MDMH_002

MDHM nell’era digitale: il doppio volto dell’Intelligenza Artificiale tra minaccia e soluzione per la democrazia.

di Claudio Bertolotti.

Abstract

La diffusione di informazioni false, fuorvianti o manipolate – riassunta nell’acronimo MDHM (misinformation, disinformation, malinformation e hate speech) – rappresenta una delle sfide più critiche dell’era digitale, con conseguenze profonde sulla coesione sociale, la stabilità politica e la sicurezza globale. Questo studio analizza le caratteristiche distintive di ciascun fenomeno e il loro impatto interconnesso, evidenziando come alimentino l’erosione della fiducia nelle istituzioni, la polarizzazione sociale e l’instabilità politica.

L’intelligenza artificiale emerge come una risorsa cruciale per contrastare il MDHM, offrendo strumenti avanzati per il rilevamento di contenuti manipolati e il monitoraggio delle reti di disinformazione. Tuttavia, la stessa tecnologia alimenta nuove minacce, come la creazione di deepfake e la generazione di contenuti automatizzati che amplificano la portata e la sofisticazione della disinformazione. Questo paradosso evidenzia la necessità di un uso etico e strategico delle tecnologie emergenti.

Il lavoro propone un approccio multidimensionale per affrontare il MDHM, articolato su tre direttrici principali: l’educazione critica, con programmi scolastici e campagne pubbliche per rafforzare l’alfabetizzazione mediatica; la regolamentazione delle piattaforme digitali, mirata a bilanciare la rimozione dei contenuti dannosi con la tutela della libertà di espressione; la collaborazione globale, per garantire una risposta coordinata a una minaccia transnazionale.

In conclusione, l’articolo sottolinea l’importanza di un impegno concertato tra governi, aziende tecnologiche e società civile per mitigare gli effetti destabilizzanti del MDHM e preservare la democrazia, la sicurezza e la fiducia nelle informazioni.

Definizioni e Distinzioni

La diffusione di informazioni false, fuorvianti o manipolate costituisce una delle sfide più complesse e pericolose dell’era digitale, con ripercussioni significative sull’equilibrio sociale, politico e culturale. I fenomeni noti come misinformation,disinformation, malinformatione hate speech, sintetizzati nell’acronimo MDHM, rappresentano manifestazioni distinte ma strettamente interconnesse di questa problematica. Una comprensione approfondita delle loro specificità è imprescindibile per sviluppare strategie efficaci volte a contenere e contrastare le minacce che tali fenomeni pongono alla coesione sociale e alla stabilità delle istituzioni.

Misinformation: Informazioni false diffuse senza l’intenzione di causare danno. Ad esempio, la condivisione involontaria di notizie non verificate sui social media.

Disinformation: Informazioni deliberatamente create per ingannare, danneggiare o manipolare individui, gruppi sociali, organizzazioni o nazioni. Un esempio è la diffusione intenzionale di notizie false per influenzare l’opinione pubblica o destabilizzare istituzioni.

Malinformation: informazioni basate su fatti reali, ma utilizzate fuori contesto per fuorviare, causare danno o manipolare. Ad esempio, la divulgazione di dati personali con l’intento di danneggiare la reputazione di qualcuno.

Hate Speech: espressioni che incitano all’odio contro individui o gruppi basati su caratteristiche come razza, religione, etnia, genere o orientamento sessuale. Questo tipo di discorso può fomentare violenza e discriminazione.

Impatto sulla Società

La diffusione di misinformation, disinformation, malinformation e hate speech rappresenta una sfida cruciale per la stabilità delle società moderne. Questi fenomeni, potenziati dalla rapidità e dalla portata globale dei media digitali, hanno conseguenze significative che si manifestano in vari ambiti sociali, politici e culturali. Tra i principali effetti troviamo l’erosione della fiducia nelle istituzioni, la polarizzazione sociale e l’acuirsi delle minacce alla sicurezza.

 

Erosione della Fiducia

L’informazione falsa o manipolata rappresenta un attacco diretto alla credibilità delle istituzioni pubbliche, dei media e persino della comunità scientifica. Quando le persone vengono sommerse da un flusso costante di notizie contraddittorie o palesemente mendaci, il risultato inevitabile è una crisi di fiducia generalizzata. Nessuna fonte viene risparmiata dal dubbio, nemmeno i giornalisti più autorevoli o gli organismi governativi più trasparenti. Questo processo mina le fondamenta della società e alimenta un clima di incertezza che, a lungo andare, può trasformarsi in alienazione.

Un esempio emblematico si osserva nel contesto del processo democratico, dove la disinformazione colpisce con particolare intensità. Le campagne di manipolazione delle informazioni, mirate a diffondere falsità sulle procedure di voto o sui candidati, hanno un effetto devastante sull’integrità elettorale. Ciò non solo alimenta il sospetto e la sfiducia nelle istituzioni democratiche, ma crea anche un senso di disillusione tra i cittadini, allontanandoli ulteriormente dalla partecipazione attiva.

Le conseguenze diventano ancora più evidenti nella gestione delle crisi globali. Durante la pandemia da COVID-19, l’ondata di teorie del complotto e la diffusione di cure non verificate hanno rappresentato un ostacolo significativo per gli sforzi della salute pubblica. La disinformazione ha alimentato paure infondate e diffidenza verso i vaccini, rallentando la risposta globale alla crisi e aumentando la diffusione del virus.

Ma questa erosione della fiducia non si ferma al singolo individuo. Le sue ripercussioni si estendono a tutta la società, frammentandola. I legami sociali, già indeboliti da divisioni preesistenti, diventano ancora più vulnerabili alla manipolazione. E così, si crea un terreno fertile per ulteriori conflitti e instabilità, in cui le istituzioni si trovano sempre più isolate, mentre cresce il rischio di una società incapace di reagire a sfide collettive.

 

Polarizzazione Sociale

Le campagne di disinformazione trovano terreno fertile nelle divisioni già esistenti all’interno della società, sfruttandole con l’obiettivo di amplificarle e renderle insormontabili. Questi fenomeni, alimentati da strategie mirate e potenziati dalle piattaforme digitali, intensificano il conflitto sociale e compromettono la possibilità di dialogo, lasciando spazio a una polarizzazione sempre più marcata.

L’amplificazione delle divisioni è forse il risultato più visibile della disinformazione. La manipolazione delle informazioni viene utilizzata per radicalizzare le opinioni politiche, culturali o religiose, costruendo una narrazione di contrapposizione tra un “noi” e un “loro”. Nei contesti di tensioni etniche, per esempio, la malinformation, diffusa con l’intento di distorcere eventi storici o di strumentalizzare questioni politiche attuali, accentua le differenze percepite tra gruppi sociali. Questi contrasti, spesso già esistenti, vengono esasperati fino a cristallizzarsi in conflitti identitari difficili da sanare.

A ciò si aggiunge l’effetto delle cosiddette “bolle informative”, create dagli algoritmi delle piattaforme digitali. Questi sistemi, progettati per massimizzare l’engagement degli utenti, propongono contenuti che rafforzano le loro opinioni preesistenti, limitandone l’esposizione a prospettive alternative. Questo fenomeno, noto come “filtro bolla”, non solo solidifica pregiudizi, ma isola gli individui all’interno di una realtà mediatica che si nutre di conferme continue, impedendo la comprensione di punti di vista differenti.

La polarizzazione, alimentata dal MDHM, non si ferma però al piano ideologico. In molti casi, la radicalizzazione delle opinioni si traduce in azioni concrete: proteste, scontri tra gruppi e, nei casi più estremi, conflitti armati. Guerre civili e crisi sociali sono spesso il culmine di una spirale di divisione che parte dalle narrative divisive diffuse attraverso disinformazione e hate speech.

In definitiva, la polarizzazione generata dal MDHM non danneggia solo il dialogo sociale, ma mina anche le fondamenta della coesione collettiva. In un tale contesto, risulta impossibile trovare soluzioni condivise a problemi comuni. Ciò che rimane è un clima di conflittualità permanente, dove il “noi contro loro” sostituisce qualsiasi tentativo di collaborazione, rendendo la società più fragile e vulnerabile.

Minaccia alla Sicurezza

Nei contesti di conflitto, il MDHM si rivela un’arma potente e pericolosa, capace di destabilizzare società e istituzioni con implicazioni devastanti per la sicurezza collettiva e individuale. La disinformazione, insieme al discorso d’odio, alimenta un ciclo di violenza e instabilità politica, minacciando la pace e compromettendo i diritti umani. Gli esempi concreti di come queste dinamiche si manifestano non solo illustrano la gravità del problema, ma evidenziano anche l’urgenza di risposte efficaci.

