La
diffusione di informazioni false, fuorvianti o manipolate – riassunta
nell’acronimo MDHM (misinformation, disinformation, malinformation e hate
speech) – rappresenta una delle sfide più critiche dell’era digitale, con
conseguenze profonde sulla coesione sociale, la stabilità politica e la
sicurezza globale. Questo studio analizza le caratteristiche distintive di
ciascun fenomeno e il loro impatto interconnesso, evidenziando come alimentino
l’erosione della fiducia nelle istituzioni, la polarizzazione sociale e
l’instabilità politica.
L’intelligenza
artificiale emerge come una risorsa cruciale per contrastare il MDHM, offrendo
strumenti avanzati per il rilevamento di contenuti manipolati e il monitoraggio
delle reti di disinformazione. Tuttavia, la stessa tecnologia alimenta nuove
minacce, come la creazione di deepfake e la generazione di contenuti
automatizzati che amplificano la portata e la sofisticazione della
disinformazione. Questo paradosso evidenzia la necessità di un uso etico e
strategico delle tecnologie emergenti.
Il lavoro propone un approccio multidimensionale per affrontare il MDHM, articolato su tre direttrici principali: l’educazione critica, con programmi scolastici e campagne pubbliche per rafforzare l’alfabetizzazione mediatica; la regolamentazione delle piattaforme digitali, mirata a bilanciare la rimozione dei contenuti dannosi con la tutela della libertà di espressione; la collaborazione globale, per garantire una risposta coordinata a una minaccia transnazionale.
In
conclusione, l’articolo sottolinea l’importanza di un impegno concertato tra
governi, aziende tecnologiche e società civile per mitigare gli effetti
destabilizzanti del MDHM e preservare la democrazia, la sicurezza e la fiducia
nelle informazioni.
Definizioni
e Distinzioni
La
diffusione di informazioni false, fuorvianti o manipolate costituisce una delle
sfide più complesse e pericolose dell’era digitale, con ripercussioni
significative sull’equilibrio sociale, politico e culturale. I fenomeni noti
come misinformation,disinformation, malinformatione hate speech,
sintetizzati nell’acronimo MDHM, rappresentano
manifestazioni distinte ma strettamente interconnesse di questa problematica.
Una comprensione approfondita delle loro specificità è imprescindibile per
sviluppare strategie efficaci volte a contenere e contrastare le minacce che
tali fenomeni pongono alla coesione sociale e alla stabilità delle istituzioni.
Misinformation:
Informazioni false diffuse senza l’intenzione di causare danno. Ad esempio, la
condivisione involontaria di notizie non verificate sui social media.
Disinformation:
Informazioni deliberatamente create per ingannare, danneggiare o manipolare
individui, gruppi sociali, organizzazioni o nazioni. Un esempio è la diffusione
intenzionale di notizie false per influenzare l’opinione pubblica o
destabilizzare istituzioni.
Malinformation:
informazioni basate su fatti reali, ma utilizzate fuori contesto per fuorviare,
causare danno o manipolare. Ad esempio, la divulgazione di dati personali con
l’intento di danneggiare la reputazione di qualcuno.
Hate
Speech: espressioni che incitano all’odio contro individui o gruppi
basati su caratteristiche come razza, religione, etnia, genere o orientamento
sessuale. Questo tipo di discorso può fomentare violenza e discriminazione.
Impatto sulla Società
La diffusione di misinformation, disinformation,
malinformation
e hate
speech rappresenta una sfida cruciale per la stabilità delle società
moderne. Questi fenomeni, potenziati dalla rapidità e dalla portata globale dei
media digitali, hanno conseguenze significative che si manifestano in vari
ambiti sociali, politici e culturali. Tra i principali effetti troviamo
l’erosione della fiducia nelle istituzioni, la polarizzazione sociale e
l’acuirsi delle minacce alla sicurezza.
Erosione della
Fiducia
L’informazione falsa o manipolata rappresenta un
attacco diretto alla credibilità delle istituzioni pubbliche, dei media e persino della comunità
scientifica. Quando le persone vengono sommerse da un flusso costante di
notizie contraddittorie o palesemente mendaci, il risultato inevitabile è una
crisi di fiducia generalizzata. Nessuna fonte viene risparmiata dal dubbio,
nemmeno i giornalisti più autorevoli o gli organismi governativi più
trasparenti. Questo processo mina le fondamenta della società e alimenta un
clima di incertezza che, a lungo andare, può trasformarsi in alienazione.
Un esempio emblematico si osserva nel contesto del
processo democratico, dove la disinformazione colpisce con particolare
intensità. Le campagne di manipolazione delle informazioni, mirate a diffondere
falsità sulle procedure di voto o sui candidati, hanno un effetto devastante
sull’integrità elettorale. Ciò non solo alimenta il sospetto e la sfiducia
nelle istituzioni democratiche, ma crea anche un senso di disillusione tra i cittadini,
allontanandoli ulteriormente dalla partecipazione attiva.
Le conseguenze diventano ancora più evidenti nella
gestione delle crisi globali. Durante la pandemia da COVID-19, l’ondata di
teorie del complotto e la diffusione di cure non verificate hanno rappresentato
un ostacolo significativo per gli sforzi della salute pubblica. La
disinformazione ha alimentato paure infondate e diffidenza verso i vaccini,
rallentando la risposta globale alla crisi e aumentando la diffusione del
virus.
Ma questa erosione della fiducia non si ferma al
singolo individuo. Le sue ripercussioni si estendono a tutta la società,
frammentandola. I legami sociali, già indeboliti da divisioni preesistenti,
diventano ancora più vulnerabili alla manipolazione. E così, si crea un terreno
fertile per ulteriori conflitti e instabilità, in cui le istituzioni si trovano
sempre più isolate, mentre cresce il rischio di una società incapace di reagire
a sfide collettive.
Polarizzazione
Sociale
Le campagne di disinformazione trovano terreno fertile
nelle divisioni già esistenti all’interno della società, sfruttandole con
l’obiettivo di amplificarle e renderle insormontabili. Questi fenomeni,
alimentati da strategie mirate e potenziati dalle piattaforme digitali,
intensificano il conflitto sociale e compromettono la possibilità di dialogo,
lasciando spazio a una polarizzazione sempre più marcata.
L’amplificazione delle divisioni è forse il risultato
più visibile della disinformazione. La manipolazione delle informazioni viene
utilizzata per radicalizzare le opinioni politiche, culturali o religiose,
costruendo una narrazione di contrapposizione tra un “noi” e un
“loro”. Nei contesti di tensioni etniche, per esempio, la
malinformation, diffusa con l’intento di distorcere eventi storici o di
strumentalizzare questioni politiche attuali, accentua le differenze percepite
tra gruppi sociali. Questi contrasti, spesso già esistenti, vengono esasperati
fino a cristallizzarsi in conflitti identitari difficili da sanare.
A ciò si aggiunge l’effetto delle cosiddette
“bolle informative”, create dagli algoritmi delle piattaforme
digitali. Questi sistemi, progettati per massimizzare l’engagement degli
utenti, propongono contenuti che rafforzano le loro opinioni preesistenti,
limitandone l’esposizione a prospettive alternative. Questo fenomeno, noto come
“filtro bolla”, non solo solidifica pregiudizi, ma isola gli individui
all’interno di una realtà mediatica che si nutre di conferme continue,
impedendo la comprensione di punti di vista differenti.
La polarizzazione, alimentata dal MDHM, non si ferma
però al piano ideologico. In molti casi, la radicalizzazione delle opinioni si
traduce in azioni concrete: proteste, scontri tra gruppi e, nei casi più
estremi, conflitti armati. Guerre civili e crisi sociali sono spesso il culmine
di una spirale di divisione che parte dalle narrative divisive diffuse
attraverso disinformazione e hate speech.
In definitiva, la polarizzazione generata dal MDHM non
danneggia solo il dialogo sociale, ma mina anche le fondamenta della coesione
collettiva. In un tale contesto, risulta impossibile trovare soluzioni
condivise a problemi comuni. Ciò che rimane è un clima di conflittualità
permanente, dove il “noi contro loro” sostituisce qualsiasi tentativo
di collaborazione, rendendo la società più fragile e vulnerabile.
Minaccia alla
Sicurezza
Nei contesti di conflitto, il MDHM si rivela un’arma
potente e pericolosa, capace di destabilizzare società e istituzioni con
implicazioni devastanti per la sicurezza collettiva e individuale. La
disinformazione, insieme al discorso d’odio, alimenta un ciclo di violenza e
instabilità politica, minacciando la pace e compromettendo i diritti umani. Gli
esempi concreti di come queste dinamiche si manifestano non solo illustrano la
gravità del problema, ma evidenziano anche l’urgenza di risposte efficaci.
La propaganda
e la destabilizzazione costituiscono uno degli utilizzi più insidiosi
della disinformazione. Stati e gruppi non statali sfruttano queste pratiche
come strumenti di guerra ibrida, mirati a indebolire il morale delle
popolazioni avversarie e a fomentare divisioni interne. In scenari geopolitici
recenti, la diffusione di informazioni false ha generato confusione e panico,
rallentando la capacità di risposta delle istituzioni. Questa strategia,
pianificata e sistematica, non si limita a disorientare l’opinione pubblica ma
colpisce direttamente il cuore della coesione sociale.
Il discorso
d’odio, amplificato dalle piattaforme digitali, è spesso un precursore
di violenze di massa. Ne è tragico esempio il genocidio dei Rohingya in
Myanmar, preceduto da una campagna di odio online che ha progressivamente deumanizzato
questa minoranza etnica, preparandone il terreno per persecuzioni e massacri.
Questi episodi dimostrano come lo hate
speech, una volta radicato, possa tradursi in azioni violente e
sistematiche, con conseguenze irreparabili per le comunità coinvolte.
Anche sul piano individuale, gli effetti del MDHM sono
profondamente distruttivi. Fenomeni come il doxxing – la divulgazione pubblica di informazioni personali con
intenti malevoli – mettono a rischio diretto la sicurezza fisica e psicologica
delle vittime. Questo tipo di attacco non solo espone le persone a minacce e
aggressioni, ma amplifica un senso di vulnerabilità che si estende ben oltre il
singolo episodio, minando la fiducia nel sistema stesso.
L’impatto cumulativo di queste dinamiche mina la stabilità
sociale nel suo complesso, creando fratture profonde che richiedono risposte
immediate e coordinate. Affrontare il MDHM non è solo una questione di difesa
contro la disinformazione, ma un passo essenziale per preservare la pace,
proteggere i diritti umani e garantire la sicurezza globale in un’epoca sempre
più interconnessa e vulnerabile.
Strategie di Mitigazione
La
lotta contro il fenomeno MDHM richiede una risposta articolata e coordinata,
capace di affrontare le diverse sfaccettature del problema. Dato l’impatto
complesso e devastante che questi fenomeni hanno sulla società, le strategie di
mitigazione devono essere sviluppate con un approccio multidimensionale,
combinando educazione, collaborazione tra i diversi attori e un quadro
normativo adeguato.
Educazione e
Consapevolezza
La prima e più efficace linea di difesa contro il
fenomeno MDHM risiede nell’educazione e nella promozione di una diffusa
alfabetizzazione mediatica. In un contesto globale in cui le informazioni
circolano con una rapidità senza precedenti e spesso senza un adeguato
controllo, la capacità dei cittadini di identificare e analizzare criticamente
i contenuti che consumano diventa una competenza indispensabile. Solo
attraverso una maggiore consapevolezza sarà possibile arginare gli effetti
negativi della disinformazione e costruire una società più resiliente.
Il pensiero critico
rappresenta la base di questa strategia. I cittadini devono essere messi nelle
condizioni di distinguere le informazioni affidabili dai contenuti falsi o
manipolati. Questo processo richiede l’adozione di strumenti educativi che
insegnino come verificare le fonti, identificare segnali di manipolazione e
analizzare il contesto delle notizie. È un impegno che va oltre la semplice
formazione: si tratta di creare una cultura della verifica e del dubbio
costruttivo, elementi essenziali per contrastare la manipolazione informativa.
Un ruolo cruciale in questa battaglia è giocato dalla formazione scolastica. Le scuole
devono diventare il luogo privilegiato per l’insegnamento dell’alfabetizzazione
mediatica, preparando le nuove generazioni a navigare consapevolmente nel
complesso panorama digitale. L’integrazione di questi insegnamenti nei
programmi educativi non può più essere considerata un’opzione, ma una
necessità. Attraverso laboratori pratici, analisi di casi reali e simulazioni,
i giovani possono sviluppare le competenze necessarie per riconoscere contenuti
manipolati e comprendere le implicazioni della diffusione di informazioni
false.
Tuttavia, l’educazione non deve limitarsi ai giovani.
Anche gli adulti, spesso più esposti e vulnerabili alla disinformazione, devono
essere coinvolti attraverso campagne di
sensibilizzazione pubblica. Queste iniziative, veicolate sia attraverso
i media tradizionali che digitali, devono illustrare le tecniche più comuni
utilizzate per diffondere contenuti falsi, sottolineando le conseguenze
negative di tali fenomeni per la società. Un cittadino informato, consapevole
dei rischi e capace di riconoscerli, diventa un elemento di forza nella lotta
contro la disinformazione.
Investire nell’educazione e nella sensibilizzazione
non è solo una misura preventiva, ma un pilastro fondamentale per contrastare
il MDHM. Una popolazione dotata di strumenti critici è meno suscettibile alle
manipolazioni, contribuendo così a rafforzare la coesione sociale e la
stabilità delle istituzioni democratiche. Questo percorso, pur richiedendo un
impegno costante e coordinato, rappresenta una delle risposte più efficaci a
una delle minacce più insidiose del nostro tempo.
Collaborazione
Intersettoriale
La complessità del fenomeno MDHM è tale che nessun
singolo attore può affrontarlo efficacemente da solo. È una sfida globale che
richiede una risposta collettiva e coordinata, in cui governi, organizzazioni
non governative, aziende tecnologiche e società civile collaborano per
sviluppare strategie condivise. Solo attraverso un impegno sinergico è
possibile arginare gli effetti destabilizzanti di questa minaccia.
Le istituzioni
governative devono assumere un ruolo guida. I governi sono chiamati a
creare regolamentazioni efficaci e ambienti sicuri per lo scambio di
informazioni, garantendo che queste misure bilancino due aspetti fondamentali:
la lotta contro i contenuti dannosi e la protezione della libertà di
espressione. Un eccesso di controllo rischierebbe infatti di scivolare nella
censura, minando i principi democratici che si intendono tutelare. L’approccio
deve essere trasparente, mirato e in grado di adattarsi all’evoluzione delle
tecnologie e delle dinamiche di disinformazione.
