intelligence_AI

La nuova strategia di intelligence USA: implicazioni per il Sistema di Informazioni e Sicurezza della Repubblica.

di Niccolò Petrelli, START InSight, Assistant Professor, Strategic Studies

Nell’Agosto 2023 l’US Office of the Director of National Intelligence (ODNI) ha pubblicato una National Intelligence Strategy (NIS) incentrata sulla nuova era di competizione con la Cina che nel corso degli ultimi mesi ha iniziato ad essere attuata.[1] Uno degli elementi centrali del documento, che essenzialmente delinea la visione per il futuro dell’ODNI più che una vera e propria strategia, è la decisione di rafforzare ed espandere la rete internazionale di “collegamenti” con altri servizi informativi (nonché con vari tipi di attori privati).[2] Quale l’eventuale impatto sul Sistema di Informazioni e Sicurezza della Repubblica (SISR)? Esiste la possibilità che la strategia di collegamento USA si traduca in opportunità per il sistema d’intelligence italiano?

Per rispondere a queste domande è possibile partire da un precedente analogo nella storia dell’intelligence USA. Tra la seconda metà del 1945 e la prima metà del 1947 infatti, l’emergere della competizione con l’Unione Sovietica spinse l’apparato informativo statunitense ad investire in maniera sistematica risorse, capacità, expertise, e relazioni personali nella creazione di una massiccia e stratificata infrastruttura di collegamenti con i servizi segreti di numerosi paesi dell’Europa occidentale.[3] In un primo momento a guidare tale strategia furono principalmente requisiti di “accesso” e ampliamento della raccolta informativa sull’URSS e i suoi “alleati” in Europa orientale: i paesi dell’Europa occidentale rappresentavano infatti quella che potremmo definire la più valida “piattaforma” per accedere a tali obiettivi informativi. Nel 1946 ad esempio fu raggiunto un tacito accordo in base al quale la MUST e la FRA, le due agenzie di intelligence militare svedesi, iniziarono a passare all’intelligence USA tutti le informazioni di HUMINT e SIGINT sulle attività militari sovietiche nella regione baltica in cambio di finanziamenti e equipaggiamento per la raccolta informativa tecnica. Un altro esempio, più noto, è quello dell’accordo UKUSA, sempre del 1946, in base a cui la State-Army-Navy Communications Intelligence Board degli Stati Uniti e la London SIGINT Board si impegnavano a condividere ogni prodotto informativo di raccolta tecnica, mettendo di fatto in piedi una ripartizione del lavoro che l’ex direttore del Government Communications Headquarters (GCHQ) David Omand ha definito basata sui “soldi statunitensi e cervelli britannici”.[4]

La situazione iniziò tuttavia a cambiare approssimativamente dal 1949. L’intelligence americana modificò progressivamente la propria azione di collegamento, strutturandola in base alla percezione della natura della competizione prevalente a Washington, ovvero quella di un confronto in primo luogo politico-ideologico con l’URSS. Ciò si riteneva richiedesse una fusione dei paradigmi strategici di “guerra” e “pace” in uno sforzo unitario e coordinato di political warfare,[5] come la definì George Kennan. Tanto la CIA quanto le varie componenti dell’intelligence militare intensificarono dunque le proprie attività di collegamento in Europa occidentale promuovendo, in modi e forme diverse a seconda delle circostanze, lo sviluppo di tutte quelle capacità ritenute essenziali per gestire il nuovo tipo di confronto: propaganda, guerra psicologica, sostegno clandestino a forze politiche locali e, qualora necessario, contro-guerriglia.[6] In Germania ad esempio, oltre alla creazione di diverse reti stay-behind (S/B), documentazione recentemente declassificata ha gettato luce sul sostegno fornito dalla CIA e dall’intelligence militare USA per attività clandestine condotte dall’Organizzazione Gehlen (la prima struttura di intelligence di quella che sarebbe diventata la Repubblica Federale Tedesca), al fine di minare la stabilità della zona di occupazione sovietica della Germania.[7] Dove si rivelò più difficile cooperare ad ampio spettro con le controparti locali la comunità di intelligence statunitense combinò attività di collegamento ad operazioni clandestine. Un approccio di questo tipo fu adottato ad esempio in Italia, dove dalla fine della Seconda Guerra Mondiale l’intelligence americana operò simultaneamente a due diversi livelli: da un lato collaborando con i servizi segreti italiani, in particolare nel programma S/B, dall’altro sviluppando autonomamente reti clandestine per condurre attività di guerra psicologica, propaganda e destabilizzazione.

La strategia di collegamento USA generò dunque effetti trasformativi della struttura, capacità, e funzioni degli apparati informativi europei occidentali, rischi di vario tipo, basti pensare proprio al caso dell’Italia, ma anche opportunità, in particolare di beneficiare di finanziamenti, anche cospicui, nonché di forniture di equipaggiamento tecnologicamente avanzato. Non tutti i servizi europei occidentali tuttavia furono parimenti in grado di sfruttare tali opportunità. Ciò dipese da variabili di vario tipo legate al contesto, la natura delle relazioni diplomatiche con gli USA, il grado di fiducia esistente tra i decisori politici ed i vertici degli apparati informativi, la condizione politica prodotta dalla Seconda Guerra Mondiale e, non da ultimo, la posizione geografica dei vari paesi rispetto agli obiettivi informativi di prioritario interesse per la comunità d’intelligence USA. Di cruciale importanza furono tuttavia anche taluni fattori squisitamente materiali, ovvero il grado di “interoperabilità” con il sistema d’intelligence statunitense, l’adattabilità e funzionalità delle capacità, esistenti e potenziali, dei servizi dell’Europa occidentale rispetto alle missioni affidate al sistema d’intelligence USA nel quadro della political warfare nei confronti del blocco comunista, e da ultimo la complementarietà di capacità e competenze rispetto a quelle espresse dalle varie componenti del sistema USA.

Il GCHQ britannico fu ad esempio in grado, capitalizzando sulle proprie competenze specifiche in termini di analisi politica del sistema internazionale e crittoanalisi, nonché sulla “interoperabilità” tecnica con il sistema USA, di massimizzare i vantaggi derivanti dalla strategia di collegamento attuata dagli USA arrivando, come visto sopra, a siglare un accordo che garantiva accesso ad ogni prodotto (in teoria) di raccolta tecnica statunitense. L’intelligence svedese, da parte sua, riuscì, in particolare in virtù delle proprie autonome capacità di raccolta tecnica in un’area di cruciale importanza strategica per gli USA, ad assicurarsi finanziamenti e equipaggiamento per rafforzare un settore di raccolta prioritario per la sicurezza nazionale del paese. Il caso italiano dimostra invece come, nonostante l’abilità dimostrata in diverse circostanze dai vertici dell’apparato informativo nello sfruttare a proprio vantaggio la propensione USA ad intensificare i collegamenti, come ad esempio nel caso del programma congiunto S/B Italia-USA “Gladio” avviato nel 1951, limiti capacitivi impedirono di cogliere ulteriori potenziali opportunità. Infatti, le scarse competenze analitiche dell’intelligence italiana, in particolare sotto il profilo economico, sociologico e politologico, e la conseguente incapacità di sviluppare analisi ad ampio spettro della base di sostegno e infrastruttura sociale del Partito Comunista Italiano (PCI) contribuì in maniera non trascurabile a far sì che l’intelligence USA procedesse in maniera autonoma sia alla raccolta informativa che ad una serie di attività operative di contrasto nei confronti del PCI.[8] Allo stesso modo la mancanza di una solida capacità di raccolta SIGINT da parte dell’apparato informativo italiano precluse l’opportunità, intorno alla metà degli anni ’50, nel momento in cui Washington era particolarmente interessata a monitorare l’intensificazione dell’attività navale sovietica nel Mediterraneo, di estendere i collegamenti con il sistema d’intelligence USA a condizioni vantaggiose per l’Italia, e rappresentò molto probabilmente una delle ragioni alla base della creazione da parte statunitense nel 1960 di una struttura SIGINT gestita dall’Air Force Security Group (USAFSS) a San Vito dei Normanni.[9]

Basandoci su quanto sopra, si può ipotizzare che l’attuazione della strategia di collegamento delineata nella NIS 2023 presenterà per l’apparato informativo italiano, con buona probabilità, opportunità analoghe a quelle che emersero al principio della Guerra Fredda. Due sono dunque gli elementi su cui concentrare l’attenzione per comprendere come esse potrebbero essere sfruttate nella maniera più efficace: il primo è la percezione USA della natura della competizione con la Cina, il secondo sono le capacità (a livello aggregato) che i vertici dell’intelligence USA stanno sviluppando ed intendono promuovere per i prossimi anni.

Per quanto riguarda il primo elemento, dopo un periodo piuttosto lungo di dibattito, la natura della competizione con la Cina ha iniziato ad essere definita con maggiore precisione. Benché l’assunto di partenza rimanga quello di una competizione globale in ogni ambito, economico, politico, sociale, dell’informazione, e militare, è recentemente emerso un consenso sempre più ampio circa il fatto che la componente centrale di tale competizione sia di natura tecnologico-economica.[10] In altre parole, si ritiene che essa sia incentrata sulla creazione di un vantaggio competitivo duraturo nelle principali tecnologie di frontiera, intelligenza artificiale generale, microprocessori e reti di comunicazione di prossima generazione, produzione avanzata, stoccaggio e produzione di energie, biotecnologie, al fine di poter plasmare l’economia globale della prossima generazione e definire gli standard di accesso e impiego a tali tecnologie.[11]

In merito al secondo elemento, per comprendere il tipo di capacità che l’ODNI intende promuovere nella comunità d’intelligence USA è possibile fare riferimento alla nozione di Revolution in Intelligence Affairs (RIA), da alcuni anni ormai popolare nel dibattito professionale e politico USA sull’intelligence. Benché nella NIS non vi siano espliciti riferimenti al concetto, appare evidente come la RIA rappresenti il costrutto-guida de facto impiegato per coordinare una serie di trasformazioni, nel procurement e integrazione di nuove tecnologie, nella struttura organizzativa, e nelle procedure operative del sistema d’intelligence USA, al fine di porlo nelle condizioni migliori per affrontare le sfide dei prossimi decenni, in primis quelle legate alla competizione con la Cina.

La trasformazione immaginata dall’ODNI prevede di procedere in primo luogo all’acquisizione e integrazione su vasta scala di intelligenza artificiale, sensori all’avanguardia e tecnologie di automazione, evitando approcci incrementali o settoriali. Simultaneamente, alla luce della velocità, della scala, e della complessità a cui opereranno queste tecnologie, verranno promossi rapidi cambiamenti organizzativi e operativi volti ad agevolare forme di integrazione tra raccolta e analisi, promuovere ridondanza tra le varie fasi del ciclo di intelligence, nonché a creare meccanismi più rapidi per la diffusione in tempo reale dei prodotti informativi. In altre parole, si intende promuovere un modus operandi “a rete” per il sistema di intelligence basato sulla fusione completa dei flussi di dati prodotti da ogni tipo di sensori e piattaforme, la sincronia e integrazione di tutte le attività operative, e la trasmissione rapida e continua di prodotti a operatori umani, macchine e decisori in tutti i dominii.[12]  

Quali dunque le capacità e competenze su cui il SISR dovrebbe puntare per essere in grado di cogliere le opportunità generate dalla strategia di collegamento dell’intelligence USA? Essenziale è che esse rispondano alla percezione della competizione come di un confronto essenzialmente tecno-economico, e che siano complementari alle capacità espresse dal sistema d’intelligence USA.

In primo luogo dunque il SISR dovrebbe rafforzare le proprie capacità di raccolta e analisi in ambito economico e tecnologico. La questione non è nuova, il dibattito sul rafforzamento dell’intelligence economica risale agli anni 90, con il lavoro delle commissioni Ortona (1992) e Jucci (1997).[13] Approssimativamente nello stesso periodo inoltre in seno al Comitato Esecutivo per i Servizi di Informazione e Sicurezza (CESIS) fu attivato un “gruppo permanente per l’intelligence economica”. Di recente l’ex direttore del SISDE Mori ha rilanciato l’idea di un organismo collegiale dove siano rappresentati il Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza (DIS), le due agenzie (Aisi e Aise), i ministeri interessati e le associazioni degli imprenditori. Nel caso specifico tuttavia la questione chiave sarebbe, in coerenza con quello che è l’approccio USA all’intelligence economico-tecnologica, adottare una postura proattiva, che includa attività offensive su base continuativa nei confronti non solo della Cina e dei suoi principali partner economici e tecnologici, ma anche di imprese e enti privati riconducibili a quello che potremmo chiamare “l’ecosistema tecno-economico” cinese.