La propaganda e la destabilizzazione costituiscono uno degli utilizzi più insidiosi della disinformazione. Stati e gruppi non statali sfruttano queste pratiche come strumenti di guerra ibrida, mirati a indebolire il morale delle popolazioni avversarie e a fomentare divisioni interne. In scenari geopolitici recenti, la diffusione di informazioni false ha generato confusione e panico, rallentando la capacità di risposta delle istituzioni. Questa strategia, pianificata e sistematica, non si limita a disorientare l’opinione pubblica ma colpisce direttamente il cuore della coesione sociale.

Il discorso d’odio, amplificato dalle piattaforme digitali, è spesso un precursore di violenze di massa. Ne è tragico esempio il genocidio dei Rohingya in Myanmar, preceduto da una campagna di odio online che ha progressivamente deumanizzato questa minoranza etnica, preparandone il terreno per persecuzioni e massacri. Questi episodi dimostrano come lo hate speech, una volta radicato, possa tradursi in azioni violente e sistematiche, con conseguenze irreparabili per le comunità coinvolte.

Anche sul piano individuale, gli effetti del MDHM sono profondamente distruttivi. Fenomeni come il doxxing – la divulgazione pubblica di informazioni personali con intenti malevoli – mettono a rischio diretto la sicurezza fisica e psicologica delle vittime. Questo tipo di attacco non solo espone le persone a minacce e aggressioni, ma amplifica un senso di vulnerabilità che si estende ben oltre il singolo episodio, minando la fiducia nel sistema stesso.

L’impatto cumulativo di queste dinamiche mina la stabilità sociale nel suo complesso, creando fratture profonde che richiedono risposte immediate e coordinate. Affrontare il MDHM non è solo una questione di difesa contro la disinformazione, ma un passo essenziale per preservare la pace, proteggere i diritti umani e garantire la sicurezza globale in un’epoca sempre più interconnessa e vulnerabile.

 

Strategie di Mitigazione

La lotta contro il fenomeno MDHM richiede una risposta articolata e coordinata, capace di affrontare le diverse sfaccettature del problema. Dato l’impatto complesso e devastante che questi fenomeni hanno sulla società, le strategie di mitigazione devono essere sviluppate con un approccio multidimensionale, combinando educazione, collaborazione tra i diversi attori e un quadro normativo adeguato.

Educazione e Consapevolezza

La prima e più efficace linea di difesa contro il fenomeno MDHM risiede nell’educazione e nella promozione di una diffusa alfabetizzazione mediatica. In un contesto globale in cui le informazioni circolano con una rapidità senza precedenti e spesso senza un adeguato controllo, la capacità dei cittadini di identificare e analizzare criticamente i contenuti che consumano diventa una competenza indispensabile. Solo attraverso una maggiore consapevolezza sarà possibile arginare gli effetti negativi della disinformazione e costruire una società più resiliente.

Il pensiero critico rappresenta la base di questa strategia. I cittadini devono essere messi nelle condizioni di distinguere le informazioni affidabili dai contenuti falsi o manipolati. Questo processo richiede l’adozione di strumenti educativi che insegnino come verificare le fonti, identificare segnali di manipolazione e analizzare il contesto delle notizie. È un impegno che va oltre la semplice formazione: si tratta di creare una cultura della verifica e del dubbio costruttivo, elementi essenziali per contrastare la manipolazione informativa.

Un ruolo cruciale in questa battaglia è giocato dalla formazione scolastica. Le scuole devono diventare il luogo privilegiato per l’insegnamento dell’alfabetizzazione mediatica, preparando le nuove generazioni a navigare consapevolmente nel complesso panorama digitale. L’integrazione di questi insegnamenti nei programmi educativi non può più essere considerata un’opzione, ma una necessità. Attraverso laboratori pratici, analisi di casi reali e simulazioni, i giovani possono sviluppare le competenze necessarie per riconoscere contenuti manipolati e comprendere le implicazioni della diffusione di informazioni false.

Tuttavia, l’educazione non deve limitarsi ai giovani. Anche gli adulti, spesso più esposti e vulnerabili alla disinformazione, devono essere coinvolti attraverso campagne di sensibilizzazione pubblica. Queste iniziative, veicolate sia attraverso i media tradizionali che digitali, devono illustrare le tecniche più comuni utilizzate per diffondere contenuti falsi, sottolineando le conseguenze negative di tali fenomeni per la società. Un cittadino informato, consapevole dei rischi e capace di riconoscerli, diventa un elemento di forza nella lotta contro la disinformazione.

Investire nell’educazione e nella sensibilizzazione non è solo una misura preventiva, ma un pilastro fondamentale per contrastare il MDHM. Una popolazione dotata di strumenti critici è meno suscettibile alle manipolazioni, contribuendo così a rafforzare la coesione sociale e la stabilità delle istituzioni democratiche. Questo percorso, pur richiedendo un impegno costante e coordinato, rappresenta una delle risposte più efficaci a una delle minacce più insidiose del nostro tempo.

Collaborazione Intersettoriale

La complessità del fenomeno MDHM è tale che nessun singolo attore può affrontarlo efficacemente da solo. È una sfida globale che richiede una risposta collettiva e coordinata, in cui governi, organizzazioni non governative, aziende tecnologiche e società civile collaborano per sviluppare strategie condivise. Solo attraverso un impegno sinergico è possibile arginare gli effetti destabilizzanti di questa minaccia.

Le istituzioni governative devono assumere un ruolo guida. I governi sono chiamati a creare regolamentazioni efficaci e ambienti sicuri per lo scambio di informazioni, garantendo che queste misure bilancino due aspetti fondamentali: la lotta contro i contenuti dannosi e la protezione della libertà di espressione. Un eccesso di controllo rischierebbe infatti di scivolare nella censura, minando i principi democratici che si intendono tutelare. L’approccio deve essere trasparente, mirato e in grado di adattarsi all’evoluzione delle tecnologie e delle dinamiche di disinformazione.

Le aziende tecnologiche, in particolare i social media, giocano un ruolo centrale in questa sfida. Hanno una responsabilità significativa nel contrastare la diffusione del MDHM, essendo i principali veicoli attraverso cui queste dinamiche si propagano. Devono investire nello sviluppo di algoritmi avanzati, capaci di identificare e rimuovere i contenuti dannosi in modo tempestivo ed efficace. Tuttavia, l’efficacia degli interventi non può venire a scapito della libertà degli utenti di esprimersi. La trasparenza nei criteri di moderazione, nella gestione dei dati e nei meccanismi di segnalazione è fondamentale per mantenere la fiducia degli utenti e prevenire abusi.

Accanto a questi attori, le organizzazioni non governative (ONG) e la società civile svolgono un ruolo di intermediazione. Le ONG possono fungere da ponte tra istituzioni e cittadini, offrendo informazioni verificate e affidabili, monitorando i fenomeni di disinformazione e promuovendo iniziative di sensibilizzazione. Queste organizzazioni hanno anche la capacità di operare a livello locale, comprendendo meglio le dinamiche specifiche di determinate comunità e adattando le strategie di contrasto alle loro esigenze.

Infine, è imprescindibile favorire partnership pubbliche e private. La collaborazione tra settori pubblico e privato è essenziale per condividere risorse, conoscenze e strumenti tecnologici utili a combattere il MDHM. In particolare, le aziende possono offrire soluzioni innovative, mentre i governi possono fornire il quadro normativo e il supporto necessario per implementarle. Questa sinergia permette di affrontare la disinformazione con un approccio più ampio e integrato, combinando competenze tecniche, capacità di monitoraggio e intervento.

La risposta al MDHM non può dunque essere frammentata né limitata a un singolo settore. Solo attraverso una collaborazione trasversale e globale sarà possibile mitigare le conseguenze di questi fenomeni, proteggendo le istituzioni, i cittadini e la società nel suo insieme.

Ruolo delle Tecnologie Avanzate e Artificial Intelligence (AI) nel Contesto del MDHM

Le tecnologie emergenti, in particolare l’intelligenza artificiale (IA), svolgono un ruolo cruciale nel contesto di misinformation, disinformation, malinformation e hate speech. L’AI rappresenta un’arma a doppio taglio: da un lato, offre strumenti potenti per individuare e contrastare la diffusione di contenuti dannosi; dall’altro, alimenta nuove minacce, rendendo più sofisticati e difficili da rilevare gli strumenti di disinformazione.