Le aziende
tecnologiche, in particolare i social
media, giocano un ruolo centrale in questa sfida. Hanno una responsabilità
significativa nel contrastare la diffusione del MDHM, essendo i principali
veicoli attraverso cui queste dinamiche si propagano. Devono investire nello
sviluppo di algoritmi avanzati, capaci di identificare e rimuovere i contenuti
dannosi in modo tempestivo ed efficace. Tuttavia, l’efficacia degli interventi
non può venire a scapito della libertà degli utenti di esprimersi. La
trasparenza nei criteri di moderazione, nella gestione dei dati e nei meccanismi
di segnalazione è fondamentale per mantenere la fiducia degli utenti e
prevenire abusi.
Accanto a questi attori, le organizzazioni non governative (ONG) e la società civile svolgono
un ruolo di intermediazione. Le ONG possono fungere da ponte tra istituzioni e
cittadini, offrendo informazioni verificate e affidabili, monitorando i
fenomeni di disinformazione e promuovendo iniziative di sensibilizzazione.
Queste organizzazioni hanno anche la capacità di operare a livello locale,
comprendendo meglio le dinamiche specifiche di determinate comunità e adattando
le strategie di contrasto alle loro esigenze.
Infine, è imprescindibile favorire partnership pubbliche e private. La
collaborazione tra settori pubblico e privato è essenziale per condividere
risorse, conoscenze e strumenti tecnologici utili a combattere il MDHM. In
particolare, le aziende possono offrire soluzioni innovative, mentre i governi
possono fornire il quadro normativo e il supporto necessario per implementarle.
Questa sinergia permette di affrontare la disinformazione con un approccio più
ampio e integrato, combinando competenze tecniche, capacità di monitoraggio e
intervento.
La risposta al MDHM non può dunque essere frammentata
né limitata a un singolo settore. Solo attraverso una collaborazione
trasversale e globale sarà possibile mitigare le conseguenze di questi
fenomeni, proteggendo le istituzioni, i cittadini e la società nel suo insieme.
Ruolo delle Tecnologie
Avanzate e Artificial Intelligence (AI) nel Contesto del MDHM
Le
tecnologie emergenti, in particolare l’intelligenza artificiale (IA), svolgono
un ruolo cruciale nel contesto di misinformation,
disinformation, malinformation e hate speech.
L’AI rappresenta un’arma a doppio taglio: da un lato, offre strumenti potenti
per individuare e contrastare la diffusione di contenuti dannosi; dall’altro,
alimenta nuove minacce, rendendo più sofisticati e difficili da rilevare gli
strumenti di disinformazione.
Rilevamento
Automatico
L’intelligenza artificiale ha rivoluzionato il modo in
cui affrontiamo il fenomeno della disinformazione, introducendo sistemi
avanzati di rilevamento capaci di identificare rapidamente contenuti falsi o
dannosi. In un panorama digitale in cui il volume di dati generato
quotidianamente è immenso, il monitoraggio umano non è più sufficiente. Gli
strumenti basati sull’AI si rivelano quindi essenziali per gestire questa
complessità, offrendo risposte tempestive e precise.
Tra le innovazioni più rilevanti troviamo gli algoritmi di machine learning, che rappresentano il cuore dei sistemi di
rilevamento automatico. Questi algoritmi, attraverso tecniche di apprendimento
automatico, analizzano enormi quantità di dati alla ricerca di schemi che
possano indicare la presenza di contenuti manipolati o falsi. Addestrati su
dataset contenenti esempi di disinformazione già identificati, questi sistemi
sono in grado di riconoscere caratteristiche comuni, come l’uso di titoli
sensazionalistici, un linguaggio emotivamente carico o la presenza di immagini
alterate. L’efficacia di tali strumenti risiede nella loro capacità di
adattarsi a nuovi modelli di manipolazione, migliorando costantemente le
proprie performance.
Un altro ambito cruciale è quello della verifica delle fonti. Strumenti basati
su AI possono confrontare le informazioni che circolano online con fonti
affidabili, identificando discrepanze e facilitando il lavoro dei fact-checker. In questo modo, la
tecnologia accelera i tempi di verifica, permettendo di contrastare in maniera
più efficiente la diffusione di contenuti falsi prima che raggiungano un
pubblico vasto.
L’AI è anche fondamentale per contrastare una delle
minacce più sofisticate: i deepfake, di cui più oltre
tratteremo. Grazie a tecniche avanzate, è possibile analizzare video e immagini
manipolati, individuando anomalie nei movimenti facciali, nella
sincronizzazione delle labbra o nella qualità complessiva del contenuto visivo.
Aziende come Adobe e Microsoft stanno sviluppando strumenti dedicati alla
verifica dell’autenticità dei contenuti visivi, offrendo una risposta concreta
a una tecnologia che può facilmente essere sfruttata per scopi malevoli.
Il monitoraggio
del linguaggio d’odio è un altro fronte in cui l’AI dimostra il suo
valore. Attraverso algoritmi di elaborazione del linguaggio naturale (NLP), è
possibile analizzare i testi in tempo reale per identificare espressioni di hate speech. Questi sistemi non solo
categorizzano i contenuti, ma assegnano priorità agli interventi, garantendo
una risposta rapida ed efficace ai casi più gravi. In un contesto in cui il
discorso d’odio può rapidamente degenerare in violenza reale, la capacità di
intervenire tempestivamente è cruciale.
Infine, l’intelligenza artificiale è in grado di rilevare
e analizzare reti di disinformazione. Attraverso l’analisi delle
interazioni social, l’AI può individuare schemi che suggeriscono campagne
coordinate, come la diffusione simultanea di messaggi simili da account
collegati. Questa funzione è particolarmente utile per smascherare operazioni
orchestrate, sia a livello politico che sociale, che mirano a destabilizzare la
fiducia pubblica o a manipolare l’opinione delle persone.
In definitiva, l’intelligenza artificiale rappresenta
uno strumento indispensabile per affrontare il fenomeno della disinformazione e
dell’hate speech. Tuttavia, come ogni
tecnologia, richiede un uso etico e responsabile. Solo attraverso
un’implementazione trasparente e mirata sarà possibile sfruttare appieno il
potenziale dell’AI per proteggere l’integrità delle informazioni e la coesione
sociale.
Generazione di
Contenuti
L’intelligenza artificiale, se da un lato rappresenta
una risorsa preziosa per contrastare la disinformazione, dall’altro
contribuisce a rendere il fenomeno MDHM ancora più pericoloso, fornendo
strumenti per la creazione di contenuti falsi e manipolati con livelli di
sofisticazione senza precedenti. È proprio questa ambivalenza che rende l’IA
una tecnologia tanto potente quanto insidiosa.
Un esempio emblematico è rappresentato dai citati deepfake,
prodotti grazie a tecnologie basate su reti generative avversarie (GAN). Questi
strumenti permettono di creare video e immagini estremamente realistici, in cui
persone possono essere mostrate mentre affermano o compiono azioni mai
avvenute. I deepfake compromettono
gravemente la fiducia nelle informazioni visive, un tempo considerate una prova
tangibile della realtà. Ma non si fermano qui: la loro diffusione può essere
utilizzata per campagne di diffamazione, per manipolare l’opinione pubblica o
per destabilizzare contesti politici già fragili. La capacità di creare realtà
alternative visive rappresenta una minaccia diretta alla credibilità delle
fonti visive e alla coesione sociale.
Parallelamente, i testi generati automaticamente da modelli di linguaggio avanzati,
come GPT, hanno aperto nuove frontiere nella disinformazione. Questi sistemi
sono in grado di produrre articoli, commenti e post sui social media che
appaiono del tutto autentici, rendendo estremamente difficile distinguere i
contenuti generati da una macchina da quelli scritti da una persona reale. Non
a caso, tali strumenti vengono già sfruttati per alimentare botnet, reti automatizzate che
diffondono narrazioni polarizzanti o completamente false, spesso con l’obiettivo
di manipolare opinioni e alimentare conflitti sociali.
Un ulteriore aspetto cruciale è rappresentato dalla scalabilità della disinformazione.
L’automazione garantita dall’AI consente la creazione e la diffusione di
contenuti falsi su larga scala, amplificandone in modo esponenziale l’impatto.
Ad esempio, un singolo attore malevolo, sfruttando questi strumenti, può
generare migliaia di varianti di un messaggio falso, complicando ulteriormente
il compito dei sistemi di rilevamento. In pochi istanti, contenuti manipolati
possono essere diffusi a livello globale, raggiungendo milioni di persone prima
che si possa intervenire.
Infine, l’AI offre strumenti per la mimetizzazione dei contenuti, che
rendono i messaggi manipolati ancora più difficili da individuare. Algoritmi
avanzati consentono di apportare modifiche minime ma strategiche a testi o
immagini, eludendo così i sistemi di monitoraggio tradizionali. Questa capacità
di adattamento rappresenta una sfida continua per gli sviluppatori di strumenti
di contrasto, che devono aggiornarsi costantemente per stare al passo con le
nuove tecniche di manipolazione.
In definitiva, l’intelligenza artificiale, nella sua
capacità di generare contenuti altamente sofisticati, rappresenta un’arma a
doppio taglio nel panorama del MDHM. Se non regolamentata e utilizzata in modo
etico, rischia di accelerare la diffusione della disinformazione, minando
ulteriormente la fiducia pubblica nelle informazioni e destabilizzando la
società. È indispensabile affrontare questa minaccia con consapevolezza e
strumenti adeguati, combinando innovazione tecnologica e principi etici per
limitare gli effetti di questa pericolosa evoluzione.
Sfide e Opportunità
L’impiego
dell’intelligenza artificiale nella lotta contro il fenomeno del MDHM
rappresenta una delle frontiere più promettenti ma anche più complesse dell’era
digitale. Sebbene l’IA offra opportunità straordinarie per contrastare la
diffusione di informazioni dannose, essa pone anche sfide significative,
evidenziando la necessità di un approccio etico e strategico.
Le
Opportunità Offerte dall’IA
Tra
i vantaggi più rilevanti, spicca la capacità
dell’AI di analizzare dati in tempo reale. Grazie a questa caratteristica,
è possibile anticipare le campagne di disinformazione, identificandone i
segnali prima che si diffondano su larga scala. Questo permette di ridurre
l’impatto di tali fenomeni, intervenendo tempestivamente per arginare i danni.
Un
altro aspetto fondamentale è l’impiego di strumenti avanzati per certificare l’autenticità dei contenuti.
Tecnologie sviluppate da organizzazioni leader nel settore consentono di
verificare l’origine e l’integrità dei dati digitali, restituendo fiducia agli
utenti. In un contesto in cui la manipolazione visiva e testuale è sempre più
sofisticata, queste soluzioni rappresentano un baluardo essenziale contro il
caos informativo.
L’AI
contribuisce inoltre a snellire le attività di fact-checking.
L’automazione delle verifiche consente di ridurre il carico di lavoro umano,
velocizzando la risposta alla diffusione di contenuti falsi. Questo non solo
migliora l’efficienza, ma permette anche di concentrare le risorse umane su
casi particolarmente complessi o delicati.
Le
Sfide dell’AI nella Lotta al MDHM
Tuttavia,
le stesse tecnologie che offrono queste opportunità possono essere sfruttate
per scopi malevoli. Gli strumenti utilizzati per combattere la disinformazione
possono essere manipolati per aumentare la
sofisticazione degli attacchi, creando contenuti ancora più
difficili da rilevare. È un paradosso che sottolinea l’importanza di un
controllo rigoroso e di un uso responsabile di queste tecnologie.
La
difficoltà nel distinguere tra contenuti autentici e manipolati
rappresenta un’altra sfida cruciale. Man mano che le tecniche di
disinformazione evolvono, anche gli algoritmi devono essere costantemente
aggiornati per mantenere la loro efficacia. Questo richiede non solo
investimenti tecnologici, ma anche una collaborazione continua tra esperti di
diversi settori.
Infine,
è impossibile ignorare i bias insiti nei modelli di AI,
che possono portare a errori significativi. Algoritmi mal progettati o
addestrati su dataset non rappresentativi rischiano di rimuovere contenuti
legittimi o, al contrario, di non individuare alcune forme di disinformazione.
Questi errori non solo compromettono l’efficacia delle operazioni, ma possono
minare la fiducia nel sistema stesso.
Conclusione
L’intelligenza
artificiale è una risorsa strategica nella lotta contro misinformation, disinformation,
malinformation e hate speech, ma rappresenta anche una sfida complessa. La sua
ambivalenza come strumento di difesa e al contempo di attacco richiede un uso
consapevole e responsabile. Mentre da un lato offre soluzioni innovative per
rilevare e contrastare contenuti manipolati, dall’altro consente la creazione
di disinformazione sempre più sofisticata, amplificando il rischio per la
stabilità sociale e istituzionale.
Il
MDHM non è un fenomeno isolato o temporaneo, ma una minaccia sistemica che mina
le fondamenta della coesione sociale e della sicurezza globale. La sua
proliferazione alimenta un circolo vizioso in cui l’erosione della fiducia, la
polarizzazione sociale e le minacce alla sicurezza si rafforzano
reciprocamente. Quando la disinformazione contamina il flusso informativo, la
fiducia nelle istituzioni, nei media e persino nella scienza si sgretola.
Questo fenomeno non solo genera alienazione e incertezza, ma riduce la capacità
dei cittadini di partecipare attivamente alla vita democratica.
La
polarizzazione sociale, amplificata dalla manipolazione delle informazioni, è
un effetto diretto di questa dinamica. Narrativi divisivi e contenuti
polarizzanti, spinti da algoritmi che privilegiano l’engagement a scapito
dell’accuratezza, frammentano il tessuto sociale e rendono impossibile il
dialogo. In un clima di contrapposizione “noi contro loro”, le
divisioni politiche, culturali ed etniche si trasformano in barriere
insormontabili.
A
livello di sicurezza, il MDHM rappresenta una minaccia globale. Le campagne di
disinformazione orchestrate da stati o gruppi non statali destabilizzano intere
regioni, fomentano violenze e alimentano conflitti armati. L’uso del hate
speech come strumento di deumanizzazione ha dimostrato il suo potenziale
distruttivo in numerosi contesti, contribuendo a un clima di vulnerabilità
collettiva e individuale.
Affrontare
questa sfida richiede un approccio integrato che combini educazione, regolamentazione
e cooperazione globale.
Promuovere
l’educazione critica: l’alfabetizzazione mediatica deve essere
una priorità. Educare i cittadini a riconoscere e contrastare la
disinformazione è il primo passo per costruire una società resiliente.
Programmi educativi e campagne di sensibilizzazione devono dotare le persone
degli strumenti necessari per navigare nel complesso panorama informativo.
Rafforzare
la regolamentazione delle piattaforme digitali: le aziende
tecnologiche non possono più essere semplici spettatori. È indispensabile che
adottino standard chiari e trasparenti per la gestione dei contenuti dannosi,
garantendo al contempo il rispetto della libertà di espressione. Una
supervisione indipendente può assicurare l’equilibrio tra sicurezza e diritti
fondamentali.
Incentivare
la collaborazione globale: la natura transnazionale del MDHM
richiede una risposta coordinata. Governi, aziende private e organizzazioni
internazionali devono lavorare insieme per condividere risorse, sviluppare
tecnologie innovative e contrastare le campagne di disinformazione su scala
globale.
