomeno sociale molto diverso dai terrorismi che lo hanno preceduto.
Una
necessaria riflessione che ci invita a riflettere sull’opportunità di un cambio
di paradigma nella stessa definizione di terrorismo, non più da intendere come
azione volta ad ottenere risultati politici attraverso la violenza, dunque
nelle intenzioni. Bensì come effetto della violenza applicata: è terrorismo la
manifestazione di violenza, privo di un’organizzazione alle spalle. È
terrorismo nella manifestazione, non nell’organizzazione.
All’interno
della stessa galassia jihadista, il terrorismo si impone come strumento di
lotta, di resistenza e di prevaricazione, e lo fa con diversi gradi e modelli
di violenza: da quella individuale, a quella organizzata, a quella ispirata e
ancora al terrorismo insurrezionale che ben abbiamo conosciuto in Afghanistan e
in Iraq, in Siria e, in parte, stiamo osservando nelle sue manifestazioni nella
Striscia di Gaza dove l’esercito israeliano si confronta con il gruppo Hamas
(Bertolotti, 2024).
E
proprio l’esperienza afghana, che l’Autore del presente articolo ha avuto modo
di studiare da vicino per molti anni, a cui si è sommata l’ondata di violenza
conseguente all’appello di Hamas a colpire Israele e i suoi alleati, e la
successiva vittoria islamista in Siria, hanno svolto un ruolo determinante
nella ripresa di un terrorismo ispirato ed emulativo a livello globale, che si
basa sull’esperienza vittoriosa dei talebani contro l’Occidente, da un lato, e,
dall’altro, sulla rabbia veicolata attraverso la strategia comunicativa di
Hamas che trova in alcune minoranze ideologizzate occidentali una cassa di
risonanza che sovrappone, confondendola, l’agenda violenta e terrorista di
Hamas alla legittima istanza palestinese: due elementi a cui si somma l’entusiasmo
della galassia jihadista conseguente alla vittoria del gruppo islamista Hay’at Tahrir al-Sham in Siria, che ben
è riuscito a mascherarsi agli occhi occidentali attraverso un pragmatico opportunismo.
Eventi sul piano delle Relazioni internazionali che, attraverso la retorica
jihadista, sono sfruttati per dimostrare la bontà e la fondatezza del jihad, e dunque del terrorismo come
strumento di lotta, di vittoria, di giustizia.
E
oggi, dopo e insieme all’Afghanistan, all’Iraq, alla Striscia di Gaza e alla
Siria, a svolgere questo ruolo di spinta ideologica e coinvolgimento di massa,
sono le dinamiche conflittuali in Medioriente e il terrorismo mediaticamente
amplificato di Hamas; da questo discendono le manifestazioni emulative di
violenza che il terrorismo ai danni di Israele ha in parte provocato e potrebbe
sempre più provocare in Europa come nei paesi del Nord Africa, dell’Africa
subsahariana e del Sahel.[1]
Terrorismo di successo
o fallimentare? Elementi di analisi dell’operazione terroristica contro Charlie
Hebdo: azione tattica, obiettivo strategico.
Dall’articolo originale di C. Bertolotti pubblicato il 12 gennaio 2015 su ITSTIME
Parigi, 7-9 gennaio 2014: 15 morti (12 vittime e tre terroristi jihadisti). Dopo Canada, Stati Uniti e Australia, i due episodi in Francia, collegati o meno tra di loro, forniscono alcuni utili elementi di valutazione sul “terrorismo jihadista” contemporaneo.
Si vogliono
qui elencare sinteticamente gli elementi di forza caratterizzanti tale fenomeno
(in fase di espansione e radicalizzazione), le vulnerabilità, gli elementi di
minaccia, le opportunità e, infine, i “trade-off” – le variabili in grado
di influire sugli sviluppi socio-politici e sulle procedure di sicurezza in
atto e in fase di implementazione.
In primo
luogo, i punti di forza del terrorismo jihadista emerso in
concomitanza con l’espansione territoriale e comunicativa del fenomeno Stato islamico (2013-2017) si sono
temporaneamente concretizzati nelle adeguate capacità informativa,
organizzativa e di movimento a cui si sono uniti la forte motivazione e
l’elevato livello operativo acquisito da quei foreign fighter “europei”
che hanno fatto rientro dai teatri di guerra iracheno, siriano e libico. Tali
soggetti sono stati in grado di sfruttare a proprio vantaggio la pressoché
infinita disponibilità di obiettivi di tipo “soft target” da colpire e
caratterizzati da un elevato livello di vulnerabilità; un vantaggio che si è accompagnato
alla possibilità di reperimento di armi da guerra provenienti dal mercato nero
(nulla a che vedere con le armi comuni regolarmente denunciate e detenute) e di
equipaggiamenti reperibili dal libero commercio. Azioni di questa tipologia
sono state in grado di indurre all’emulazione altri soggetti, indipendenti e
non organizzati: gli emulatori, spesso indicati impropriamente come i lone
wolf (lupi solitari o terroristi autoctoni).
Agli
elementi forti fanno eco alcuni fattori di debolezza del terrorismo
jihadista. In primis, sul piano operativo, la marginale
capacità di colpire con efficacia la maggior parte degli hard-target (obiettivi
militari, infrastrutture strategiche, critiche e sensibili); sul piano
informativo vi è invece una concreta vulnerabilità all’identificazione attraverso
i social-network. Infine, su un piano più generale, permangono gli
attriti latenti all’interno delle eterogenee dimensioni jihadiste, mentre si sono
sviluppate le conflittualità tra i differenti brand del jihad,
in particolare al-Qa’idavs lo
Stato islamico: una competizione che apre
all’intensificazione delle azioni violente.
Ai fattori
di debolezza del terrorismo jihadista, si contrappongono le vulnerabilità
degli stati occidentali. Gli eventi registrati nel corso degli ultimi dieci
anni, tendono a dimostrare come le forze di sicurezza e di intelligence non
siano in grado di contrastare le manifestazioni di un fenomeno sempre più
audace (e il verificarsi di un singolo episodio si impone su quelli prevenuti
con efficacia); nel complesso vi è una sostanziale incapacità previsionale da
cui derivano limiti oggettivi di azione preventiva – accentuati dai tagli alle
spese della componente difesa-sicurezza – nei confronti dei potenziali
obiettivi la cui salvaguardia richiede(rebbe) elevati costi in termini di
risorse umane, economiche e materiali per garantirne la sicurezza fisica.
Inoltre, pesa l’assenza di un adeguato quadro giuridico finalizzato a un
efficace contrasto al “terrorismo fondamentalista di matrice jihadista” (che
differisce dallo storico “terrorismo politico” di stampo europeo in ragioni,
dinamiche, sviluppi e organizzazione).
Pesa, nel
complesso, l’assenza di una classe dirigente competente in grado di definire
una linea strategica per la sicurezza e che sia, al contempo, in grado di far
fronte al crescente disagio sociale – in parte conseguenza di un alto tasso di
disoccupazione – e alla pressione dell’opera di reclutamento e propaganda
jihadista – sia globale via web, sia a livello locale. A ciò si aggiungono la
diffusione del “terrore”, il condizionamento dell’opinione pubblica,
l’esaltazione di sentimenti nazionalistici e la deriva estremista (su entrambi
i fronti) e populista i cui effetti inducono a scelte politiche restrittive,
tra le quale anche la limitazione di diritti individuali (privacy e
sicurezza) e la sospensione di accordi internazionali (nel merito si cita la
decisione del governo francese nel 2015, e dieci anni dopo quello tedesco, di
limitare il libero movimento dei cittadini europei attraverso le proprie
frontiere, in deroga al trattato di Shengen).
Significative le opportunità potenziali, su entrambi i
fronti.
Le opportunità
del terrorismo jihadista sono
conseguenza del contesto in cui si è orientato a operare e della
riorganizzazione strutturale.
Il contesto
operativo è il “domesticurban warfare” (ambito
urbano ad alta densità di popolazione) in grado, da un lato, di garantire la
presenza di safe-areas di supporto e, dall’altro, di opporre
una limitata capacità di reazione da parte di forze di polizia urbana dal basso
profilo operativo.
Si è così imposta una nuova forma ibrida della guerra che ha indotto a una razionale riorganizzazione strutturale del terrorismo jihadista, su base individuale, rafforzata dall’attivazione di singoli soggetti pronti a colpire, in caso di appello o in risposta a eventi emotivamente o mediaticamente esaltanti, e già presenti in Europa o in aree di prossimità (come la Turchia che è al tempo stesso area di transito della “migrazione jihadista” e sostenitrice del fronte islamista siriano di Hay’at Tahrir al-Sham che con la forza insurrezionale ha posto termine al regime di Bashar al-Assad).
Le opportunità
che possono essere colte dagli stati occidentali sono rappresentate,
in primo luogo, da una collaborazione attiva delle agenzie intelligence funzionale
alla possibile riorganizzazione di un modello di difesa-sicurezza di tipo
“diffuso e condiviso”; a ciò si unisce l’opportunità di un maggiore
coinvolgimento delle comunità musulmane. In secondo luogo, v’è da porre in
evidenza l’opportunità rappresentata da un razionale, quanto efficace, impegno
dell’Occidente nella lotta ad ampio spettro al gruppo Stato islamico e in un coerente ed equilibrato controllo delle
frontiere lungo l’arco mediterraneo.
A fronte
delle opportunità, vi sono le minacce. La prima è rappresentata
dall’emergere di una condizione di tensione sociale derivante da azioni
terroristiche reali o, più semplicemente, potenziali, a cui si contrappongono i
limiti di capacità di reazione e contrasto dei governi europei. Limiti che saranno
messi a dura prova dal probabile fenomeno di emulazione ampiamente registrato e
dalla replicabilità di azioni dimostrative anche violente (ad esempio,
l’incendio alla rivista tedesca “Hamburger Morgenpost” l’11 gennaio 2015, che
nei giorni successivi all’attacco a Parigi pubblicò alcune vignette di Charlie
Hebdo, e, lo stesso giorno, l’allarme bomba a Bruxelles alla sede del più
importante quotidiano belga, “Le Soir”). Un livello di minaccia accentuato
dalla natura inequivocabile del ruolo di “one-shot fighter” del
“terrorista”, determinato dalla consapevolezza di andare incontro a morte
altamente probabile o certa.