In secondo luogo, il SISR dovrebbe investire sullo sviluppo ulteriore delle proprie capacità operative in aree in cui gode di un vantaggio competitivo, ed in cui esse possano impiegarsi in maniera complementare a quelle del sistema d’intelligence statunitense. La scelta più logica appare l’area del Mediterraneo, dove da diversi decenni ormai il sistema d’intelligence italiano conduce attività operativa di ampio respiro. Proprio nel Mediterraneo infatti negli ultimi anni la Cina ha, con discrezione, ampliato la propria presenza attraverso grandi aziende private ​​(Shanghai International Port Group, China Merchants) e pubbliche (COSCO, China Communications and Construction Company) stipulando accordi commerciali di vario tipo, accordi per partecipazioni nei porti di paesi situati lungo rotte marittime vitali per la Belt and Road Initiative, e acquisendo aziende di medie dimensioni, spesso allo scopo di avere accesso a tecnologie Europee.[14]

Il necessario presupposto ovviamente, come evidenziano gli esempi di UK e Svezia durante la Guerra Fredda, è che il sistema d’intelligence italiano goda di un buon livello di “interoperabilità” con quello USA. Ciò, a sua volta, richiede che i vertici dell’apparato informativo proseguano, e auspicabilmente diano ulteriore impulso, a quel processo di acquisizione e integrazione di tecnologie dell’informazione di ultima generazione, sensori avanzati, Intelligenza Artificiale e sistemi di apprendimento automatico, che sembra essere iniziato da qualche anno.


[1] https://oversight.house.gov/wp-content/uploads/2024/05/05062024-ODNI-Letter.pdf.

[2] https://www.voanews.com/a/new-us-intelligence-strategy-calls-for-more-partners-more-sharing-/7220725.html

[3] Michael Warner AID

[4] https://media.defense.gov/2021/Jul/15/2002763709/-1/-1/0/AGREEMENT_OUTLINE_5MAR46.PDF; https://www.securityweek.com/britains-gchq-listening-post-tune-nsa.

[5] George F. Kennan, The Inauguration of Organized Political Warfare [Redacted Version], 30 aprile 1948, Woodrow Wilson Center, History and Public Policy Program Digital Archive, https://digitalarchive.wilsoncenter.org/document/114320.pdf?v=94.

[6] US Department of State, Foreign Relations of the United States, 1951, Vol. I, National Security Affairs, Foreign Economic Policy, Washington DC, Government Printing Office, 1979 (FRUS 1951), Doc. 18 Attachment to Memorandum for the National Security Council by the Executive Secretary, 8 maggio 1951.

[7] https://nsarchive.gwu.edu/briefing-book/openness-russia-and-eastern-europe-intelligence/2022-05-11/secret-war-germany-cias.

[8] Niccolò Petrelli, “Alcide De Gasperi e le Origini del Servizio Informazioni Forze Armate (SIFAR)”, in Mario Caligiuri (a cura di) De Gasperi e L’Intelligence (in corso di pubblicazione).

[9] https://www.cia.gov/readingroom/docs/DOC_0000278476.pdf

[10] Intelligence Innovation. Repositioning for Future Technology Competition, Second Intelligence Interim Panel Report (IPR) of the Special Competitive Studies Project (SCSP), Aprile 2024.

[11] Brandon Kirk Williams, The Innovation Race: US-China Science and Technology Competition and the Quantum Revolution (Washington DC: Woodrow Wilson Center, 2023).

[12] Creating Cross-Domain Kill Webs in Real Time, DARPA (Sept. 18, 2020), https://www.darpa.mil/news-events/2020-09-18a e AI Fusion: Enabling Distributed Artificial Intelligence to Enhance Multi-Domain Operations & Real-Time Situational Awareness, Carnegie Mellon University (2020), http://www.cs.cmu.edu/~ai-fusion/overview.

[13] Gabriele Carrer, Perché all’Italia serve intelligence economica. Intervista al generale Mori, Formiche 9 Giugno 2024 https://formiche.net/2024/06/intervista-intelligence-economica-mario-mori/#content..

[14] Claudia De Martino, The Growing Chinese Presence in the Mediterranean, Med-Or Geopolitics, 22 April 2024, https://www.med-or.org/en/news/la-crescente-penetrazione-cinese-nel-mediterraneo.


Atlante geopolitico del Mediterraneo 2024: la recensione.

di Claudio Bertolotti.

Abstract (Italian)

L’Atlante geopolitico del Mediterraneo 2024, giunto alla sua decima edizione, sottolinea l’importanza cruciale del Mediterraneo per Europa, Africa e Asia, evidenziando il ruolo chiave dell’Italia come ponte strategico nella regione. Esamina lo sviluppo della politica estera italiana dal dopoguerra, mostrando come la stabilità del Mediterraneo sia fondamentale per gli interessi del paese. Celebrando figure storiche italiane come Fanfani, Gronchi, La Pira e Mattei, il testo sottolinea l’importanza dell’Italia nella gestione delle risorse energetiche, sicurezza marittima e flussi migratori, promuovendo una collaborazione equa e sostenibile tra le nazioni mediterranee. L’Atlante affronta anche le attuali instabilità regionali, come le tensioni in Libia, la svolta autoritaria in Tunisia e il conflitto israelo-palestinese, proponendo la soluzione a due Stati come via per una pace duratura. La stabilizzazione del Mediterraneo è vista come essenziale per la crescita delle nazioni rivierasche. L’edizione esplora le dinamiche politiche e socio-economiche attuali e future del Mediterraneo, offrendo uno strumento per comprendere e affrontare le sfide della regione, enfatizzando il ruolo cruciale dell’Italia nella politica estera e nella gestione delle sfide regionali.

Atlante geopolitico del Mediterraneo 2024, a cura di Francesco Anghelone e Andrea Ungari; prefazione Di Paolo De Nardis; introduzione di Gianluigi Rossi, ed. Istituto di Studi Politici “S. Pio V”, Roma, pp. 570.

Keywords: Mediterraneo, Piano Mattei.

L’Atlante geopolitico del Mediterraneo 2024, giunto alla sua decime edizione, discute il ruolo cruciale del Mediterraneo nelle dinamiche geopolitiche globali, evidenziando la sua importanza storica, culturale ed economica per tre continenti: Europa, Africa ed Asia. In particolare sottolinea come l’Italia, grazie alla sua posizione strategica, giochi un ruolo chiave nella regione, agendo come ponte tra Nord e Sud, Est e Ovest. La decima edizione dell’Atlante Geopolitico del Mediterraneo esamina, in particolare, lo sviluppo della politica estera italiana dal dopoguerra, dimostrando come gli interessi dell’Italia siano strettamente legati alla stabilità della regione. Un’evoluzione storica che evoca il ruolo giocato dalla politica estera italiana nelle relazioni internazionali, richiamando i nomi di coloro che ne hanno definito le direttrici, oggi in parte non più così ben definite, da Amintore Fanfani a Giovanni Gronchi a Giorgio La Pira ed Enrico Mattei, il cui nome è oggi il punto di riferimento ideale di un importante e ambizioso progetto di cooperazione e collaborazione regionale particolarmente caro all’Italia.

Come storico non ho potuto che apprezzare lo sforzo degli autori – e dunque dei curatori – nel ricostruire il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo negli ultimi settant’anni, evidenziando l’importanza del paese in settori come la gestione delle risorse energetiche, la sicurezza marittima e i flussi migratori. Il testo sottolinea la necessità di superare le vecchie dinamiche coloniali per promuovere una collaborazione equa e sostenibile tra le nazioni mediterranee.

La regione, viene rilevato nel testo, è attualmente segnata da instabilità, come le tensioni in Libia, la svolta autoritaria in Tunisia e il conflitto israelo-palestinese. La soluzione a due Stati è vista come l’unica strada per la pace duratura in Medio Oriente. Stabilizzare il Mediterraneo è essenziale per la crescita delle nazioni rivierasche.

Questa edizione dell’Atlante mira a esplorare le attuali dinamiche politiche e socio-economiche del Mediterraneo e le prospettive future, offrendo uno strumento essenziale per comprendere e affrontare le sfide della regione. Il testo evidenzia l’importanza dell’Italia nel Mediterraneo, sottolineando il suo ruolo cruciale nella politica estera e nella gestione delle sfide regionali.

PARTE PRIMA: APPROFONDIMENTI

“La dimensione mediterranea della politica estera italiana fra Atlantico ed Europa (1949-1969)” (di Bruna Bagnato).

Nel suo saggio l’Autrice esamina le tre principali direttrici della politica estera italiana nel secondo dopoguerra: europea, atlantica e mediterranea. Queste direttrici non sono statiche ma si sono evolute in risposta ai cambiamenti geopolitici.

L’Italia, pur geograficamente europea e mediterranea, ha dovuto integrare la sua partecipazione all’alleanza atlantica (NATO) dal 1949, il che ha influenzato la sua politica estera, spingendola ad adattarsi ai contesti della Guerra Fredda e agli interessi occidentali. La divisione dell’Europa in blocchi orientale e occidentale e le tensioni Est-Ovest hanno complicato la politica mediterranea italiana, che ha dovuto affrontare le eredità coloniali e le sfide della decolonizzazione.

La politica italiana, influenzata dalle diverse stagioni politiche interne, ha oscillato tra strategie mediterranee e europee. Negli anni ’50, con l’avvento del “neo-atlantismo”, l’Italia ha cercato di coniugare l’impegno atlantico con una nuova politica mediterranea, adottando posizioni anticoloniali per allinearsi con gli Stati Uniti e differenziarsi dall’imperialismo anglo-francese.

Il testo, in particolare, sottolinea come il “neo-atlantismo” abbia cercato di dare all’Italia un ruolo più dinamico nel Mediterraneo, basato su una cooperazione con gli Stati Uniti e una maggiore attenzione alle aspirazioni dei paesi arabi. Tuttavia, questo approccio ha dovuto confrontarsi con le complessità della politica europea, soprattutto con la posizione francese riguardo ai territori d’oltremare e l’associazione dei paesi africani alla Comunità Economica Europea (CEE).

Con la crisi di Suez del 1956, l’Italia ha visto un’opportunità per consolidare la propria politica mediterranea in sintonia con l’orientamento anticoloniale americano. Italia che, negli anni ’60, ha dovuto affrontare le sfide del boom economico, della decolonizzazione e del cambiamento nelle dinamiche della Guerra Fredda. La politica estera italiana nel Mediterraneo ha dovuto adattarsi a un nuovo contesto internazionale, segnato dalla distensione tra Stati Uniti e Unione Sovietica e dall’evoluzione delle relazioni euro-arabe.

La politica mediterranea italiana si è quindi spostata verso un approccio multilaterale, integrando le istanze comunitarie europee e ponendo le basi per una collaborazione più stretta con i partner europei per la stabilizzazione politica ed economica della regione. Questo cambiamento ha rappresentato un allontanamento dalla precedente enfasi atlantica, con una maggiore enfasi sulla cooperazione europea nel Mediterraneo.

La politica estera italiana e il “Mediterraneo allargato” dalla crisi del centro-sinistra a oggi (di Antonio Varsori).

Premessa storica e contesto iniziale. Dalla fine della Seconda guerra mondiale alla metà degli anni Cinquanta, l’Italia, guidata dalla Democrazia Cristiana (DC), ha cercato di superare le difficoltà derivanti dalla sconfitta e dal trattato di pace, ricostruendo il proprio ruolo all’interno del sistema occidentale e del sottosistema europeo dominato dagli Stati Uniti. Questa fase è stata caratterizzata da una scelta “atlantica” ed “europea” che ha incluso l’adesione al Piano Marshall e al Patto Atlantico, oltre alla partecipazione al Consiglio d’Europa e al Piano Schuman.