Solo
attraverso un’azione concertata sarà possibile mitigare gli effetti devastanti
del MDHM e costruire una società più resiliente e informata. Il futuro della
democrazia, della coesione sociale e della sicurezza dipende dalla capacità
collettiva di affrontare questa minaccia con determinazione, lungimiranza e
responsabilità.
Politica USA: la visione di Mark Rubio.
di Melissa de Teffè (dagli Stati Uniti).
Sebbene gli USA siano molto ricchi, gli americani non sono felici La più grande economia mondiale con un PIL di oltre 25 trilioni di dollari, si trova a fronteggiare un paradosso: nonostante la ricchezza, gran parte della popolazione soffre perché non arriva a fine mese o si sente insoddisfatta. Il malessere collettivo ha cause radicate nell’economia, nella salute pubblica e nella struttura sociale del Paese.
Crescita e disuguaglianza Il PIL è cresciuto del 2% nel 2023, e il tasso di disoccupazione rimane basso, attorno al 3,9%. Tuttavia, questa prosperità non è equamente distribuita. Secondo dati della Federal Reserve, l’1% più ricco possiede oltre il 30% della ricchezza totale, mentre il 50% più povero ne detiene solo il 2,5%. “La disuguaglianza negli USA è un problema sistemico, amplificato dal fatto che i salari per la classe media sono stagnanti da decenni,” osserva un report del Pew Research Center. Il costo della vita è un altro fattore cruciale. Nel 2023, i prezzi delle abitazioni sono aumentati del 5%, mentre i costi per sanità e istruzione continuano a crescere. Sebbene l’inflazione sia scesa dal picco dell’8,2% nel 2022, molte famiglie fanno ancora fatica a far quadrare i conti.
Crisi della salute mentale Oltre ai problemi economici, gli Stati Uniti affrontano una crisi di salute mentale. Secondo i CDC (Centers for Disease Control and Prevention), i tassi di depressione e ansia sono ai massimi storici. L’epidemia di overdose da oppioidi come il Fentanil, ha causato oltre 100.000 morti nel 2022, contribuendo a un calo dell’aspettativa di vita, scesa a 76 anni, il livello più basso dal 1996. “Il senso di isolamento e la mancanza di reti di sicurezza sono fattori che alimentano il disagio psicologico,” spiega il dottor Vivek Murthy, Surgeon General degli Stati Uniti. Un altro drammatico problema interno che compromette l’immagine degli Stati Uniti è la questione dei senzatetto. Nonostante l’immensa ricchezza del Paese, molte delle principali città americane, come Los Angeles, San Francisco e New York, affrontano una crisi abitativa dilagante, con decine di migliaia di persone costrette a vivere per strada o in rifugi di emergenza. Questa realtà contrasta profondamente con l’idea di una nazione che si presenta come simbolo di benessere e uguaglianza. La mancanza di fondi adeguati e di risposte politiche strutturali a questa emergenza sociale non solo aggrava le condizioni di vita di milioni di cittadini, ma mette in dubbio la capacità del governo di garantire diritti fondamentali, erodendo ulteriormente la credibilità del modello democratico americano. Durante il suo mandato, Donald Trump aveva affrontato il tema in modo controverso, dichiarando in un’intervista del 2019: “Non possiamo permettere che le nostre città siano invase da senzatetto. Stiamo cercando soluzioni che funzionino per tutti.” Tuttavia, le politiche adottate si sono concentrate principalmente su sgomberi e controlli, piuttosto che su investimenti strutturali per affrontare le cause profonde del problema. Questa mancanza di interventi mirati evidenzia le contraddizioni di una nazione che fatica a coniugare i suoi ideali con la realtà quotidiana dei suoi cittadini più vulnerabili.
Frammentazione sociale e polarizzazione La crescente polarizzazione politica e la mancanza di fiducia nelle istituzioni aggravano ulteriormente il malcontento. Un sondaggio Gallup mostra che solo il 27% degli americani si fida del governo federale. Questa alienazione politica si somma a tensioni razziali e culturali, rendendo difficile creare un senso di unità nazionale.
Soluzioni possibili Secondo gli esperti, affrontare questo malessere richiede interventi strutturali. “Un investimento significativo in sanità pubblica, istruzione accessibile e politiche per ridurre la disuguaglianza potrebbe migliorare la qualità della vita per milioni di americani,” afferma il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz. Resta da vedere se gli Stati Uniti saranno in grado di affrontare queste sfide. Come nota il New York Times, “la ricchezza del Paese è innegabile, ma senza una distribuzione più equa, rischia di diventare una fonte di divisione anziché di progresso.” Ecco perché Trump con lo slogan MAGA “Make America Great Again”, ha avuto successo ed ecco perché i fondi che oggi sono spesi per guerre estranee agli interessi del paese saranno ridistribuiti internamente. Nonostante la sua elezione e l’aver pubblicamente affermato di desiderare di voler fermare la guerra in Ucraina e in Israele, Biden, settimana scorsa, ha chiesto al Congresso un ulteriore finanziamento di 900 milioni di dollari nell’ambito di un pacchetto complessivo di 38 miliardi di dollari per sostenere l’Ucraina. La proposta include assistenza militare, economica e sanitaria. Tuttavia, ha incontrato forti resistenze tra i repubblicani, incluso lo Speaker della Camera Mike Johnson, che ha bloccato l’iniziativa. Johnson ha sottolineato la necessità di maggiore trasparenza e controllo sull’utilizzo dei fondi, esprimendo preoccupazione per il crescente debito pubblico e l’inflazione. A meno di un mese dal prossimo insediamento presidenziale dove in genere si chiude qualsiasi azione economico-politica, la presente amministrazione invece continua a creare sempre più confusione.
Ma perchè piace Mark Rubio. Marco Rubio: cubano-americano è uno dei due senatori della Florida, ed è noto per il suo impegno sui temi della politica estera e per la sua sensibilità verso i diritti dei rifugiati politici. Nato il 28 maggio 1971 a Miami da genitori cubani, Rubio incarna l’esperienza dell’esilio cubano, una prospettiva che ha profondamente plasmato la sua carriera politica. È cresciuto con il racconto dei sacrifici dei suoi genitori, emigrati da Cuba negli anni ’50 per sfuggire alla repressione politica. Questo background lo ha reso particolarmente attento alla questione dei rifugiati e ai temi della libertà e della democrazia, non solo per Cuba ma per i popoli oppressi in tutto il mondo. In Senato ha sostenuto iniziative per garantire protezione a rifugiati politici, si è opposto alle dittature in America Latina, condannando i regimi di Cuba, Venezuela e Nicaragua per le violazioni dei diritti umani. “L’America deve essere un faro di speranza per coloro che fuggono dall’oppressione,” ha dichiarato durante uno dei suoi interventi pubblici. Nel suo ruolo di Presidente della Commissione per l’Intelligence del Senato e come membro della Commissione per le Relazioni Estere, Rubio ha promosso politiche volte a rafforzare le sanzioni contro i governi autoritari e a sostenere i movimenti democratici. Ha lavorato per migliorare i programmi di accoglienza e assistenza ai rifugiati, specialmente per coloro che fuggono da persecuzioni politiche. Rubio vede la politica estera come un’estensione dei valori americani di libertà e giustizia. Ha promosso un approccio che combina fermezza nei confronti dei regimi autoritari con il sostegno ai rifugiati e agli esiliati politici. La sua eredità come figlio di rifugiati cubani gli conferisce una comprensione unica dei sacrifici e delle sfide di chi fugge dalla tirannia. E sicuramente questo background potrebbe apportare una visione di politica estera diversa dalle precedenti, ossia di difesa e non interventista. Questa nuova amministrazione ha la possibilità di cambiare l’approccio tradizionale che ha sempre mirato nell’ “esportare” la democrazia attraverso interventi esterni e Marco Rubio, con la sua esperienza e storia, rappresenta una voce importante in questo dibattito. Sebbene in passato fosse un fervente sostenitore dell’internazionalismo, Rubio ha gradualmente abbracciato una visione più cauta, orientata a priorizzare gli interessi strategici interni ed evitare interventi militari prolungati. Rubio, che mantiene un forte legame con la comunità cubana, comprende profondamente il significato della lotta per l’autodeterminazione nazionale. Ha dichiarato che “l’America deve concentrarsi sulle sfide più critiche per la nostra sicurezza nazionale”, riconoscendo che non tutti i conflitti globali richiedono un intervento diretto degli Stati Uniti. Questo cambio di prospettiva potrebbe influenzare il modo in cui pensa Donald Trump, anche riguardo alla situazione siriana. Piuttosto che imporre una soluzione politica dall’alto come si è sempre fatto storicamente, e invece di applicare un possibile isolazionismo come suggerisce Trump, ecco che Rubio potrebbe aprire una terza via dove gli Stati Uniti possano fornire aiuti mirati alla ricostruzione del Paese, consentendo nel caso della Siria di trovare la propria strada verso “Damasco”, costruendosi quella stabilità che rispetti le sue specificità culturali e storiche. L’idea che la democrazia debba emergere come espressione autentica della coscienza nazionale è un fatto. Ce lo ha descritto Norberto Bobbio quando dice: “La democrazia non è un dono che si può imporre dall’esterno, ma un processo che deve essere costruito dall’interno”. E similmente lo hanno letto anche gli americani con Tocqueville, nel suo studio sulla democrazia, quando sottolinea l’importanza delle condizioni interne, scrivendo: “La democrazia è il governo che si adatta alle inclinazioni naturali degli uomini, e che, per così dire, nasce da esse”. Oggi, accademici e diplomatici concordano sul fatto che gli Stati Uniti abbiano perso gran parte della loro influenza globale come modello democratico. A livello internazionale si avverte un crescente scetticismo: se l’America non cambierà approccio, sarà difficile che continui a essere considerata il punto di riferimento democratico per eccellenza. Questo sentimento potrebbe spingere la nuova amministrazione Trump a rivedere le proprie strategie globali, favorendo approcci più rispettosi delle dinamiche locali e meno intrusivi, senza però scivolare nell’isolazionismo totale. Nel caso siriano, ciò significherebbe consentire alla popolazione di tracciare autonomamente la propria strada verso un futuro più stabile, mentre gli Stati Uniti abbandonerebbero la retorica dell’imposizione democratica, aprendo la strada a un’era di diplomazia più rispettosa e sostenibile. In questo contesto, Marco Rubio si distingue come un rappresentante ideale di questa visione, con una sensibilità particolare verso il rispetto delle specificità culturali e storiche nei processi di transizione democratica.
La nuova Siria: tra minaccia islamista, risposta preventiva di Israele e la ‘buffer zone’ turca.
di Claudio Bertolotti.
La recente conquista di Damasco da parte del leader jihadista Ahmed al-Sharaa, già noto con il nome di battaglia Abu Mohammed al-Jolani, capo di Hayat Tahrir al-Sham (HTS), segna un punto di svolta nell’equilibrio politico-militare del Medio Oriente. La Siria, dopo tredici anni di guerra civile contro il regime di Bashar al-Assad, si ritrova ora nella fase più critica della sua storia contemporanea: l’ascesa al potere degli islamisti guidati da al-Jolani, già affiliati ad al-Qaeda, si avvia a trasformare il Paese in uno “Stato islamico” destinato a rimodellare gli assetti regionali. E, ancora una volta, la variabile jihadista si manifesta come un fattore di destabilizzazione dagli effetti potenzialmente globali.
L’occupazione israeliana del Golan: una manovra preventiva e strategica L’avanzata islamista in Siria, con il conseguente venir meno del controllo centralizzato di Damasco, crea un vuoto di potere all’interno del quale proliferano gruppi radicali e attori esterni in cerca di vantaggi geostrategici. L’azione di Israele – nello specifico il consolidamento dell’occupazione delle alture del Golan – va letta in questo quadro: non si tratta di un’ennesima incursione di natura espansionistica, bensì di una manovra difensiva e preventiva. Da un lato, Gerusalemme mira a evitare che forze jihadiste possano insediarsi lungo il proprio confine settentrionale, minacciando direttamente la sua sicurezza. Dall’altro, la presenza militare israeliana nell’area svolge anche un ruolo di protezione a favore delle forze di interposizione delle Nazioni Unite, potenzialmente esposte ad attacchi da parte di gruppi radicali in assenza di un potere centrale affidabile a Damasco.
L’attacco preventivo contro arsenali strategici e chimici La lezione appresa in Afghanistan e in Iraq – dove arsenali convenzionali e non convenzionali sono passati di mano favorendo gruppi estremisti – ha reso evidente la necessità di interventi rapidi e chirurgici. L’attacco preventivo di Israele contro i depositi di armi strategiche siriane, inclusi quelli sospettati di contenere agenti chimici, intende prevenire il rischio che tali strumenti finiscano nelle mani dei jihadisti. Non si tratta solo di un interesse israeliano: se fossero i movimenti radicali a impadronirsi di armamenti chimici, l’intera regione, e persino l’Occidente, ne subirebbero le conseguenze. Come evidenziato dalle ultime analisi dell’Institute for the Study of War (Iran Update, 11 dicembre 2024), il controllo degli arsenali siriani da parte di attori non statali apre scenari ad altissimo rischio. Israele agisce dunque con un’intelligenza strategica che mira a prevenire futuri attacchi terroristici su larga scala.
La mossa israeliana e la scelta turca: due facce della stessa medaglia La politica israeliana nel Golan non può essere letta in modo isolato: è coerente, nella logica strategica di contenimento delle minacce, con la scelta turca di occupare parti del territorio siriano al confine settentrionale. Ankara, come già dimostrato in passato, intende mantenere una “buffer zone” tra le aree sotto il proprio controllo e le regioni abitate dai curdi siriani, considerati una minaccia perché in collegamento con il PKK in Turchia. Tale azione non solo limita i movimenti delle milizie curde, ma risponde a un duplice obiettivo: arginare il potere curdo e, al contempo, impedire l’insediamento di gruppi islamisti ostili alla Turchia. L’avanzata israeliana sul Golan e la buffer zone turca formano, in modi diversi, due esempi di contenimento preventivo della minaccia jihadista.
L’ascesa degli islamisti in Siria: l’incognita dei diritti e il parallelismo con i talebani La presa del potere da parte di al-Jolani e dei suoi uomini non può essere vista con favore. Le dichiarazioni rassicuranti nei confronti delle minoranze, delle donne e della comunità cristiana suonano come pura retorica. Sappiamo bene quale sia la storia dei movimenti jihadisti: la sharia applicata in modo letterale, l’assenza di rispetto per le differenze religiose e culturali, l’eliminazione di ogni spazio di pluralismo. allo scioglimento del parlamento siriano seguirà l’imposizione di un governo di unna shurà musulmana, non eletta né rappresentativa dell’estrema eterogeneità etno-culturale e religiosa siriana. Come già osservato nel caso dell’Afghanistan dei talebani, l’instaurazione di uno Stato islamico sotto la guida di ex qaedisti “riciclati” in forza politica locale non farà altro che istituzionalizzare un regime repressivo e contrario ai principi fondamentali dei diritti umani.