Infine,
le scelte alternative (trade-off). Sul
piano della sicurezza, non sono da escludere i potenziali effetti dinamizzanti
derivanti dal processo di amplificazione mass-mediatica, a cui concorrono sia
le striscianti quanto fantasiose teorie “complottistiche”, sia la diffusione
virale di quei video-web postumi dei terroristi che possono alimentare le
dinamiche di competizione dei gruppi di jihadisti ed esaltare
improvvisati lone wolf. Significativa è la strategia finalizzata
all’attenzione massmediatica che ha per scopi l’amplificazione del messaggio e
la capacità attrattiva dei potenziali militanti (in particolare al-Qa’ida e Stato islamico, che in tale ottica hanno impresso un’accelerata
recrudescenza di azioni mediaticamente sempre più appaganti; con ciò indicando
un’escalation nell’intensità delle azioni su suolo europeo).
Fatte queste
necessarie valutazioni iniziali, concludiamo con l’elenco (certamente parziale)
degli effetti derivanti dalla singola azione portata a compimento a Parigi nel
gennaio 2015 da due soli soggetti (a cui si aggiunge una seconda azione
condotta da un singolo terrorista).
Sul piano tattico e operativo:
eliminazione degli obiettivi
(dal forte valore simbolico);
capacità di tenere impegnate
88.000 unità della sicurezza nazionale (Forze Armate e di polizia),
distraendole dai normali compiti di routine;
blocco della capitale di una
delle più importanti nazioni a livello mondiale;
dimostrazione dei limiti dello
strumento intelligence e di sicurezza.
Sul piano strategico e politico:
diffusione e amplificazione
massmediatica del messaggio jihadista;
dimostrazione
dell’imprevedibilità della minaccia;
generale consapevolezza di
vulnerabilità (forte impatto psicologico);
terrore diffuso immediato e
paura collettiva persistente;
scelta da parte degli
attentatori del “martirio autonomamente scelto (istisshadi) e
imposizione del ruolo di “martire” (shahid) di fronte alla propria
comunità;
induzione alla polarizzazione
“identitaria”;
fomento degli impulsi populisti
e radicali;
mobilitazione della Comunità
internazionale;
avvio del processo di revisione
dei protocolli di sicurezza;
sospensione degli accordi di
Shengen e possibile restrizione delle libertà individuali (privacy,
mobilità).
In estrema
sintesi, si tratta innegabilmente di un successo sui piani mediatico, politico,
psicologico e su quello della sicurezza; un successo facilmente replicabile indipendentemente
dagli effetti diretti su quel “campo di battaglia” del quale siamo parte, in
veste di attori protagonisti o di semplici comparse.
In conclusione: il
vero successo è a livello operativo: il “blocco funzionale”
Come abbiamo avuto modo di evidenziare in #ReaCT2024 – 5° Rapporto sul radicalismo e
il terrorismo in Europa, anche quando un attacco terroristico non riesce,
produce comunque un risultato significativo: impegna pesantemente le forze
armate e di polizia, distraendole dalle loro normali attività o impedendo loro
di intervenire a favore della collettività. Inoltre, può interrompere o
sovraccaricare i servizi sanitari, limitare, rallentare, deviare o fermare la
mobilità urbana, aerea e navale, e ostacolare il regolare svolgimento delle
attività quotidiane, commerciali e professionali, danneggiando le comunità
colpite. Questo riduce efficacemente il vantaggio tecnologico e il potenziale
operativo, nonché la capacità di resilienza. In generale, infligge danni
diretti e indiretti, indipendentemente dalla capacità di provocare vittime. La
limitazione della libertà dei cittadini è un risultato misurabile ottenuto
attraverso queste azioni.
In sostanza, il successo del terrorismo, anche senza
causare vittime, risiede nell’imporre costi economici e sociali alla
collettività e nel condizionare i comportamenti nel tempo in relazione alle
misure di sicurezza o limitazioni imposte dalle autorità politiche e di
pubblica sicurezza. Questo fenomeno è noto come “blocco funzionale”. Nonostante
la capacità operativa del terrorismo sia sempre più ridotta, il “blocco
funzionale” rimane uno dei risultati più importanti ottenuti dai
terroristi, indipendentemente dal successo tattico (uccisione di almeno un
obiettivo). Dal 2004 a oggi, il terrorismo ha dimostrato di essere efficace nel
conseguire il “blocco funzionale” nell’80% dei casi, con un picco del
92% nel 2020 e dell’89% nel 2021. Questo risultato impressionante, ottenuto con
risorse limitate, conferma il vantaggioso rapporto costo-beneficio a favore del
terrorismo, pur a fronte di una rilevata perdita progressiva di capacità che ha
visto diminuire l’ottenimento del “blocco funzionale”, sceso al 78% nel 2022 e
al 67% nel 2023.
[1] C.
Bertolotti (2024), Il terrorismo
jihadista in Europa e le dinamiche mediterranee: evoluzione storica, sociale e
operativa in un’era di cambiamenti globali – i risultati dell’Osservatorio sul
radicalismo e il contrasto al terrorismo (ReaCT), in “#ReaCT2024, 5° Rapporto
sul Radicalismo e il Terrorismo in Europa”, ed. START InSight.
Gaza: attacco all’ospedale Kamal Adwan. Israele e il precedente di al-Shifa: nuovo standard umanitario.
Le Forze di difesa israeliane (IDF) nel raid all’ospedale Kamal Adwan nel nord di Gaza, utilizzato da Hamas come posto di Comando per l’organizzazione terrorista, ha eliminato 19 miliziani, tra i quali alcuni responsabili dell’attacco a Israele del 7 ottobre 2023. Le IDF, in coordinamento con lo Shin Bet (Agenzia per la sicurezza israeliana), ha inoltre arrestato oltre 240 terroristi nell’operazione mirata a contrastare l’ultimo tentativo di Hamas di ricostituirsi nel nord di Gaza; un tentativo da parte del comando dei miliziani palestinesi che ha intenzionalmente sfruttato la struttura dell’ospedale Kamal Adwan a Jabaliya, utilizzando la nota strategia degli scudi umani, in questo casi cittadini ricoverati all’interno dell’ospedale. Un episodio che, da un lato conferma la volontà criminale di Hamas e, dall’altro, evidenzia come le forze armate israeliane stiano facendo il possibile per ridurre l’impatto della guerra sulla popolazione civile palestinese. Contrariamente a quanto il mainstream mediatico tenda a descrivere la condotta di una guerra che, seppur molto violenta, è storicamente l’evento con il più basso numero di vittime collaterali tra i non combattenti.
Operazione nell’ospedale al-Shifa: un nuovo standard umanitario?
La guerra Israele-Hamas ha dato modo alle forze
israeliane di concettualizzare e implementare uno standard innovativo di guerra urbana che non trova precedenti nella
storia militare. Nel marzo 2024, le Idf condussero un’operazione mirata nell’ospedale
al-Shifa nella Striscia di Gaza – utilizzato come base logistica e operativa da
Hamas – adottando precauzioni eccezionali per la protezione di civili nella
fase di avvicinamento, accesso e gestione della struttura. Un approccio che
vide l’impiego, unitamente a militari, di unità di medici e paramedici
israeliani deputati all’assistenza dei pazienti civili palestinesi ricoverati
nell’infrastruttura sanitaria, e squadre logistiche di supporto per il
rifornimento di cibo, acqua e forniture mediche per gli stessi.[1]
Dunque, un approccio volto a limitare i danni causati
dalla presenza di Hamas all’interno dell’infrastruttura sostenendo, al
contempo, il massimo sforzo per andare incontro alle necessità dei pazienti
ricoverati e per minimizzare le vittime civili. Primo esempio nella storia
della guerra urbana, questo metodo rappresenta l’adozione di uno standard
innovativo quanto oneroso, sia in termini di risorse impiegate sia per
l’accettazione di un maggiore rischio intrinseco per il personale militare impegnato
all’interno dell’infrastruttura. Dal punto di vista dottrinale, come su quello
storico, è il primo caso di un esercito che abbia preso tali misure per
occuparsi della popolazione civile avversaria, tenuto conto della concomitanza
delle operazioni militari offensive all’interno dello stesso edificio. Secondo
l’opinione dell’analista John Spencer, pubblicata nel suo articolo Israel has created a new standard for urban
warfare. Why will no one admit it?, Israele avrebbe adottato «più
precauzioni per prevenire danni ai civili di qualsiasi altro esercito nella
storia, andando ben oltre ciò che richiede il diritto internazionale e più di
quanto fatto dagli Stati Uniti nelle loro più recenti guerre in Iraq e
Afghanistan».[2]
Un precedente, quello di al-Shifa, che si pone come
caso studio per la gestione dello spazio urbano e la sicurezza dei civili in
aree operative che, a fronte di un evidente svantaggio tattico, consente alle
forze militari impegnate in operazioni dal potenziale forte impatto mediatico
di prevenire accuse di violazioni dello jus
in bello e delle convenzioni internazionali. Questo precedente apre
doverosamente a una riflessione su tali applicazioni tattiche e sui limiti
auto-imposti a tutela della popolazione civile, non solamente per ragioni
prettamente umanitarie ma anche, e forse prevalentemente, in un’ottica
difensiva sul piano della cognitive
warfare e della propaganda avversaria che, da un lato e come abbiamo visto,
utilizza infrastrutture civili per scopi militari e, dall’altro, strumentalizza
a proprio favore le eventuali vittime civili in conseguenza dello scontro
militare all’interno di quei siti (il law-fare).
La teoria occidentale predominante nella gestione
delle operazioni militari, così come abbiamo descritto in apertura di questo
capitolo, si basa sul concetto di “guerra di manovra”, tesa a cercare di
frantumare moralmente e fisicamente un nemico con forza e velocità sorprendenti
e schiaccianti, colpendo i centri di gravità, politici e militari, affinché il
nemico sia distrutto o si arrenda rapidamente. Questo è stato il caso nelle
invasioni di Panama nel 1989, dell’Afghanistan nel 2001, dell’Iraq nel 2003 e
del tentativo della Russia di prendere in tempi rapidi l’Ucraina nel 2022. In
tutti questi casi, non è stato dato nessun preavviso o tempo sufficiente ai
civili per evacuare le città, con ciò provocando la morte di un significativo
numero di non combattenti. Israele ha abbandonato questo consolidato “approccio
da manuale”, e lo ha fatto nell’ottica primaria di prevenire danni ai civili.