La politica estera degli anni ’90. Con la crisi di “Tangentopoli” e la fine della Guerra fredda, l’Italia ha subito un ripiegamento sui problemi interni e un ridimensionamento del proprio ruolo nel Mediterraneo allargato. Le priorità si sono spostate verso la partecipazione all’Unione Europea e all’adozione dell’euro. Tuttavia, un tentativo significativo di mantenere un ruolo attivo nella regione è stato l’invio di un contingente militare in Somalia nel 1992 per partecipare a una missione di peacekeeping delle Nazioni Unite; una partecipazione importante sul piano delle relazioni internazionali che, per contro, ha avuto esiti complessi e drammatici.

L’era Berlusconi. Durante i governi Berlusconi, l’Italia ha affrontato diverse sfide nel Mediterraneo allargato. Un esempio è stato il controverso impegno militare in Iraq, che ha sollevato forti opposizioni interne e divergenze con le politiche di altri paesi europei come Francia e Germania. Berlusconi ha anche rafforzato i rapporti con la Libia di Gheddafi, culminati in un accordo che prevedeva riparazioni per il passato coloniale italiano e un maggiore controllo sui flussi migratori illegali.

La politica migratoria e le crisi recenti. L’immigrazione è diventata una questione centrale nella politica mediterranea italiana. Dagli anni Novanta, l’Italia ha visto un crescente flusso di immigrati provenienti dai Balcani, dal Maghreb e dall’Africa subsahariana. Questo ha portato a tensioni e accordi, come quello con la Libia per controllare l’immigrazione clandestina. La crisi libica del 2011 e le Primavere arabe hanno ulteriormente complicato la situazione, provocando instabilità e nuovi flussi migratorie.

Sfide contemporanee. La recente escalation della questione palestinese e la ricerca di nuovi partner energetici dopo l’interruzione dei rapporti con la Russia a causa della guerra in Ucraina, insieme all’aumento dei flussi migratori da Tunisia e Libia, rappresentano le attuali sfide per l’Italia. In questo contesto, il “Piano Mattei” e un nuovo attivismo mediterraneo sono stati proposti come soluzioni, ma i loro esiti rimangono incerti.

Conclusioni. Dal dopoguerra a oggi, la politica estera italiana nel Mediterraneo allargato ha attraversato diverse fasi, influenzate da cambiamenti interni e globali. Dalla costruzione iniziale di un ruolo nell’ambito del sistema occidentale, passando per le crisi politiche ed economiche degli anni ’90, fino alle sfide contemporanee legate alla migrazione e alla sicurezza energetica, l’Italia ha costantemente cercato di mantenere una presenza significativa nella regione, adattandosi ai mutamenti del contesto internazionale.

“La politica estera italiana e il Medio Oriente negli anni della Repubblica” (di Luca Riccardi).

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, l’Italia attraversò un periodo di ricostruzione economica e di riorganizzazione della propria politica estera. Questo periodo segnò il passaggio dall’ambizione di essere una grande potenza a una media potenza integrata nel sistema internazionale dominato dagli Stati Uniti.

Origini della politica mediorientale. Subito dopo la guerra, l’Italia si concentrò sul mantenimento della stabilità politica nel Mediterraneo orientale, sostenendo soluzioni accettabili sia per gli arabi che per gli ebrei. L’obiettivo principale era la stabilità, vista come necessaria per perseguire gli interessi economici italiani e proteggere le comunità italiane presenti nella regione.

Neo-atlantismo e rafforzamento dei legami con gli Stati Uniti

Negli anni Cinquanta, l’Italia sviluppò una politica chiamata “neo-atlantismo”, che mirava a rafforzare la presenza politica ed economica nel Mediterraneo e nel Medio Oriente. Questa politica cercava di conciliare gli interessi italiani con quelli americani, fungendo da collegamento tra gli Stati Uniti e il mondo arabo. Protagonisti di questa politica furono Amintore Fanfani, Giovanni Gronchi, Giorgio La Pira ed Enrico Mattei.

Gli anni Sessanta e Settanta. Durante gli anni Sessanta e Settanta, l’Italia, sotto la guida di Aldo Moro, cercò di stabilizzare la regione attraverso una politica di contatti e un crescente coordinamento con i paesi della Comunità Europea. Tuttavia, la crisi petrolifera del 1973 e le sue conseguenze economiche influenzarono negativamente la politica italiana, rendendo il paese dipendente dalle forniture di petrolio dai paesi arabi.

Gli anni Ottanta. Negli anni Ottanta, con Bettino Craxi come Presidente del Consiglio e Giulio Andreotti come Ministro degli Esteri, l’Italia mantenne una forte presenza nel Mediterraneo allargato. Craxi e Andreotti cercarono di promuovere il coinvolgimento dell’OLP nel processo di pace, sostenendo il diritto dei palestinesi a una patria propria, senza compromettere l’esistenza dello Stato di Israele. L’Italia cercò di bilanciare le relazioni tra gli Stati Uniti e il mondo arabo, mantenendo una posizione di equidistanza.

Declino e marginalizzazione. Verso la fine della Prima Repubblica, l’Italia iniziò a perdere rilevanza nella politica mediorientale, diventando sempre più allineata con le politiche degli Stati Uniti. La conferenza di Madrid del 1991 segnò un’ulteriore marginalizzazione dell’Italia e dell’Europa nel processo di pace in Medio Oriente.

In sintesi, la politica estera italiana verso il Medio Oriente è stata caratterizzata da tentativi di mantenere la stabilità nella regione, rafforzare i legami economici e politici con i paesi arabi, e bilanciare le relazioni tra gli Stati Uniti e il mondo arabo, pur affrontando periodi di crisi economica e declino politico.

PARTE SECONDA: SCHEDE PAESI

Marocco

La Storia. La storia del Marocco è caratterizzata da un lungo periodo di colonizzazione europea iniziata ufficialmente nel 1912 con il Trattato di Fez, che sanciva l’istituzione di un protettorato francese e spagnolo sul paese. Durante il periodo coloniale, il Marocco vide una vasta politica di modernizzazione, con la costruzione di infrastrutture e nuove città ad opera dei coloni francesi. La resistenza contro il dominio coloniale portò a frequenti rivolte, culminate nella “Rivoluzione del re e del popolo” del 1953, che contribuì all’indipendenza del paese, riconosciuta dalla Francia nel 1956. Mohammed V divenne re, avviando un processo di riforme che portarono alla modernizzazione del paese e alla creazione di una monarchia costituzionale.

Oggi. Negli ultimi decenni, il Marocco ha affrontato numerose sfide e trasformazioni. Sotto il regno di Mohammed VI, iniziato nel 1999, il paese ha intrapreso un percorso di riforme economiche e politiche, tra cui la promozione dei diritti umani e la modernizzazione delle istituzioni. Tuttavia, permangono criticità relative ai diritti umani e alla questione del Sahara Occidentale. Il Marocco ha anche consolidato il suo ruolo geopolitico nella regione, ristabilendo relazioni diplomatiche con Israele nel 2020 e giocando un ruolo chiave nella gestione delle migrazioni tra Africa ed Europa.

Algeria

La Storia. L’Algeria, colonizzata dalla Francia dal 1830, visse un periodo di modernizzazione nel primo dopoguerra. Tuttavia, la crescente consapevolezza nazionale portò alla guerra di indipendenza algerina (1954-1962), un conflitto sanguinoso che culminò con l’indipendenza del paese nel 1962. Il periodo post-indipendenza fu caratterizzato da una forte centralizzazione del potere sotto il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN), che governò in modo autoritario, affrontando periodi di instabilità politica e economica.

Oggi. L’Algeria contemporanea è una repubblica semipresidenziale con una popolazione di circa 44,9 milioni di abitanti. Il paese continua a confrontarsi con questioni di governance, diritti umani e diversificazione economica. Le elezioni del 2019 e del 2021 hanno portato Abdelmadjid Tebboune alla presidenza, con il governo che cerca di bilanciare le richieste di riforme politiche con la stabilità sociale. Le relazioni con il Marocco rimangono tese, specialmente a causa delle dispute territoriali e delle accuse reciproche di interferenze politiche.

Tunisia

La Storia. La Tunisia, anch’essa colonizzata dalla Francia, ottenne l’indipendenza nel 1956 sotto la guida di Habib Bourguiba, che instaurò un regime modernizzatore ma autoritario. Dopo il colpo di stato del 1987, Zine El Abidine Ben Ali salì al potere, governando fino alla Rivoluzione dei Gelsomini del 2011, che portò alla sua destituzione e avviò un processo di transizione democratica.

Oggi. La Tunisia è considerata una delle storie di successo della Primavera Araba, con un processo democratico ancora in corso. Tuttavia, il paese affronta sfide significative, tra cui instabilità politica, disoccupazione giovanile e minacce terroristiche. Le recenti elezioni e le riforme costituzionali mirano a consolidare un modello di democrazia fortemente presidenziale e uno stato consapevole del proprio ruolo all’interno dell’area geopolitica regionale.

Libia

La Storia. La storia moderna della Libia è segnata dalla colonizzazione italiana e dalla dittatura di Muammar Gheddafi, che governò dal 1969 fino alla sua deposizione nel 2011 durante la guerra civile libica. Il regime di Gheddafi era caratterizzato da politiche autoritarie e di centralizzazione del potere, con una forte retorica anti-occidentale.

Oggi. La Libia odierna è divisa e instabile, con vari gruppi armati e fazioni politiche che competono per il controllo del paese. Nonostante gli sforzi internazionali per stabilizzare la situazione, la Libia rimane in gran parte frammentata, con un governo di unità nazionale che lotta per affermare la propria autorità. La situazione umanitaria e la sicurezza continuano a essere problematiche.

Egitto

La Storia. L’Egitto ha una lunga storia di civiltà antiche e dominazioni straniere. Nel XX secolo, l’Egitto ottenne l’indipendenza dal Regno Unito nel 1922, ma rimase sotto un’influenza britannica significativa fino alla rivoluzione del 1952 che portò Gamal Abdel Nasser al potere. Nasser attuò politiche di nazionalizzazione e panarabismo. Successivamente, sotto Anwar Sadat e Hosni Mubarak, il paese si orientò verso politiche più aperte e relazioni con l’Occidente.

Oggi. L’Egitto contemporaneo, sotto il presidente Abdel Fattah al-Sisi, affronta sfide economiche e politiche significative. Le riforme economiche hanno portato a una crescita economica, ma anche a un aumento della povertà e delle disuguaglianze. La repressione politica rimane forte, con limitazioni alle libertà civili e politiche. L’Egitto continua a svolgere un ruolo chiave nella geopolitica del Medio Oriente, mantenendo relazioni strategiche con vari attori internazionali.

Israele

La Storia. Israele, fondato nel 1948, ha una storia complessa segnata da conflitti con i paesi vicini e tensioni interne. La guerra di indipendenza del 1948-49, le guerre arabo-israeliane e il conflitto israelo-palestinese hanno definito gran parte della sua storia. Israele ha anche vissuto periodi di crescita economica e tecnologica, affermandosi come una delle economie più avanzate della regione.

Oggi. Israele è una democrazia parlamentare con una popolazione diversificata. Le questioni di sicurezza nazionale, il conflitto con i gruppi palestinesi e le dinamiche politiche interne sono al centro dell’attenzione. Le recenti normalizzazioni delle relazioni con alcuni paesi arabi rappresentano sviluppi significativi, ma permangono tensioni e sfide sul fronte interno e regionale.

Autorità Nazionale Palestinese

La Storia. L’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) è stata istituita nel 1994 a seguito degli Accordi di Oslo tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). L’ANP è responsabile del governo dei territori palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, ma ha affrontato numerose difficoltà, inclusi conflitti interni e tensioni con Israele.

Oggi. Oggi, l’ANP è divisa tra la Cisgiordania, controllata da Fatah, e Gaza, sotto il controllo di Hamas. La situazione politica ed economica è instabile, con frequenti tensioni e scontri con Israele. Gli sforzi per la riconciliazione interna e per una soluzione del conflitto con Israele continuano, ma le prospettive di pace rimangono incerte.

Libano

La Storia. Il Libano, indipendente dalla Francia dal 1943, ha una storia segnata da conflitti civili e interventi stranieri. La guerra civile libanese (1975-1990) ha devastato il paese, seguito da un periodo di ricostruzione e di tensioni politiche e settarie. La presenza di Hezbollah e l’influenza siriana hanno contribuito alla complessità politica del Libano.

Oggi.Il Libano contemporaneo è afflitto da una grave crisi economica, politica e sociale. Le proteste popolari, la corruzione diffusa e l’esplosione del porto di Beirut nel 2020 hanno aggravato la situazione. Il paese lotta per superare le divisioni settarie e per trovare stabilità politica ed economica.