La minaccia terroristica si estende all’Occidente La vittoria islamista in Siria, come fu per il ritorno dei talebani a Kabul nel 2021, agirà da catalizzatore per il terrorismo internazionale. Le cronache recenti mostrano che ogni avanzamento dell’ideologia jihadista si accompagna a un incremento degli attacchi e della propaganda violenta, spingendo individui radicalizzati o simpatizzanti a compiere gesti emulativi in Occidente. Come osservato da recenti analisi su media internazionali (si veda il 5° Rapporto sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo #ReaCT2024 e Il Giornale), il successo di Hts in Siria accresce il rischio che l’Europa diventi bersaglio di nuovi attacchi, ispirati e orchestrati da soggetti che trarranno nuovo slancio e legittimazione simbolica dalla “vittoria” di al-Jolani. La dimensione mediatica del jihad è tale per cui il controllo di un territorio – e la proclamazione di uno Stato islamico – si trasforma in un messaggio di potenza rivolto a potenziali sostenitori e reclute.
Prospettive e conclusioni La nuova Siria di al-Jolani non è meno pericolosa del regime di Assad. Anzi, l’aperta adesione ai principi fondamentalisti, la lotta per il potere che seguirà tra gruppi islamisti e jihadisti in competizione – in primis con il gruppo Stato islamico – l’influenza di gruppi radicali e l’assenza di un sistema di garanzie internazionali rendono il contesto più imprevedibile. La mossa israeliana nel Golan e la strategia turca a nord riflettono una comprensibile, anche se parziale, risposta a queste minacce. L’Occidente non può permettersi di cadere nell’illusione di un al-Jolani “pragmatico”: la natura islamista e jihadista della nuova leadership è un dato di fatto. Se a ciò si sommano i rischi legati alla disponibilità di armi strategiche e chimiche, l’interesse nazionale israeliano e turco di creare zone cuscinetto e di colpire preventivamente gli arsenali appare tragicamente sensato. In questo scenario – al pari dell’Afghanistan talebano – la Siria potrebbe fungere da polo attrattivo per un jihadismo oggi in cerca di legittimazione e vittorie simboliche, con conseguenze dirette anche per l’Europa.
La caduta di Damasco e lo sgretolamento dell’Asse della Resistenza iraniano.
di Claudio Bertolotti.
La Siria di Bashar al-Assad non esiste più.
La rapida avanzata degli insorti islamisti, guidati dall’Hayat Tahrir al-Sham (HTS), contro il governo di Bashar al-Assad segna un punto di svolta critico nel panorama mediorientale. Dopo quasi quattordici anni di guerra civile, con un conflitto alimentato da interessi internazionali e influenze regionali, l’architettura di potere costruita dalla famiglia Assad – ereditata nel 2000 da Bashar dopo la lunga presidenza del padre Hafez – è oggi in disfacimento. L’offensiva, partita circa dieci giorni fa da Idlib, ha messo in ginocchio un regime un tempo ritenuto solido, sconfiggendo unità militari e paramilitari sostenute sia dall’Iran sia dalla Russia, pilastri di quell’“Asse della Resistenza” ideato per contenere le pressioni occidentali e israeliane.
I risultati tattici ottenuti dai gruppi islamisti e jihadisti, in parte sostenuti dalle forze del Syrian DDefense Forces curde, ma principalmente riconducibili a Hayat Tahrir al-Sham (HTS) guidata da Abu Mohammed al-Jolani, si sono rivelati decisivi: Aleppo, Hama e Homs – nodi strategici e simbolici del potere di Damasco – sono cadute senza una reale capacità di reazione da parte dei difensori. Il contenimento dell’opposizione armata, agevolato sin dal 2015 dall’intervento militare russo, è venuto meno. Mosca, impegnata su altri fronti e consapevole del mutato contesto strategico, sembra aver rivisto i propri interessi, lasciando indebolire la tenuta del regime. Di fronte a questa svolta, la stessa Teheran, uno dei principali sponsor del governo siriano, appare costretta a ridimensionare il proprio coinvolgimento, concentrandosi sulla preservazione di aree costiere e comunità tradizionalmente legate agli Assad.
La fuga di Assad, su cui insistono numerose fonti, non è ancora confermata ufficialmente, ma le sue smentite appaiono deboli. Damasco, un tempo simbolo dell’autorità presidenziale, è caduta. Sul piano diplomatico, il Qatar ospita una complessa trama negoziale: da un lato i ministri degli Esteri di Russia, Iran e Turchia; dall’altro, il “quartetto” occidentale (Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Germania) con i rappresentanti dell’UE e l’inviato ONU Geir Pedersen. Il risultato degli incontri è la proposta di una transizione politica a Ginevra, volta a salvaguardare le strutture statali e a coinvolgere figure del vecchio establishment non direttamente responsabili degli abusi del regime. Contemporaneamente si guarda alla pericolosa ipotesi di integrare componenti dell’opposizione armata, compresi alcuni elementi legati ad HTS, nonostante sia un “gruppo terroristico” riconosciuto da diverse potenze occidentali. Si tratta, evidentemente, di una necessaria concessione strategica: il nuovo equilibrio sul terreno costringe gli attori internazionali ad aprire canali di dialogo prima impensabili.
La posta in gioco è elevata: evitare un nuovo bagno di sangue e impedire il collasso dello Stato siriano, distinguendo nettamente l’apparato istituzionale dal regime uscente. Sullo sfondo, la riconfigurazione degli assetti regionali. L’indebolimento dell’Asse della Resistenza – costruito su un solido legame tra Damasco, Teheran, i proxy armati filo-iraniani e il supporto russo – mina l’influenza iraniana nel Levante e apre nuovi scenari di competizione. Il Libano, l’Iraq e persino le relazioni tra Israele e Iran risentiranno di queste dinamiche, così come la lotta al jihadismo internazionale.
Inoltre, l’accesso alle prigioni simbolo della repressione siriana, come Adra e Saydnaya, potrebbe rivelare le dimensioni degli abusi perpetrati negli ultimi decenni. Il rilascio e la restituzione di informazione sui prigionieri scomparsi potrebbero costituire gesti emblematici per favorire una qualche forma di riconciliazione post-conflitto.
La comunità internazionale, stretta tra il rischio di una deriva jihadista e la necessità di ristabilire un ordine politico sostenibile, si trova di fronte a un nuovo paradigma: la Siria come l’Afghanistan. Dinamiche simili, prospettive preoccupanti legate allo jihadismo internazionale che dalla Siria potrebbe minacciare la regione e l’Occidente. Ma ciò che più preoccupa è il ruolo che la Turchia, dopo aver sostenuto la caduta del regime attraverso il sostegno diretto agli islamisti dell’HTS – che ricordiamo, affondano le loro radici in al-Qa’ida e nell’ISIS – vorrà giocare coerentemente con la sua ambizione di influenza del Medioriente e del Nord Africa.
Siria: al-Jolani verso Damasco. Le preoccupazioni di Iran, Russia e Israele.
di Claudio Bertolotti.
Dall’intervista di Francesco De Leo a Radio Radicale – Spazio Transnazionale (puntata del 7.12.2024): vai all’intervista radio (AUDIO).
Abu Mohammed al-Jolani, nato con il nome Ahmed Al Sharaa, è il leader di Hayat Tahrir al-Sham (HTS), gruppo armato attivo nella guerra civile siriana e tuttora designato dagli Stati Uniti come organizzazione terroristica. Originariamente affiliato ad al-Qa’ida e noto come capo di Jabhat Al Nusra, Jolani ha esordito come jihadista radicale, inviato in Siria nel 2011 con fondi e sostegno di Abu Bakr al-Baghdadi, futuro leader dell’ISIS, per stabilire la filiale siriana del network qaedista.
Nel corso degli anni ha trasformato la propria immagine e la propria strategia. In un primo momento ha annunciato la separazione formale da Al Qaeda, per poi concentrarsi principalmente sul rovesciamento del regime di Bashar al-Assad e sul controllo di aree chiave come la provincia di Idlib. Questa “rottura” è stata ampiamente vista come mossa tattica, volta a evitare gli attacchi internazionali diretti contro le formazioni jihadiste transnazionali.
Parallelamente,
Jolani ha anche cambiato l’aspetto e la retorica pubblica: dalla mimetica è
passato a indossare giacca e camicia in stile occidentale, presentandosi come
un rivoluzionario siriano moderato, impegnato in una lotta contro il regime di
Damasco anziché a una guerra globale contro l’Occidente. Durante interviste
recenti, ha minimizzato riferimenti al jihad globale, puntando invece sulla
“liberazione” della Siria e sul ruolo di HTS come forza locale, impegnata a
garantire sicurezza e amministrazione a milioni di persone in aree sotto il suo
controllo.
Nonostante
questa strategia di rebranding e il tentativo di mostrarsi come un
interlocutore più pragmatico, Jolani rimane un personaggio estremamente controverso
e indubbiamente legato allo jihadismo insurrezionale, di cui oggi è uno dei
principali leader. Alle spalle ha un passato profondamente radicato nelle reti
jihadiste internazionali, ed è a capo di un’organizzazione che resta
considerata terroristica da Washington. Il suo percorso è quindi quello di un
leader che cerca di distanziarsi dall’estremismo transnazionale per guadagnare
legittimità locale e, possibilmente, internazionale, presentandosi come un attore
politico rivoluzionario più che come un leader jihadista.
La situazione sul campo
I gruppi islamisti stanno avanzando verso Damasco con il sostegno turco e assediano Homs, snodo strategico verso il Mediterraneo e roccaforte del regime.
Mentre
a Doha è previsto un incontro fra Russia, Turchia e Iran per negoziare una
possibile transizione politica che escluda Assad, sul campo le forze
filoiraniane sembrano ritirarsi, la Russia appare indebolita, non più
proattiva, mentre l’ONU registra una massiccia ondata di sfollati.
Il
leader ribelle al Jolani rivendica il diritto a usare ogni mezzo contro il regime,
ma promette di non perseguitare le minoranze. Vedremo.
Da parte sua, il felice e preoccupante presidente turco Recep Tayyip Erdogan annuncia apertamente Damasco come prossimo obiettivo, mentre l’Iran, la Siria e l’Iraq si dichiarano uniti nella lotta al “terrorismo”.
Nel
sud del Paese, gruppi antigovernativi si spostano verso nord, conquistando
facilmente posizioni lasciate dai lealisti, e le comunità druse di Suwayda
stanno creando una regione semi-autonoma.
Intanto,
il Libano chiude i confini per timore di un contagio del conflitto e proseguono
scontri tra forze filo-turche e milizie curde.
Preoccupazioni di Iran e Israele (e Mosca)
Certo
è che, nella situazione attuale, questo è un problema sia per l’Iran, oltre che
per la Russia, ma anche per Israele: tutti guardano con grande preoccupazione a
quanto sta accadendo. Se per Mosca è un grande problema legato alla capacità di
muovere all’interno del Mediterraneo con la propria marina, per Teheran è una
quesitone di tenuta complessiva dell’Asse della resistenza poiché la caduta
siriana potrebbe precludere il collegamento vitale con il Libano, e dunque con
Hezbollah. E forse gli accordi di Doha sono intesi a trovare una soluzione
mediata che consenta all’Iran di mantenere il controllo di una striscia di
territorio siriano funzionale proprio al collegamento con Hezbollah.
E
per Israele? Israele è molto preoccupata perché la presenza di un regime
siriano debole è la condizione migliore mentre la caduta della Siria sotto il
controllo degli islamisti potrebbe aprire un fronte di ulteriore instabilità ai
confini israeliani. Senza dimenticare che “al-Jolani” prende il suo nome dal Golan,
attualmente occupato da Israele, e la sua posizione è sempre stata apertamente
anti-occidentale e anti-israeliana.
Il gabinetto esecutivo di Trump (seconda parte)
di Melissa de Teffè.
Procuratore generale: Pam Bondi (dopo il ritiro di Matt Gaetz) Segretario della difesa: Pete Hegseth Consigliere per la sicurezza nazionale: Michael Waltz Segretario dell’energia: Chris Wright Segretario per il commercio: Howard Lutnick Segretario della sicurezza interna: Kristi Noem Direttore della CIA: John Ratcliffe Direttore dell’intelligence nazionale: Tulsi Gabbard Dipartimento per l’efficienza governativa: Elon Musk e Vivek Ramaswamy Portavoce della Casa Bianca: Karoline Leavitt
Prima di passare alla seconda parte
della lista, parliamo prima dei due grandi esclusi. Mike Pompeo ex direttore
CIA e Niky Haley ex ambasciatore presso le Nazioni Unite. Per ambedue non sono ci
sono dichiarazioni né ufficiali né ufficiose. Possiamo però mettere insieme
qualche indizio interessante che spieghi, il “No voi no”.
Per Pompeo si pensa che le
dichiarazioni di Julian
Assange, il fondatore di WikyLeaks, durante la sua prima apparizione
pubblica, dopo essere stato rilasciato da un carcere inglese di massima sicurezza,
siano sufficenti per aver leso la sua reputazione e quindi escluderlo dalla
lista. Assange, davanti al comitato per gli affari legali e i diritti umani
dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa a Strasburgo, ha dichiarato:
“il direttore della CIA, Pompeo, ha lanciato una campagna di ritorsione; ora è
un fatto di dominio pubblico. Sotto la direzione esplicita di Pompeo, la CIA
elaborò piani per rapirmi e assassinarmi all’interno dell’ambasciata
dell’Ecuador a Londra e organizzò operazioni contro i miei colleghi europei,
sottoponendoci a furti, attacchi hacker e alla diffusione di informazioni
false. Anche mia moglie e mio figlio neonato furono presi di mira, un agente
della CIA fu assegnato per seguire mia moglie e furono impartite istruzioni per
prelevare un campione di DNA dal mio bambino di sei mesi…..”.
Nikki Haley, invece, è coinvolta in un altro tipo di
controversia, che riguarda la sua vita privata. La sua lunga relazione
extraconiugale, emersa durante la sua corsa presidenziale, ha alimentato
speculazioni e discussioni che potrebbero aver influito sulla possibile
candidatura. Le dinamiche di questa vicenda personale hanno avuto un impatto
sulla sua immagine, e sebbene nessuno sia perfetto, l’ha resa meno appetibile
in questo contesto politico in cui l’integrità morale è vista come un aspetto
cruciale.
Ma tornando alla nostra lista emergono
nomi e dettagli che offrono spunti per comprendere meglio il panorama polico ed
economico che si sta delineando. Un esempio significativo per importanza è la
nomina di Chris Wright al ministero dell’energia. Lasciando a lato gli
allarmisti sul Cambio Climatico, Wright si è laureato in ingegneria meccanica e
specializzato in ingegneria elettrica al MIT, ma non ha mai ricoperto incarichi
governativi prima di questa nomina. È il CEO di Liberty Energy, una società fondata nel
2010 e quotata in borsa, che gestisce il 20% dei pozzi terrestri negli Stati
Uniti, utilizzando il controverso sistema fratturazione idraulica, (fraking).