Rilevamento Automatico

L’intelligenza artificiale ha rivoluzionato il modo in cui affrontiamo il fenomeno della disinformazione, introducendo sistemi avanzati di rilevamento capaci di identificare rapidamente contenuti falsi o dannosi. In un panorama digitale in cui il volume di dati generato quotidianamente è immenso, il monitoraggio umano non è più sufficiente. Gli strumenti basati sull’AI si rivelano quindi essenziali per gestire questa complessità, offrendo risposte tempestive e precise.

Tra le innovazioni più rilevanti troviamo gli algoritmi di machine learning, che rappresentano il cuore dei sistemi di rilevamento automatico. Questi algoritmi, attraverso tecniche di apprendimento automatico, analizzano enormi quantità di dati alla ricerca di schemi che possano indicare la presenza di contenuti manipolati o falsi. Addestrati su dataset contenenti esempi di disinformazione già identificati, questi sistemi sono in grado di riconoscere caratteristiche comuni, come l’uso di titoli sensazionalistici, un linguaggio emotivamente carico o la presenza di immagini alterate. L’efficacia di tali strumenti risiede nella loro capacità di adattarsi a nuovi modelli di manipolazione, migliorando costantemente le proprie performance.

Un altro ambito cruciale è quello della verifica delle fonti. Strumenti basati su AI possono confrontare le informazioni che circolano online con fonti affidabili, identificando discrepanze e facilitando il lavoro dei fact-checker. In questo modo, la tecnologia accelera i tempi di verifica, permettendo di contrastare in maniera più efficiente la diffusione di contenuti falsi prima che raggiungano un pubblico vasto.

L’AI è anche fondamentale per contrastare una delle minacce più sofisticate: i deepfake, di cui più oltre tratteremo. Grazie a tecniche avanzate, è possibile analizzare video e immagini manipolati, individuando anomalie nei movimenti facciali, nella sincronizzazione delle labbra o nella qualità complessiva del contenuto visivo. Aziende come Adobe e Microsoft stanno sviluppando strumenti dedicati alla verifica dell’autenticità dei contenuti visivi, offrendo una risposta concreta a una tecnologia che può facilmente essere sfruttata per scopi malevoli.

Il monitoraggio del linguaggio d’odio è un altro fronte in cui l’AI dimostra il suo valore. Attraverso algoritmi di elaborazione del linguaggio naturale (NLP), è possibile analizzare i testi in tempo reale per identificare espressioni di hate speech. Questi sistemi non solo categorizzano i contenuti, ma assegnano priorità agli interventi, garantendo una risposta rapida ed efficace ai casi più gravi. In un contesto in cui il discorso d’odio può rapidamente degenerare in violenza reale, la capacità di intervenire tempestivamente è cruciale.

Infine, l’intelligenza artificiale è in grado di rilevare e analizzare reti di disinformazione. Attraverso l’analisi delle interazioni social, l’AI può individuare schemi che suggeriscono campagne coordinate, come la diffusione simultanea di messaggi simili da account collegati. Questa funzione è particolarmente utile per smascherare operazioni orchestrate, sia a livello politico che sociale, che mirano a destabilizzare la fiducia pubblica o a manipolare l’opinione delle persone.

In definitiva, l’intelligenza artificiale rappresenta uno strumento indispensabile per affrontare il fenomeno della disinformazione e dell’hate speech. Tuttavia, come ogni tecnologia, richiede un uso etico e responsabile. Solo attraverso un’implementazione trasparente e mirata sarà possibile sfruttare appieno il potenziale dell’AI per proteggere l’integrità delle informazioni e la coesione sociale.

Generazione di Contenuti

L’intelligenza artificiale, se da un lato rappresenta una risorsa preziosa per contrastare la disinformazione, dall’altro contribuisce a rendere il fenomeno MDHM ancora più pericoloso, fornendo strumenti per la creazione di contenuti falsi e manipolati con livelli di sofisticazione senza precedenti. È proprio questa ambivalenza che rende l’IA una tecnologia tanto potente quanto insidiosa.

Un esempio emblematico è rappresentato dai citati deepfake, prodotti grazie a tecnologie basate su reti generative avversarie (GAN). Questi strumenti permettono di creare video e immagini estremamente realistici, in cui persone possono essere mostrate mentre affermano o compiono azioni mai avvenute. I deepfake compromettono gravemente la fiducia nelle informazioni visive, un tempo considerate una prova tangibile della realtà. Ma non si fermano qui: la loro diffusione può essere utilizzata per campagne di diffamazione, per manipolare l’opinione pubblica o per destabilizzare contesti politici già fragili. La capacità di creare realtà alternative visive rappresenta una minaccia diretta alla credibilità delle fonti visive e alla coesione sociale.

Parallelamente, i testi generati automaticamente da modelli di linguaggio avanzati, come GPT, hanno aperto nuove frontiere nella disinformazione. Questi sistemi sono in grado di produrre articoli, commenti e post sui social media che appaiono del tutto autentici, rendendo estremamente difficile distinguere i contenuti generati da una macchina da quelli scritti da una persona reale. Non a caso, tali strumenti vengono già sfruttati per alimentare botnet, reti automatizzate che diffondono narrazioni polarizzanti o completamente false, spesso con l’obiettivo di manipolare opinioni e alimentare conflitti sociali.

Un ulteriore aspetto cruciale è rappresentato dalla scalabilità della disinformazione. L’automazione garantita dall’AI consente la creazione e la diffusione di contenuti falsi su larga scala, amplificandone in modo esponenziale l’impatto. Ad esempio, un singolo attore malevolo, sfruttando questi strumenti, può generare migliaia di varianti di un messaggio falso, complicando ulteriormente il compito dei sistemi di rilevamento. In pochi istanti, contenuti manipolati possono essere diffusi a livello globale, raggiungendo milioni di persone prima che si possa intervenire.

Infine, l’AI offre strumenti per la mimetizzazione dei contenuti, che rendono i messaggi manipolati ancora più difficili da individuare. Algoritmi avanzati consentono di apportare modifiche minime ma strategiche a testi o immagini, eludendo così i sistemi di monitoraggio tradizionali. Questa capacità di adattamento rappresenta una sfida continua per gli sviluppatori di strumenti di contrasto, che devono aggiornarsi costantemente per stare al passo con le nuove tecniche di manipolazione.

In definitiva, l’intelligenza artificiale, nella sua capacità di generare contenuti altamente sofisticati, rappresenta un’arma a doppio taglio nel panorama del MDHM. Se non regolamentata e utilizzata in modo etico, rischia di accelerare la diffusione della disinformazione, minando ulteriormente la fiducia pubblica nelle informazioni e destabilizzando la società. È indispensabile affrontare questa minaccia con consapevolezza e strumenti adeguati, combinando innovazione tecnologica e principi etici per limitare gli effetti di questa pericolosa evoluzione.

Sfide e Opportunità

L’impiego dell’intelligenza artificiale nella lotta contro il fenomeno del MDHM rappresenta una delle frontiere più promettenti ma anche più complesse dell’era digitale. Sebbene l’IA offra opportunità straordinarie per contrastare la diffusione di informazioni dannose, essa pone anche sfide significative, evidenziando la necessità di un approccio etico e strategico.

Le Opportunità Offerte dall’IA

Tra i vantaggi più rilevanti, spicca la capacità dell’AI di analizzare dati in tempo reale. Grazie a questa caratteristica, è possibile anticipare le campagne di disinformazione, identificandone i segnali prima che si diffondano su larga scala. Questo permette di ridurre l’impatto di tali fenomeni, intervenendo tempestivamente per arginare i danni.

Un altro aspetto fondamentale è l’impiego di strumenti avanzati per certificare l’autenticità dei contenuti. Tecnologie sviluppate da organizzazioni leader nel settore consentono di verificare l’origine e l’integrità dei dati digitali, restituendo fiducia agli utenti. In un contesto in cui la manipolazione visiva e testuale è sempre più sofisticata, queste soluzioni rappresentano un baluardo essenziale contro il caos informativo.

L’AI contribuisce inoltre a snellire le attività di fact-checking. L’automazione delle verifiche consente di ridurre il carico di lavoro umano, velocizzando la risposta alla diffusione di contenuti falsi. Questo non solo migliora l’efficienza, ma permette anche di concentrare le risorse umane su casi particolarmente complessi o delicati.