Le Idf hanno annunciato con anticipo quasi ogni azione affinché i non
combattenti potessero trasferirsi, così rinunciando quasi sempre all’elemento
sorpresa. Ciò ha permesso a Hamas di riposizionare in aree sicure i propri
vertici militari e i leader politici
(e con essi anche gli ostaggi israeliani) attraverso il tessuto urbano,
nascondendoli tra i civili durante le evacuazioni o sfruttando i tunnel
sotterranei.[3]
I
combattenti di Hamas, a differenza delle Idf, non indossano uniformi, e questo
è un vantaggio tattico che ha consentito loro di colpire nascosti tra i civili
e, con i civili, lasciare il campo di battaglia. La conseguenza è che Hamas è
riuscito nella sua duplice strategia, da un lato, di generare sofferenza alla
popolazione palestinese e, dall’altro, di creare una narrazione distruttiva
attraverso le immagini, funzionale a ottenere una pressione internazionale su
Israele affinché interrompesse le sue operazioni.
[1] Spenser J., Israel Has Created a
New Standard for Urban Warfare. Why Will No One Admit It?, Opinion,
Newsweek, 25 marzo 2024, in
https://www.newsweek.com/israel-has-created-new-standard-urban-warfare-why-will-no-one-admit-it-opinion-1883286.
Il conflitto in Siria ha esacerbato le tensioni tra Stati Uniti e Turchia, entrambi membri della NATO con interessi strategici divergenti. La recente proposta di sanzioni da parte dei senatori statunitensi Chris Van Hollen e Lindsey Graham, in risposta a una possibile operazione turca contro le Forze Democratiche Siriane (SDF) nel nord della Siria, evidenzia l’approfondirsi di questo divario.
Quale la proposta di Sanzioni Statunitensi?
I senatori Van Hollen e Graham hanno presentato il “Countering Türkiye’s Aggression Act 2024”, mirato a impedire operazioni turche contro le SDF, considerate dagli Stati Uniti partner chiave nella lotta contro l’ISIS. La proposta include l’istituzione di una zona demilitarizzata lungo il confine siriano per facilitare un cessate il fuoco. Van Hollen ha sottolineato che gli attacchi delle forze sostenute dalla Turchia contro i partner curdi siriani compromettono la sicurezza regionale e ha avvertito che, in assenza di un accordo, potrebbero essere imposte sanzioni simili a quelle del 2019 legate all’acquisto turco dei sistemi russi S-400.
E quale la posizione della Turchia?
Preoccupazioni di Sicurezza da parte di Ankara: la Turchia considera le Unità di Protezione Popolare (YPG), componente principale delle SDF, come un’estensione del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), classificato come organizzazione terroristica. Ankara teme che il sostegno statunitense alle milizie curde possa portare alla formazione di uno stato curdo indipendente lungo i suoi confini, scenario inaccettabile per la sicurezza nazionale turca. In risposta alle sue preoccupazioni, la Turchia ha intensificato la presenza militare nel nord della Siria, mirando a prevenire l’espansione dell’influenza curda e a stabilire una zona cuscinetto lungo il confine.
Proposta delle SDF: una zona demilitarizzata: il comandante delle SDF, Mazloum Abdi, ha suggerito l’istituzione di una zona demilitarizzata controllata dagli Stati Uniti a Kobani, area di preparazione per un’operazione da parte dell’Esercito Nazionale Siriano (SNA) sostenuto dalla Turchia. Abdi ha indicato che, in caso di cessate il fuoco, i combattenti non siriani potrebbero essere rimossi dal paese.
Implicazioni Geopolitiche
Relazioni USA-Turchia: Il sostegno continuo degli Stati Uniti alle milizie curde, nonostante le obiezioni turche, ha creato una frattura significativa tra i due alleati della NATO, complicando ulteriormente le dinamiche regionali.
Stabilità Regionale: La possibilità di sanzioni statunitensi contro la Turchia e le operazioni militari turche nel nord della Siria sollevano preoccupazioni riguardo alla stabilità della regione e al futuro delle relazioni tra gli attori coinvolti.
In sintesi, le divergenze tra Stati Uniti e Turchia riguardo al sostegno alle milizie curde in Siria hanno intensificato le tensioni, con potenziali implicazioni per la sicurezza regionale e le relazioni bilaterali.
La Crescita delle tensioni settarie in Siria. La Siria si trova a un bivio che rischia di portare a un conflitto etno-settario su larga scala. La situazione è aggravata dagli omicidi e rapimenti perpetrati da individui affiliati a Hayat Tahrir al Sham (HTS) contro membri della comunità alawita e altri accusati di legami con il regime di Assad. Queste azioni, condotte al di fuori di processi giudiziari formali, rischiano di intensificare le tensioni tra la maggioranza sunnita e la minoranza alawita.
Strategie di Mediazione e Riconciliazione
Il governo transitorio guidato da Ahmed al Shara ha tentato di placare le paure
degli alawiti, ma le misure concrete per proteggere le minoranze restano
limitate. Un programma di amnistia per gli ex membri del regime è stato
istituito, ma la sua trasparenza è messa in discussione, alimentando ulteriori
sospetti di vendette settarie.
L’Influenza Iraniana e il Rischio di Escalation
L’Iran continua a esercitare una forte influenza retorica, incitando alla
ribellione giovanile in Siria e provocando divisioni settarie simili a quelle
osservate in Iraq. Queste dichiarazioni hanno incontrato la ferma opposizione
del ministro degli Esteri siriano, Asaad Hassan al Shaibani, il quale ha
avvertito Teheran del rischio di destabilizzazione.
Nomina Controversia e Scontri Interni
La nomina di Anas Hasan Khattab, ex membro di al-Qaeda, come capo
dell’intelligence siriana da parte del governo provvisorio HTS riflette la
tendenza a favorire alleati leali e rischia di compromettere ulteriormente la
stabilità interna. Contestualmente, scontri tra forze pro-Assad e milizie HTS
hanno causato vittime, alimentando il ciclo di violenza.
Conflitto tra Turchia e SDF
Nel nord della Siria, la Turchia sostiene la formazione di un esercito siriano
unificato che esclude le Forze Democratiche Siriane (SDF). Gli scontri tra
l’esercito nazionale siriano (SNA) e l’SDF continuano, con Ankara che cerca di
consolidare la propria influenza a Manbij e oltre.
Prospettive
La complessità della situazione siriana, con l’intreccio di tensioni settarie,
rivalità geopolitiche e interessi stranieri, suggerisce che senza un intervento
diplomatico efficace, il paese rischia di scivolare ulteriormente nel
conflitto.
MDHM nell’era digitale: il doppio volto dell’Intelligenza Artificiale tra minaccia e soluzione per la democrazia.
La
diffusione di informazioni false, fuorvianti o manipolate – riassunta
nell’acronimo MDHM (misinformation, disinformation, malinformation e hate
speech) – rappresenta una delle sfide più critiche dell’era digitale, con
conseguenze profonde sulla coesione sociale, la stabilità politica e la
sicurezza globale. Questo studio analizza le caratteristiche distintive di
ciascun fenomeno e il loro impatto interconnesso, evidenziando come alimentino
l’erosione della fiducia nelle istituzioni, la polarizzazione sociale e
l’instabilità politica.
L’intelligenza
artificiale emerge come una risorsa cruciale per contrastare il MDHM, offrendo
strumenti avanzati per il rilevamento di contenuti manipolati e il monitoraggio
delle reti di disinformazione. Tuttavia, la stessa tecnologia alimenta nuove
minacce, come la creazione di deepfake e la generazione di contenuti
automatizzati che amplificano la portata e la sofisticazione della
disinformazione. Questo paradosso evidenzia la necessità di un uso etico e
strategico delle tecnologie emergenti.
Il lavoro propone un approccio multidimensionale per affrontare il MDHM, articolato su tre direttrici principali: l’educazione critica, con programmi scolastici e campagne pubbliche per rafforzare l’alfabetizzazione mediatica; la regolamentazione delle piattaforme digitali, mirata a bilanciare la rimozione dei contenuti dannosi con la tutela della libertà di espressione; la collaborazione globale, per garantire una risposta coordinata a una minaccia transnazionale.
In
conclusione, l’articolo sottolinea l’importanza di un impegno concertato tra
governi, aziende tecnologiche e società civile per mitigare gli effetti
destabilizzanti del MDHM e preservare la democrazia, la sicurezza e la fiducia
nelle informazioni.
Definizioni
e Distinzioni
La
diffusione di informazioni false, fuorvianti o manipolate costituisce una delle
sfide più complesse e pericolose dell’era digitale, con ripercussioni
significative sull’equilibrio sociale, politico e culturale. I fenomeni noti
come misinformation,disinformation, malinformatione hate speech,
sintetizzati nell’acronimo MDHM, rappresentano
manifestazioni distinte ma strettamente interconnesse di questa problematica.
Una comprensione approfondita delle loro specificità è imprescindibile per
sviluppare strategie efficaci volte a contenere e contrastare le minacce che
tali fenomeni pongono alla coesione sociale e alla stabilità delle istituzioni.
Misinformation:
Informazioni false diffuse senza l’intenzione di causare danno. Ad esempio, la
condivisione involontaria di notizie non verificate sui social media.
Disinformation:
Informazioni deliberatamente create per ingannare, danneggiare o manipolare
individui, gruppi sociali, organizzazioni o nazioni. Un esempio è la diffusione
intenzionale di notizie false per influenzare l’opinione pubblica o
destabilizzare istituzioni.
Malinformation:
informazioni basate su fatti reali, ma utilizzate fuori contesto per fuorviare,
causare danno o manipolare. Ad esempio, la divulgazione di dati personali con
l’intento di danneggiare la reputazione di qualcuno.
Hate
Speech: espressioni che incitano all’odio contro individui o gruppi
basati su caratteristiche come razza, religione, etnia, genere o orientamento
sessuale. Questo tipo di discorso può fomentare violenza e discriminazione.
Impatto sulla Società
La diffusione di misinformation, disinformation,
malinformation
e hate
speech rappresenta una sfida cruciale per la stabilità delle società
moderne. Questi fenomeni, potenziati dalla rapidità e dalla portata globale dei
media digitali, hanno conseguenze significative che si manifestano in vari
ambiti sociali, politici e culturali. Tra i principali effetti troviamo
l’erosione della fiducia nelle istituzioni, la polarizzazione sociale e
l’acuirsi delle minacce alla sicurezza.
Erosione della
Fiducia
L’informazione falsa o manipolata rappresenta un
attacco diretto alla credibilità delle istituzioni pubbliche, dei media e persino della comunità
scientifica. Quando le persone vengono sommerse da un flusso costante di
notizie contraddittorie o palesemente mendaci, il risultato inevitabile è una
crisi di fiducia generalizzata. Nessuna fonte viene risparmiata dal dubbio,
nemmeno i giornalisti più autorevoli o gli organismi governativi più
trasparenti. Questo processo mina le fondamenta della società e alimenta un
clima di incertezza che, a lungo andare, può trasformarsi in alienazione.