Siria

La Storia. La Siria, indipendente dalla Francia nel 1946, ha una storia di instabilità politica e colpi di stato. Il regime di Hafez al-Assad, iniziato nel 1970, ha stabilito una dittatura che è stata portata avanti dal figlio Bashar al-Assad. La Siria ha giocato un ruolo centrale nella politica del Medio Oriente, spesso in conflitto con Israele e coinvolta nelle dinamiche regionali.

Oggi. La Siria è devastata da una guerra civile iniziata nel 2011, con milioni di rifugiati e sfollati interni. Il regime di Bashar al-Assad, con il sostegno di Russia e Iran, ha riconquistato gran parte del territorio, ma il paese rimane diviso e instabile. La ricostruzione e la riconciliazione sono sfide enormi, mentre la situazione umanitaria è critica.

Giordania

La Storia. La Giordania, creata dal mandato britannico nel 1921 e indipendente dal 1946, è stata governata dalla dinastia hashemita. Il paese ha mantenuto una relativa stabilità nonostante le turbolenze regionali, giocando un ruolo moderato nella politica mediorientale e ospitando un gran numero di rifugiati palestinesi.

Oggi. La Giordania continua ad affrontare sfide economiche e sociali, aggravate dall’afflusso di rifugiati siriani e dalle pressioni regionali. Il re Abdullah II guida il paese verso riforme economiche e politiche, cercando di mantenere la stabilità in un contesto regionale difficile.

Turchia

La Storia. La Turchia moderna, fondata da Mustafa Kemal Atatürk nel 1923, è stata costruita sui principi della laicità e del nazionalismo. Dopo decenni di governo secolare e militare, il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) di Recep Tayyip Erdoğan ha trasformato il paese con un mix di islamismo e nazionalismo, portando a una maggiore centralizzazione del potere.

Oggi. La Turchia è una potenza regionale con ambizioni internazionali, ma affronta problemi interni come la repressione dei diritti civili e le tensioni economiche. Le politiche di Erdoğan, sia interne che estere, hanno suscitato controversie e criticità, ma il paese continua a giocare un ruolo cruciale nella geopolitica del Medio Oriente e oltre.

PARTE TERZA: DIALOGHI MEDITERRANEI

“Italia e Tunisia: sfide e criticità nel più ampio contesto internazionale” (di Mario Savina).

Il testo tratta delle complesse relazioni tra i due paesi nel contesto del Mediterraneo, evidenziando i principali dossier di cooperazione e le sfide che caratterizzano il rapporto bilaterale.

Relazioni Bilaterali e Contesto Mediterraneo. Le relazioni tra Italia e Tunisia sono profondamente radicate nel contesto mediterraneo, caratterizzato da interessi comuni in vari settori, tra cui migrazione, energia, economia e dialogo con l’Unione Europea. Le turbolenze politiche ed economiche degli ultimi anni in Tunisia hanno creato sfide significative per i governi italiani e i decisori europei, ma Tunisi rimane un partner strategico sia per Roma che per Bruxelles.

Dossier Migratorio. Il tema migratorio è centrale nei colloqui tra Italia e Tunisia, specialmente dopo l’aumento delle partenze dalle coste tunisine negli ultimi due anni. Nel 2023, oltre 96.000 migranti sono arrivati in Italia dalla Tunisia, un numero triplicato rispetto all’anno precedente. La lotta ai migranti subsahariani in Tunisia, promossa dal presidente Kaïs Saïed, mira a distogliere l’attenzione dalla crisi socioeconomica interna. Gli accordi tra Roma e Tunisi sul controllo dei flussi migratori si basano su una logica di sicurezza, con l’Italia e l’UE che finanziano progetti per arginare i flussi migratori e facilitare i rimpatri.

Sfide Politico-Economiche e Relazioni Internazionali. La Tunisia affronta una perenne instabilità politica ed economica, con dinamiche internazionali complesse. Il paese sta cercando di diversificare le sue relazioni estere, coinvolgendo Russia e Cina, e considera l’adesione ai BRICS. Le relazioni con l’Unione Europea e gli Stati Uniti sono strategiche, specialmente in un contesto di rivalità con la Russia.

Cooperazione Energetica e Commerciale. L’Italia guarda alla Tunisia come a un partner fondamentale nel settore energetico, soprattutto per il gasdotto Transmed che collega l’Algeria all’Italia attraverso la Tunisia. La cooperazione commerciale è forte, con l’Italia che rappresenta il principale partner commerciale di Tunisi. Le imprese italiane sono ben radicate nel paese, contribuendo significativamente all’occupazione e all’economia locale.

Sfide Regionali e Sicurezza. Le relazioni tra Italia e Tunisia sono inserite in un contesto regionale complesso, con influenze di potenze come la Russia e la Cina. La stabilità del Nord Africa è cruciale per la sicurezza europea, e l’Italia è impegnata nel supportare la Tunisia attraverso accordi bilaterali e dialoghi internazionali. La collaborazione tra i due paesi è essenziale per affrontare le sfide comuni e promuovere la stabilità regionale.

In sintesi, il capitolo evidenzia la necessità di un impegno costante e di una strategia integrata per affrontare le sfide.

La Proiezione Futura dei Rapporti Energetici tra Algeria e Italia (di Laura Ponte).

Il capitolo esplora il futuro dei rapporti energetici tra Algeria e Italia nel contesto della guerra in Ucraina e delle conseguenti sanzioni imposte alla Russia. Con l’obiettivo di ridurre la dipendenza energetica dalla Russia, l’Italia ha cercato di diversificare le sue fonti di approvvigionamento energetico, puntando in particolare sull’Algeria, che è diventata un partner strategico fondamentale.

Contesto Storico e Relazioni Energetiche.Storicamente, le relazioni energetiche tra i due paesi sono solide, risalenti agli anni ’50 e ’60, quando Enrico Mattei sostenne il percorso di liberazione nazionale dell’Algeria, culminato con l’indipendenza del 1962. Questo ha portato alla firma del primo contratto di fornitura di gas nel 1973, stabilendo una lunga collaborazione energetica.

Sforzi Recenti e Progetti Futuri. Recentemente, gli sforzi italiani si sono intensificati per aumentare le importazioni di gas algerino e ridurre quelle russe. L’Italia ha firmato numerosi contratti con l’Algeria per aumentare la capacità di esportazione di gas, sia tramite gasdotti che GNL (gas naturale liquefatto). Nel 2022, Sonatrach ha incrementato le esportazioni di gas verso l’Italia, con l’obiettivo di raggiungere 9 miliardi di metri cubi all’anno entro il 2024.

Sfide Politiche e Tecniche. Nonostante le prospettive positive, esistono criticità sia politiche che tecniche. Politicamente, l’Italia ha scelto di non comprare gas dalla Russia a causa della sua inaffidabilità come partner commerciale. Tuttavia, l’Algeria è anch’essa considerata un paese “non libero” dal Freedom House, con bassi standard democratici, limitata trasparenza elettorale, corruzione e repressione delle proteste.

Possibili Rischi Geopolitici. C’è il timore che l’instabilità politica in Algeria possa influenzare i rapporti energetici, come già successo con la Spagna riguardo alla disputa del Sahara Occidentale. Inoltre, l’Algeria mantiene buone relazioni con la Russia, cooperando attivamente nel settore militare ed energetico, il che potrebbe complicare ulteriormente le dinamiche geopolitiche.

Progetti Integrativi e Energie Rinnovabili. Per mitigare i rischi e aumentare la sostenibilità, sarebbe utile che la cooperazione energetica tra Italia e Algeria includa anche le energie rinnovabili. L’Algeria ha il potenziale per diventare leader nella produzione di energia solare ed eolica, grazie al deserto del Sahara. Progetti come il South H2 Corridor, che collegherà l’Algeria alla Germania, potrebbero essere cruciali per trasformare l’Italia in un hub energetico, riducendo al contempo la dipendenza dai combustibili fossili.

Conclusioni. Il futuro dei rapporti energetici tra Algeria e Italia appare promettente ma non privo di sfide. La diversificazione delle fonti di approvvigionamento e l’inclusione delle energie rinnovabili sono passi fondamentali per garantire la sicurezza energetica e la sostenibilità a lungo termine.

“Nato e Ue al cospetto della crisi libica: dall’apice al tramonto del «crisis management» occidentale?” (di Stefano Marcuzzi).

Il capitolo analizza la gestione e le conseguenze della crisi libica da parte di Nato e Unione Europea, evidenziando i fallimenti e le lezioni apprese.

Contesto della crisi. Nel marzo 2011, una coalizione di paesi sotto l’ombrello dell’ONU e guidata militarmente dalla Nato lanciò una campagna aerea contro il regime di Gheddafi in Libia per fermare la repressione violenta contro i civili. Nonostante la caduta di Gheddafi e il collasso del suo regime, la Libia è rimasta intrappolata in una crisi pluridecennale, caratterizzata da conflitti interni ed esterni, che hanno visto la partecipazione di attori regionali e globali come Russia, Turchia, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Francia e Arabia Saudita​.


Iran, Israele, Hamas, Russia, NATO: il commento di C. Bertolotti a SKY TG24

La presentazione di Gaza Underground – il libro, a SKY TG24: le incognite e le difficoltà nella guerra urbana e sotterranea. E ancora: la morte del presidente di Raisi e la sua successione: quali ripercussioni a livello interno ed esterno? La Russia minaccia di ridefinire i confini marittimi: provocazione o atto deliberato?

Il commento di Claudio Bertolotti a TIMELINE, SKY TG24 (puntata del 22 maggio 2024).


Terrorismo: lo Stato islamico e i campionati di calcio.

di Claudio Bertolotti. Dall’intervista di Giampaolo Musumeci per Radio 24 – Nessun Luogo è Lontano del 9 aprile 2024.

Il Cairo, 9 apr. (Adnkronos) – Il sedicente Stato Islamico, tornato a spaventare l’Europa dopo l’attentato a Mosca, ha minacciato di lanciare un attacco contro i quattro stadi in cui da stasera si disputeranno i quarti di finale di Champions League. Al-Azaim, uno degli organi di propaganda dell’Isis, ha confermato queste intenzioni pubblicando l’immagine dei quattro stadi in cui si disputeranno le partite di andata – il Parco dei Principi di Parigi, il Santiago Bernabeu di Madrid, il Metropolitan sempre di Madrid e l’Emirates di Londra – accompagnata dalla didascalia “Uccideteli tutti”.

Una necessaria premessa: l’esperienza dell’ISIS, così come l’abbiamo conosciuta in Iraq e Siria si è conclusa nel giugno 2014 con la proclamazione del Califfato da parte di al-Baghdadi e l’istituzione dello Stato islamico. L’ISIS non esiste più, al suo posto lo Stato islamico dunque. Non è una precisazione da poco, perché segna l’avvio dell’epoca post-territoriale del movimento, quella che stiamo osservando e subendo oggi, sia in Occidente, sia in Medioriente come dimostra la forza sempre più manifesta di questo gruppo in particolare in Siria e Afghanistan.

Quanto seria è questa minaccia? Ricordiamo una allerta simile il 30 marzo in Germania.

Un primo aspetto. In questo caso, come nella maggior parte degli episodi, non è lo Stato islamico ma i suoi gruppi affiliati a chiamare alla lotta. E quella attuale sembra non tanto una avvisaglia quanto un appello a colpire, e dunque non una minaccia diretta. Anche perchè, come ci ha dimostrato la storia recente dello Stato islamico e dei suoi affiliati in franchise, quando il gruppo colpisce lo fa senza preavvertire – di fatto sfruttando l’effetto sorpresa per ottenere il massimo dei risultati. Quanto accaduto in Russia ne è una conferma. Però, e questo è il secondo aspetto, coerentemente con gli attacchi degli ultimi anni, attribuiti o rivendicati dallo Stato islamico, è l’appello a colpire che viene colto da singoli soggetti, o più raramente da parte di piccoli gruppi, spesso disorganizzati o scarsamente organizzati, che costituisce la forza propulsiva del gruppo che, di norma e per evidente opportunità, rivendica solamente quelli di successo, una minima parte, non citando quelli invece più numerosi che si concludono con un risultato fallimentare.