Le Sfide dell’AI nella Lotta al MDHM

Tuttavia, le stesse tecnologie che offrono queste opportunità possono essere sfruttate per scopi malevoli. Gli strumenti utilizzati per combattere la disinformazione possono essere manipolati per aumentare la sofisticazione degli attacchi, creando contenuti ancora più difficili da rilevare. È un paradosso che sottolinea l’importanza di un controllo rigoroso e di un uso responsabile di queste tecnologie.

La difficoltà nel distinguere tra contenuti autentici e manipolati rappresenta un’altra sfida cruciale. Man mano che le tecniche di disinformazione evolvono, anche gli algoritmi devono essere costantemente aggiornati per mantenere la loro efficacia. Questo richiede non solo investimenti tecnologici, ma anche una collaborazione continua tra esperti di diversi settori.

Infine, è impossibile ignorare i bias insiti nei modelli di AI, che possono portare a errori significativi. Algoritmi mal progettati o addestrati su dataset non rappresentativi rischiano di rimuovere contenuti legittimi o, al contrario, di non individuare alcune forme di disinformazione. Questi errori non solo compromettono l’efficacia delle operazioni, ma possono minare la fiducia nel sistema stesso.

Conclusione

L’intelligenza artificiale è una risorsa strategica nella lotta contro misinformation, disinformation, malinformation e hate speech, ma rappresenta anche una sfida complessa. La sua ambivalenza come strumento di difesa e al contempo di attacco richiede un uso consapevole e responsabile. Mentre da un lato offre soluzioni innovative per rilevare e contrastare contenuti manipolati, dall’altro consente la creazione di disinformazione sempre più sofisticata, amplificando il rischio per la stabilità sociale e istituzionale.

Il MDHM non è un fenomeno isolato o temporaneo, ma una minaccia sistemica che mina le fondamenta della coesione sociale e della sicurezza globale. La sua proliferazione alimenta un circolo vizioso in cui l’erosione della fiducia, la polarizzazione sociale e le minacce alla sicurezza si rafforzano reciprocamente. Quando la disinformazione contamina il flusso informativo, la fiducia nelle istituzioni, nei media e persino nella scienza si sgretola. Questo fenomeno non solo genera alienazione e incertezza, ma riduce la capacità dei cittadini di partecipare attivamente alla vita democratica.

La polarizzazione sociale, amplificata dalla manipolazione delle informazioni, è un effetto diretto di questa dinamica. Narrativi divisivi e contenuti polarizzanti, spinti da algoritmi che privilegiano l’engagement a scapito dell’accuratezza, frammentano il tessuto sociale e rendono impossibile il dialogo. In un clima di contrapposizione “noi contro loro”, le divisioni politiche, culturali ed etniche si trasformano in barriere insormontabili.

A livello di sicurezza, il MDHM rappresenta una minaccia globale. Le campagne di disinformazione orchestrate da stati o gruppi non statali destabilizzano intere regioni, fomentano violenze e alimentano conflitti armati. L’uso del hate speech come strumento di deumanizzazione ha dimostrato il suo potenziale distruttivo in numerosi contesti, contribuendo a un clima di vulnerabilità collettiva e individuale.

Affrontare questa sfida richiede un approccio integrato che combini educazione, regolamentazione e cooperazione globale.

Promuovere l’educazione critica: l’alfabetizzazione mediatica deve essere una priorità. Educare i cittadini a riconoscere e contrastare la disinformazione è il primo passo per costruire una società resiliente. Programmi educativi e campagne di sensibilizzazione devono dotare le persone degli strumenti necessari per navigare nel complesso panorama informativo.

Rafforzare la regolamentazione delle piattaforme digitali: le aziende tecnologiche non possono più essere semplici spettatori. È indispensabile che adottino standard chiari e trasparenti per la gestione dei contenuti dannosi, garantendo al contempo il rispetto della libertà di espressione. Una supervisione indipendente può assicurare l’equilibrio tra sicurezza e diritti fondamentali.

Incentivare la collaborazione globale: la natura transnazionale del MDHM richiede una risposta coordinata. Governi, aziende private e organizzazioni internazionali devono lavorare insieme per condividere risorse, sviluppare tecnologie innovative e contrastare le campagne di disinformazione su scala globale.

Solo attraverso un’azione concertata sarà possibile mitigare gli effetti devastanti del MDHM e costruire una società più resiliente e informata. Il futuro della democrazia, della coesione sociale e della sicurezza dipende dalla capacità collettiva di affrontare questa minaccia con determinazione, lungimiranza e responsabilità.


Politica USA: la visione di Mark Rubio.

di Melissa de Teffè (dagli Stati Uniti).

Sebbene gli USA siano molto ricchi, gli americani non sono felici
La più grande economia mondiale con un PIL di oltre 25 trilioni di dollari, si trova a fronteggiare un paradosso: nonostante la ricchezza, gran parte della popolazione soffre perché non arriva a fine mese o si sente insoddisfatta. Il malessere collettivo ha cause radicate nell’economia, nella salute pubblica e nella struttura sociale del Paese.

Crescita e disuguaglianza
Il PIL è cresciuto del 2% nel 2023, e il tasso di disoccupazione rimane basso, attorno al 3,9%. Tuttavia, questa prosperità non è equamente distribuita. Secondo dati della Federal Reserve, l’1% più ricco possiede oltre il 30% della ricchezza totale, mentre il 50% più povero ne detiene solo il 2,5%. “La disuguaglianza negli USA è un problema sistemico, amplificato dal fatto che i salari per la classe media sono stagnanti da decenni,” osserva un report del Pew Research Center.
Il costo della vita è un altro fattore cruciale. Nel 2023, i prezzi delle abitazioni sono aumentati del 5%, mentre i costi per sanità e istruzione continuano a crescere. Sebbene l’inflazione sia scesa dal picco dell’8,2% nel 2022, molte famiglie fanno ancora fatica a far quadrare i conti.

Crisi della salute mentale
Oltre ai problemi economici, gli Stati Uniti affrontano una crisi di salute mentale. Secondo i CDC (Centers for Disease Control and Prevention), i tassi di depressione e ansia sono ai massimi storici. L’epidemia di overdose da oppioidi come il Fentanil, ha causato oltre 100.000 morti nel 2022, contribuendo a un calo dell’aspettativa di vita, scesa a 76 anni, il livello più basso dal 1996.
“Il senso di isolamento e la mancanza di reti di sicurezza sono fattori che alimentano il disagio psicologico,” spiega il dottor Vivek Murthy, Surgeon General degli Stati Uniti. Un altro drammatico problema interno che compromette l’immagine degli Stati Uniti è la questione dei senzatetto. Nonostante l’immensa ricchezza del Paese, molte delle principali città americane, come Los Angeles, San Francisco e New York, affrontano una crisi abitativa dilagante, con decine di migliaia di persone costrette a vivere per strada o in rifugi di emergenza. Questa realtà contrasta profondamente con l’idea di una nazione che si presenta come simbolo di benessere e uguaglianza. La mancanza di fondi adeguati e di risposte politiche strutturali a questa emergenza sociale non solo aggrava le condizioni di vita di milioni di cittadini, ma mette in dubbio la capacità del governo di garantire diritti fondamentali, erodendo ulteriormente la credibilità del modello democratico americano.
Durante il suo mandato, Donald Trump aveva affrontato il tema in modo controverso, dichiarando in un’intervista del 2019: “Non possiamo permettere che le nostre città siano invase da senzatetto. Stiamo cercando soluzioni che funzionino per tutti.” Tuttavia, le politiche adottate si sono concentrate principalmente su sgomberi e controlli, piuttosto che su investimenti strutturali per affrontare le cause profonde del problema. Questa mancanza di interventi mirati evidenzia le contraddizioni di una nazione che fatica a coniugare i suoi ideali con la realtà quotidiana dei suoi cittadini più vulnerabili.

Frammentazione sociale e polarizzazione
La crescente polarizzazione politica e la mancanza di fiducia nelle istituzioni aggravano ulteriormente il malcontento. Un sondaggio Gallup mostra che solo il 27% degli americani si fida del governo federale. Questa alienazione politica si somma a tensioni razziali e culturali, rendendo difficile creare un senso di unità nazionale.