Un esempio emblematico si osserva nel contesto del
processo democratico, dove la disinformazione colpisce con particolare
intensità. Le campagne di manipolazione delle informazioni, mirate a diffondere
falsità sulle procedure di voto o sui candidati, hanno un effetto devastante
sull’integrità elettorale. Ciò non solo alimenta il sospetto e la sfiducia
nelle istituzioni democratiche, ma crea anche un senso di disillusione tra i cittadini,
allontanandoli ulteriormente dalla partecipazione attiva.
Le conseguenze diventano ancora più evidenti nella
gestione delle crisi globali. Durante la pandemia da COVID-19, l’ondata di
teorie del complotto e la diffusione di cure non verificate hanno rappresentato
un ostacolo significativo per gli sforzi della salute pubblica. La
disinformazione ha alimentato paure infondate e diffidenza verso i vaccini,
rallentando la risposta globale alla crisi e aumentando la diffusione del
virus.
Ma questa erosione della fiducia non si ferma al
singolo individuo. Le sue ripercussioni si estendono a tutta la società,
frammentandola. I legami sociali, già indeboliti da divisioni preesistenti,
diventano ancora più vulnerabili alla manipolazione. E così, si crea un terreno
fertile per ulteriori conflitti e instabilità, in cui le istituzioni si trovano
sempre più isolate, mentre cresce il rischio di una società incapace di reagire
a sfide collettive.
Polarizzazione
Sociale
Le campagne di disinformazione trovano terreno fertile
nelle divisioni già esistenti all’interno della società, sfruttandole con
l’obiettivo di amplificarle e renderle insormontabili. Questi fenomeni,
alimentati da strategie mirate e potenziati dalle piattaforme digitali,
intensificano il conflitto sociale e compromettono la possibilità di dialogo,
lasciando spazio a una polarizzazione sempre più marcata.
L’amplificazione delle divisioni è forse il risultato
più visibile della disinformazione. La manipolazione delle informazioni viene
utilizzata per radicalizzare le opinioni politiche, culturali o religiose,
costruendo una narrazione di contrapposizione tra un “noi” e un
“loro”. Nei contesti di tensioni etniche, per esempio, la
malinformation, diffusa con l’intento di distorcere eventi storici o di
strumentalizzare questioni politiche attuali, accentua le differenze percepite
tra gruppi sociali. Questi contrasti, spesso già esistenti, vengono esasperati
fino a cristallizzarsi in conflitti identitari difficili da sanare.
A ciò si aggiunge l’effetto delle cosiddette
“bolle informative”, create dagli algoritmi delle piattaforme
digitali. Questi sistemi, progettati per massimizzare l’engagement degli
utenti, propongono contenuti che rafforzano le loro opinioni preesistenti,
limitandone l’esposizione a prospettive alternative. Questo fenomeno, noto come
“filtro bolla”, non solo solidifica pregiudizi, ma isola gli individui
all’interno di una realtà mediatica che si nutre di conferme continue,
impedendo la comprensione di punti di vista differenti.
La polarizzazione, alimentata dal MDHM, non si ferma
però al piano ideologico. In molti casi, la radicalizzazione delle opinioni si
traduce in azioni concrete: proteste, scontri tra gruppi e, nei casi più
estremi, conflitti armati. Guerre civili e crisi sociali sono spesso il culmine
di una spirale di divisione che parte dalle narrative divisive diffuse
attraverso disinformazione e hate speech.
In definitiva, la polarizzazione generata dal MDHM non
danneggia solo il dialogo sociale, ma mina anche le fondamenta della coesione
collettiva. In un tale contesto, risulta impossibile trovare soluzioni
condivise a problemi comuni. Ciò che rimane è un clima di conflittualità
permanente, dove il “noi contro loro” sostituisce qualsiasi tentativo
di collaborazione, rendendo la società più fragile e vulnerabile.
Minaccia alla
Sicurezza
Nei contesti di conflitto, il MDHM si rivela un’arma
potente e pericolosa, capace di destabilizzare società e istituzioni con
implicazioni devastanti per la sicurezza collettiva e individuale. La
disinformazione, insieme al discorso d’odio, alimenta un ciclo di violenza e
instabilità politica, minacciando la pace e compromettendo i diritti umani. Gli
esempi concreti di come queste dinamiche si manifestano non solo illustrano la
gravità del problema, ma evidenziano anche l’urgenza di risposte efficaci.
La propaganda
e la destabilizzazione costituiscono uno degli utilizzi più insidiosi
della disinformazione. Stati e gruppi non statali sfruttano queste pratiche
come strumenti di guerra ibrida, mirati a indebolire il morale delle
popolazioni avversarie e a fomentare divisioni interne. In scenari geopolitici
recenti, la diffusione di informazioni false ha generato confusione e panico,
rallentando la capacità di risposta delle istituzioni. Questa strategia,
pianificata e sistematica, non si limita a disorientare l’opinione pubblica ma
colpisce direttamente il cuore della coesione sociale.
Il discorso
d’odio, amplificato dalle piattaforme digitali, è spesso un precursore
di violenze di massa. Ne è tragico esempio il genocidio dei Rohingya in
Myanmar, preceduto da una campagna di odio online che ha progressivamente deumanizzato
questa minoranza etnica, preparandone il terreno per persecuzioni e massacri.
Questi episodi dimostrano come lo hate
speech, una volta radicato, possa tradursi in azioni violente e
sistematiche, con conseguenze irreparabili per le comunità coinvolte.
Anche sul piano individuale, gli effetti del MDHM sono
profondamente distruttivi. Fenomeni come il doxxing – la divulgazione pubblica di informazioni personali con
intenti malevoli – mettono a rischio diretto la sicurezza fisica e psicologica
delle vittime. Questo tipo di attacco non solo espone le persone a minacce e
aggressioni, ma amplifica un senso di vulnerabilità che si estende ben oltre il
singolo episodio, minando la fiducia nel sistema stesso.
L’impatto cumulativo di queste dinamiche mina la stabilità
sociale nel suo complesso, creando fratture profonde che richiedono risposte
immediate e coordinate. Affrontare il MDHM non è solo una questione di difesa
contro la disinformazione, ma un passo essenziale per preservare la pace,
proteggere i diritti umani e garantire la sicurezza globale in un’epoca sempre
più interconnessa e vulnerabile.
Strategie di Mitigazione
La
lotta contro il fenomeno MDHM richiede una risposta articolata e coordinata,
capace di affrontare le diverse sfaccettature del problema. Dato l’impatto
complesso e devastante che questi fenomeni hanno sulla società, le strategie di
mitigazione devono essere sviluppate con un approccio multidimensionale,
combinando educazione, collaborazione tra i diversi attori e un quadro
normativo adeguato.
Educazione e
Consapevolezza
La prima e più efficace linea di difesa contro il
fenomeno MDHM risiede nell’educazione e nella promozione di una diffusa
alfabetizzazione mediatica. In un contesto globale in cui le informazioni
circolano con una rapidità senza precedenti e spesso senza un adeguato
controllo, la capacità dei cittadini di identificare e analizzare criticamente
i contenuti che consumano diventa una competenza indispensabile. Solo
attraverso una maggiore consapevolezza sarà possibile arginare gli effetti
negativi della disinformazione e costruire una società più resiliente.
Il pensiero critico
rappresenta la base di questa strategia. I cittadini devono essere messi nelle
condizioni di distinguere le informazioni affidabili dai contenuti falsi o
manipolati. Questo processo richiede l’adozione di strumenti educativi che
insegnino come verificare le fonti, identificare segnali di manipolazione e
analizzare il contesto delle notizie. È un impegno che va oltre la semplice
formazione: si tratta di creare una cultura della verifica e del dubbio
costruttivo, elementi essenziali per contrastare la manipolazione informativa.
Un ruolo cruciale in questa battaglia è giocato dalla formazione scolastica. Le scuole
devono diventare il luogo privilegiato per l’insegnamento dell’alfabetizzazione
mediatica, preparando le nuove generazioni a navigare consapevolmente nel
complesso panorama digitale. L’integrazione di questi insegnamenti nei
programmi educativi non può più essere considerata un’opzione, ma una
necessità. Attraverso laboratori pratici, analisi di casi reali e simulazioni,
i giovani possono sviluppare le competenze necessarie per riconoscere contenuti
manipolati e comprendere le implicazioni della diffusione di informazioni
false.
Tuttavia, l’educazione non deve limitarsi ai giovani.
Anche gli adulti, spesso più esposti e vulnerabili alla disinformazione, devono
essere coinvolti attraverso campagne di
sensibilizzazione pubblica. Queste iniziative, veicolate sia attraverso
i media tradizionali che digitali, devono illustrare le tecniche più comuni
utilizzate per diffondere contenuti falsi, sottolineando le conseguenze
negative di tali fenomeni per la società. Un cittadino informato, consapevole
dei rischi e capace di riconoscerli, diventa un elemento di forza nella lotta
contro la disinformazione.
Investire nell’educazione e nella sensibilizzazione
non è solo una misura preventiva, ma un pilastro fondamentale per contrastare
il MDHM. Una popolazione dotata di strumenti critici è meno suscettibile alle
manipolazioni, contribuendo così a rafforzare la coesione sociale e la
stabilità delle istituzioni democratiche. Questo percorso, pur richiedendo un
impegno costante e coordinato, rappresenta una delle risposte più efficaci a
una delle minacce più insidiose del nostro tempo.
Collaborazione
Intersettoriale
La complessità del fenomeno MDHM è tale che nessun
singolo attore può affrontarlo efficacemente da solo. È una sfida globale che
richiede una risposta collettiva e coordinata, in cui governi, organizzazioni
non governative, aziende tecnologiche e società civile collaborano per
sviluppare strategie condivise. Solo attraverso un impegno sinergico è
possibile arginare gli effetti destabilizzanti di questa minaccia.
Le istituzioni
governative devono assumere un ruolo guida. I governi sono chiamati a
creare regolamentazioni efficaci e ambienti sicuri per lo scambio di
informazioni, garantendo che queste misure bilancino due aspetti fondamentali:
la lotta contro i contenuti dannosi e la protezione della libertà di
espressione. Un eccesso di controllo rischierebbe infatti di scivolare nella
censura, minando i principi democratici che si intendono tutelare. L’approccio
deve essere trasparente, mirato e in grado di adattarsi all’evoluzione delle
tecnologie e delle dinamiche di disinformazione.