Secondo Wright, l’azienda, con un valore di 3 miliardi di dollari, contribuisce
a quasi il 10% della produzione totale di energia negli Stati Uniti.
Nonostante le critiche ricevute da
alcuni organi di stampa, come il Washington Post, Wright è pragmatico. Noto per il suo approccio diretto,
non nega l’esistenza di un problema climatico mondiale, ma afferma con onestà:
“non esiste energia pulita”, e ha criticato aspramente le politiche ambientali
che promuovono l’uso esclusivo di fonti rinnovabili come il solare e l’eolico,
argomentando che queste tecnologie non sono in grado di soddisfare la domanda
globale di energia . Nel suo profilo LinkedIn, afferma di essere
“completamente dedicato all’energia” – inclusi petrolio, gas
naturale, nucleare, solare e fonti geotermiche. Infatti secondo la NREL
(National Renewable Energy Laboratory) generare il 35% dell’elettricità
utilizzando energia eolica e solare negli Stati Uniti occidentali ridurrebbe le
emissioni di CO2 del 25-45%, ma non sarebbe sufficiente. Negli ultimi anni, le
centrali solari ed eoliche hanno dominato la costruzione di nuovi impianti
energetici negli Stati Uniti, mentre le centrali a combustibili fossili – in
particolare quelle a carbone – continuano a essere dismesse a ritmi record. In
un’intervista a Bloomberg TV lo scorso luglio, Wright ha ipotizzato che
l’amministrazione Trump avrebbe ampliato le trivellazioni su terreni federali e
semplificato il procedimento per l’approvazione di infrastrutture come gli
oleodotti. Commentando la gestione dell’amministrazione Biden, che ha raggiunto
livelli record di produzione petrolifera, Wright ha ribadito la necessità di
fare di più per sostenere la produzione di petrolio e gas. Nel 2023, gli Stati
Uniti, sotto l’amministrazione Biden, hanno segnato un record storico,
producendo una media di 12,9 milioni di barili di petrolio al giorno, il
livello più alto mai raggiunto da un singolo Paese, secondo i dati dell’Agenzia
per l’Energia statunitense. Wright si è impegnato a ridurre i costi energetici
per gli americani, mettendosi così in linea con una promessa spesso rilanciata
da Trump durante la campagna elettorale.
Un altro personaggio chiave nelle nomine è Howard Lutnick,
il multimilionario CEO di Cantor Fitzgerald, una delle principali società di
servizi finanziari a livello internazionale, sin dagli anni ’80. Lutnick, 63 anni, sostiene l’aumento dei dazi
doganali. Come candidato, Trump ha promesso di imporre tariffe del 60% sui beni
provenienti dalla Cina e del 10% su quelli di altri Paesi. Durante la campagna
elettorale ha dichiarato che gli Stati Uniti erano al massimo della prosperità
nei primi anni del ‘900, quando “non c’erano imposte sul reddito e tutto
ciò che avevamo erano dazi doganali.”-“Eravamo così ricchi che i più
grandi imprenditori americani si riunivano per cercare di capire come spendere
quel denaro,”. Durante la campagna presidenziale, Trump aveva promesso di
aumentare i dazi doganali per proteggere i lavoratori e le industrie americane
dalla concorrenza straniera, in particolare da quella cinese. La nomina di
Lutnick a un ruolo così rilevante potrebbe essere vista come una continuazione
di questa politica protezionista. Lutnick ha anche mostrato interesse per le
problematiche interne agli Stati Uniti, come la disuguaglianza sociale ed
economica, sottolineando la necessità di proporre politiche che rispondano alle
esigenze della classe media e dei lavoratori americani.
Seppur con compiti diversi ma sotto
lo stesso ombrello, segue la squadra che si occupa della difesa nazionale:
A capo del Ministero della Difesa, è
stato scelto Pete Hegseth, seguito dal consigliere per la sicurezza nazionale,
Michael Waltz, dal direttore della CIA John Ratcliffe, dal Direttore
dell’intelligence nazionale Tulsi Gabbard, dal Segretario della sicurezza
interna, Kristi Noem e infine per l’FBI Kash Patel.
Hegseth, a pochi giorni dalla nomina,
è già una figura scomoda. Veterano della Guardia Nazionale dell’Esercito, ha
prestato servizio in Iraq, Afghanistan e a Guantanamo Bay come ufficiale di
fanteria. Con due onorificenze: la Bronze Star e il Combat Infantryman Badge è diventato
famoso anche per il suo tatuaggio “crociato” “Deus Vult” (per noi di
lunga data e conoscenza torniamo indietro a Papa UrbanoII) e ha già sollevato polemiche
sia per le sue opinioni sull’Islam, che ritiene essere il nemico storico
dell’Occidente e per essere stato coinvolto in una causa per assalto sessuale risoltasi
nel 2017 con un accordo extra giudiziale. Sebbene sia un eccellente commentatore
televisivo per Fox news, la sua visione del Medio Oriente viene definita bigotta
e antimusulmana. Finirà anche lui come Gaetz (Ex Procuratore di Stato, anche
lui con uno scandalo sessuale alle spalle)? Tuttavia, se la sua nomina dovesse essere
confermata, Hegseth sarà a capo della più grande forza militare del mondo in un
periodo di conflitto e instabilità in Medio Oriente assai critico. Sul piano della
politica interna al ministero, Hegseth ha espresso il desiderio di limitare la
presenza di persone transessuali e, possibilmente, anche di donne in zone di
guerra, dove la loro fisicità potrebbe non risultare utile.
Tulsi Gabbard, ex membro del partito
democratico e deputato alla Camera, ha servito nella Guardia Nazionale
dell’Esercito delle Hawaii ed è stata dispiegata in Iraq con un’unità medica. All’epoca
critica della politica estera statunitense, descrivendola come imperialista e
autoritaria ha spesso dichiarato la sua avversione alle idee di Trump per il
suo approccio al Medio Oriente, considerandolo pericoloso. Se confermata dal
Senato, Gabbard sarebbe a capo della Sicurezza Interna. Tuttavia, alcuni ex
funzionari della sicurezza nazionale e parlamentari esprimono dubbi sulle sue
capacità, accusandola di riprendere narrazioni tipiche del Cremlino, con il
timore che ciò possa influire negativamente sulla cooperazione nell’ambito
dell’intelligence. Se confermata come Direttore dell’Intelligence Nazionale
(DNI), Gabbard sarebbe responsabile della gestione dei segreti più sensibili
della nazione, sovrintendendo le 18 agenzie di spionaggio degli Stati Uniti e
servendo come stretta consigliera del presidente.
Come Consigliere alla Sicurezza
Nazionale, Trump ha voluto Michael Waltz, ex colonnello della Guardia
Nazionale, e membro del Congresso per la Florida. La sua posizione su Ukraina e
Gaza non lasciano dubbi. Ha così commentato su Fox News in modo critico esprimendo
preoccupazioni sulla recente escalation, paragonando la decisione
dell’amministrazione Biden di consentire l’uso di mine antiuomo da parte
dell’Ucraina alla “guerra di trincea della Prima Guerra Mondiale.” Ha
sottolineato il timore che si inneschi una spirale nel conflitto, citando il
coinvolgimento di Russia, Iran, Corea del Nord e il potenziale ingresso della
Corea del Sud.
Waltz ha ribadito la necessità di “riportare
deterrenza e pace” e prevenire un ulteriore escalation. Riguardo al conflitto di Gaza, ha
lodato le operazioni israeliane contro Hamas e Hezbollah, descrivendo
l’indebolimento di Hamas e l’esposizione dell’Iran come risultati cruciali.
Chiudiamo l’ombrello difesa con la
nomina del direttore all’ FBI di Kash Patel. Tenendo presente che tutti i
direttori dell’FBI servono su mandato presidenziale, e Christopher Wray, l’attuale
direttore, nominato da Trump dopo il licenziamento di James Comey, (ricordiamo
il caso Hilary Clinton, Ministro Affari Esteri e il suo portatile in mano al
marito della segretaria oltre alle email cancellate) potrebbe presto lasciare
il ruolo, con l’annuncio di Trump. Wray potrebbe decidere di dimettersi
spontaneamente o aspettare di essere rimosso a gennaio, quando Trump entrerà in
carica. Tuttavia, la nomina di Kash Patel solleva critiche per aver promesso
una “pulizia” dei presunti cospiratori contro Trump e ventilato l’idea di
chiudere il quartier generale dell’FBI a Washington, decentralizzando le
operazioni su tutto il territorio nazionale. Un altra proposta di Patel è di
inasprire le misure contro la fuga di informazioni da parte di funzionari
governativi ai media. Questo implicherebbe che il Dipartimento di Giustizia
annulli l’attuale politica che vieta la confisca segreta dei registri
telefonici dei giornalisti durante le indagini sulle fughe di notizie. Questa
politica fu attuata dal Procuratore Generale Garland a seguito dell’indignazione
suscitata dalla rivelazione che i procuratori federali avevano ottenuto mandati
di comparizione per i registri telefonici dei giornalisti.
Infine vorrebbe separare le attività
di intelligence (quindi il cuore dell’agenzia) dell’FBI dal resto delle operazioni,
un’opzione delicata in un contesto di crescente minaccia terroristica.
Un’altra
novità interessante è la nomina dell’addetto stampa Karoline Leavitt.
Giovanissima, appena 27 anni, Leavitt è stata la numero due dietro la
leggendaria Kayleigh McEnany (soprannominata allora la donna dei faldoni, non
avendo mai sbagliato una citazione nè una risposta)durante la precedente
amministrazione. Leavitt si è già distinta come portavoce durante la campagna
elettorale, dimostrando abilità comunicative eccezionali. Un aspetto
interessante della nuova amministrazione è la scelta di invitare per la prima
volta nella storia i podcaster alle conferenze stampa della Casa Bianca. È
probabile che figure come Megan Kelly, Tucker Carlson e Ben Shapiro vengano invitati,
dando così un messaggio forte e di rottura con i grandi quotidiani e i network
tradizionali, CBS, NBC e ABC, accusati di parzialità.
Concludiamo con la novità che più di
qualsiasi altra, definisce l’originalità a sorpresa di Trum: Elon Musk e Vivek Ramaswamy
a capo di un nuovo ministero senza portafoglio, il “Department of
Government Efficiency” (DOGE), acronimo che richiama la criptovaluta
Dogecoin, promossa da Musk. La missione di questo dipartimento sarebbe quella
di eliminare 2,5 milioni di impiegati federali. Il governo federale degli Stati
Uniti è 5 volte quello cinese, e la burocrazia è estremamente rigida. Musk e
Ramaswamy si propongono di razionalizzare questa macchina, affrontando la
difficoltà di licenziare dipendenti in posizioni protette.
Il nuovo dipartimento è già in fase
di reclutamento, con un annuncio pubblicato sull’account X di DOGE, che conta
1,2 milioni di follower, e il processo di assunzione è in corso.
In un editoriale del Wall
Street Journal, Musk e Vivek hanno spiegato la loro
visione sulle spese federali: “La maggior parte delle decisioni attuative di
leggi e spese a discrezione del governo non viene presa dal presidente,
democraticamente eletto, né dai suoi delegati, o funzionari scelti, ma da
milioni di funzionari pubblici non eletti e non nominati, che lavorano all’interno
di agenzie governative, che si considerano immuni al licenziamento grazie alle
tutele del servizio civile. Questo è antidemocratico e contrario alla visione
dei Padri Fondatori. Comporta costi enormi, sia diretti che indiretti, per i
contribuenti”. La nomina scade il 4 luglio 2026.
Verso l’amministrazione Trump: il Gabinetto presidenziale – Prima parte
di Melissa de Teffè.
A nemmeno di un
mese dalla vittoria, Trump, al secondo giro, ha organizzzato una macchina politica ben
oleata e pronta a non commettere gli errori del 2016.
Nel caldo ed
elegante scenario di Mar a Lago si lavora incessantemente per compilare la
lista delle tante nomine necessarie prima dell’insediamento a gennaio. Il team
è capeggiato da Brian Hook, ex rappresentante speciale degli Stati Uniti per
l’Iran durante il primo mandato di Trump e collaboratore sia di Pompeo che
dell’ex Segretario di Stato Rex Tillerson. Hook ha lavorato per mesi sulle idee
politiche da attuare, incontrandosi con i diplomatici stranieri più rilevanti
al momento e purtroppo non ci sono ancora stati incontri ufficiali di
transizione con il team Biden-Harris, nonostante le affermazioni di
quest’ultima nel suo speech di concessione.
Per correttezza
di cronaca trascriviamo la lista completa delle nomine, ma ci soffermeremo su
quelle più rilevanti:
Capo di
gabinetto della Casa Bianca: Susie Wiles Segretario di Stato: Marco Rubio Procuratore
generale: Pam Bondi (dopo il ritiro di Matt Gaetz)
Vice procuratore generale: Todd Blanche Segretario per la salute (HHS): Robert F.
Kennedy Jr.
Direttore bilancio: Russ Vought Ambasciatore alle Nazioni Unite: Elise
Stefanik “Zar del confine”: Tom Homan Segretario
della difesa: Pete Hegseth
Segretario per gli affari dei veterani: Doug
Collins Consigliere per la sicurezza nazionale:
Michael Waltz
Segretario degli interni: Doug Burgum Segretario dell’energia: Chris Wright
Segretario dei trasporti: Sean Duffy Segretario
per il commercio: Howard Lutnick Segretario dell’istruzione: Linda McMahon Segretario del tesoro: Scott Bessent
Segretario del lavoro: Lori Chavez-DeRemer
Consigliere legale della Casa Bianca: William
McGinley Ambasciatore degli Stati Uniti presso la NATO:
Matthew Whitaker
Segretario della sicurezza interna: Kristi
Noem
Segretario per lo sviluppo urbano e abitativo
(HUD): Scott Turner Direttore della CIA: John Ratcliffe Direttore
dell’intelligence nazionale: Tulsi Gabbard
Amministratore dell’EPA (Environmental
Protection Agency): Lee Zeldin
Solicitor General: Dean John Sauer
Commissario della FDA (Food and Drugs
Administration): Marty Makary
Segretario dell’agricoltura: Brooke Rollins
Direttore dei CDC: David Weldon Presidente
della FCC: Brendan Carr Amministratore dei Servizi nei Centri Medicare
e Medicaid: Dr. Mehmet Oz
Medico generale (Surgeon General): Dr. Janette
Nesheiwat Ambasciatore
degli Stati Uniti in Israele: Mike Huckabee
Ambasciatore degli Stati Uniti in Canada: Pete
Hoekstra
Procuratore degli Stati Uniti per il Distretto
Meridionale di New York: Jay Clayton Dipartimento
per l’efficienza governativa: Elon Musk e Vivek Ramaswamy
Vice capo di gabinetto: Dan Scavino
Vice capo di gabinetto per affari legislativi,
politici e pubblici: James Blair
Vice capo di gabinetto per comunicazioni e
personale: Taylor Budowich
Capo dell’Ufficio del personale presidenziale:
Sergio Gor
Direttore delle comunicazioni della Casa
Bianca: Steven Cheung Portavoce
della Casa Bianca: Karoline Leavitt
GEORGE BESSENT – Segretario del Tesoro
CEO di un hedge fund, Scott Bessent, è stato
scelto da Trump lo scorso venerdì con questa dichiarazione: “sono molto
lieto di nominare Bessent, un uomo ampiamente rispettato sia come investitore
internazionale molto importante che come stratega geopolitico ed economico del
mondo.” – “Scott “sosterrà” politiche che “promuovono la
competitività degli Stati Uniti e arginerà gli squilibri commerciali
ingiusti.” Fondatore e AD del Key
Square Group, Hedge Fund, con sede in Connecticut, il 62enne, originario della
Carolina del Sud, e laureato all’Università di Yale, come Trump, sostiene la
politica dei dazi, considerandoli un modo efficiente ed utile per aumentare le
entrate e proteggere le industrie americane. Durante gli anni ’90, ha lavorato per quasi un decennio con il notissimo
miliardario investitore George Soros, uno dei più importanti sostenitori delle
cause liberali, come direttore esecutivo del Fondo Soros. Apertamente gay, lui
e suo marito, l’ex procuratore di New York John Freeman, hanno due figli. Se
confermato, Bessent sarebbe il primo membro dichiaratamente gay a far parte di un
esecutivo presidenziale repubblicano.