Soluzioni possibili
Secondo gli esperti, affrontare questo malessere richiede interventi strutturali. “Un investimento significativo in sanità pubblica, istruzione accessibile e politiche per ridurre la disuguaglianza potrebbe migliorare la qualità della vita per milioni di americani,” afferma il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz.
Resta da vedere se gli Stati Uniti saranno in grado di affrontare queste sfide. Come nota il New York Times, “la ricchezza del Paese è innegabile, ma senza una distribuzione più equa, rischia di diventare una fonte di divisione anziché di progresso.”
Ecco perché Trump con lo slogan MAGA “Make America Great Again”, ha avuto successo ed ecco perché i fondi che oggi sono spesi per guerre estranee agli interessi del paese saranno ridistribuiti internamente. Nonostante la sua elezione e l’aver pubblicamente affermato di desiderare di voler fermare la guerra in Ucraina e in Israele, Biden, settimana scorsa, ha chiesto al Congresso un ulteriore finanziamento di 900 milioni di dollari nell’ambito di un pacchetto complessivo di 38 miliardi di dollari per sostenere l’Ucraina. La proposta include assistenza militare, economica e sanitaria. Tuttavia, ha incontrato forti resistenze tra i repubblicani, incluso lo Speaker della Camera Mike Johnson, che ha bloccato l’iniziativa. Johnson ha sottolineato la necessità di maggiore trasparenza e controllo sull’utilizzo dei fondi, esprimendo preoccupazione per il crescente debito pubblico e l’inflazione. A meno di un mese dal prossimo insediamento presidenziale dove in genere si chiude qualsiasi azione economico-politica, la presente amministrazione invece continua a creare sempre più confusione.  

Ma perchè piace Mark Rubio.
Marco Rubio: cubano-americano è uno dei due senatori della Florida, ed è noto per il suo impegno sui temi della politica estera e per la sua sensibilità verso i diritti dei rifugiati politici. Nato il 28 maggio 1971 a Miami da genitori cubani, Rubio incarna l’esperienza dell’esilio cubano, una prospettiva che ha profondamente plasmato la sua carriera politica. È cresciuto con il racconto dei sacrifici dei suoi genitori, emigrati da Cuba negli anni ’50 per sfuggire alla repressione politica. Questo background lo ha reso particolarmente attento alla questione dei rifugiati e ai temi della libertà e della democrazia, non solo per Cuba ma per i popoli oppressi in tutto il mondo.
In Senato ha sostenuto iniziative per garantire protezione a rifugiati politici, si è opposto alle dittature in America Latina, condannando i regimi di Cuba, Venezuela e Nicaragua per le violazioni dei diritti umani. “L’America deve essere un faro di speranza per coloro che fuggono dall’oppressione,” ha dichiarato durante uno dei suoi interventi pubblici.
Nel suo ruolo di Presidente della Commissione per l’Intelligence del Senato e come membro della Commissione per le Relazioni Estere, Rubio ha promosso politiche volte a rafforzare le sanzioni contro i governi autoritari e a sostenere i movimenti democratici. Ha lavorato per migliorare i programmi di accoglienza e assistenza ai rifugiati, specialmente per coloro che fuggono da persecuzioni politiche.
Rubio vede la politica estera come un’estensione dei valori americani di libertà e giustizia. Ha promosso un approccio che combina fermezza nei confronti dei regimi autoritari con il sostegno ai rifugiati e agli esiliati politici. La sua eredità come figlio di rifugiati cubani gli conferisce una comprensione unica dei sacrifici e delle sfide di chi fugge dalla tirannia. E sicuramente questo background potrebbe apportare una visione di politica estera diversa dalle precedenti, ossia di difesa e non interventista. Questa nuova amministrazione ha la possibilità di cambiare l’approccio tradizionale che ha sempre mirato nell’ “esportare” la democrazia attraverso interventi esterni e Marco Rubio, con la sua esperienza e storia, rappresenta una voce importante in questo dibattito. Sebbene in passato fosse un fervente sostenitore dell’internazionalismo, Rubio ha gradualmente abbracciato una visione più cauta, orientata a priorizzare gli interessi strategici interni ed evitare interventi militari prolungati.
Rubio, che mantiene un forte legame con la comunità cubana, comprende profondamente il significato della lotta per l’autodeterminazione nazionale. Ha dichiarato che “l’America deve concentrarsi sulle sfide più critiche per la nostra sicurezza nazionale”, riconoscendo che non tutti i conflitti globali richiedono un intervento diretto degli Stati Uniti. Questo cambio di prospettiva potrebbe influenzare il modo in cui pensa Donald Trump, anche riguardo alla situazione siriana. Piuttosto che imporre una soluzione politica dall’alto come si è sempre fatto storicamente, e invece di applicare un possibile isolazionismo come suggerisce Trump, ecco che Rubio potrebbe aprire una terza via dove gli Stati Uniti possano fornire aiuti mirati alla ricostruzione del Paese, consentendo nel caso della Siria di trovare la propria strada verso “Damasco”, costruendosi quella stabilità che rispetti le sue specificità culturali e storiche.
L’idea che la democrazia debba emergere come espressione autentica della coscienza nazionale è un fatto. Ce lo ha descritto Norberto Bobbio quando dice: “La democrazia non è un dono che si può imporre dall’esterno, ma un processo che deve essere costruito dall’interno”. E similmente lo hanno letto anche gli americani con Tocqueville, nel suo studio sulla democrazia, quando sottolinea l’importanza delle condizioni interne, scrivendo: “La democrazia è il governo che si adatta alle inclinazioni naturali degli uomini, e che, per così dire, nasce da esse”.  
Oggi, accademici e diplomatici concordano sul fatto che gli Stati Uniti abbiano perso gran parte della loro influenza globale come modello democratico. A livello internazionale si avverte un crescente scetticismo: se l’America non cambierà approccio, sarà difficile che continui a essere considerata il punto di riferimento democratico per eccellenza. Questo sentimento potrebbe spingere la nuova amministrazione Trump a rivedere le proprie strategie globali, favorendo approcci più rispettosi delle dinamiche locali e meno intrusivi, senza però scivolare nell’isolazionismo totale.  
Nel caso siriano, ciò significherebbe consentire alla popolazione di tracciare autonomamente la propria strada verso un futuro più stabile, mentre gli Stati Uniti abbandonerebbero la retorica dell’imposizione democratica, aprendo la strada a un’era di diplomazia più rispettosa e sostenibile. In questo contesto, Marco Rubio si distingue come un rappresentante ideale di questa visione, con una sensibilità particolare verso il rispetto delle specificità culturali e storiche nei processi di transizione democratica.


La nuova Siria: tra minaccia islamista, risposta preventiva di Israele e la ‘buffer zone’ turca.

di Claudio Bertolotti.

La recente conquista di Damasco da parte del leader jihadista Ahmed al-Sharaa, già noto con il nome di battaglia Abu Mohammed al-Jolani, capo di Hayat Tahrir al-Sham (HTS), segna un punto di svolta nell’equilibrio politico-militare del Medio Oriente. La Siria, dopo tredici anni di guerra civile contro il regime di Bashar al-Assad, si ritrova ora nella fase più critica della sua storia contemporanea: l’ascesa al potere degli islamisti guidati da al-Jolani, già affiliati ad al-Qaeda, si avvia a trasformare il Paese in uno “Stato islamico” destinato a rimodellare gli assetti regionali. E, ancora una volta, la variabile jihadista si manifesta come un fattore di destabilizzazione dagli effetti potenzialmente globali.

L’occupazione israeliana del Golan: una manovra preventiva e strategica
L’avanzata islamista in Siria, con il conseguente venir meno del controllo centralizzato di Damasco, crea un vuoto di potere all’interno del quale proliferano gruppi radicali e attori esterni in cerca di vantaggi geostrategici. L’azione di Israele – nello specifico il consolidamento dell’occupazione delle alture del Golan – va letta in questo quadro: non si tratta di un’ennesima incursione di natura espansionistica, bensì di una manovra difensiva e preventiva. Da un lato, Gerusalemme mira a evitare che forze jihadiste possano insediarsi lungo il proprio confine settentrionale, minacciando direttamente la sua sicurezza. Dall’altro, la presenza militare israeliana nell’area svolge anche un ruolo di protezione a favore delle forze di interposizione delle Nazioni Unite, potenzialmente esposte ad attacchi da parte di gruppi radicali in assenza di un potere centrale affidabile a Damasco.