Le aziende
tecnologiche, in particolare i social
media, giocano un ruolo centrale in questa sfida. Hanno una responsabilità
significativa nel contrastare la diffusione del MDHM, essendo i principali
veicoli attraverso cui queste dinamiche si propagano. Devono investire nello
sviluppo di algoritmi avanzati, capaci di identificare e rimuovere i contenuti
dannosi in modo tempestivo ed efficace. Tuttavia, l’efficacia degli interventi
non può venire a scapito della libertà degli utenti di esprimersi. La
trasparenza nei criteri di moderazione, nella gestione dei dati e nei meccanismi
di segnalazione è fondamentale per mantenere la fiducia degli utenti e
prevenire abusi.
Accanto a questi attori, le organizzazioni non governative (ONG) e la società civile svolgono
un ruolo di intermediazione. Le ONG possono fungere da ponte tra istituzioni e
cittadini, offrendo informazioni verificate e affidabili, monitorando i
fenomeni di disinformazione e promuovendo iniziative di sensibilizzazione.
Queste organizzazioni hanno anche la capacità di operare a livello locale,
comprendendo meglio le dinamiche specifiche di determinate comunità e adattando
le strategie di contrasto alle loro esigenze.
Infine, è imprescindibile favorire partnership pubbliche e private. La
collaborazione tra settori pubblico e privato è essenziale per condividere
risorse, conoscenze e strumenti tecnologici utili a combattere il MDHM. In
particolare, le aziende possono offrire soluzioni innovative, mentre i governi
possono fornire il quadro normativo e il supporto necessario per implementarle.
Questa sinergia permette di affrontare la disinformazione con un approccio più
ampio e integrato, combinando competenze tecniche, capacità di monitoraggio e
intervento.
La risposta al MDHM non può dunque essere frammentata
né limitata a un singolo settore. Solo attraverso una collaborazione
trasversale e globale sarà possibile mitigare le conseguenze di questi
fenomeni, proteggendo le istituzioni, i cittadini e la società nel suo insieme.
Ruolo delle Tecnologie
Avanzate e Artificial Intelligence (AI) nel Contesto del MDHM
Le
tecnologie emergenti, in particolare l’intelligenza artificiale (IA), svolgono
un ruolo cruciale nel contesto di misinformation,
disinformation, malinformation e hate speech.
L’AI rappresenta un’arma a doppio taglio: da un lato, offre strumenti potenti
per individuare e contrastare la diffusione di contenuti dannosi; dall’altro,
alimenta nuove minacce, rendendo più sofisticati e difficili da rilevare gli
strumenti di disinformazione.
Rilevamento
Automatico
L’intelligenza artificiale ha rivoluzionato il modo in
cui affrontiamo il fenomeno della disinformazione, introducendo sistemi
avanzati di rilevamento capaci di identificare rapidamente contenuti falsi o
dannosi. In un panorama digitale in cui il volume di dati generato
quotidianamente è immenso, il monitoraggio umano non è più sufficiente. Gli
strumenti basati sull’AI si rivelano quindi essenziali per gestire questa
complessità, offrendo risposte tempestive e precise.
Tra le innovazioni più rilevanti troviamo gli algoritmi di machine learning, che rappresentano il cuore dei sistemi di
rilevamento automatico. Questi algoritmi, attraverso tecniche di apprendimento
automatico, analizzano enormi quantità di dati alla ricerca di schemi che
possano indicare la presenza di contenuti manipolati o falsi. Addestrati su
dataset contenenti esempi di disinformazione già identificati, questi sistemi
sono in grado di riconoscere caratteristiche comuni, come l’uso di titoli
sensazionalistici, un linguaggio emotivamente carico o la presenza di immagini
alterate. L’efficacia di tali strumenti risiede nella loro capacità di
adattarsi a nuovi modelli di manipolazione, migliorando costantemente le
proprie performance.
Un altro ambito cruciale è quello della verifica delle fonti. Strumenti basati
su AI possono confrontare le informazioni che circolano online con fonti
affidabili, identificando discrepanze e facilitando il lavoro dei fact-checker. In questo modo, la
tecnologia accelera i tempi di verifica, permettendo di contrastare in maniera
più efficiente la diffusione di contenuti falsi prima che raggiungano un
pubblico vasto.
L’AI è anche fondamentale per contrastare una delle
minacce più sofisticate: i deepfake, di cui più oltre
tratteremo. Grazie a tecniche avanzate, è possibile analizzare video e immagini
manipolati, individuando anomalie nei movimenti facciali, nella
sincronizzazione delle labbra o nella qualità complessiva del contenuto visivo.
Aziende come Adobe e Microsoft stanno sviluppando strumenti dedicati alla
verifica dell’autenticità dei contenuti visivi, offrendo una risposta concreta
a una tecnologia che può facilmente essere sfruttata per scopi malevoli.
Il monitoraggio
del linguaggio d’odio è un altro fronte in cui l’AI dimostra il suo
valore. Attraverso algoritmi di elaborazione del linguaggio naturale (NLP), è
possibile analizzare i testi in tempo reale per identificare espressioni di hate speech. Questi sistemi non solo
categorizzano i contenuti, ma assegnano priorità agli interventi, garantendo
una risposta rapida ed efficace ai casi più gravi. In un contesto in cui il
discorso d’odio può rapidamente degenerare in violenza reale, la capacità di
intervenire tempestivamente è cruciale.
Infine, l’intelligenza artificiale è in grado di rilevare
e analizzare reti di disinformazione. Attraverso l’analisi delle
interazioni social, l’AI può individuare schemi che suggeriscono campagne
coordinate, come la diffusione simultanea di messaggi simili da account
collegati. Questa funzione è particolarmente utile per smascherare operazioni
orchestrate, sia a livello politico che sociale, che mirano a destabilizzare la
fiducia pubblica o a manipolare l’opinione delle persone.
In definitiva, l’intelligenza artificiale rappresenta
uno strumento indispensabile per affrontare il fenomeno della disinformazione e
dell’hate speech. Tuttavia, come ogni
tecnologia, richiede un uso etico e responsabile. Solo attraverso
un’implementazione trasparente e mirata sarà possibile sfruttare appieno il
potenziale dell’AI per proteggere l’integrità delle informazioni e la coesione
sociale.
Generazione di
Contenuti
L’intelligenza artificiale, se da un lato rappresenta
una risorsa preziosa per contrastare la disinformazione, dall’altro
contribuisce a rendere il fenomeno MDHM ancora più pericoloso, fornendo
strumenti per la creazione di contenuti falsi e manipolati con livelli di
sofisticazione senza precedenti. È proprio questa ambivalenza che rende l’IA
una tecnologia tanto potente quanto insidiosa.
Un esempio emblematico è rappresentato dai citati deepfake,
prodotti grazie a tecnologie basate su reti generative avversarie (GAN). Questi
strumenti permettono di creare video e immagini estremamente realistici, in cui
persone possono essere mostrate mentre affermano o compiono azioni mai
avvenute. I deepfake compromettono
gravemente la fiducia nelle informazioni visive, un tempo considerate una prova
tangibile della realtà. Ma non si fermano qui: la loro diffusione può essere
utilizzata per campagne di diffamazione, per manipolare l’opinione pubblica o
per destabilizzare contesti politici già fragili. La capacità di creare realtà
alternative visive rappresenta una minaccia diretta alla credibilità delle
fonti visive e alla coesione sociale.
Parallelamente, i testi generati automaticamente da modelli di linguaggio avanzati,
come GPT, hanno aperto nuove frontiere nella disinformazione. Questi sistemi
sono in grado di produrre articoli, commenti e post sui social media che
appaiono del tutto autentici, rendendo estremamente difficile distinguere i
contenuti generati da una macchina da quelli scritti da una persona reale. Non
a caso, tali strumenti vengono già sfruttati per alimentare botnet, reti automatizzate che
diffondono narrazioni polarizzanti o completamente false, spesso con l’obiettivo
di manipolare opinioni e alimentare conflitti sociali.
Un ulteriore aspetto cruciale è rappresentato dalla scalabilità della disinformazione.
L’automazione garantita dall’AI consente la creazione e la diffusione di
contenuti falsi su larga scala, amplificandone in modo esponenziale l’impatto.
Ad esempio, un singolo attore malevolo, sfruttando questi strumenti, può
generare migliaia di varianti di un messaggio falso, complicando ulteriormente
il compito dei sistemi di rilevamento. In pochi istanti, contenuti manipolati
possono essere diffusi a livello globale, raggiungendo milioni di persone prima
che si possa intervenire.
Infine, l’AI offre strumenti per la mimetizzazione dei contenuti, che
rendono i messaggi manipolati ancora più difficili da individuare. Algoritmi
avanzati consentono di apportare modifiche minime ma strategiche a testi o
immagini, eludendo così i sistemi di monitoraggio tradizionali. Questa capacità
di adattamento rappresenta una sfida continua per gli sviluppatori di strumenti
di contrasto, che devono aggiornarsi costantemente per stare al passo con le
nuove tecniche di manipolazione.
In definitiva, l’intelligenza artificiale, nella sua
capacità di generare contenuti altamente sofisticati, rappresenta un’arma a
doppio taglio nel panorama del MDHM. Se non regolamentata e utilizzata in modo
etico, rischia di accelerare la diffusione della disinformazione, minando
ulteriormente la fiducia pubblica nelle informazioni e destabilizzando la
società. È indispensabile affrontare questa minaccia con consapevolezza e
strumenti adeguati, combinando innovazione tecnologica e principi etici per
limitare gli effetti di questa pericolosa evoluzione.
Sfide e Opportunità
L’impiego
dell’intelligenza artificiale nella lotta contro il fenomeno del MDHM
rappresenta una delle frontiere più promettenti ma anche più complesse dell’era
digitale. Sebbene l’IA offra opportunità straordinarie per contrastare la
diffusione di informazioni dannose, essa pone anche sfide significative,
evidenziando la necessità di un approccio etico e strategico.
Le
Opportunità Offerte dall’IA
Tra
i vantaggi più rilevanti, spicca la capacità
dell’AI di analizzare dati in tempo reale. Grazie a questa caratteristica,
è possibile anticipare le campagne di disinformazione, identificandone i
segnali prima che si diffondano su larga scala. Questo permette di ridurre
l’impatto di tali fenomeni, intervenendo tempestivamente per arginare i danni.
Un
altro aspetto fondamentale è l’impiego di strumenti avanzati per certificare l’autenticità dei contenuti.
Tecnologie sviluppate da organizzazioni leader nel settore consentono di
verificare l’origine e l’integrità dei dati digitali, restituendo fiducia agli
utenti. In un contesto in cui la manipolazione visiva e testuale è sempre più
sofisticata, queste soluzioni rappresentano un baluardo essenziale contro il
caos informativo.