Dopo l’attentato a Mosca, queste minacce e l’arresto ieri a Roma di un tajiko ex miliziano Isis, ci sono a tuo parere le condizioni per capire quale sia la strategia dell’Isis? Sta rialzando la testa? Riacquisendo forza?

Lo Stato islamico sta rialzando la testa, e lo sta facendo in maniera dirompente ed efficace, riportandoci sul piano emotivo e del terrore ai terribili anni 2015-2017 quando l’Europa fu travolta da una serie di eventi dirompenti, a loro volta in grado di riportare le emozioni agli attacchi di al-Qa’ida in Europa del 2004, a Madrid e a Londra. Oggi è sufficiente guardare alla Siria, dove si pensava – complici anche i riflettori mediatici rivolti altrove – che lo Stato islamico fosse stato sconfitto: non è così. Al contrario, l’aumento progressivo di attacchi dello Stato islamico, gli assalti continui e ripetuti alle carceri per liberare i combattenti detenuti dal regime siriano, la capacità di colpire sostanzialmente ovunque. È un campanello d’allarme che suona molto forte e che anticipa una nuova ondata che si autoalimenta: dalla retorica della vittoria talebana in Afghanistan, alla competizione con i talebani, all’aumentare degli affiliati, singoli e gruppi dal Medioriente al Sud-Est asiatico, fino all’Europa. Non uno Stato islamico ex-novo, ma è un fenomeno che si sta risvegliando.


Russia: attentato a Crocus City Hall. Bertolotti (Ispi): Mosca paga aiuto a talebani e Siria in lotta a Stato Islamico (La Presse).

da La Presse, intervista di Luca La Mantia

Vai al lancio di Stampa su La Presse


Ascolta l’intervista radio di Laura Zucchetti a Claudio Bertolotti per Radio 3i

Roma, 23 mar. (LaPresse) – “In Afghanistan la Russia dialoga con la frangia più anziana dei talebani contribuendo a quel ciclo di intelligence che consente ai talebani stessi di combattere lo Stato islamico del Khorasan (Is-Kp)”, quindi l’attentato a Mosca per il gruppo jihadista “è un modo per dire ‘tu aiuti i talebani a colpirci e noi colpiamo te‘”. Così a LaPresse Claudio Bertolotti, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) e direttore di Start Insight, commentando l’attentato nella Crocus City Hall, a nordovest della capitale russa. La Russia, prosegue, ha anche “un ruolo specifico e ben definito, da una parte, nella lotta al terrorismo islamico” e dall’altra nel sostegno in Siria al presidente Bashar al Assad nel contrasto “a tutti i gruppi sunniti ribelli, compresi quelli affiliati allo Stato islamico“.

Roma, 23 mar. (LaPresse) – “E’ molto difficile tenere sotto controllo e prevenire un attacco” come quello avvenuto alla Crocus City Hall, a nordovest di Mosca, rivendicato dall’Isis. Così a LaPresse Claudio Bertolotti, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) e direttore di Start Insight. “La storia recente, sia in Europa che in Russia”, spiega, ha dimostrato quanto sia difficile prevedere attentati di questo tipo, “sia quelli organizzati, sia quelli emulativi, ovvero portati avanti da singoli soggetti che si rifanno all’ideologia dello Stato islamico ma agiscono in modo autonomo”. 
(segue) 

Roma, 23 mar. (LaPresse) – Gli Stati Uniti, sottolinea Bertolotti, avevano avvertito sul rischio di attentati in Russia “perché hanno un’ottima capacità di raccolta di informazioni legate all’intelligence associata al dialogo con la nuova leadership talebana” in Afghanistan che è “acerrima nemica dello Stato Islamico del Khorasan (Is-Kp)”. Washington, prosegue il ricercatore Ispi, ha “quindi raccolto informazioni e le ha messe e a diposizione della Russia che ha anche messo in atto misure preventive ma è impossibile organizzare in tutto il Paese un sistema efficace al 100%“.


Roma, 23 mar. (LaPresse) – “In Europa non sono mai diminuiti i tentativi di attacchi terroristici che si attestano sui 10-15 l’anno. E’ però diminuita”, rispetto a qualche anno fa, “l’efficacia e quindi anche l’attenzione mediatica“, che porta lo Stato Islamico a rivendicare solo gli attentati “che hanno successo”. Così a LaPresse Claudio Bertolotti, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) e direttore di Start Insight, commentando l’attentato nella Crocus City Hall, a nordovest di Mosca. La strage rivendicata “è un grande rilancio per lo Stato Islamico”, spiega. C’è poi, prosegue Bertolotti, l’appello di Hamas a tutti i musulmani, dopo l’inizio della guerra con Israele, “a colpire ovunque” gli alleati di Tel Aviv, e questo rappresenta “una minaccia sostanziale” anche per l’Europa. 


Roma, 23 mar. (LaPresse) – Il Cremlino ha “tutto l’interesse a parlare di una responsabilità di Kiev” nell’attacco nella Crocus City Hall, a nordovest di Mosca, poi rivendicato dall’Isis, “perché questo consente di confermare la minaccia rappresentata dall’Ucraina di fronte all’opinione pubblica russa“. Così a LaPresse Claudio Bertolotti, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) e direttore di Start Insight. “E’ un modo per spostare la responsabilità contro un obiettivo che si sta già colpendo”, spiega, un messaggio anche “per quelle frange dell’opinione pubblica russa che dopo due anni cominciano a non essere più convinte” sulla guerra. Bertolotti esclude una responsabilità ucraina nell’attacco, sia per le “tecniche e procedure” usate dai terroristi sia per l’obiettivo che sarebbe “appagante” per l’Ucraina, in quanto “colpire civili nella narrazione di un popolo che si difende da un’aggressione non è vincente”.


Tre palestinesi arrestati a L’Aquila per terrorismo: “Attentati per conto delle Brigate Tulkarem” (al-Aqsa).

di Claudio Bertolotti

La Polizia di Stato italiana ha arrestato a L’Aquila tre cittadini palestinesi – tra cui Anan Yaeesh, 37 enne palestinese attualmente in carcere a Terni dopo essere stato arrestato il 27 gennaio scorso su richiesta delle autorità israeliane che ne chiedono l’estradizione – accusati di aver pianificato attacchi terroristici, nell’ambito di un’operazione contro l’estremismo. Sono stati presi in custodia in seguito all’emissione di un’ordinanza di custodia cautelare per il reato di associazione con scopi di terrorismo, inclusi obiettivi internazionali, e sovversione dell’ordine democratico. Secondo le forze dell’ordine, gli arrestati erano coinvolti in attività di proselitismo e divulgazione a favore dell’organizzazione e avevano l’intento di compiere attacchi, incluso il sacrificio personale, contro bersagli civili e militari fuori dai confini nazionali. Il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, ha espresso la sua soddisfazione per l’arresto dei tre individui ritenuti estremamente pericolosi, sottolineando l’impegno e l’eccellenza investigativa delle forze dell’ordine italiane. Questa operazione dimostra, secondo il ministro, l’efficace vigilanza e l’azione preventiva contro l’estremismo e la radicalizzazione, per cui ha esteso i suoi ringraziamenti alla polizia e alla magistratura per il significativo successo ottenuto, che evidenzia la costante attenzione alle minacce alla sicurezza interna.

Chi sono e quali le origini e gli obiettivi Brigate dei Martiri di Al-Aqsa?

Le “Brigate dei Martiri di Al-Aqsa” rappresentano un’ala militante del movimento Fatah, fondato nel tardo 1950 da Yasser Arafat e altri leader palestinesi. Emerse all’inizio dell’Intifada di Al-Aqsa nel settembre 2000, questo gruppo ha giocato un ruolo significativo nel conflitto israelo-palestinese, conducendo attacchi contro obiettivi israeliani sia militari che civili. Le Brigate hanno dichiarato di voler combattere l’occupazione israeliana e hanno rivendicato responsabilità per numerosi attacchi suicidi, sparatorie e lanci di missili.

All’interno di questa organizzazione, il “Gruppo di Risposta Rapida – Brigate Tulkarem” rappresenta una specifica articolazione operativa che opera principalmente nell’area di Tulkarem, una città situata nella parte occidentale della Cisgiordania. Questo gruppo specifico è stato costituito con l’obiettivo di fornire una risposta rapida alle incursioni militari israeliane, sfruttando la conoscenza del terreno locale e la capacità di mobilitare rapidamente i suoi membri in caso di conflitto.

La natura del “Gruppo di Risposta Rapida” si caratterizza per la sua agilità operativa e la capacità di condurre attacchi mirati. Il gruppo utilizza tattiche di guerriglia urbana e si adatta rapidamente alle dinamiche del campo di battaglia, il che lo rende una componente efficace all’interno della più ampia strategia delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa. La loro attività è volta a creare un senso di insicurezza continua tra le forze israeliane, cercando di impedire o rallentare le operazioni militari nella loro area di influenza.

Nonostante la loro determinazione, l’azione di gruppi come il “Gruppo di Risposta Rapida – Brigate Tulkarem” solleva questioni significative riguardo al ciclo di violenza nel conflitto israelo-palestinese. Le loro operazioni, spesso dirette contro obiettivi civili, hanno portato a condanne internazionali e hanno accentuato la sofferenza umana su entrambi i lati del conflitto. La complessità della loro esistenza e operazioni riflette l’intricata rete di cause, identità e lealtà che caratterizzano il lungo e doloroso scontro tra israeliani e palestinesi.

La presenza e le azioni di gruppi come le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa e il loro “Gruppo di Risposta Rapida – Brigate Tulkarem” in Italia come, è possibile valutare, sia in Europa che negli Stati Uniti, sono testimoni della profonda capacità di permeazione da parte del terrorismo jihadista associato ad Hamas che, attraverso una serie di appelli alla “rabbia” dei musulmani ha chiamato i suoi accoliti a colpire, in difesa dell’Islam. Di fatto spingendo verso quel fenomeno ormai consolidato di terrorismo emulativo, improvvisato e prevalentemente individuale che ha ormai imposta le proprie presenza e volontà d’azione, in Europa, dall’avvento del fenomeno Stato Islamico (già ISIS) negli anni 2014/2017. Oggi, quel terrorismo di fatto autonomo e spesso fallimentare, si è inserito in una nuova dinamica competitiva tra i brand Stato islamico e il “nuovo” attore del jihad, Hamas, che pur ponendosi come “movimento di liberazione nazionale” non ha mancato di estendere sul piano comunicativo, ideologico e propagandistico la propria visione e l’appello a colpire ovunque, con atti di “jihad” atti a difendere l’islam dalla corruzione e dalla violenza dell’occidente.


Biden: lo stato dell’Unione.

di Melissa de Teffé

Nel suo discorso sullo Stato dell’Unione al Congresso, il Presidente Joe Biden ha sorpreso tutti per il tono combattivo e aggressivo, in netto contrasto con le sue consuete apparizioni sempre pacate.

Come noto il secondo articolo della Costituzione americana richiede al capo dell’esecutivo di presentare un rapporto scritto, letto a camere unite,  sullo Stato dell’Unione, non solo raccontando i successi ottenuti, ma elencando quali misure adottare  per risolvere sfide e problematiche nazionali. Biden invece ha fatto una scelta comunicativa insolita, mirata a dissipare i dubbi sulla sua idoneità al ruolo, dati i suoi 81 anni, è  attualmente il presidente più anziano nella storia degli Stati Uniti. Una delle battute più divertenti seppur sarcastica, dei media americani è stata: “Qualunque cosa abbiano dato a Biden, ogni uomo, donna e qualsiasi altra persona americana dovrebbe essere autorizzato a prender-lo,” insomma un po’ di pesante ironia nei confronti di 68 “intensi” minuti di discorso, ma che in realtà sono stati più un’ accalorata arringa contro l’amministrazione precedente che la consueta, storica presentazione a cui siamo abituati.

Biden ha aperto il suo discorso paragonando l’attuale periodo storico sia a quello di Lincoln durante la guerra civile che al discorso di  Delano Roosevelt del 1941, in piena seconda guerra mondiale. Questa audace dichiarazione, che sembra quasi un j’accuse contro i repubblicani, parrebbe voler  definirsi come l’unico vero paladino, difensore supremo, della “vera” democrazia.