L’attacco preventivo contro arsenali strategici e chimici
La lezione appresa in Afghanistan e in Iraq – dove arsenali convenzionali e non convenzionali sono passati di mano favorendo gruppi estremisti – ha reso evidente la necessità di interventi rapidi e chirurgici. L’attacco preventivo di Israele contro i depositi di armi strategiche siriane, inclusi quelli sospettati di contenere agenti chimici, intende prevenire il rischio che tali strumenti finiscano nelle mani dei jihadisti. Non si tratta solo di un interesse israeliano: se fossero i movimenti radicali a impadronirsi di armamenti chimici, l’intera regione, e persino l’Occidente, ne subirebbero le conseguenze. Come evidenziato dalle ultime analisi dell’Institute for the Study of War (Iran Update, 11 dicembre 2024), il controllo degli arsenali siriani da parte di attori non statali apre scenari ad altissimo rischio. Israele agisce dunque con un’intelligenza strategica che mira a prevenire futuri attacchi terroristici su larga scala.

La mossa israeliana e la scelta turca: due facce della stessa medaglia
La politica israeliana nel Golan non può essere letta in modo isolato: è coerente, nella logica strategica di contenimento delle minacce, con la scelta turca di occupare parti del territorio siriano al confine settentrionale. Ankara, come già dimostrato in passato, intende mantenere una “buffer zone” tra le aree sotto il proprio controllo e le regioni abitate dai curdi siriani, considerati una minaccia perché in collegamento con il PKK in Turchia. Tale azione non solo limita i movimenti delle milizie curde, ma risponde a un duplice obiettivo: arginare il potere curdo e, al contempo, impedire l’insediamento di gruppi islamisti ostili alla Turchia. L’avanzata israeliana sul Golan e la buffer zone turca formano, in modi diversi, due esempi di contenimento preventivo della minaccia jihadista.

L’ascesa degli islamisti in Siria: l’incognita dei diritti e il parallelismo con i talebani
La presa del potere da parte di al-Jolani e dei suoi uomini non può essere vista con favore. Le dichiarazioni rassicuranti nei confronti delle minoranze, delle donne e della comunità cristiana suonano come pura retorica. Sappiamo bene quale sia la storia dei movimenti jihadisti: la sharia applicata in modo letterale, l’assenza di rispetto per le differenze religiose e culturali, l’eliminazione di ogni spazio di pluralismo. allo scioglimento del parlamento siriano seguirà l’imposizione di un governo di unna shurà musulmana, non eletta né rappresentativa dell’estrema eterogeneità etno-culturale e religiosa siriana. Come già osservato nel caso dell’Afghanistan dei talebani, l’instaurazione di uno Stato islamico sotto la guida di ex qaedisti “riciclati” in forza politica locale non farà altro che istituzionalizzare un regime repressivo e contrario ai principi fondamentali dei diritti umani.

La minaccia terroristica si estende all’Occidente
La vittoria islamista in Siria, come fu per il ritorno dei talebani a Kabul nel 2021, agirà da catalizzatore per il terrorismo internazionale. Le cronache recenti mostrano che ogni avanzamento dell’ideologia jihadista si accompagna a un incremento degli attacchi e della propaganda violenta, spingendo individui radicalizzati o simpatizzanti a compiere gesti emulativi in Occidente. Come osservato da recenti analisi su media internazionali (si veda il 5° Rapporto sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo #ReaCT2024 e Il Giornale), il successo di Hts in Siria accresce il rischio che l’Europa diventi bersaglio di nuovi attacchi, ispirati e orchestrati da soggetti che trarranno nuovo slancio e legittimazione simbolica dalla “vittoria” di al-Jolani. La dimensione mediatica del jihad è tale per cui il controllo di un territorio – e la proclamazione di uno Stato islamico – si trasforma in un messaggio di potenza rivolto a potenziali sostenitori e reclute.

Prospettive e conclusioni
La nuova Siria di al-Jolani non è meno pericolosa del regime di Assad. Anzi, l’aperta adesione ai principi fondamentalisti, la lotta per il potere che seguirà tra gruppi islamisti e jihadisti in competizione – in primis con il gruppo Stato islamico – l’influenza di gruppi radicali e l’assenza di un sistema di garanzie internazionali rendono il contesto più imprevedibile. La mossa israeliana nel Golan e la strategia turca a nord riflettono una comprensibile, anche se parziale, risposta a queste minacce. L’Occidente non può permettersi di cadere nell’illusione di un al-Jolani “pragmatico”: la natura islamista e jihadista della nuova leadership è un dato di fatto. Se a ciò si sommano i rischi legati alla disponibilità di armi strategiche e chimiche, l’interesse nazionale israeliano e turco di creare zone cuscinetto e di colpire preventivamente gli arsenali appare tragicamente sensato. In questo scenario – al pari dell’Afghanistan talebano – la Siria potrebbe fungere da polo attrattivo per un jihadismo oggi in cerca di legittimazione e vittorie simboliche, con conseguenze dirette anche per l’Europa.


La caduta di Damasco e lo sgretolamento dell’Asse della Resistenza iraniano.

di Claudio Bertolotti.

La Siria di Bashar al-Assad non esiste più.

La rapida avanzata degli insorti islamisti, guidati dall’Hayat Tahrir al-Sham (HTS), contro il governo di Bashar al-Assad segna un punto di svolta critico nel panorama mediorientale. Dopo quasi quattordici anni di guerra civile, con un conflitto alimentato da interessi internazionali e influenze regionali, l’architettura di potere costruita dalla famiglia Assad – ereditata nel 2000 da Bashar dopo la lunga presidenza del padre Hafez – è oggi in disfacimento. L’offensiva, partita circa dieci giorni fa da Idlib, ha messo in ginocchio un regime un tempo ritenuto solido, sconfiggendo unità militari e paramilitari sostenute sia dall’Iran sia dalla Russia, pilastri di quell’“Asse della Resistenza” ideato per contenere le pressioni occidentali e israeliane.

I risultati tattici ottenuti dai gruppi islamisti e jihadisti, in parte sostenuti dalle forze del Syrian DDefense Forces curde, ma principalmente riconducibili a Hayat Tahrir al-Sham (HTS) guidata da Abu Mohammed al-Jolani, si sono rivelati decisivi: Aleppo, Hama e Homs – nodi strategici e simbolici del potere di Damasco – sono cadute senza una reale capacità di reazione da parte dei difensori. Il contenimento dell’opposizione armata, agevolato sin dal 2015 dall’intervento militare russo, è venuto meno. Mosca, impegnata su altri fronti e consapevole del mutato contesto strategico, sembra aver rivisto i propri interessi, lasciando indebolire la tenuta del regime. Di fronte a questa svolta, la stessa Teheran, uno dei principali sponsor del governo siriano, appare costretta a ridimensionare il proprio coinvolgimento, concentrandosi sulla preservazione di aree costiere e comunità tradizionalmente legate agli Assad.

La fuga di Assad, su cui insistono numerose fonti, non è ancora confermata ufficialmente, ma le sue smentite appaiono deboli. Damasco, un tempo simbolo dell’autorità presidenziale, è caduta. Sul piano diplomatico, il Qatar ospita una complessa trama negoziale: da un lato i ministri degli Esteri di Russia, Iran e Turchia; dall’altro, il “quartetto” occidentale (Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Germania) con i rappresentanti dell’UE e l’inviato ONU Geir Pedersen. Il risultato degli incontri è la proposta di una transizione politica a Ginevra, volta a salvaguardare le strutture statali e a coinvolgere figure del vecchio establishment non direttamente responsabili degli abusi del regime. Contemporaneamente si guarda alla pericolosa ipotesi di integrare componenti dell’opposizione armata, compresi alcuni elementi legati ad HTS, nonostante sia un “gruppo terroristico” riconosciuto da diverse potenze occidentali. Si tratta, evidentemente, di una necessaria concessione strategica: il nuovo equilibrio sul terreno costringe gli attori internazionali ad aprire canali di dialogo prima impensabili.

La posta in gioco è elevata: evitare un nuovo bagno di sangue e impedire il collasso dello Stato siriano, distinguendo nettamente l’apparato istituzionale dal regime uscente. Sullo sfondo, la riconfigurazione degli assetti regionali. L’indebolimento dell’Asse della Resistenza – costruito su un solido legame tra Damasco, Teheran, i proxy armati filo-iraniani e il supporto russo – mina l’influenza iraniana nel Levante e apre nuovi scenari di competizione. Il Libano, l’Iraq e persino le relazioni tra Israele e Iran risentiranno di queste dinamiche, così come la lotta al jihadismo internazionale.

Inoltre, l’accesso alle prigioni simbolo della repressione siriana, come Adra e Saydnaya, potrebbe rivelare le dimensioni degli abusi perpetrati negli ultimi decenni. Il rilascio e la restituzione di informazione sui prigionieri scomparsi potrebbero costituire gesti emblematici per favorire una qualche forma di riconciliazione post-conflitto.