L’AI
contribuisce inoltre a snellire le attività di fact-checking.
L’automazione delle verifiche consente di ridurre il carico di lavoro umano,
velocizzando la risposta alla diffusione di contenuti falsi. Questo non solo
migliora l’efficienza, ma permette anche di concentrare le risorse umane su
casi particolarmente complessi o delicati.
Le
Sfide dell’AI nella Lotta al MDHM
Tuttavia,
le stesse tecnologie che offrono queste opportunità possono essere sfruttate
per scopi malevoli. Gli strumenti utilizzati per combattere la disinformazione
possono essere manipolati per aumentare la
sofisticazione degli attacchi, creando contenuti ancora più
difficili da rilevare. È un paradosso che sottolinea l’importanza di un
controllo rigoroso e di un uso responsabile di queste tecnologie.
La
difficoltà nel distinguere tra contenuti autentici e manipolati
rappresenta un’altra sfida cruciale. Man mano che le tecniche di
disinformazione evolvono, anche gli algoritmi devono essere costantemente
aggiornati per mantenere la loro efficacia. Questo richiede non solo
investimenti tecnologici, ma anche una collaborazione continua tra esperti di
diversi settori.
Infine,
è impossibile ignorare i bias insiti nei modelli di AI,
che possono portare a errori significativi. Algoritmi mal progettati o
addestrati su dataset non rappresentativi rischiano di rimuovere contenuti
legittimi o, al contrario, di non individuare alcune forme di disinformazione.
Questi errori non solo compromettono l’efficacia delle operazioni, ma possono
minare la fiducia nel sistema stesso.
Conclusione
L’intelligenza
artificiale è una risorsa strategica nella lotta contro misinformation, disinformation,
malinformation e hate speech, ma rappresenta anche una sfida complessa. La sua
ambivalenza come strumento di difesa e al contempo di attacco richiede un uso
consapevole e responsabile. Mentre da un lato offre soluzioni innovative per
rilevare e contrastare contenuti manipolati, dall’altro consente la creazione
di disinformazione sempre più sofisticata, amplificando il rischio per la
stabilità sociale e istituzionale.
Il
MDHM non è un fenomeno isolato o temporaneo, ma una minaccia sistemica che mina
le fondamenta della coesione sociale e della sicurezza globale. La sua
proliferazione alimenta un circolo vizioso in cui l’erosione della fiducia, la
polarizzazione sociale e le minacce alla sicurezza si rafforzano
reciprocamente. Quando la disinformazione contamina il flusso informativo, la
fiducia nelle istituzioni, nei media e persino nella scienza si sgretola.
Questo fenomeno non solo genera alienazione e incertezza, ma riduce la capacità
dei cittadini di partecipare attivamente alla vita democratica.
La
polarizzazione sociale, amplificata dalla manipolazione delle informazioni, è
un effetto diretto di questa dinamica. Narrativi divisivi e contenuti
polarizzanti, spinti da algoritmi che privilegiano l’engagement a scapito
dell’accuratezza, frammentano il tessuto sociale e rendono impossibile il
dialogo. In un clima di contrapposizione “noi contro loro”, le
divisioni politiche, culturali ed etniche si trasformano in barriere
insormontabili.
A
livello di sicurezza, il MDHM rappresenta una minaccia globale. Le campagne di
disinformazione orchestrate da stati o gruppi non statali destabilizzano intere
regioni, fomentano violenze e alimentano conflitti armati. L’uso del hate
speech come strumento di deumanizzazione ha dimostrato il suo potenziale
distruttivo in numerosi contesti, contribuendo a un clima di vulnerabilità
collettiva e individuale.
Affrontare
questa sfida richiede un approccio integrato che combini educazione, regolamentazione
e cooperazione globale.
Promuovere
l’educazione critica: l’alfabetizzazione mediatica deve essere
una priorità. Educare i cittadini a riconoscere e contrastare la
disinformazione è il primo passo per costruire una società resiliente.
Programmi educativi e campagne di sensibilizzazione devono dotare le persone
degli strumenti necessari per navigare nel complesso panorama informativo.
Rafforzare
la regolamentazione delle piattaforme digitali: le aziende
tecnologiche non possono più essere semplici spettatori. È indispensabile che
adottino standard chiari e trasparenti per la gestione dei contenuti dannosi,
garantendo al contempo il rispetto della libertà di espressione. Una
supervisione indipendente può assicurare l’equilibrio tra sicurezza e diritti
fondamentali.
Incentivare
la collaborazione globale: la natura transnazionale del MDHM
richiede una risposta coordinata. Governi, aziende private e organizzazioni
internazionali devono lavorare insieme per condividere risorse, sviluppare
tecnologie innovative e contrastare le campagne di disinformazione su scala
globale.
Solo
attraverso un’azione concertata sarà possibile mitigare gli effetti devastanti
del MDHM e costruire una società più resiliente e informata. Il futuro della
democrazia, della coesione sociale e della sicurezza dipende dalla capacità
collettiva di affrontare questa minaccia con determinazione, lungimiranza e
responsabilità.
Politica USA: la visione di Mark Rubio.
di Melissa de Teffè (dagli Stati Uniti).
Sebbene gli USA siano molto ricchi, gli americani non sono felici La più grande economia mondiale con un PIL di oltre 25 trilioni di dollari, si trova a fronteggiare un paradosso: nonostante la ricchezza, gran parte della popolazione soffre perché non arriva a fine mese o si sente insoddisfatta. Il malessere collettivo ha cause radicate nell’economia, nella salute pubblica e nella struttura sociale del Paese.
Crescita e disuguaglianza Il PIL è cresciuto del 2% nel 2023, e il tasso di disoccupazione rimane basso, attorno al 3,9%. Tuttavia, questa prosperità non è equamente distribuita. Secondo dati della Federal Reserve, l’1% più ricco possiede oltre il 30% della ricchezza totale, mentre il 50% più povero ne detiene solo il 2,5%. “La disuguaglianza negli USA è un problema sistemico, amplificato dal fatto che i salari per la classe media sono stagnanti da decenni,” osserva un report del Pew Research Center. Il costo della vita è un altro fattore cruciale. Nel 2023, i prezzi delle abitazioni sono aumentati del 5%, mentre i costi per sanità e istruzione continuano a crescere. Sebbene l’inflazione sia scesa dal picco dell’8,2% nel 2022, molte famiglie fanno ancora fatica a far quadrare i conti.
Crisi della salute mentale Oltre ai problemi economici, gli Stati Uniti affrontano una crisi di salute mentale. Secondo i CDC (Centers for Disease Control and Prevention), i tassi di depressione e ansia sono ai massimi storici. L’epidemia di overdose da oppioidi come il Fentanil, ha causato oltre 100.000 morti nel 2022, contribuendo a un calo dell’aspettativa di vita, scesa a 76 anni, il livello più basso dal 1996. “Il senso di isolamento e la mancanza di reti di sicurezza sono fattori che alimentano il disagio psicologico,” spiega il dottor Vivek Murthy, Surgeon General degli Stati Uniti. Un altro drammatico problema interno che compromette l’immagine degli Stati Uniti è la questione dei senzatetto. Nonostante l’immensa ricchezza del Paese, molte delle principali città americane, come Los Angeles, San Francisco e New York, affrontano una crisi abitativa dilagante, con decine di migliaia di persone costrette a vivere per strada o in rifugi di emergenza. Questa realtà contrasta profondamente con l’idea di una nazione che si presenta come simbolo di benessere e uguaglianza. La mancanza di fondi adeguati e di risposte politiche strutturali a questa emergenza sociale non solo aggrava le condizioni di vita di milioni di cittadini, ma mette in dubbio la capacità del governo di garantire diritti fondamentali, erodendo ulteriormente la credibilità del modello democratico americano. Durante il suo mandato, Donald Trump aveva affrontato il tema in modo controverso, dichiarando in un’intervista del 2019: “Non possiamo permettere che le nostre città siano invase da senzatetto. Stiamo cercando soluzioni che funzionino per tutti.” Tuttavia, le politiche adottate si sono concentrate principalmente su sgomberi e controlli, piuttosto che su investimenti strutturali per affrontare le cause profonde del problema. Questa mancanza di interventi mirati evidenzia le contraddizioni di una nazione che fatica a coniugare i suoi ideali con la realtà quotidiana dei suoi cittadini più vulnerabili.
Frammentazione sociale e polarizzazione La crescente polarizzazione politica e la mancanza di fiducia nelle istituzioni aggravano ulteriormente il malcontento. Un sondaggio Gallup mostra che solo il 27% degli americani si fida del governo federale. Questa alienazione politica si somma a tensioni razziali e culturali, rendendo difficile creare un senso di unità nazionale.
Soluzioni possibili Secondo gli esperti, affrontare questo malessere richiede interventi strutturali. “Un investimento significativo in sanità pubblica, istruzione accessibile e politiche per ridurre la disuguaglianza potrebbe migliorare la qualità della vita per milioni di americani,” afferma il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz. Resta da vedere se gli Stati Uniti saranno in grado di affrontare queste sfide. Come nota il New York Times, “la ricchezza del Paese è innegabile, ma senza una distribuzione più equa, rischia di diventare una fonte di divisione anziché di progresso.” Ecco perché Trump con lo slogan MAGA “Make America Great Again”, ha avuto successo ed ecco perché i fondi che oggi sono spesi per guerre estranee agli interessi del paese saranno ridistribuiti internamente. Nonostante la sua elezione e l’aver pubblicamente affermato di desiderare di voler fermare la guerra in Ucraina e in Israele, Biden, settimana scorsa, ha chiesto al Congresso un ulteriore finanziamento di 900 milioni di dollari nell’ambito di un pacchetto complessivo di 38 miliardi di dollari per sostenere l’Ucraina. La proposta include assistenza militare, economica e sanitaria. Tuttavia, ha incontrato forti resistenze tra i repubblicani, incluso lo Speaker della Camera Mike Johnson, che ha bloccato l’iniziativa. Johnson ha sottolineato la necessità di maggiore trasparenza e controllo sull’utilizzo dei fondi, esprimendo preoccupazione per il crescente debito pubblico e l’inflazione. A meno di un mese dal prossimo insediamento presidenziale dove in genere si chiude qualsiasi azione economico-politica, la presente amministrazione invece continua a creare sempre più confusione.