Tra i temi principali affrontati, spicca in primis, la richiesta d’inviare il prima possibile i finanziamenti all’Ucraina, (60 miliardi di $) che erano inclusi nella legge sull’immigrazione e l’asilo politico, bocciata il mese scorso; proseguendo,  altro punto molto antipatico e scottante è stata la critica ai giudici della Corte Suprema, per altro presenti come gesto di rispetto e cortesia, e seduti in prima fila, per aver ribaltato il famosissimo caso Roe vs Wade sull’aborto, promettendo che, se rieletto, sarebbe certamente riuscito a influenzare la Corte Costituzionale e a capovolgere la loro decisione. Sicuramente” non solo un affronto ma una manifestazione arrogante da parte di un presidente”, dice il noto commentatore politico Ben Shapiro. 

Altro punto chiave riguarda la lotta contro l’inflazione, dove Biden certo del prossimo abbassamento dei tassi di interesse incentiverebbe il settore immobiliare con una regalia mensile di $400 per due anni consecutivi sugli acquisti di nuove proprietà. Inoltre Biden non si fa sfuggire l’opportunità di attribuire il problema dell’inflazione al suo predecessore.  Pure il Wall Street Journal non ne è convinto, infatti la “shrinkinflation” ossia l’inflazione ristretta, così definita da Biden, che porta come esempio la riduzione dei quantitativi di patatine o pezzetti di dolcetti da parte dei produttori di merendine e patatine, senza però aver cambiato la grandezza del sacchetto, viene denigrata da questo titolo:  “Il Presidente non sa nulla su come funzioni l’economia privata”.  

Sul fronte dell’immigrazione, il Presidente afferma che gli immigrati sono anch’essi cittadini americani e ancora una volta attribuisce la crisi al confine alla precedente amministrazione. Durante l’amministrazione del presidente Joe Biden, oltre 7,2 milioni di migranti sono entrati illegalmente negli Stati Uniti. Questa cifra supera la popolazione di 36 stati degli Stati Uniti. (fonte CBP- Customs and Border Protection, Factcheck.org ecc.)

Il numero di 7,3 milioni rappresenta una parte significativa della popolazione di diversi stati di grandi dimensioni: 18,7% della popolazione della California (39 milioni di abitanti); 23,9%  della popolazione del Texas (circa 31 milioni di residenti), 32,3% della popolazione della Florida, 37,3% della popolazione di New York. È importante notare che questa cifra totale di 7,3 mill. non include un ulteriore (stimato) 1,6 milioni di immigrati indocumentati che sono entrati negli Stati Uniti da altre località, né 1,8 milioni di “fuggitivi” noti, sfuggiti alle forze dell’ordine. Considerando questi numeri aggiuntivi, il totale sarebbe persino superiore alla popolazione di New York.

I critici dell’amministrazione Biden sostengono che questo aumento senza precedenti dell’immigrazione illegale non sia casuale, ma piuttosto il risultato di scelte politiche deliberate . Oltre ai vari applausi che hanno visto il vicepresidente alzarsi quasi ad ogni frase per applaudire, la prima interrompere al discorso è stata della rappresentante Marjorie Taylor Greene (R-Ga.) che ha gridato: “e l’omicidio di Laken Raley?”, che Biden forse già stanco, la ribattezza Lincoln Riley, un noto allenatore di football recentemente su  tutti i giornali per i recenti successi sportivi.

Non poteva mancare un accenno alle politiche transgender che stanno da mesi infiammando gli animi di questa nazione per la partecipazione di maschi transgender fra le fila sportive femminili Anche qui, Biden le supporta facendo uno specifico accenno anche alle politiche di “trasformazione, o cambio di sesso”, dedicate ai più giovani. La broche di chiusura al discorso è ovviamente una ennesima critica al suo rivale politico,  su quanto avvenuto il 6 gennaio di tre anni fa, prima del giuramento presidenziale, paragonando l’insurrezione  all’invasione dell’Ucraina da parte di Putin.

Da giovedì tutte le affermazioni di Biden sono oggetto di dubbi e controversie, specialmente in relazione alle dichiarazioni sulla diminuzione della criminalità. Questa posizione è stata messa in discussione da fatti evidenti, come la decisione da parte del governatore dello Stato di New York insieme al sindaco di New York, Adams, di aumentare il numero delle forze dell’ordine soprattutto lungo i diversi percorsi della metropolitana, oggi soggetti a rapine e illeciti di ogni tipo. Il governatore  in concerto con il sindaco, oltre aver aumentato il numero degli agenti di polizia, ha  aggiunto 1000 soldati della guardia nazionale. Inoltre tutte le forze dell’ordine sono state autorizzare a perquisire qualsiasi borsa o valigia. Queste misure di sicurezza sono in risposta all’ aumento del 45% dei reati registrati questo gennaio rispetto all’anno precedente. 

Ultimo a intervenire dal pubblico interrompendo il discorso del presidente urlando: “ Si ricordi di Abbey Gate”, è stato il padre di uno dei 13 marines uccisi durante la tragica evacuazione dall’Afghanistan). Allontanato subito dall’aula e arrestato, il grido è caduto nel vuoto. Più fortunati invece alcune decine di manifestanti che hanno tentato di bloccare l’accesso al Capitol in difesa dei palestinesi. Nessuno è stato ammonito o ammanettato. 

L’infelice stato dell’Unione, definito così da molti è purtroppo facile da constatare, basti guardare la quantità di senza tetto, drogati e malati mentali in diverse città dell’unione, da Los Angeles, a Philadelphia, da Portland a San Francisco, da Chicago a Austin; l’assenza di una politica migratoria, le dimostrazioni anti-semite nei più prestigiosi campus universitari, che hanno visto il licenziamento dei rispettivi presidenti; ancora le feroci sparatorie su innocenti durante festeggiamenti, l’inflazione alta e un mercato immobiliare fermo.

Analizzando i sondaggi a ridosso del discorso presidenziale, secondo Hanson, classicista, storico militare e opinionista politico, Trump è in testa, soprattutto considerando quelle fasce di elettori che storicamente hanno sempre votato democratico. Questi risultati positivi per Trump tra gli afroamericani, i latinos e le donne delle zone rurali o suburbane sono una reazione alle insufficienze di questa amministrazione. Nel paese si percepisce un’atmosfera di malessere e dolore che politicamente si riflette sul presidente, da sempre individuato come il colpevole principale.


L’immigrazione tema di campagna elettorale negli Stati Uniti.

di Melissa de Teffé

Articolo originale pubblicato su Panoràmica Latinoamericana, plataforma informativa, de investigación y análisis, especializada en las relaciones birregionales Unión europea-América Latina y Caribe o CELAC-UE.

Entrambi il presidente Joe Biden e l’ex presidente Donald Trump hanno fatto visita al confine meridionale giovedì, per affrontare quello che oggi è considerato il problema cruciale di questa  campagna presidenziale del 2024: l’immigrazione e il traffico di esseri umani.

Ad aprire le danze politiche,  con mezz’ora di differenza è Trump, che da Eagle Pass, Texas, ormai simbolo di questa sfida politica, circondato da agenti federali e dal Governatore Greg Abbott,  dopo un iniziale elogio per i risultati ottenuti dalle azioni di forza dei federali locali, ha proseguito citando alcune statistiche non verificabili: “milioni e milioni di persone hanno attraversato i nostri confini; potrebbero essere 15 milioni, potrebbero essere 18 milioni entro la fine del mandato presidenziale (di Biden). ….L’anno scorso quasi la metà di tutti gli arresti effettuati dall’Immigration and Customs Enforcement (ICE) riguardavano criminali imputati, più di 33.000 aggressioni, 3.000 rapine, 6.900 furti, 7.500 crimini legati ad armi, 4.300 reati sessuali, 1.600 sequestri e 1.700 omicidi: questi sono i crimini commessi dalle persone che stanno entrando nel nostro paese e provengono dalle carceri, dalle prigioni, dagli istituti mentali e dagli ospedali psichiatrici. Sono terroristi a cui è permesso entrare nel nostro paese ed è terribile. Non solo dal Sud America, ma da tutto il mondo: dal Congo, con una popolazione molto numerosa che proviene dalle carceri, Cina, Iran, paesi non amici degli Stati Uniti.”

Per appesantire le accuse contro Biden, Trump cita l’orribile assassinio di Laken Riley, una studentessa di 22 anni laureata in infermieristica, uccisa il 22 febbraio, mentre faceva jogging vicino all’Università della Georgia, perpetrato da un illegale. Prima di giungere a Eagle Pass, Texas, l’ex presidente ha fatto visita ai genitori della giovane. Dopo aver dialogato con i Riley, ha dichiarato: «Sono individui straordinari profondamente colpiti al di là di ogni immaginazione». 

Ma sono molti i conservatori del resto degli Stati Uniti che hanno identificato nella morte di Riley un esempio di crimine commesso da migranti, dopo che l’assassino,  un venezuelano senza documenti, entrato illegalmente, è stato accusato in relazione alla morte della ragazza. Trump ha anche definito la crisi migratoria come «L’invasione di Joe Biden» è una «violazione brutale del nostro paese».

Biden, invece, dopo aver ringraziato gli agenti di frontiera per il loro lavoro, ha promesso che avrebbe inviato più risorse a supporto della crisi frontaliera. «È passato molto tempo dall’ultimo intervento», ha detto, aggiungendo che il controllo delle frontiere ha «disperatamente» bisogno di più risorse.

Biden ha continuato lanciando un appello diretto a Trump, invitandolo a unirsi a lui nell’esortare il Congresso a ratificare il disegno di legge. Quest’ultimo era stato bloccato quando Trump aveva mobilitato i suoi sostenitori nel Congresso contro di esso. «Tu e io sappiamo che è il disegno di legge sulla sicurezza delle frontiere più difficile, efficiente ed efficace che questo paese abbia mai visto», ha detto Biden. «Quindi, anziché fare politica usando questo problema, perché non ci uniamo e lo facciamo?”

Biden ha elogiato il disegno di legge bipartisan sulla frontiera come «una vittoria per il popolo americano», definendolo un «iniziativa veramente bipartisan». Ha esortato il Senato a riesaminare il disegno di legge, chiedendo ai senatori di «mettere da parte la politica» e a Mike Johnson, R-La., presidente della Camera, di portare il disegno di legge in aula. «Dobbiamo agire», ha detto Biden, aggiungendo che i repubblicani al Congresso devono «mostrare un po’ di fermezza».

La tanto attesa proposta di legge del Senato di 118 miliardi di dollari sulla “Sicurezza delle frontiere e aiuti in tempo di guerra», pubblicata domenica 4 febbraio,  a cui si riferisce Biden è stata affondata. Insieme al finanziamento per l’Ucraina e Israele, così come all’assistenza umanitaria per le persone che fuggono da Gaza, questo disegno di legge rappresenta una riscrittura drammatica del sistema di asilo statunitense.

Dei 118$ miliardi, 60$ andrebbero all’Ucraina, 14,1$ a Israele, 4,83$ alla regione Indo-Pacifico, 10$ per aiuti umanitari per Ucraina, Israele, Gaza e pochi altri, 20$ per migliorare la sicurezza al confine americano, 2, 72$ per l’arricchimento dell’uranio.  La maggior parte dei fondi destinati all’Ucraina, tuttavia, non verrà devoluta, invece, decine di miliardi di dollari affluiranno nelle casse del Pentagono per acquistare nuove armi da aziende statunitensi al fine di rimpinguare le riserve intaccate per aiutare l’Ucraina, finanziare operazioni militari e stipulare contratti per nuove armi per Kiev. Il senatore Rand Paul (R-Ky.), contrario a ulteriori finanziamenti per assistere l’Ucraina, ha scritto sui social media: «Quello che sappiamo ad oggi è: 60$ miliardi per il regime corrotto ucraino e nessuna vera sicurezza delle frontiere per il nostro paese». «Questo deve finire.» E supportando quanto scritto da Paul, prosegue il senatore Mike Lee (R-Utah) con tono sarcastico- «un fatto curioso:  «... il bilancio del Corpo dei Marines degli Stati Uniti nell’anno fiscale 2023 era di 53,8 miliardi di dollari. Questo disegno di legge darebbe all’Ucraina più di 60 miliardi di dollari».

Dopo il discorso di Biden,  la risposta di Trump attraverso il suo portavoce Karoline Leavitt, non si è fatta aspettare, ribattendo all’appello di Biden così: «Anziché scaricare la colpa su tutti tranne che su se stesso, Joe Biden dovrebbe assumersi la responsabilità della crisi al confine, delle morti e delle distruzioni che le sue politiche hanno causato,  il come Laken Riley e utilizzare il suo potere esecutivo per chiudere il confine oggi».