La comunità internazionale, stretta tra il rischio di una deriva jihadista e la necessità di ristabilire un ordine politico sostenibile, si trova di fronte a un nuovo paradigma: la Siria come l’Afghanistan. Dinamiche simili, prospettive preoccupanti legate allo jihadismo internazionale che dalla Siria potrebbe minacciare la regione e l’Occidente. Ma ciò che più preoccupa è il ruolo che la Turchia, dopo aver sostenuto la caduta del regime attraverso il sostegno diretto agli islamisti dell’HTS – che ricordiamo, affondano le loro radici in al-Qa’ida e nell’ISIS – vorrà giocare coerentemente con la sua ambizione di influenza del Medioriente e del Nord Africa.


Siria: al-Jolani verso Damasco. Le preoccupazioni di Iran, Russia e Israele.

di Claudio Bertolotti.

Dall’intervista di Francesco De Leo a Radio Radicale – Spazio Transnazionale (puntata del 7.12.2024): vai all’intervista radio (AUDIO).

Abu Mohammed al-Jolani, nato con il nome Ahmed Al Sharaa, è il leader di Hayat Tahrir al-Sham (HTS), gruppo armato attivo nella guerra civile siriana e tuttora designato dagli Stati Uniti come organizzazione terroristica. Originariamente affiliato ad al-Qa’ida e noto come capo di Jabhat Al Nusra, Jolani ha esordito come jihadista radicale, inviato in Siria nel 2011 con fondi e sostegno di Abu Bakr al-Baghdadi, futuro leader dell’ISIS, per stabilire la filiale siriana del network qaedista.

Nel corso degli anni ha trasformato la propria immagine e la propria strategia. In un primo momento ha annunciato la separazione formale da Al Qaeda, per poi concentrarsi principalmente sul rovesciamento del regime di Bashar al-Assad e sul controllo di aree chiave come la provincia di Idlib. Questa “rottura” è stata ampiamente vista come mossa tattica, volta a evitare gli attacchi internazionali diretti contro le formazioni jihadiste transnazionali.

Parallelamente, Jolani ha anche cambiato l’aspetto e la retorica pubblica: dalla mimetica è passato a indossare giacca e camicia in stile occidentale, presentandosi come un rivoluzionario siriano moderato, impegnato in una lotta contro il regime di Damasco anziché a una guerra globale contro l’Occidente. Durante interviste recenti, ha minimizzato riferimenti al jihad globale, puntando invece sulla “liberazione” della Siria e sul ruolo di HTS come forza locale, impegnata a garantire sicurezza e amministrazione a milioni di persone in aree sotto il suo controllo.

Nonostante questa strategia di rebranding e il tentativo di mostrarsi come un interlocutore più pragmatico, Jolani rimane un personaggio estremamente controverso e indubbiamente legato allo jihadismo insurrezionale, di cui oggi è uno dei principali leader. Alle spalle ha un passato profondamente radicato nelle reti jihadiste internazionali, ed è a capo di un’organizzazione che resta considerata terroristica da Washington. Il suo percorso è quindi quello di un leader che cerca di distanziarsi dall’estremismo transnazionale per guadagnare legittimità locale e, possibilmente, internazionale, presentandosi come un attore politico rivoluzionario più che come un leader jihadista.

La situazione sul campo

I gruppi islamisti stanno avanzando verso Damasco con il sostegno turco e assediano Homs, snodo strategico verso il Mediterraneo e roccaforte del regime.

Mentre a Doha è previsto un incontro fra Russia, Turchia e Iran per negoziare una possibile transizione politica che escluda Assad, sul campo le forze filoiraniane sembrano ritirarsi, la Russia appare indebolita, non più proattiva, mentre l’ONU registra una massiccia ondata di sfollati.

Il leader ribelle al Jolani rivendica il diritto a usare ogni mezzo contro il regime, ma promette di non perseguitare le minoranze. Vedremo.

Da parte sua, il felice e preoccupante presidente turco Recep Tayyip Erdogan annuncia apertamente Damasco come prossimo obiettivo, mentre l’Iran, la Siria e l’Iraq si dichiarano uniti nella lotta al “terrorismo”.

Nel sud del Paese, gruppi antigovernativi si spostano verso nord, conquistando facilmente posizioni lasciate dai lealisti, e le comunità druse di Suwayda stanno creando una regione semi-autonoma.

Intanto, il Libano chiude i confini per timore di un contagio del conflitto e proseguono scontri tra forze filo-turche e milizie curde.

Preoccupazioni di Iran e Israele (e Mosca)

Certo è che, nella situazione attuale, questo è un problema sia per l’Iran, oltre che per la Russia, ma anche per Israele: tutti guardano con grande preoccupazione a quanto sta accadendo. Se per Mosca è un grande problema legato alla capacità di muovere all’interno del Mediterraneo con la propria marina, per Teheran è una quesitone di tenuta complessiva dell’Asse della resistenza poiché la caduta siriana potrebbe precludere il collegamento vitale con il Libano, e dunque con Hezbollah. E forse gli accordi di Doha sono intesi a trovare una soluzione mediata che consenta all’Iran di mantenere il controllo di una striscia di territorio siriano funzionale proprio al collegamento con Hezbollah.

E per Israele? Israele è molto preoccupata perché la presenza di un regime siriano debole è la condizione migliore mentre la caduta della Siria sotto il controllo degli islamisti potrebbe aprire un fronte di ulteriore instabilità ai confini israeliani. Senza dimenticare che “al-Jolani” prende il suo nome dal Golan, attualmente occupato da Israele, e la sua posizione è sempre stata apertamente anti-occidentale e anti-israeliana.


Il gabinetto esecutivo di Trump (seconda parte)

di Melissa de Teffè.

Procuratore generale: Pam Bondi (dopo il ritiro di Matt Gaetz)
Segretario della difesa: Pete Hegseth
Consigliere per la sicurezza nazionale: Michael Waltz
Segretario dell’energia: Chris Wright
Segretario per il commercio: Howard Lutnick
Segretario della sicurezza interna: Kristi Noem
Direttore della CIA: John Ratcliffe
Direttore dell’intelligence nazionale: Tulsi Gabbard
Dipartimento per l’efficienza governativa: Elon Musk e Vivek Ramaswamy
Portavoce della Casa Bianca: Karoline Leavitt

Prima di passare alla seconda parte della lista, parliamo prima dei due grandi esclusi. Mike Pompeo ex direttore CIA e Niky Haley ex ambasciatore presso le Nazioni Unite. Per ambedue non sono ci sono dichiarazioni né ufficiali né ufficiose. Possiamo però mettere insieme qualche indizio interessante che spieghi, il “No voi no”.

Per Pompeo si pensa che le dichiarazioni di Julian Assange, il fondatore di WikyLeaks, durante la sua prima apparizione pubblica, dopo essere stato rilasciato da un carcere inglese di massima sicurezza, siano sufficenti per aver leso la sua reputazione e quindi escluderlo dalla lista. Assange, davanti al comitato per gli affari legali e i diritti umani dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa a Strasburgo, ha dichiarato: “il direttore della CIA, Pompeo, ha lanciato una campagna di ritorsione; ora è un fatto di dominio pubblico. Sotto la direzione esplicita di Pompeo, la CIA elaborò piani per rapirmi e assassinarmi all’interno dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra e organizzò operazioni contro i miei colleghi europei, sottoponendoci a furti, attacchi hacker e alla diffusione di informazioni false. Anche mia moglie e mio figlio neonato furono presi di mira, un agente della CIA fu assegnato per seguire mia moglie e furono impartite istruzioni per prelevare un campione di DNA dal mio bambino di sei mesi…..”.

Nikki Haley, invece, è coinvolta in un altro tipo di controversia, che riguarda la sua vita privata. La sua lunga relazione extraconiugale, emersa durante la sua corsa presidenziale, ha alimentato speculazioni e discussioni che potrebbero aver influito sulla possibile candidatura. Le dinamiche di questa vicenda personale hanno avuto un impatto sulla sua immagine, e sebbene nessuno sia perfetto, l’ha resa meno appetibile in questo contesto politico in cui l’integrità morale è vista come un aspetto cruciale.