Ma perchè piace Mark Rubio. Marco Rubio: cubano-americano è uno dei due senatori della Florida, ed è noto per il suo impegno sui temi della politica estera e per la sua sensibilità verso i diritti dei rifugiati politici. Nato il 28 maggio 1971 a Miami da genitori cubani, Rubio incarna l’esperienza dell’esilio cubano, una prospettiva che ha profondamente plasmato la sua carriera politica. È cresciuto con il racconto dei sacrifici dei suoi genitori, emigrati da Cuba negli anni ’50 per sfuggire alla repressione politica. Questo background lo ha reso particolarmente attento alla questione dei rifugiati e ai temi della libertà e della democrazia, non solo per Cuba ma per i popoli oppressi in tutto il mondo. In Senato ha sostenuto iniziative per garantire protezione a rifugiati politici, si è opposto alle dittature in America Latina, condannando i regimi di Cuba, Venezuela e Nicaragua per le violazioni dei diritti umani. “L’America deve essere un faro di speranza per coloro che fuggono dall’oppressione,” ha dichiarato durante uno dei suoi interventi pubblici. Nel suo ruolo di Presidente della Commissione per l’Intelligence del Senato e come membro della Commissione per le Relazioni Estere, Rubio ha promosso politiche volte a rafforzare le sanzioni contro i governi autoritari e a sostenere i movimenti democratici. Ha lavorato per migliorare i programmi di accoglienza e assistenza ai rifugiati, specialmente per coloro che fuggono da persecuzioni politiche. Rubio vede la politica estera come un’estensione dei valori americani di libertà e giustizia. Ha promosso un approccio che combina fermezza nei confronti dei regimi autoritari con il sostegno ai rifugiati e agli esiliati politici. La sua eredità come figlio di rifugiati cubani gli conferisce una comprensione unica dei sacrifici e delle sfide di chi fugge dalla tirannia. E sicuramente questo background potrebbe apportare una visione di politica estera diversa dalle precedenti, ossia di difesa e non interventista. Questa nuova amministrazione ha la possibilità di cambiare l’approccio tradizionale che ha sempre mirato nell’ “esportare” la democrazia attraverso interventi esterni e Marco Rubio, con la sua esperienza e storia, rappresenta una voce importante in questo dibattito. Sebbene in passato fosse un fervente sostenitore dell’internazionalismo, Rubio ha gradualmente abbracciato una visione più cauta, orientata a priorizzare gli interessi strategici interni ed evitare interventi militari prolungati. Rubio, che mantiene un forte legame con la comunità cubana, comprende profondamente il significato della lotta per l’autodeterminazione nazionale. Ha dichiarato che “l’America deve concentrarsi sulle sfide più critiche per la nostra sicurezza nazionale”, riconoscendo che non tutti i conflitti globali richiedono un intervento diretto degli Stati Uniti. Questo cambio di prospettiva potrebbe influenzare il modo in cui pensa Donald Trump, anche riguardo alla situazione siriana. Piuttosto che imporre una soluzione politica dall’alto come si è sempre fatto storicamente, e invece di applicare un possibile isolazionismo come suggerisce Trump, ecco che Rubio potrebbe aprire una terza via dove gli Stati Uniti possano fornire aiuti mirati alla ricostruzione del Paese, consentendo nel caso della Siria di trovare la propria strada verso “Damasco”, costruendosi quella stabilità che rispetti le sue specificità culturali e storiche. L’idea che la democrazia debba emergere come espressione autentica della coscienza nazionale è un fatto. Ce lo ha descritto Norberto Bobbio quando dice: “La democrazia non è un dono che si può imporre dall’esterno, ma un processo che deve essere costruito dall’interno”. E similmente lo hanno letto anche gli americani con Tocqueville, nel suo studio sulla democrazia, quando sottolinea l’importanza delle condizioni interne, scrivendo: “La democrazia è il governo che si adatta alle inclinazioni naturali degli uomini, e che, per così dire, nasce da esse”. Oggi, accademici e diplomatici concordano sul fatto che gli Stati Uniti abbiano perso gran parte della loro influenza globale come modello democratico. A livello internazionale si avverte un crescente scetticismo: se l’America non cambierà approccio, sarà difficile che continui a essere considerata il punto di riferimento democratico per eccellenza. Questo sentimento potrebbe spingere la nuova amministrazione Trump a rivedere le proprie strategie globali, favorendo approcci più rispettosi delle dinamiche locali e meno intrusivi, senza però scivolare nell’isolazionismo totale. Nel caso siriano, ciò significherebbe consentire alla popolazione di tracciare autonomamente la propria strada verso un futuro più stabile, mentre gli Stati Uniti abbandonerebbero la retorica dell’imposizione democratica, aprendo la strada a un’era di diplomazia più rispettosa e sostenibile. In questo contesto, Marco Rubio si distingue come un rappresentante ideale di questa visione, con una sensibilità particolare verso il rispetto delle specificità culturali e storiche nei processi di transizione democratica.
La nuova Siria: tra minaccia islamista, risposta preventiva di Israele e la ‘buffer zone’ turca.
di Claudio Bertolotti.
La recente conquista di Damasco da parte del leader jihadista Ahmed al-Sharaa, già noto con il nome di battaglia Abu Mohammed al-Jolani, capo di Hayat Tahrir al-Sham (HTS), segna un punto di svolta nell’equilibrio politico-militare del Medio Oriente. La Siria, dopo tredici anni di guerra civile contro il regime di Bashar al-Assad, si ritrova ora nella fase più critica della sua storia contemporanea: l’ascesa al potere degli islamisti guidati da al-Jolani, già affiliati ad al-Qaeda, si avvia a trasformare il Paese in uno “Stato islamico” destinato a rimodellare gli assetti regionali. E, ancora una volta, la variabile jihadista si manifesta come un fattore di destabilizzazione dagli effetti potenzialmente globali.
L’occupazione israeliana del Golan: una manovra preventiva e strategica L’avanzata islamista in Siria, con il conseguente venir meno del controllo centralizzato di Damasco, crea un vuoto di potere all’interno del quale proliferano gruppi radicali e attori esterni in cerca di vantaggi geostrategici. L’azione di Israele – nello specifico il consolidamento dell’occupazione delle alture del Golan – va letta in questo quadro: non si tratta di un’ennesima incursione di natura espansionistica, bensì di una manovra difensiva e preventiva. Da un lato, Gerusalemme mira a evitare che forze jihadiste possano insediarsi lungo il proprio confine settentrionale, minacciando direttamente la sua sicurezza. Dall’altro, la presenza militare israeliana nell’area svolge anche un ruolo di protezione a favore delle forze di interposizione delle Nazioni Unite, potenzialmente esposte ad attacchi da parte di gruppi radicali in assenza di un potere centrale affidabile a Damasco.
L’attacco preventivo contro arsenali strategici e chimici La lezione appresa in Afghanistan e in Iraq – dove arsenali convenzionali e non convenzionali sono passati di mano favorendo gruppi estremisti – ha reso evidente la necessità di interventi rapidi e chirurgici. L’attacco preventivo di Israele contro i depositi di armi strategiche siriane, inclusi quelli sospettati di contenere agenti chimici, intende prevenire il rischio che tali strumenti finiscano nelle mani dei jihadisti. Non si tratta solo di un interesse israeliano: se fossero i movimenti radicali a impadronirsi di armamenti chimici, l’intera regione, e persino l’Occidente, ne subirebbero le conseguenze. Come evidenziato dalle ultime analisi dell’Institute for the Study of War (Iran Update, 11 dicembre 2024), il controllo degli arsenali siriani da parte di attori non statali apre scenari ad altissimo rischio. Israele agisce dunque con un’intelligenza strategica che mira a prevenire futuri attacchi terroristici su larga scala.
La mossa israeliana e la scelta turca: due facce della stessa medaglia La politica israeliana nel Golan non può essere letta in modo isolato: è coerente, nella logica strategica di contenimento delle minacce, con la scelta turca di occupare parti del territorio siriano al confine settentrionale. Ankara, come già dimostrato in passato, intende mantenere una “buffer zone” tra le aree sotto il proprio controllo e le regioni abitate dai curdi siriani, considerati una minaccia perché in collegamento con il PKK in Turchia. Tale azione non solo limita i movimenti delle milizie curde, ma risponde a un duplice obiettivo: arginare il potere curdo e, al contempo, impedire l’insediamento di gruppi islamisti ostili alla Turchia. L’avanzata israeliana sul Golan e la buffer zone turca formano, in modi diversi, due esempi di contenimento preventivo della minaccia jihadista.
L’ascesa degli islamisti in Siria: l’incognita dei diritti e il parallelismo con i talebani La presa del potere da parte di al-Jolani e dei suoi uomini non può essere vista con favore. Le dichiarazioni rassicuranti nei confronti delle minoranze, delle donne e della comunità cristiana suonano come pura retorica. Sappiamo bene quale sia la storia dei movimenti jihadisti: la sharia applicata in modo letterale, l’assenza di rispetto per le differenze religiose e culturali, l’eliminazione di ogni spazio di pluralismo. allo scioglimento del parlamento siriano seguirà l’imposizione di un governo di unna shurà musulmana, non eletta né rappresentativa dell’estrema eterogeneità etno-culturale e religiosa siriana. Come già osservato nel caso dell’Afghanistan dei talebani, l’instaurazione di uno Stato islamico sotto la guida di ex qaedisti “riciclati” in forza politica locale non farà altro che istituzionalizzare un regime repressivo e contrario ai principi fondamentali dei diritti umani.
La minaccia terroristica si estende all’Occidente La vittoria islamista in Siria, come fu per il ritorno dei talebani a Kabul nel 2021, agirà da catalizzatore per il terrorismo internazionale. Le cronache recenti mostrano che ogni avanzamento dell’ideologia jihadista si accompagna a un incremento degli attacchi e della propaganda violenta, spingendo individui radicalizzati o simpatizzanti a compiere gesti emulativi in Occidente. Come osservato da recenti analisi su media internazionali (si veda il 5° Rapporto sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo #ReaCT2024 e Il Giornale), il successo di Hts in Siria accresce il rischio che l’Europa diventi bersaglio di nuovi attacchi, ispirati e orchestrati da soggetti che trarranno nuovo slancio e legittimazione simbolica dalla “vittoria” di al-Jolani. La dimensione mediatica del jihad è tale per cui il controllo di un territorio – e la proclamazione di uno Stato islamico – si trasforma in un messaggio di potenza rivolto a potenziali sostenitori e reclute.