Robert F.
Kennedy jr – Segretario del Dipartimento per la Salute e Servizi Umani (HHS)
Se Robert F. Kennedy Jr. guiderà il Dipartimento della Salute, ha già detto che come primo compito vorrà affrontare i non pochi problemi causati ”dall’industria alimentare e dalle aziende farmaceutiche, che per motivi di lucro, hanno ingannato, disinformato e divulgato falsità”. Il suo contributo sarà focalizzato nel cercare di “Rendere l’America di nuovo Sana!” (Make America Healthy Again- MAHA). Molto critico delle politiche riguardo ai vaccini, ormai divenuta storica, è un’antica diatriba che si trascina da quando ha iniziato la sua campagna elettorale. La sua posizione non è contro i vaccini in generale, ma contro l’accanimento di alcune Big Farma nel voler imporre questa soluzione medicale senza aver raccolto le necessarie verifiche sull’effettivo risultato sanifico. Kennedy non nega l’utilità di questi e ha spesso sottilineato d’averne sempre fatto uso soprattutto i vaccini
antiinfluenzali. Ma l’impatto maggiore delle
ideologie Kennediane si sentiranno maggiormente nel contesto alimentare.
Infatti secondo i sondaggi del 2021, il National Center for Health Statistics,
National Health Examination Survey e il National Health and Nutrition
Examination Survey, risulta che il 31,1% degli adulti statunitensi è
sovrappeso, il 42,5% è obeso e il 9% ha un’obesità grave.
Il piano Kennedy,
MAHA, parte dal presupposto che le aziende sono i principali attori responsabili dei problemi
di salute dei cittadini e che il governo ha quindi il dovere di intervenire.
L’industria alimentare, che storicamente ha considerato il Partito Repubblicano
un alleato, è ovviamente assai preoccupata. Le quotazioni di borsa delle società
alimentari hanno subìto forti cali dopo l’annuncio della nomina di Kennedy lo
scorso giovedì. Alla chiusura dei mercati, martedì, le azioni del gigante delle
bevande e degli snack PepsiCo sono scese del 5,1%, il produttore di cioccolato
Hershey ha perso il 4,9%, mentre i conglomerati di alimenti confezionati Kraft
Heinz, Conagra Brands e General Mills hanno registrato cali rispettivamente del
3,8%, 3,5% e 3%. La campagna MAHA si propone di contrastare l’epidemia di
malattie croniche che da anni affligge il paese, adottando una strategia
innovativa. L’obiettivo è migliorare la filiera alimentare attraverso
l’agricoltura rigenerativa, la tutela degli habitat naturali, l’eliminazione
delle influenze delle lobby aziendali sulle agenzie sanitarie governative e la
riduzione di sostanze chimiche e tossine dannose, come il fluoro nelle
tubazioni idriche, dal sistema alimentare e dall’ambiente.
Kennedy, che ha
accusato le aziende alimentari di aver “avvelenato in massa”
il pubblico americano ha espresso chiaramente il desiderio di voler limitare
l’accesso alle bevande zuccherate e ai cibi ultraprocessati, considerati da
molti nutrizionisti poco salutari. Tra le sue proposte figura l’idea di
impedire a chi usufruisce dell’assistenza pubblica di acquistare cibi “spazzatura”
con i buoni alimentari, una misura che potrebbe penalizzare aziende come
PepsiCo, Conagra, Kraft Heinz, Coca-Cola, J.M. Smucker e WK Kellogg, le cui
vendite a questi utenti rappresentano una fonte significativa di ricavi.
Inoltre, Kennedy mira ad eliminare bevande gassate e cibi processati dalle
mense scolastiche, aggravando ulteriormente le difficoltà per il settore. “Questo
tipo di speculazione negativa sul mercato è l’ultima cosa di cui il settore
alimentare confezionato, già sotto pressione, ha bisogno,” ha scritto
l’analista di J.P. Morgan Ken Goldman in una nota di lunedì scorso. Kennedy propone
di ridurre l’uso di additivi e sostanze chimiche, tra cui aromi e coloranti
artificiali. Molti Stati stanno già prendendo provvedimenti in questa
direzione. L’anno scorso, la California ha vietato un gruppo di sostanze
chimiche, tra cui il colorante alimentare Rosso n. 3, utilizzato in cibi e caramelle.
New York e Pennsylvania stanno valutando divieti simili. “La FDA – Food and
Drugs Administration – è rimasta indietro rispetto ad altri paesi nella
regolamentazione degli additivi alimentari”, dice il candidato. Se la sua
nomina sarà confermata, Kennedy potrebbe accelerare questo processo innovativo,
anche attraverso una riorganizzazione del personale. Ha già promesso di
riformare l’agenzia che, ha accusato di servire più gli interessi dei Big
Pharma e Big Food che quelli della popolazione.
Secondo Scott
Faber, vicepresidente senior per gli affari governativi del gruppo ambientale
no-profit EWG, restrizioni più severe sugli additivi avranno un impatto
limitato sui bilanci dei produttori alimentari. Molte sostanze chimiche sono
già vietate in Europa e in altri mercati internazionali, e le aziende
alimentari hanno adottato ingredienti alternativi per rispettare le leggi
locali. Adeguare le stesse ricette al mercato interno non comporterà costi
aggiuntivi significativi, ha dichiarato. I consumatori di solito non notano la
rimozione o il cambiamento degli additivi alimentari. “Ci sono stati casi in
cui le vendite sono diminuite dopo l’eliminazione di coloranti alimentari, ma
ciò è avvenuto perché un’unica azienda ha apportato il cambiamento”, ha
scritto Goldman di J.P. Morgan in una recente nota. Se tutte le aziende si
adattano a nuove regolamentazioni, probabilmente non ci saranno grandi
cambiamenti nelle preferenze dei consumatori, ha concluso. Coopererà a questa
rivoluzione il nuovo Commissario della FDA Marty Makary, chirurgo presso
la nota Johns Hopkins e professore sempre alla Johns Hopkins Carey Business
School. Sempre sotto lo stesso dipartimento si colloca il programma per l’Assistenza
Sanitaria, Medicare – Medicaid, con 140 milioni di iscritti, che verrebbe
gestito dal Dr. Oz, noto cardiochirurgo e star televisiva. In una recente
intervista ha dichiarato: “Non è un segreto che il nostro sistema sanitario
non funizoni. Continuiamo a spendere sempre più denaro senza alcun chiaro
ritorno sull’investimento in termini di salute e benessere della nostra nazione”. Quasi il 50% degli americani vive con una
condizione di salute cronica, come diabete, ipertensione o obesità. Per quanto
riguarda i bambini, uno studio prevede che oltre 220.000 persone sotto i 20
anni avranno il diabete di tipo 2 entro il 2060, un aumento del 700%.”
Marco Rubio: Segretario di Stato
Cubano-Americano
e senatore per lo Stato della Florida, Marco Rubio è famoso per le denuncie su
X contro gli illeciti di agenti cubani o come scrive lui “per le azioni vili
e le aggressioni” ingiustificabili contro, ad esempio, Carolina Barrero, storica
dell’arte che rappresenta il volto dell’opposizione. Questa nomina dà un chiaro segnale della nuova
politica presidenziale contro l’infiltrazione marxista sia da parte cinese che
da alcuni dei paesi caraibichi come Cuba e altri del Sud America. Se le ultime
amministrazioni americane potrebbero aver trascurato la dottrina Monroe,
con Rubio c’è sicuramente un ritorno alle priorità regionali non più attraverso
una lente del politicamente corretto apologetico, ma con un’attenzione chiara e
lucida su sicurezza, prosperità e democrazia.
Thomas Douglas Homan: funzionario per ICE (Immigration and Customs Enforcement) lo zar del confine.
Thomas Douglas Homan, ex agente di polizia, funzionario per ICE (Immigration and Customs
Enforcement) e commentatore politico statunitense, ha già prestato servizio
durante l’amministrazione Obama e nella prima amministrazione Trump. In questo
ruolo che non prevede la conferma del Senato, Homan sarà responsabile di tutti
i confini statunitensi, nord, sud, spazi aerei e marittimi. Inoltre si occuperà
anche delle deportazioni di immigrati illegali, oltre ai gruppi di immigrati
che ledono la quiete con atti di violenza, (qui si riferisce all’invasione di
alcuni gruppi di delinquenti venezuelani che si sono impadroniti abusivamente e
con la forza di interi palazzi). Inoltre
ha garantito il taglio dei finanziamenti federali agli Stati che non
collaborano con le sue nuove politiche. Parlando dal palco della Convenzione
Nazionale Repubblicana, Homan ha dichiarato che Trump designerà i cartelli
messicani come una “organizzazione terroristica” per il loro ruolo
nel traffico di fentanyl attraverso il confine, avvertendo: “Vi
cancellerà dalla faccia della Terra.” – riferendosi a Trump.
Homan ha espresso disprezzo verso le città santuario, come New York, Los
Angeles, Denver, e molte altre, ossia quelle giurisdizioni che adottano
politiche volte a non sanzionare l’immigrazione illegale. Ha espresso la speranza che la polizia locale di
queste città collabori con la nuova amministrazione, sottolineando con forza
come, in passato, Trump abbia utilizzato il Dipartimento di Giustizia per
imporre le proprie politiche in questo ambito.
“Le città
santuario sono santuari per criminali,” ha dichiarato Homan a Fox News. L’immigrazione è stata uno dei punti
fondamentali in questa campagna elettorale e l’ex presidente ha promesso più
volte di deportare milioni di immigrati senza documenti. In una recente
intervista alla CBS, alla domanda se intenda separare nuovamente le famiglie
come accaduto nel 2018, evento che suscitò un’ondata di critiche a livello
nazionale, Homan ha dichiarato che “le famiglie possono essere
deportate al completo“. Ha inoltre sottolineato che l’operazione
sarebbe mirata, pur riconoscendo che i dettagli su come verrà attuata devono
ancora essere definiti. “Non sarà
una retata di massa quartiere per quartiere. Non sarà la costruzione di campi
di concentramento, – holetto di
tutto – È ridicolo,” ha detto Homan alla CBS.
La strategia russa: offensiva (azione e interferenza), difensiva e deterrente. Diplomazia digitale, guerra informatica e intelligenza artificiale nella competizione globale.
di Claudio Bertolotti.
Abstract
Questo articolo
esplora la strategia russa di diplomazia digitale, guerra informatica e uso
dell’intelligenza artificiale (AI) come strumenti fondamentali nella
competizione globale. La soft diplomacy russa, inizialmente accolta con favore,
ha subito evoluzioni altalenanti a causa di campagne informative che hanno
danneggiato l’immagine internazionale del paese. Negli ultimi anni, la Russia
ha sviluppato una “diplomazia digitale” per influenzare l’opinione
pubblica internazionale, sfruttando strumenti come i social media per
diffondere messaggi polarizzanti e notizie alternative. Parallelamente, il
paese ha potenziato le sue capacità di guerra informatica, considerandola una
componente essenziale delle operazioni di informazione e un mezzo per
raggiungere un equilibrio militare asimmetrico contro l’Occidente. L’uso
dell’AI amplifica queste operazioni, consentendo la creazione di
disinformazione su vasta scala e potenziando tecniche di spionaggio e attacchi
cibernetici, con l’obiettivo di destabilizzare gli avversari e consolidare
l’influenza russa a livello globale.
Soft
diplomacy
pubblica, diplomazia digitale e operazioni informatiche
All’inizio del 21° secolo, l’affermarsi della soft diplomacy pubblica russa è stata
accolta con ottimismo sia dagli analisti che dall’opinione pubblica
internazionale. Tuttavia, successivamente, la diplomazia pubblica russa ha
attraversato diverse fasi altalenanti a causa di campagne informative che hanno
danneggiato l’immagine della Russia a livello globale, in particolare dopo il
conflitto russo-georgiano del 2008.
Un altro aspetto significativo legato al progresso digitale
dell’informazione è l’uso crescente della guerra dell’informazione, ora
potenziata dall’intelligenza artificiale, che è diventata un fattore cruciale
nel raggiungimento di obiettivi strategici.[3]
La strategia e la dottrina russe hanno sempre attribuito
grande importanza alla sicurezza informatica e alle operazioni cibernetiche,
considerandole una parte essenziale delle più ampie operazioni di informazione.
Questo approccio rende spesso indistinguibile la linea di confine tra capacità
militari e civili, poiché entrambe collaborano all’interno della strategia
nazionale complessiva. Le principali agenzie informatiche russe, infatti,
partecipano attivamente, anche ai più alti livelli, all’interno del Consiglio
di sicurezza del governo, che include membri come il ministro della Difesa, il
capo del Servizio di sicurezza federale (FSB) e il capo di stato maggiore
generale.
La dottrina militare del 2015, che ha preceduto la dottrina
per la sicurezza informatica del 2016, sottolinea l’importanza della protezione
dello spazio cibernetico come parte integrante della sicurezza nazionale russa,
affidando questo compito alle forze armate. In linea con questa dottrina, nel
2017 la Russia ha istituito “unità per le operazioni di informazione”,
inizialmente concepite per la difesa del cyberspazio, ma che hanno rapidamente
assunto un ruolo più ampio, includendo attività di informazione tradizionali e
operazioni psicologiche. La “Direzione Principale dello Stato Maggiore” (GU),
precedentemente nota come GRU, insieme ai suoi comandi subordinati, come l’85°
Centro Servizi Speciali Principali (Unità 26165) e il 72° Centro Servizi
Speciali (Unità 54777), sotto il diretto controllo del capo di stato maggiore
delle forze armate russe, è considerata l’entità principale responsabile delle
operazioni cibernetiche offensive e di influenza.