Un sondaggio della NBC News di gennaio ha rilevato che il 57% degli elettori registrati ha dichiarato che Trump sarebbe più idoneo ad occuparsi della sicurezza al confine, mentre solo il 22% ha detto lo stesso riguardo a Biden. Essendo stato bocciato il progetto di legge che disciplina l’immigrazione, Biden sta valutando se usare il “Presidential Executive Order” o provvedimento presidenziale, per limitare le regole sull’asilo bypassando il Congresso. I sostenitori per una immigrazione “umana” dei migranti e democratici progressisti lo hanno esortato a non seguire questa strada, sostenendo che renderebbe più difficile per gli immigrati richiedere asilo, esponendoli a situazioni e condizioni pericolose in Messico.


Due anni di guerra russo-ucraina

di Claudio Bertolotti

Abstract

A due anni dall’inizio del conflitto russo-ucraino, la situazione rimane critica, con un apparente stallo sul campo di battaglia che cela complesse dinamiche e gravi conseguenze. La Russia ha mantenuto il vantaggio tattico acquisito, consolidando il controllo sui territori occupati e mostrando disinteresse per le proprie perdite, in una strategia che privilegia le vittorie di grande risonanza mediatica. Al contrario, l’Ucraina, nonostante l’aiuto occidentale sotto forma di equipaggiamenti avanzati, si trova in difficoltà a causa della quantità insufficiente di sostegni, limitando la sua capacità di recuperare i territori occupati. La stanchezza dell’Occidente rischia di minare il supporto all’Ucraina, ignorando le implicazioni strategiche di lungo termine e potenzialmente consentendo alla Russia di usare i successi ottenuti per rafforzare le sue ambizioni future. Il conflitto sottolinea l’importanza di un impegno rinnovato e di una riflessione strategica per preservare l’ordine internazionale.

Due anni di guerra russo-ucraina

All’alba del secondo anniversario della guerra russo-ucraina, il conflitto rimane una ferita aperta nell’ordine mondiale. Nonostante gli sforzi incessanti e gli appelli internazionali alla pace, la situazione sul campo di battaglia riflette una realtà segnata da un apparente stallo operativo che, tuttavia, nasconde dinamiche complesse e conseguenze profonde.

Il vantaggio tattico inizialmente guadagnato dalla Russia è stato mantenuto nel corso di questi due anni, evidenziando una strategia militare che, nonostante le gravi perdite, ha permesso a Mosca di consolidare le sue posizioni nei territori occupati. Questo dominio tattico si è manifestato non solo attraverso la conquista territoriale ma anche tramite la capacità russa di infliggere significative perdite all’Ucraina, pur mostrando un disinteresse quasi totale per le proprie perdite. Questa indifferenza verso le perdite tra i soldati si inserisce in una narrazione più ampia che privilegia la vittoria in battaglie di alto impatto simbolico ed emotivo, mirando a rafforzare il sostegno interno e a intimidire la comunità internazionale.

Dall’altro lato, l’Ucraina, sostenuta da equipaggiamenti e munizioni di alto livello qualitativo forniti dall’Occidente, si trova di fronte a un’amara realtà. Nonostante la superiorità tecnologica di alcuni degli armamenti ricevuti, la quantità di questi sostegni si è rivelata insufficiente per ribaltare le sorti del conflitto. La scarsità di risorse ha limitato le capacità ucraine di lanciare offensive significative per liberare i territori occupati, congelando di fatto il conflitto in una logorante guerra di posizione.

L’impossibilità dell’Ucraina di avanzare significativamente sul campo di battaglia solleva ampi interrogativi sulla sostenibilità del sostegno occidentale. La stanchezza dei Paesi europei e dei contribuenti statunitensi si manifesta in una crescente riluttanza a investire in un conflitto che appare senza fine e, in ultima analisi, a svantaggio dell’Ucraina. Questa visione, seppur comprensibile alla luce degli ingenti costi umani ed economici, rischia di trascurare le implicazioni strategiche di lungo termine. La Russia, interpretando ogni cedimento o concessione occidentale come una vittoria, potrebbe utilizzare i successi territoriali e politici ottenuti per alimentare le sue future ambizioni, modificando irreversibilmente l’equilibrio geopolitico a suo favore.

Il fronte

Le truppe russe hanno intrapreso un’azione offensiva coordinata su vari fronti per raggiungere un traguardo operativamente significativo in Ucraina, un evento che non si verificava da oltre diciotto mesi. L’esito di questa avanzata nel settore Kharkiv-Luhansk rimane incerto, tuttavia, la pianificazione e l’implementazione iniziale di questa offensiva indicano cambiamenti importanti nella strategia operativa russa (Fonte ISW).

Fin dalla primavera del 2022, gli sforzi russi volti a conquistare città e villaggi di dimensioni ridotte nell’est dell’Ucraina non hanno raggiunto traguardi operativi di rilievo, nonostante tali azioni abbiano causato intensi combattimenti e gravi perdite sia per l’Ucraina che per la Russia. Durante l’offensiva di inverno-primavera del 2023, le forze russe hanno apparentemente puntato a obiettivi operativamente più ambiziosi, ma l’inefficacia della pianificazione e della realizzazione di tale offensiva ha impedito progressi significativi, di fatto non raggiungendo la maggior parte degli obiettivi prefissati.

Il disegno dell’offensiva russa

Fino ad ora, le offensive russe si sono concentrate sullo sforzo di grandi quantità di truppe contro singoli obiettivi (come Bakhmut e Avdiivka) o hanno compreso attacchi simultanei lungo linee di avanzamento troppo distanti per fornire reciproco sostegno e/o divergenti tra di loro. Al contrario, l’offensiva in atto nel settore Kharkiv-Luhansk si è sviluppata su attacchi lungo quattro direttrici parallele, strutturate in maniera coordinata al fine di collaborare vicendevolmente per raggiungere obiettivi multipli che, se conseguiti, potrebbero portare a vantaggi operativi determinanti per il proseguimento dell’azione offensiva. In particolare, il processo di pianificazione operativa di questa offensiva merita un’attenzione particolare poiché confermerebbe la capacità dei comandi russi di far tesoro delle lezioni apprese nelle più recenti battaglie, sia di successo che fallimentari (Fonte ISW). Tuttavia, le abilità tattiche russe in questa area non sembrano aver subito miglioramenti sostanziali rispetto al passato, almeno dal punto di vista tattico; un elemento che potrebbe contribuire, non tanto al fallimento dell’operazione complessiva, ma ad aumentarne i già elevati costi in termini di risorse materiali e umane.

Avdiivka: quanto è grave la caduta di questa cittadina?

Avdiivka non è mai stata un obiettivo strategico, lo è su quello della propaganda strategica come lo è sul piano operativo e tattico. La sua caduta in mano russa ha avuto un forte impatto emotivo per gli ucraini, poiché è la prima città conquistata dai russi dopo Bakhmut, e segue la sfortunata offensiva ucraina lanciata prima dell’estate dello scorso anno. La sua conquista ha richiesto circa 4 mesi ai russi, a fronte di un elevato dispendio di risorse: ma è comunque una vittoria russa e una sconfitta ucraina e questo peserà sia sull’opinione pubblica russa, sia sul morale dei soldati ucraini.

L’importanza tattica di Avdiivka sta nell’essere a pochi chilometri dalla città di Donetsk, e da li le forze ucraine potevano colpire con l’artiglieria il capoluogo del bacino minerario del Donbass, di fatto rendendo la città il perno di manovra del dispositivo militare ucraino sul fronte di Donetsk. Ora questo è venuto meno, e le posizioni arretrate che le forze di Kiev hanno dovuto assumere sono sia uno svantaggio tattico per gli ucraini sia, e questo deve preoccuparci, la conferma di un indebolimento progressivo del fronte ucraino, anche in conseguenza delle disponibilità in termini di uomini e munizioni.

Potrebbe essere l’inizio di un’offensiva più vasta?

È la lenta avanzata russa, che non si è mai fermata e che concentra in punti chiave il proprio sforzo. I russi sono numericamente superiori in termini di personale, artiglieria e aviazione. La quantità russa prevale sulla qualità ucraina.

Il nord è un fronte che almeno al momento non sembra essere interessato dall’ipotesi di una nuova offensiva. Ma non si può escluderlo, e questo per la Russia è un vantaggio perché l’Ucraina è obbligata a tenere truppe ferme in attesa di contenere una qualsiasi minaccia su quel settore del fronte.

Oggi però la grande offensiva russa è duplice: comunicativa e sul campo di battaglia. In entrambi gli ambiti la Russia è molto aggressiva e capace di ottenere risultati favorevoli. La disinformazione, la propaganda, il fatto che intellettuali e giornalisti occidentali facciano da cassa di risonanza alla propaganda russa sono elementi che confermano la scelta vincente di Mosca. Poi c’è l’offensiva sul campo di battaglia: l’obiettivo primario di Mosca è l’Oblast’ di Luhansk, per poi spingersi verso ovest nell’Oblast’ di Kharkiv orientale e, da qui, circondare l’Oblast’ di Donetsk settentrionale e occuparlo.

Le direttrici dell’offensiva russa

La campagna offensiva russa sta procedendo attualmente su quattro assi, da nord a sud, includendo le aree intorno a Kupyansk e Synkivka; da Tabaivka a Kruhlyakivka; da Makiivka a Raihorodka e/o Borova; e da Kreminna a Drobysheve e/o Lyman.

Il contingente militare russo dislocato nella regione occidentale ha amplificato le sue attività offensive lungo l’asse Kupyansk-Svatove-Kreminna, concentrando i suoi sforzi su quattro principali direzioni di movimento. Queste forze stanno avanzando in maniera offensiva a nord-est di Kupyansk, a nord-ovest e a sud-ovest di Svatove, nonché a ovest di Kreminna. Il raggruppamento occidentale russo, che si compone principalmente di unità del distretto militare occidentale (WMD), ha assunto la responsabilità dell’asse Kharkiv-Luhansk dopo che la linea del fronte si è stabilizzata a seguito della riuscita controffensiva ucraina nell’area di Kharkiv nell’autunno del 2022 (Fonte ISW).

Il comando centrale delle forze (prevalentemente costituito da unità del Distretto Militare Centrale [CMD]) ha gestito la sezione meridionale di questo fronte in direzione di Lyman fino all’autunno del 2023, momento in cui il WMD avrebbe preso il comando della zona settentrionale vicino a Lyman, a seguito del trasferimento di un significativo contingente di truppe del CMD per supportare, all’inizio di ottobre 2023, l’attacco offensivo su Avdiivka nella regione di Donetsk.

Il 6 ottobre 2023, la 6ª Armata Combinata (CAA) e la 1ª Armata Corazzata della Guardia (1ª GTA) del WMD hanno rilanciato un’offensiva localizzata a nord-est di Kupyansk, incrementando sporadicamente le operazioni in altre aree vicino a Kupyansk. Questo tentativo offensivo russo di avanzare verso Kupyansk da nord-est ha tuttavia portato solamente a modesti successi tattici entro gennaio 2024 (Fonte ISW).

A gennaio 2024, le autorità ucraine hanno segnalato con crescente frequenza che le forze russe stavano preparando il terreno per un’offensiva di più ampia portata sia nella direzione di Kupyansk che di Lyman. Le unità WMD hanno iniziato a intensificare le operazioni su quattro fronti lungo l’asse all’inizio di gennaio, e il capo della Direzione principale dell’intelligence militare (GUR) ucraina, il tenente generale Kyrylo Budanov, ha confermato l’inizio dell’offensiva russa d’inverno-primavera 2024 sull’asse Kharkiv-Luhansk, scattata il 30 gennaio (Fonte ISW).

Il tema delle armi: forniture di aerei F16 e mancanza munizioni.

Dopo aver superato le varie linee rosse rispetto alle quali inizialmente era stato detto che non si sarebbe mai andati oltre, dalla fornitura prima di artiglieria, poi dei sistemi missilistici a medio raggio, e poi ancora i carri armati pesanti, è giunta l’ora degli aerei da caccia F16, che saranno un sollievo per Kiev, ma non determinanti se non accompagnati da un massiccio rifornimento di munizioni ed equipaggiamenti pesanti.