Prospettive e conclusioni La nuova Siria di al-Jolani non è meno pericolosa del regime di Assad. Anzi, l’aperta adesione ai principi fondamentalisti, la lotta per il potere che seguirà tra gruppi islamisti e jihadisti in competizione – in primis con il gruppo Stato islamico – l’influenza di gruppi radicali e l’assenza di un sistema di garanzie internazionali rendono il contesto più imprevedibile. La mossa israeliana nel Golan e la strategia turca a nord riflettono una comprensibile, anche se parziale, risposta a queste minacce. L’Occidente non può permettersi di cadere nell’illusione di un al-Jolani “pragmatico”: la natura islamista e jihadista della nuova leadership è un dato di fatto. Se a ciò si sommano i rischi legati alla disponibilità di armi strategiche e chimiche, l’interesse nazionale israeliano e turco di creare zone cuscinetto e di colpire preventivamente gli arsenali appare tragicamente sensato. In questo scenario – al pari dell’Afghanistan talebano – la Siria potrebbe fungere da polo attrattivo per un jihadismo oggi in cerca di legittimazione e vittorie simboliche, con conseguenze dirette anche per l’Europa.
La caduta di Damasco e lo sgretolamento dell’Asse della Resistenza iraniano.
di Claudio Bertolotti.
La Siria di Bashar al-Assad non esiste più.
La rapida avanzata degli insorti islamisti, guidati dall’Hayat Tahrir al-Sham (HTS), contro il governo di Bashar al-Assad segna un punto di svolta critico nel panorama mediorientale. Dopo quasi quattordici anni di guerra civile, con un conflitto alimentato da interessi internazionali e influenze regionali, l’architettura di potere costruita dalla famiglia Assad – ereditata nel 2000 da Bashar dopo la lunga presidenza del padre Hafez – è oggi in disfacimento. L’offensiva, partita circa dieci giorni fa da Idlib, ha messo in ginocchio un regime un tempo ritenuto solido, sconfiggendo unità militari e paramilitari sostenute sia dall’Iran sia dalla Russia, pilastri di quell’“Asse della Resistenza” ideato per contenere le pressioni occidentali e israeliane.
I risultati tattici ottenuti dai gruppi islamisti e jihadisti, in parte sostenuti dalle forze del Syrian DDefense Forces curde, ma principalmente riconducibili a Hayat Tahrir al-Sham (HTS) guidata da Abu Mohammed al-Jolani, si sono rivelati decisivi: Aleppo, Hama e Homs – nodi strategici e simbolici del potere di Damasco – sono cadute senza una reale capacità di reazione da parte dei difensori. Il contenimento dell’opposizione armata, agevolato sin dal 2015 dall’intervento militare russo, è venuto meno. Mosca, impegnata su altri fronti e consapevole del mutato contesto strategico, sembra aver rivisto i propri interessi, lasciando indebolire la tenuta del regime. Di fronte a questa svolta, la stessa Teheran, uno dei principali sponsor del governo siriano, appare costretta a ridimensionare il proprio coinvolgimento, concentrandosi sulla preservazione di aree costiere e comunità tradizionalmente legate agli Assad.
La fuga di Assad, su cui insistono numerose fonti, non è ancora confermata ufficialmente, ma le sue smentite appaiono deboli. Damasco, un tempo simbolo dell’autorità presidenziale, è caduta. Sul piano diplomatico, il Qatar ospita una complessa trama negoziale: da un lato i ministri degli Esteri di Russia, Iran e Turchia; dall’altro, il “quartetto” occidentale (Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Germania) con i rappresentanti dell’UE e l’inviato ONU Geir Pedersen. Il risultato degli incontri è la proposta di una transizione politica a Ginevra, volta a salvaguardare le strutture statali e a coinvolgere figure del vecchio establishment non direttamente responsabili degli abusi del regime. Contemporaneamente si guarda alla pericolosa ipotesi di integrare componenti dell’opposizione armata, compresi alcuni elementi legati ad HTS, nonostante sia un “gruppo terroristico” riconosciuto da diverse potenze occidentali. Si tratta, evidentemente, di una necessaria concessione strategica: il nuovo equilibrio sul terreno costringe gli attori internazionali ad aprire canali di dialogo prima impensabili.
La posta in gioco è elevata: evitare un nuovo bagno di sangue e impedire il collasso dello Stato siriano, distinguendo nettamente l’apparato istituzionale dal regime uscente. Sullo sfondo, la riconfigurazione degli assetti regionali. L’indebolimento dell’Asse della Resistenza – costruito su un solido legame tra Damasco, Teheran, i proxy armati filo-iraniani e il supporto russo – mina l’influenza iraniana nel Levante e apre nuovi scenari di competizione. Il Libano, l’Iraq e persino le relazioni tra Israele e Iran risentiranno di queste dinamiche, così come la lotta al jihadismo internazionale.
Inoltre, l’accesso alle prigioni simbolo della repressione siriana, come Adra e Saydnaya, potrebbe rivelare le dimensioni degli abusi perpetrati negli ultimi decenni. Il rilascio e la restituzione di informazione sui prigionieri scomparsi potrebbero costituire gesti emblematici per favorire una qualche forma di riconciliazione post-conflitto.
La comunità internazionale, stretta tra il rischio di una deriva jihadista e la necessità di ristabilire un ordine politico sostenibile, si trova di fronte a un nuovo paradigma: la Siria come l’Afghanistan. Dinamiche simili, prospettive preoccupanti legate allo jihadismo internazionale che dalla Siria potrebbe minacciare la regione e l’Occidente. Ma ciò che più preoccupa è il ruolo che la Turchia, dopo aver sostenuto la caduta del regime attraverso il sostegno diretto agli islamisti dell’HTS – che ricordiamo, affondano le loro radici in al-Qa’ida e nell’ISIS – vorrà giocare coerentemente con la sua ambizione di influenza del Medioriente e del Nord Africa.
Siria: al-Jolani verso Damasco. Le preoccupazioni di Iran, Russia e Israele.
di Claudio Bertolotti.
Dall’intervista di Francesco De Leo a Radio Radicale – Spazio Transnazionale (puntata del 7.12.2024): vai all’intervista radio (AUDIO).
Abu Mohammed al-Jolani, nato con il nome Ahmed Al Sharaa, è il leader di Hayat Tahrir al-Sham (HTS), gruppo armato attivo nella guerra civile siriana e tuttora designato dagli Stati Uniti come organizzazione terroristica. Originariamente affiliato ad al-Qa’ida e noto come capo di Jabhat Al Nusra, Jolani ha esordito come jihadista radicale, inviato in Siria nel 2011 con fondi e sostegno di Abu Bakr al-Baghdadi, futuro leader dell’ISIS, per stabilire la filiale siriana del network qaedista.
Nel corso degli anni ha trasformato la propria immagine e la propria strategia. In un primo momento ha annunciato la separazione formale da Al Qaeda, per poi concentrarsi principalmente sul rovesciamento del regime di Bashar al-Assad e sul controllo di aree chiave come la provincia di Idlib. Questa “rottura” è stata ampiamente vista come mossa tattica, volta a evitare gli attacchi internazionali diretti contro le formazioni jihadiste transnazionali.
Parallelamente,
Jolani ha anche cambiato l’aspetto e la retorica pubblica: dalla mimetica è
passato a indossare giacca e camicia in stile occidentale, presentandosi come
un rivoluzionario siriano moderato, impegnato in una lotta contro il regime di
Damasco anziché a una guerra globale contro l’Occidente. Durante interviste
recenti, ha minimizzato riferimenti al jihad globale, puntando invece sulla
“liberazione” della Siria e sul ruolo di HTS come forza locale, impegnata a
garantire sicurezza e amministrazione a milioni di persone in aree sotto il suo
controllo.
Nonostante
questa strategia di rebranding e il tentativo di mostrarsi come un
interlocutore più pragmatico, Jolani rimane un personaggio estremamente controverso
e indubbiamente legato allo jihadismo insurrezionale, di cui oggi è uno dei
principali leader. Alle spalle ha un passato profondamente radicato nelle reti
jihadiste internazionali, ed è a capo di un’organizzazione che resta
considerata terroristica da Washington. Il suo percorso è quindi quello di un
leader che cerca di distanziarsi dall’estremismo transnazionale per guadagnare
legittimità locale e, possibilmente, internazionale, presentandosi come un attore
politico rivoluzionario più che come un leader jihadista.
La situazione sul campo
I gruppi islamisti stanno avanzando verso Damasco con il sostegno turco e assediano Homs, snodo strategico verso il Mediterraneo e roccaforte del regime.
Mentre
a Doha è previsto un incontro fra Russia, Turchia e Iran per negoziare una
possibile transizione politica che escluda Assad, sul campo le forze
filoiraniane sembrano ritirarsi, la Russia appare indebolita, non più
proattiva, mentre l’ONU registra una massiccia ondata di sfollati.
Il
leader ribelle al Jolani rivendica il diritto a usare ogni mezzo contro il regime,
ma promette di non perseguitare le minoranze. Vedremo.
Da parte sua, il felice e preoccupante presidente turco Recep Tayyip Erdogan annuncia apertamente Damasco come prossimo obiettivo, mentre l’Iran, la Siria e l’Iraq si dichiarano uniti nella lotta al “terrorismo”.
Nel
sud del Paese, gruppi antigovernativi si spostano verso nord, conquistando
facilmente posizioni lasciate dai lealisti, e le comunità druse di Suwayda
stanno creando una regione semi-autonoma.
Intanto,
il Libano chiude i confini per timore di un contagio del conflitto e proseguono
scontri tra forze filo-turche e milizie curde.
Preoccupazioni di Iran e Israele (e Mosca)
Certo
è che, nella situazione attuale, questo è un problema sia per l’Iran, oltre che
per la Russia, ma anche per Israele: tutti guardano con grande preoccupazione a
quanto sta accadendo. Se per Mosca è un grande problema legato alla capacità di
muovere all’interno del Mediterraneo con la propria marina, per Teheran è una
quesitone di tenuta complessiva dell’Asse della resistenza poiché la caduta
siriana potrebbe precludere il collegamento vitale con il Libano, e dunque con
Hezbollah. E forse gli accordi di Doha sono intesi a trovare una soluzione
mediata che consenta all’Iran di mantenere il controllo di una striscia di
territorio siriano funzionale proprio al collegamento con Hezbollah.
E
per Israele? Israele è molto preoccupata perché la presenza di un regime
siriano debole è la condizione migliore mentre la caduta della Siria sotto il
controllo degli islamisti potrebbe aprire un fronte di ulteriore instabilità ai
confini israeliani. Senza dimenticare che “al-Jolani” prende il suo nome dal Golan,
attualmente occupato da Israele, e la sua posizione è sempre stata apertamente
anti-occidentale e anti-israeliana.
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