Figura 1.
Evoluzione della Diplomazia russa e delle operazioni informatiche.
Il grafico in Figura 1 rappresenta l’evoluzione della diplomazia russa e delle
operazioni informatiche, mostrando come queste siano diventate sempre più
influenti nel tempo. Le fasi temporali sono così illustrate:
Prima fase: inizio del 21° secolo –
Introduzione della soft diplomacy
pubblica.
Seconda fase: 2008-2012 – Sviluppo
della diplomazia digitale e delle prime operazioni informatiche, specialmente
dopo il conflitto russo-georgiano.
Terza fase: 2013-Presente –
Consolidamento e intensificazione delle operazioni informatiche e
dell’influenza attraverso la diplomazia digitale, potenziate dall’intelligenza
artificiale.
Il grafico evidenzia un aumento
progressivo del livello di influenza di queste strategie nel contesto globale.
La diplomazia pubblica della Russia: tra strategia
e meccanismi
La diplomazia pubblica russa contemporanea si fonda sulla
strategia di politica estera delineata nel 2013. In un articolo intitolato
“Russia and the Changing World“,
pubblicato nel febbraio 2012, il presidente russo Vladimir Putin ha definito il
soft power come un insieme di
strumenti e metodi per conseguire obiettivi di politica estera senza ricorrere
all’uso di armi o altre forme di pressione, con un’enfasi particolare
sull’utilizzo della leva finanziaria.[4] In linea con questa visione, il
“Concetto di politica estera della Federazione Russa”, approvato da
Putin nel febbraio 2013, dichiara che il soft
power, un insieme completo di strumenti per il raggiungimento degli
obiettivi di politica estera basato sul potenziale della società civile,
dell’informazione, e su metodi e tecnologie culturali alternativi alla
diplomazia tradizionale, è diventato una componente essenziale nelle relazioni
internazionali contemporanee.
Tuttavia, l’intensificazione della competizione globale e
l’aumento del rischio di crisi possono talvolta portare a un uso distorto e
illegale del soft power e dei diritti
umani «per esercitare pressioni politiche sui paesi sovrani, interferire nei
loro affari interni, destabilizzare la situazione politica e manipolare
l’opinione pubblica, anche attraverso il finanziamento di progetti culturali e
sui diritti umani».[5] La
citazione inquadra molto bene l’atteggiamento della Russia verso il concetto di
soft power, inteso come motore delle cosiddette “rivoluzioni
colorate” e delle attività dell’Occidente che la Russia considera sfavorevoli
per sé stessa. Russia che, nello sviluppo della propria diplomazia pubblica, ha
fatto ampio utilizzo degli strumenti d’influenza per condizionare la vita
politica di paesi terzi.[6]
Con queste ambizioni, nel 2010 la Russia ha creato due
agenzie diplomatiche: il “Russian World”, focalizzato sulla diffusione della
lingua russa, e il “Fondo Alexander Gorchakov per la Diplomazia Pubblica”.
Inoltre, già nel 2008, all’interno del ministero degli Affari Esteri era stata
istituita la Divisione Rossotrudnichestvo,
l’Agenzia federale responsabile degli affari della Comunità degli Stati
Indipendenti, dei compatrioti all’estero e della cooperazione umanitaria
internazionale. Questa agenzia si occupa dei russi e delle comunità di lingua
russa all’estero. Nel 2020, Rossotrudnichestvo
ha ampliato la sua struttura aggiungendo dipartimenti dedicati all’informazione
e alla sicurezza informatica, alla scienza e all’istruzione, e agli aiuti
esteri.
Nel complesso, l’approccio russo alla diplomazia pubblica
mostra una continua evoluzione nella comunicazione strategica e nel marketing
politico di Mosca, in cui strumenti come messaggi mirati, tweet, e il coinvolgimento del pubblico diventano sempre più
centrali, sia nella comunicazione tradizionale che in quella digitale.[7]
L’influenza russa attraverso la diffusione di informazioni è
limitata dalla scarsa accessibilità e penetrazione dei contenuti in lingua
russa, soprattutto in Europa e negli Stati Uniti. Per superare questo ostacolo,
la Russia sta efficacemente potenziando le sue capacità di azione e
penetrazione nel cyberspazio. Considerando le pressioni politiche e
l’inefficacia della diplomazia culturale tradizionale russa, è la diplomazia
digitale e dei dati che viene utilizzata come strumento per diffondere
“notizie alternative” nei paesi di interesse per il Cremlino. In
questo contesto, i messaggi politici e le comunicazioni divisive sono mirati a
polarizzare le opinioni pubbliche nazionali tramite social network come Facebook, Twitter e YouTube, utilizzati come
strumenti di guerra informativa da utenti registrati in Russia.[8]
Attraverso questi strumenti, la diplomazia pubblica russa ha intensificato i
suoi sforzi durante la pandemia da Covid-19, sfruttando il supporto umanitario
russo per presentarsi in modo credibile alle opinioni pubbliche straniere.
Paesi come la Serbia nei Balcani, la Siria in Medio Oriente, il Venezuela in
America Latina e persino l’Italia nell’Unione Europea hanno ricevuto aiuti
russi, la cui portata è stata promossa sui social
network attraverso una campagna propagandistica ben organizzata ed
efficace.
Information
warfare, artificial
intelligence e la competizione con la Nato
Come discusso, la Russia percepisce l’Occidente come una
minaccia. Questo punto di vista è stato ribadito dal capo di stato maggiore
generale delle forze armate russe, Valery Gerasimov, nell’aprile 2019, quando
ha sottolineato il pericolo rappresentato dall’espansione della NATO verso i
confini russi e dai tentativi occidentali di destabilizzare il governo del
presidente Putin attraverso l’uso della “guerra ibrida”.[9]
Questa percezione è ulteriormente rafforzata dalla
consapevolezza della debolezza delle forze armate convenzionali russe, ritenute
non sufficientemente preparate per affrontare un eventuale conflitto con la
NATO. I vertici militari russi credono fermamente che sia essenziale evitare
una guerra convenzionale, preferendo spostare il confronto sul piano
cibernetico per raggiungere un equilibrio militare asimmetrico. Questa
strategia è attivamente perseguita dal Cremlino per garantire alla Russia un
vantaggio militare capace di contrastare le ambizioni dell’Alleanza Atlantica,
senza dover ricorrere all’uso della forza cinetica convenzionale.
L’approccio russo può essere descritto come una forma di
“dissuasione strategica”, o come ha indicato lo stesso Gerasimov, una
“strategia di difesa attiva”, nota in Occidente come “guerra
ibrida” o “attività sotto soglia”. Questo concetto si basa su
operazioni non cinetiche mirate a indebolire, nel lungo termine, i potenziali
avversari durante il tempo di pace, creando divisioni politiche e sociali al
loro interno per minare la risolutezza e la capacità decisionale strategica
dello Stato bersaglio. Gli obiettivi principali sarebbero i paesi fortemente
anti-russi, in particolare quelli situati sul fianco orientale della NATO, dove
la Russia potrebbe concentrare un’intensa guerra d’informazione per provocare
cambiamenti politici significativi. In questo modo, la Russia potrebbe
perseguire la sua dottrina di “autoaffermazione sovrana” e ottenere
maggiore libertà di azione in regioni critiche come la Siria, il Medio Oriente
e l’Africa. Queste misure preventive potrebbero anche servire a ostacolare
qualsiasi decisione collettiva della NATO, compresa l’eventualità di un
intervento diretto contro Mosca.[10] In
linea con questa lettura, in occasione dell’avvio della guerra russo-ucraina nel
febbraio 2022 è stata registrata un’ondata di azioni per penetrare le reti
della Nato all’inizio del conflitto, una precauzione ragionevole dal punto di
vista russo, dato il timore di un possibile intervento dell’Alleanza a supporto
di Kiev.
Information Warfare e Intelligenza Artificiale (AI)
Come già menzionato, Gerasimov ha sottolineato l’importanza
crescente dell’informazione per neutralizzare gli oppositori dello Stato, sia
interni che esterni. Secondo Gerasimov, «le tecnologie dell’informazione»
stanno diventando «uno dei tipi di armi più promettenti» da impiegare contro
altri paesi. Per questo motivo, egli afferma che «lo studio dei temi legati
alla preparazione e alla conduzione delle azioni di informazione è il compito
più importante della scienza militare».
Con questo approccio, la Russia ha dato priorità allo
sviluppo di operazioni informative avanzate piuttosto che all’espansione di
armi convenzionali, come carri armati o sistemi missilistici, poiché oggi le
“tecnologie dell’informazione” possono essere notevolmente potenziate
dall’intelligenza artificiale (AI).[11]
Il pensiero delle forze armate russe riguardo allo sviluppo e all’impiego
dell’intelligenza artificiale in ambito militare si focalizza sui vantaggi che
essa può offrire nel supporto alle operazioni militari. Questi vantaggi spaziano
dal miglioramento dei sistemi autonomi e di altre tecnologie militari fino alla
gestione dell’informazione, in particolare a livello strategico globale. In
questo contesto, l’intelligenza artificiale agisce come un amplificatore,
potenziando le operazioni di disinformazione attraverso la diffusione
intenzionale di notizie false e ingannevoli, con l’obiettivo di influenzare
politiche e società e di creare instabilità su larga scala mediante la
manipolazione delle informazioni e attività cibernetiche.[12]
Durante la crisi in Ucraina, la Russia avrebbe messo in atto
un’ampia campagna di operazioni informative mirate a influenzare l’opinione
pubblica e a creare confusione nello spazio dell’informazione, diffondendo una
combinazione di informazioni vere, parzialmente vere e false per renderle
credibili. Un esempio significativo di questi sforzi è rappresentato dai più di
65.000 tweet diffusi da falsi account
russi nelle ventiquattr’ore successive all’abbattimento del volo MH-17 della
Malaysia Airlines il 17 luglio 2014, con l’obiettivo di attribuire la colpa
dell’incidente al governo ucraino. Inoltre, durante l’annessione della Crimea,
le forze russe avrebbero oscurato nove canali televisivi ucraini in Crimea,
sostituendoli con emittenti televisive russe per silenziare i media
filo-governativi ucraini:[13]
un fatto che confermerebbe la condotta di azioni di guerra elettronica (Electronic
warfare, EW) come fattore abilitante per le operazioni di informazione.[14]
Le azioni menzionate evidenziano la
determinazione della Russia a migliorare e intensificare le proprie capacità
nel contesto della guerra informatica, che all’interno della dottrina militare
russa è considerata una componente della più ampia guerra dell’informazione. La
minaccia strategica posta dalla guerra informatica potenziata dall’intelligenza
artificiale sarà particolarmente pericolosa, poiché gli strumenti informatici
diventeranno sempre più capaci di generare disinformazione dettagliata e
credibile (inclusi i “deep fake“[15]) in volumi tali da rendere estremamente difficile distinguere la verità
reale da un’enorme quantità di informazioni contrastanti.[16] L’AI consentirà di saturare lo spazio informativo con dati artificiali,
creando una “verità virtuale” che potrà confondere e destabilizzare
gli avversari, aprendo la strada a una possibile “guerra cognitiva” che
la Russia potrebbe dominare.
Un altro aspetto cruciale della
guerra informatica riguarda il piano tecnico: lo spionaggio, l’installazione di
malware, la distruzione selettiva e, in particolare, la ricerca di
vulnerabilità nei sistemi informatici degli avversari. Con l’avvento dell’AI,
queste tecniche cibernetiche diventeranno sempre più efficaci, permettendo di
individuare le debolezze dei sistemi IT avversari con maggiore rapidità.[17]
Figura 2.
Evoluzione dell’importanza della sicurezza informatica nella strategia russa.
Il grafico
rappresenta l’evoluzione dell’importanza attribuita alla sicurezza informatica
e alle operazioni cibernetiche nella strategia russa nel corso degli anni. Il
grafico mostra un aumento significativo dell’enfasi sulla sicurezza informatica
dal 2010 al 2020, indicando la sua crescente priorità nella pianificazione
strategica della Russia.
[1] J. Fieke, Digital Activism in
the Middle East: Mapping Issue Networks in Egypt, “Knowledge Management for
Development Journal” 6 (1), 2010, pp. 37–52.
[2] N. Tsvetkova, D. Rushchin, (2021), Russia’s Public Diplomacy: From Soft Power
to Strategic Communication, Journal of Political Marketing. 20. 1-12.
10.1080/15377857.2020.1869845.
[3] R. Thornton & M. Miron, Towards
the ‘Third Revolution in Military Affairs’, The RUSI Journal, 165:3, 2020,
pp. 12-21, DOI: 10.1080/03071847.2020.1765514:
https://doi.org/10.1080/03071847.2020.1765514.
[4] V. Putin (2012), Russia and the
Changing World, “Rossiyskaya Gaseta”. Accessed October 20, 2020.
[5] A. Sergunin, L. Karabeshkin, Understanding
Russia’s Soft Power Strategy, “Politics” 35
(3–4):347–63,
2015.
[6] U.S. Congress. 2015. “U.S.
Senate Committee on the Judiciary. Extremist Content and Russian Disinformation
Online:
Working with Tech to Find Solutions.”. In: https://www.judiciary.senate.gov/meetings/extremist-content-and-russian-disinformation-online-working-with-tech-to-find-solutions
(ultimo accesso 21 luglio 2021).
[7] N. Tsvetkova & D. Rushchin, Russia’s
Public Diplomacy…, cit.
[8] J. Bērziņš (2014), Russia’s
New Generation Warfare in Ukraine: Implications for Latvian Defense Policy,
Policy Paper No 02, (Riga: National Defence Academy of Latvian Center for
Security and Strategic Research, April 2014), 5.
[9] V. Gerasimov, Vektory Razvitiya
Voyennoy Strategii [“The Vectors of Military Strategic Development”],
“Krasnaya Zvezda” [Red Star], 3 aprile 2019, in
http://redstar.ru/vektory-razvitiya-voennoj-strategii/.
[10] R. Thornton & M. Miron, Towards
the ‘Third Revolution…, cit.
[13] Office of the UN High Commissioner
for Human Rights, ‘Report on the Human Rights Situation in Ukraine’, 15
July 2014, p. 31. In:
https://www.ohchr.org/Documents/Countries/UA/Ukraine_Report_15July2014.pdf
(ultimo accesso 21 luglio 2021).
[14] D. McCrory (2021), Russian
Electronic Warfare, Cyber and Information Operations in Ukraine, “The RUSI
Journal”, 2021, pp –.