Se Fino allo scorso anno la qualità degli equipaggiamenti militari forniti dall’Occidente e l’addestramento fornito ai soldati ucraini hanno compensato la quantità degli arsenali russi che, per quanto obsoleti hanno comunque ottenuto lo scopo di garantire alla Russia un vantaggio tattico pressoché costante in questa lenta guerra di attrito e logoramento.

Ad oggi l’Ucraina non ha più le forze sufficienti per la condotta di operazioni offensive su media e larga scala. Di fatto archiviando qualunque ipotesi di liberazione dei territori ucraini occupati dalla Russia. Gli aiuti militari occidentali, che fino a oggi hanno consentito a Kiev di tenere il fronte, conducendo una controffensiva lo scorso anno che si è rivelata molto sfortunata, ma non sotto le aspettative

Quanto pesa non ricevere armi a sufficienza?

Gli aiuti Occidentali sono stati e sono determinanti per l’esito della guerra. Se proseguisse l’aiuto occidentale in maniera coerente con quanto fatto nei due anni appena trascorsi, l’Ucraina potrebbe continuare a difendersi, tenendo le attuali posizioni, ma nulla di più. Se diminuissero anche solo di poco, l’Ucraina sarebbe destinata a soccombere alla pressione Russa, con un pericolo concreto di crollo del fronte e avanzata di Mosca. Per consentire all’Ucraina di imporre la propria volontà sul campo di battaglia e anche per non uscire sconfitta all’eventuale tavolo negoziale, è necessario uno sforzo di molto superiore a quanto fatto sino a oggi.

Gli avvicendamenti allo stato maggiore: indicatore di forza o debolezza della politica di Zelensky?

Il cambio ai vertici della difesa ucraina imposto da Zelensky è frutto di un braccio di ferro tra due gruppi di pensiero. Da una parte l’entourage presidenziale che insiste sul cambiamento, ad uso e consumo dell’opinione pubblica interna e degli alleati all’estero, con un “cambiamento” da realizzare. E dall’altra parte c’è “l’entourage della Difesa, che insieme alla massa dei soldati, guardava a Valerii Zaluzhny come punto di riferimento importante”, un “uomo straordinario perché è riuscito a fare moltissimo con poco” ed è “riuscito a impiegare in maniera estremamente razionale le truppe sul terreno nonostante le direttive politiche a cui si è dovuto piegare” archiviando “la dottrina militare ereditata dall’Unione sovietica e sposando fin da subito l’approccio occidentale della Nato, anche rispetto alla struttura delle Forze Armate ucraine”. Con la nomina a capo di stato maggiore della difesa del generale Oleksandr Syrsky, appartenente alla generazione precedente rispetto Zaluzhny, il rischio è quello di tornare a vedere meno innovazione ma, elemento di maggior conto, vedere diminuire l’entusiasmo dei soldati così come lo abbiamo visto con il suo predecessore. Ma un cambiamento, almeno sul piano politico, era opportuno, e così è stato.

Lotte intestine sul reclutamento di migliaia di giovani che Zelensky a quanto pare non vuole.

La mancanza di armi e munizioni è un problema, ma oggi, a due anni dall’inizio della guerra, il problema più grande è la diminuzione del potenziale umano. Mancano i soldati, specialmente i giovani. Chi è al fronte ha un’età media molto elevata, con soldati di 45 anni che combattono da due anni, molti con brevi periodi di riposo, altri senza mai essere stati sostituiti.

Preoccupa l’elevato dato di possibili renitenti alla leva tra i più giovani, forse 800.000, molti dei quali fuggiti all’estero. Una chiamata di massa potrebbe rivelarsi un boomerang per un Zelensky nei confronti del quale il sostegno entusiastico dell’opinione pubblica, ucraina e straniera, ha cominciato a ridursi progressivamente. Lo scontro è prevalentemente politico, tra chi spinge per un accordo negoziale e chi invece vuole proseguire la guerra a oltranza.

In conclusione, il secondo anniversario della guerra russo-ucraina non è soltanto un tragico promemoria della persistente violenza e instabilità nella regione, ma anche un monito sulle sfide future che attendono la comunità internazionale. Affrontare queste sfide richiederà non solo un rinnovato impegno verso l’Ucraina ma anche una riflessione strategica più ampia su come preservare l’ordine internazionale di fronte a un aggressore determinato a riscrivere le regole attraverso la forza.


Il petrolio ombra di Mosca: il segreto della buona economia russa.

di Andrea Molle

Abstract (Italian)

Questo articolo esamina l’origine della robusta condizione finanziaria della Russia alle soglie del terzo anno del conflitto in Ucraina, rilevando come il sostanziale afflusso di denaro dalle esportazioni di petrolio, in particolare all’India, abbia rafforzato le casse dello Stato russo. L’Autore, discute inoltre sul ruolo della Flotta Ombra del Cremlino, una forza marittima clandestina che elude le normative internazionali, facilitando il commercio di petrolio e oro insanguinato e contribuendo a mantenere il flusso di entrate verso la Russia. Infine, viene analizzata la dipendenza dell’India dal petrolio russo come strategia per mantenere stabili i prezzi globali del petrolio, nonostante le critiche internazionali.

Keywords: Petrolio, flotta ombra, economia russa

L’economia russa è robusta

La Russia, nel terzo anno del conflitto in Ucraina, si trova in una posizione finanziaria robusta, con le casse dello Stato rifornite da un notevole afflusso di denaro. Nel 2023, le entrate federali della Russia hanno raggiunto un record di 320 miliardi di dollari e si prevede che continueranno ad aumentare. Secondo alcuni analisti, circa un terzo di queste entrate è stato destinato alla guerra in Ucraina l’anno precedente, mentre una percentuale ancora maggiore finanzierà il conflitto nel 2024. I notevoli fondi a disposizione del Cremlino posizionano Mosca in una posizione più favorevole per sostenere una guerra prolungata rispetto a Kiev, che lotta per mantenere il vitale flusso di denaro occidentale.

Oltre all’oro insanguinato proveniente dall’Africa, questo incremento di entrate è stato alimentato dalle vendite eccezionali di petrolio grezzo all’India. Transazioni che hanno generato introiti stimati intorno ai 37 miliardi di dollari a cui si aggiungono circa 1 miliardo di dollari provienienti dal petrolio raffinato in India e poi esportato negli Stati Uniti. Tale flusso di entrate è il risultato diretto dell’aumento degli acquisti di petrolio russo da parte di Delhi, che secondo un’analisi del Centre for Research on Energy and Clean Air (CREA), riportata di recente dalla CNN, ora superano di 13 volte i livelli prebellici.

L’analisi delle rotte di trasporto del greggio

L’analisi delle rotte di trasporto del greggio suggerisce inoltre un coinvolgimento della cosiddetta Flotta Ombra del Cremlino. Con questo termine ci si riferisce a una forza marittima clandestina russa, composta da navi che operano al di fuori delle norme marittime internazionali. L’indagine sulla Flotta Ombra è iniziata nei primi anni 2010, quando le principali agenzie di intelligence occidentali e diversi analisti marittimi hanno notato comportamenti sospetti in navi russe o battenti bandiere di paradisi fiscali. Queste navi sono spesso osservate ad operare in aree strategicamente significative, come vicino a cavi di comunicazione sottomarini e installazioni militari, spesso spegnendo i loro sistemi di identificazione automatica per sfuggire al monitoraggio. Le implicazioni della Flotta Ombra russa sono molteplici e tutte potenzialmente pericolose. In primo luogo, c’è preoccupazione per il suo ruolo nel sostenere le operazioni militari russe e nel violare le norme internazionali e le leggi marittime. La presenza di questa flotta mina la sicurezza e la stabilità marittime globali, complicando gli sforzi affinchè la Russia sia tenuta a rispondere delle sue azioni illegali in mare. Una delle attività tipiche della Flotta Ombra nel settore petrolifero è lo scambio di greggio tra due navi con l’obiettivo di mascherarne l’origine e la destinazione finale, confondendo le autorità riguardo alla provenienza e all’acquirente finale. Decine di tali trasferimenti avvengono ad esempio ogni settimana nel Golfo Laconico in Grecia, un punto di passaggio strategico verso il Canale di Suez e i mercati asiatici. Alla fine del 2022, con il supporto di diversi paesi, gli Stati Uniti hanno imposto un limite di prezzo, impegnandosi a non acquistare petrolio russo oltre i 60 dollari al barile.

La flotta ombra

Questi paesi hanno anche vietato alle proprie compagnie di navigazione e di assicurazione, attori chiave nel trasporto marittimo globale, di facilitare il commercio di petrolio russo oltre tale prezzo. Tuttavia, questo limite di prezzo ha paradossalmente alimentato la creazione della Flotta Ombra. Con catene di approvvigionamento più lunghe, è infatti più difficile individuare i trasferimenti da nave a nave e determinare il costo effettivo di un barile di petrolio russo e diventa facile aggirare le sanzioni. La Flotta Ombra ha pertanto consentito alla Russia di creare una rete di navigazione fantasma parallela a quella legale, in grado di eludere il monitoriaggio e aggirare le sanzioni occidentali, con centinaia di petroliere la cui proprietà non è chiara e che seguono rotte così complicate da risultare impossibili da seguire. Secondo le analisi effettuate grazie all’intelligenza artificiale della società di analisi marittima Windward, questa flotta è cresciuta fino a includere nel 2023 circa 1.800 navi.

In questo quadro, gli acquisti di petrolio da parte dell’India hanno avuto l’effetto di alleviare la pressione delle sanzioni sulla Russia. L’India difende le sue politiche di approvvigionamento energetico da Mosca come un modo per mantenere i prezzi globali del petrolio più stabili, evitando di competere con le nazioni occidentali per il petrolio del Medio Oriente. Il governo di Delhi ha dichiarato che qualora l’India dovesse smettere di comprare greggio da Mosca e più petrolio dal Medio Oriente, il prezzo del petrolio salirebbe a 150 dollari avviando una spirale di aumento dei costi che il mondo non può permettersi. Ma una parte di questo petrolio grezzo viene raffinato nelle raffinerie lungo la costa occidentale dell’India e successivamente esportato negli Stati Uniti e in altri paesi che hanno imposto sanzioni sul petrolio russo. Questi prodotti raffinati, non essendo soggetti a sanzioni, costituiscono ciò che gli analisti chiamano la “scappatoia delle raffinerie”. Sempre secondo l’analisi del CREA, gli Stati Uniti sono stati il principale acquirente di prodotti raffinati dall’India derivati dal petrolio grezzo russo nel 2023, per un valore di 1,3 miliardi di dollari. E il valore di queste esportazioni di prodotti petroliferi aumenta notevolmente quando si considerano anche gli alleati degli Stati Uniti che applicano sanzioni contro la Russia. Il CREA ha stimato che questi paesi abbiano importato prodotti petroliferi dal petrolio grezzo russo per un valore di 9,1 miliardi di dollari nel 2023, registrando un aumento del 44% rispetto all’anno precedente.

Mosca ha beneficiato di questo processo sia attraverso la tassazione diretta delle esportazioni che attraverso i profitti ottenuti da Rosneft, la società petrolifera di stato russa, nell’ambito della raffinazione e dalla rivendita ai paesi occidentali.

Entrate e spese russe: un record

Secondo un’analisi condotta dal think tank RAND sui conti del Ministero delle Finanze russo, nel 2023 le entrate e le spese federali della Russia hanno raggiunto entrambe livelli record. Sebbene per adesso Mosca non sia ancora arrivata al pareggio di bilancio, a causa del pesante costo della guerra e delle perdite di entrate dovute in generale alle sanzioni il deficit di bilancio federale è in tendenza decrescente. Le imposte interne sulla produzione e sull’importazione sono entrambe significative ed efficienti, il che implica che la popolazione russa è pesantemente tassata per finanziare il conflitto. Tuttavia, gli analisti avvertono che in questo quadro economico anche la più piccola violazione delle sanzioni contro la Russia può generare ingenti profitti, date le enormi somme coinvolte nel commercio petrolifero e dell’oro, e questo potrebbe portare il regime a diminuire la pressione fiscale generando un maggior supporto per le operazioni militari correnti e future. Per questo è di primaria importanza affrontare efficacemente questa minaccia con una maggiore vigilanza, cooperazione e impegno diplomatico internazionale che includa nuove misure contro le navi della Flotta Ombra e le aziende sospettate di agevolare il trasporto illegale del petrolio e dell’oro russo.