[15]Deepfake: tecnica per la rielaborazione
dell’immagine umana basata sull’intelligenza artificiale, usata per combinare e
sovrapporre immagini e video esistenti con altri video, o immagini originali,
tramite una tecnica di apprendimento automatico, nota come rete antagonista
generativa.
[16] R. Thornton &
M. Miron, Towards the ‘Third Revolution…, cit.
Elezioni USA: la vittoria (di Trump) e le sconfitte (di democratici e stampa)
di Melissa de Teffè.
Ieri sera, durante una lunga maratona di interviste al quartier generale di Trump a Mar-a-Lago, il celebre giornalista conservatore Tucker Carlsonha posto a Elon Musk una domanda diretta: “perché ha deciso di sostenere Trump?” – La risposta di Musk non ha lasciato spazio a dubbi: “Quando vedi una persona sotto tiro e osservi la sua reazione, capisci subito se ha coraggio o è una codarda. La pallottola lo aveva colpito, c’era sangue che gli colava sul viso, e avrebbe potuto esserci un secondo tiratore. Invece ha gridato: ‘Combattiamo, combattiamo, combattiamo’. Quello è vero coraggio. L’America (come dice l’inno, ndt) è la terra degli uomini liberi e la casa dei valorosi, e noi vogliamo come Presidente un uomo coraggioso”.
Ma cosa ha portato Trump alla vittoria?
Diversi elementi e strategie vincenti si sono sommati, rendendo questa campagna elettorale efficace. Innanzitutto, i lunghi podcast sia di Trump sia del suo vicepresidente J.D. Vance, uomo brillante e preparato, che insieme ai membri del loro team, hanno consentito al pubblico di conoscere soluzioni chiare e concrete, sui temi che più hanno interessato gli elettori: inflazione, economia, guerra. Questo approccio , nonostante le frasi a volte “pazze” di Trump, ha avvicinato candidato ed elettori. Vivek, Bob Kennedy, Gabbard, Musk, non si sono risparmiati presentandosi ovunque, come ad esempio presso le università, rispondendo liberamente e senza filtri alle domande dei ragazzi, illustrando apertamente il programma politico e le soluzioni offerte ai vari problemi del paese.
In contrasto, la vicepresidente Kamala Harris non è riuscita a connettersi empaticamente con l’elettorato, concentrandosi troppo su temi come l’aborto, che ovviamente prevedeva un focalizzarsi su un solo segmento della popolazione e senza mai riuscire a spiegare cos’altro proponesse.
Un altro punto di forza è stato presentare un team di governo già delineato: Bob Kennedy Jr. come ministro della Salute, Elon Musk come responsabile per semplificare la burocrazia governativa, Vivek Ramaswamy, imprenditore brillante e figlio di immigrati indiani, e Tulsi Gabbard, deputata delle Hawaii e riservista delle Forze Armate. Volti, nomi e competenze specifiche che hanno dato al pubblico sicurezza e fiducia, nomi, volti, certezze.
Infine, Trump ha rassicurato la popolazione sul fatto che farà il possibile per risolvere i due conflitti internazionali in corso, un’idea in netta contrapposizione con le posizioni espresse da Harris e Biden, che non sono riusciti a dissipare il timore di una possibile escalation verso una terza guerra mondiale.
Le grandi sconfitte: Harris e la stampa
Il primo grande perdente è stata ovviamente la vicepresidente Kamala Harris, il cui team non ha saputo creare e farle dire quali fossero le sue scelte politiche in primis e quali, essendo lei vicepresidente, le differenze con Biden.
Sono stai due i momenti significativi che hanno indebolito il consenso intorno a lei. Il primo, a settembre durante un’intervista con Oprah Winfrey, peraltro in un contesto assai amichevole, la Harris ha dichiarato di essere favorevole alla costruzione del muro di Trump, un dietrofront netto e sorprendente. La sua risposta, lunga e articolata, non è riuscita ad offrire nuove politiche per la gestione della crisi alla frontiera.
L’altro colpo di scena è stato quando ha dichiarato di essere pro il secondo emendamento della costituzione che recita il diritto al porto d’armi, d’averlo e che se un estraneo fosse apparso nella sua residenza gli avrebbe sparato senza esitazione. Anche questo un punto cruciale da sempre una delle roccaforti repubblicane. Un altro passo falso è stato durante la sua apparizione a The View, dove, in un contesto amichevole, ha faticato a rispondere su cosa farebbe di diverso da Biden. “Non mi viene in mente nulla,” ha dichiarato Harris, lasciando perplessi gli spettatori.
Anche la stampa ha subito una grande sconfitta. I reportage di parte, la mancanza di giornalismo investigativo e le critiche incessanti su Trump e il suo team, hanno fatto emergere un giornalismo meno oggettivo e più editoriale. Pochi media si sono limitati a riportare i fatti senza aggiungere commenti, e solo raramente si è visto un approfondimento su dettagli rilevanti, come i cambiamenti di opinione di personaggi influenti e gli interessi economici che li sostengono, senza indulgere in dietrologie esasperanti e spesso superflue. Mentre siamo stati ampiamente informati sui processi di Trump, nessuno ha indagato a fondo sulla biografia di Harris, arrivata al ruolo di Procuratore Generale della California anche grazie alla sua lunga relazione con il sindaco “sposato” di San Francisco, oppure che la foto della nonna insieme a lei nella sua autobiografia non sarebbe autentica, come riportato dalla giornalista Candance Owens in una conversazione con alcuni parenti della stessa Harris.
Secondo un sondaggio Gallup, la fiducia nei media è crollata drasticamente al 32%, con un pubblico sempre più scettico sulla capacità dei giornali di riportare le notizie in modo completo, equo e accurato. Cambierà quindi l’atteggiamento dei media? Secondo la Fondazione Pew, “giornali e televisione hanno registrato perdite nelle entrate pubblicitarie” proprio per aver registrato un audience sempre più piccola.
Altri vincitori: il Congresso e i governatori
Insieme alle presidenziali, le elezioni includevano seggi per il Senato, la Camera dei deputati e undici governatori. Il Senato ha già acquisito una maggioranza repubblicana, mentre per la Camera è ancora in bilico. Dei governatori in corsa, sappiamo già che sette sono repubblicani e quattro democratici. Gli stati interessati sono: Delaware, Indiana, Missouri, Montana, New Hampshire, North Carolina, North Dakota, Utah, Vermont, Washington e West Virginia.
In conclusione, la vittoria di Trump appare come il frutto di strategie ben mirate e di un messaggio chiaro, mentre la sconfitta di Harris e il calo di fiducia nei media riflettono le difficoltà di una campagna che non ha saputo conquistare né chiarire agli elettori un’alternativa solida.
Elezioni USA: lo stato dell’Unione, dal 1948 al 2024.
di Melissa de Teffè.
“È inutile preoccuparsi troppo per la riduzione delle tasse, finché non avremo raggiunto alcuni degli obiettivi che dobbiamo raggiungere. Dirò loro (la gente ai comizi ndt) che la nazione più ricca del mondo è un fallimento se non è anche la più sana del mondo. Questo significa la migliore assistenza medica per le fasce di reddito più basse… E dirò loro che il sogno americano non è fare soldi. È il benessere e la libertà dell’individuo in tutto il mondo, dalla Patagonia a Detroit… E dirò loro che esiste un solo governo capace di gestire il controllo atomico, il disarmo mondiale, l’occupazione globale, la pace mondiale, e questo è un governo mondiale. Gli abitanti di 13 stati fondarono gli Stati Uniti d’America. Bene, penso che ora i cittadini di altrettante nazioni siano pronti a fondare gli Stati Uniti del Mondo, e intendo veramente gli Stati Uniti del Mondo, con una carta dei diritti, una legge internazionale, una moneta internazionale, una cittadinanza internazionale, e dirò loro che la fratellanza umana non è solo un sogno idealistico, ma una necessità pratica se l’umanità vuole sopravvivere.”
Questa, una parte del dialogo di Grant Matthews, impersonato da Spencer Tracy nel film di Frank Capra, un milionario americano reclutato forzatamente nel 1948 come candidato presidenziale repubblicano contro Truman ( potete vederlo qui in originale su Youtube).
Non è cambiato nulla da allora ad oggi. Nonostante tutti dicano che queste sono le elezioni più epocali del secolo, facendo i calcoli di Elon Musk, guardiamo a quella che è stato una delle tematiche scottanti nelle elezioni precedenti: la frode dei voti.
Venerdì scorso, il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha presentato una causa contro i funzionari elettorali della Virginia, accusando lo Stato di rimuovere nomi dagli elenchi degli elettori in violazione della legge elettorale federale.
La denuncia, depositata presso la Corte Distrettuale degli Stati Uniti ad Alexandria, Virginia, sostiene che un ordine esecutivo emesso ad agosto dal governatore repubblicano Glenn Youngkin, il quale pretende aggiornamenti quotidiani delle liste elettorali per rimuovere elettori non idonei, violi la legge federale. Secondo il National Voter Registration Act è necessario un “periodo di silenzio” di 90 giorni prima delle elezioni per gestire gli elenchi elettorali.
“Il Congresso ha inserito un periodo di silenzio nel National Voter Registration Act per evitare azioni dell’ultimo minuto, che possano privare ingiustamente il diritto di voto agli elettori qualificati,” ha dichiarato Kristen Clarke, Assistente del Procuratore Generale degli Stati Uniti. “Il diritto di voto è il fondamento della nostra democrazia, e il Dipartimento di Giustizia continuerà a garantire la protezione dei diritti degli elettori qualificati.” Il 22 ottobre, la Corte Suprema della Georgia ha confermato la decisione di un tribunale inferiore di bloccare l’entrata in vigore di nuove regole di voto—come l’obbligo di conteggio manuale delle schede elettorali e altre disposizioni che, secondo i Democratici, avrebbero potuto ritardare la certificazione dei risultati elettorali—il che significa che, mentre il contenzioso continuerà, le regole non saranno in vigore durante le elezioni generali.
Il 21 ottobre, giudici in Michigan e nella Carolina del Nord hanno respinto le cause legali presentate dal Comitato Nazionale Repubblicano (RNC) contro quegli elettori all’estero che votano come residenti di questi stati anche se non sono mai stati residenti, ma ci abitano i genitori, o il coniuge. Il giudice del Michigan ha definito l’azione un “tentativo dell’ultimo minuto per privare quegli elettori del diritto al voto.”
Mentre entrambe le parti si muovono su diversi fronti – da un lato organizzando comizi negli Stati incerti, i cosiddetti “swing States”, dall’altro avviando cause legali per ottenere situazioni il più favorevoli possibile – emergono due importanti novità. La prima, sorprendente per molti, è che il Los Angeles Times e il Washington Post hanno scelto di non appoggiare ufficialmente nessuno dei due partiti, recuperando un’imparzialità che la stampa avrebbe sempre dovuto mantenere, ma che era stata abbandonata ormai da decenni. In risposta a questa decisione da parte della proprietà, il direttore del Los Angeles Times ha rassegnato le dimissioni, insieme ad altri giornalisti come Greene. Robert Greene e altri, hanno annunciato le loro dimissioni giovedì, il giorno dopo che Mariel Garza, direttore editorialista, si è dimessa in protesta alla decisione della proprietà, il Dr. Patrick Soon-Shiong, di non sostenere alcun candidato.
Greene, vincitore del Premio Pulitzer per alcuni dei suoi editoriali, scrive nel Columbia Journalism Review di essere “profondamente deluso” dalla decisione di non appoggiare la Harris. – “Riconosco che spetta alla proprietà prendere questa decisione,” – ha scritto. “Ma è stato particolarmente doloroso perché Donald Trump, ha dimostrato ostilità verso i princìpi fondamentali del giornalismo — il rispetto per la verità e riverenza per la democrazia.”
Anche altri giornalisti del Washington Post hanno dato le dimissioni dopo l’annuncio di Jeff Bezos di allinearsi alla scelta del Times. “Il nostro compito al Washington Post è fornire attraverso la redazione notizie imparziali per tutti gli americani e opinioni stimolanti, basate su reportage, dal nostro team editoriale per aiutare i lettori a formarsi un’opinione,” ha dichiarato William Lewis, editore e CEO del giornale. Durante la corsa presidenziale del 2016, Jeff Bezos, proprietario del Washington Post, avrebbe impartito al direttivo del giornale l’ordine di cercare qualsiasi notizia in grado di danneggiare Donald Trump e di esaltare Hillary Clinton. Oggi, la domanda che molti si pongono è se Bezos si sia ravveduto o se questa mossa sia dettata dalla necessità di tutelare i propri interessi economici, in risposta a potenziali ritorsioni. È importante notare che tali ritorsioni si sono già manifestate: numerosi lettori hanno infatti deciso di annullare il proprio abbonamento.
Da un’osservazione esterna, emerge che il giornalismo investigativo sembra oggi relegato a pochi professionisti che hanno abbandonato le sicurezze offerte dai grandi gruppi mediatici, sia nel settore della stampa che della televisione, per avviare iniziative indipendenti. Questi giornalisti, attraverso piattaforme come YouTube o canali televisivi privati, cercano di fornire un’informazione alternativa a quella predominante. Tra di loro, Candace Owens ha intrapreso un’indagine approfondita sulle origini della vice presidente Kamala Harris. Owens sostiene di aver scoperto che Harris, contrariamente a quanto affermato, è nata in una famiglia molto benestante e non ha alcuna provenienza genealogica con la comunità di colore. Per cui rileggendo le affermazioni di Green viene spontaneo chiedersi perchè queste informazioni non sono state condivise da questa stampa preparata e privilegiata, ma solo una persona in tutto il paese, sembra essersi dedicata a fare ricerca?
Concludo condividendo alcuni fatti vissuti durante un lungo viaggio attraverso vari stati del West degli Stati Uniti. Ho osservato da vicino l’ampia presenza di senzatetto e il profondo senso di sofferenza che caratterizza le strade. La disparità economica tra ricchi e poveri è palpabile: da un lato ci sono famiglie che possiedono tre o quattro ville, spesso utilizzate solo in occasioni speciali o lasciate vuote, mentre dall’altro lato molti vivono in condizioni precarie, con difficoltà non solo ad acquistare beni di prima necessità a causa dei prezzi elevati, ma anche a fronteggiare stipendi che non coprono il costo della vita.
Le spese per elettricità, carburante e alimentari sono in aumento, e le difficoltà economiche si avvertono tanto in America come in Europa. Nelle città, i senzatetto sono veramente tanti,si muovono come ombre, avvolti in felpe che nascondono volutamente i loro volti, privandosi visivamente di identità e descrizione. Tanti vagano con le loro borse in spalla e molti altri si trovano ai semafori con pezzi di cartone su cui chiedono aiuto.
Sebbene non esista una soluzione semplice a questa crisi, è chiaro che un approccio meno spietato nella ricerca del profitto potrebbe contribuire a un miglioramento generale per tutti. Come gocce d’acqua che formano un mare, così piccoli cambiamenti nella mentalità potrebbero fare la differenza. Meno avidità e più generosità farebbero miracoli.
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