Ma tornando alla nostra lista emergono nomi e dettagli che offrono spunti per comprendere meglio il panorama polico ed economico che si sta delineando. Un esempio significativo per importanza è la nomina di Chris Wright al ministero dell’energia. Lasciando a lato gli allarmisti sul Cambio Climatico, Wright si è laureato in ingegneria meccanica e specializzato in ingegneria elettrica al MIT, ma non ha mai ricoperto incarichi governativi prima di questa nomina. È il  CEO di Liberty Energy, una società fondata nel 2010 e quotata in borsa, che gestisce il 20% dei pozzi terrestri negli Stati Uniti, utilizzando il controverso sistema fratturazione idraulica, (fraking). Secondo Wright, l’azienda, con un valore di 3 miliardi di dollari, contribuisce a quasi il 10% della produzione totale di energia negli Stati Uniti.

Nonostante le critiche ricevute da alcuni organi di stampa, come il Washington Post, Wright è  pragmatico. Noto per il suo approccio diretto, non nega l’esistenza di un problema climatico mondiale, ma afferma con onestà: “non esiste energia pulita”, e ha criticato aspramente le politiche ambientali che promuovono l’uso esclusivo di fonti rinnovabili come il solare e l’eolico, argomentando che queste tecnologie non sono in grado di soddisfare la domanda globale di energia . Nel suo profilo LinkedIn, afferma di essere “completamente dedicato all’energia” – inclusi petrolio, gas naturale, nucleare, solare e fonti geotermiche. Infatti secondo la NREL (National Renewable Energy Laboratory) generare il 35% dell’elettricità utilizzando energia eolica e solare negli Stati Uniti occidentali ridurrebbe le emissioni di CO2 del 25-45%, ma non sarebbe sufficiente. Negli ultimi anni, le centrali solari ed eoliche hanno dominato la costruzione di nuovi impianti energetici negli Stati Uniti, mentre le centrali a combustibili fossili – in particolare quelle a carbone – continuano a essere dismesse a ritmi record. In un’intervista a Bloomberg TV lo scorso luglio, Wright ha ipotizzato che l’amministrazione Trump avrebbe ampliato le trivellazioni su terreni federali e semplificato il procedimento per l’approvazione di infrastrutture come gli oleodotti. Commentando la gestione dell’amministrazione Biden, che ha raggiunto livelli record di produzione petrolifera, Wright ha ribadito la necessità di fare di più per sostenere la produzione di petrolio e gas. Nel 2023, gli Stati Uniti, sotto l’amministrazione Biden, hanno segnato un record storico, producendo una media di 12,9 milioni di barili di petrolio al giorno, il livello più alto mai raggiunto da un singolo Paese, secondo i dati dell’Agenzia per l’Energia statunitense. Wright si è impegnato a ridurre i costi energetici per gli americani, mettendosi così in linea con una promessa spesso rilanciata da Trump durante la campagna elettorale.

Un altro personaggio chiave nelle nomine è Howard Lutnick, il multimilionario CEO di Cantor Fitzgerald, una delle principali società di servizi finanziari a livello internazionale, sin dagli anni ’80.  Lutnick, 63 anni, sostiene l’aumento dei dazi doganali. Come candidato, Trump ha promesso di imporre tariffe del 60% sui beni provenienti dalla Cina e del 10% su quelli di altri Paesi. Durante la campagna elettorale ha dichiarato che gli Stati Uniti erano al massimo della prosperità nei primi anni del ‘900, quando “non c’erano imposte sul reddito e tutto ciò che avevamo erano dazi doganali.”-“Eravamo così ricchi che i più grandi imprenditori americani si riunivano per cercare di capire come spendere quel denaro,”. Durante la campagna presidenziale, Trump aveva promesso di aumentare i dazi doganali per proteggere i lavoratori e le industrie americane dalla concorrenza straniera, in particolare da quella cinese. La nomina di Lutnick a un ruolo così rilevante potrebbe essere vista come una continuazione di questa politica protezionista. Lutnick ha anche mostrato interesse per le problematiche interne agli Stati Uniti, come la disuguaglianza sociale ed economica, sottolineando la necessità di proporre politiche che rispondano alle esigenze della classe media e dei lavoratori americani.

Seppur con compiti diversi ma sotto lo stesso ombrello, segue la squadra che si occupa della difesa nazionale:

A capo del Ministero della Difesa, è stato scelto Pete Hegseth, seguito dal consigliere per la sicurezza nazionale, Michael Waltz, dal direttore della CIA John Ratcliffe, dal Direttore dell’intelligence nazionale Tulsi Gabbard, dal Segretario della sicurezza interna, Kristi Noem e infine per l’FBI Kash Patel.

Hegseth, a pochi giorni dalla nomina, è già una figura scomoda. Veterano della Guardia Nazionale dell’Esercito, ha prestato servizio in Iraq, Afghanistan e a Guantanamo Bay come ufficiale di fanteria. Con due onorificenze: la Bronze Star e il Combat Infantryman Badge è diventato famoso anche per il suo tatuaggio “crociato” “Deus Vult” (per noi di lunga data e conoscenza torniamo indietro a Papa UrbanoII) e ha già sollevato polemiche sia per le sue opinioni sull’Islam, che ritiene essere il nemico storico dell’Occidente e per essere stato coinvolto in una causa per assalto sessuale risoltasi nel 2017 con un accordo extra giudiziale. Sebbene sia un eccellente commentatore televisivo per Fox news, la sua visione del Medio Oriente viene definita bigotta e antimusulmana. Finirà anche lui come Gaetz (Ex Procuratore di Stato, anche lui con uno scandalo sessuale alle spalle)? Tuttavia, se la sua nomina dovesse essere confermata, Hegseth sarà a capo della più grande forza militare del mondo in un periodo di conflitto e instabilità in Medio Oriente assai critico. Sul piano della politica interna al ministero, Hegseth ha espresso il desiderio di limitare la presenza di persone transessuali e, possibilmente, anche di donne in zone di guerra, dove la loro fisicità potrebbe non risultare utile.

Tulsi Gabbard, ex membro del partito democratico e deputato alla Camera, ha servito nella Guardia Nazionale dell’Esercito delle Hawaii ed è stata dispiegata in Iraq con un’unità medica. All’epoca critica della politica estera statunitense, descrivendola come imperialista e autoritaria ha spesso dichiarato la sua avversione alle idee di Trump per il suo approccio al Medio Oriente, considerandolo pericoloso. Se confermata dal Senato, Gabbard sarebbe a capo della Sicurezza Interna. Tuttavia, alcuni ex funzionari della sicurezza nazionale e parlamentari esprimono dubbi sulle sue capacità, accusandola di riprendere narrazioni tipiche del Cremlino, con il timore che ciò possa influire negativamente sulla cooperazione nell’ambito dell’intelligence. Se confermata come Direttore dell’Intelligence Nazionale (DNI), Gabbard sarebbe responsabile della gestione dei segreti più sensibili della nazione, sovrintendendo le 18 agenzie di spionaggio degli Stati Uniti e servendo come stretta consigliera del presidente.

Come Consigliere alla Sicurezza Nazionale, Trump ha voluto Michael Waltz, ex colonnello della Guardia Nazionale, e membro del Congresso per la Florida. La sua posizione su Ukraina e Gaza non lasciano dubbi. Ha così commentato su Fox News in modo critico esprimendo preoccupazioni sulla recente escalation, paragonando la decisione dell’amministrazione Biden di consentire l’uso di mine antiuomo da parte dell’Ucraina alla “guerra di trincea della Prima Guerra Mondiale.” Ha sottolineato il timore che si inneschi una spirale nel conflitto, citando il coinvolgimento di Russia, Iran, Corea del Nord e il potenziale ingresso della Corea del Sud.

Waltz ha ribadito la necessità di “riportare deterrenza e pace” e prevenire un ulteriore escalation. Riguardo al conflitto di Gaza, ha lodato le operazioni israeliane contro Hamas e Hezbollah, descrivendo l’indebolimento di Hamas e l’esposizione dell’Iran come risultati cruciali.

Chiudiamo l’ombrello difesa con la nomina del direttore all’ FBI di Kash Patel. Tenendo presente che tutti i direttori dell’FBI servono su mandato presidenziale, e Christopher Wray, l’attuale direttore, nominato da Trump dopo il licenziamento di James Comey, (ricordiamo il caso Hilary Clinton, Ministro Affari Esteri e il suo portatile in mano al marito della segretaria oltre alle email cancellate) potrebbe presto lasciare il ruolo, con l’annuncio di Trump. Wray potrebbe decidere di dimettersi spontaneamente o aspettare di essere rimosso a gennaio, quando Trump entrerà in carica. Tuttavia, la nomina di Kash Patel solleva critiche per aver promesso una “pulizia” dei presunti cospiratori contro Trump e ventilato l’idea di chiudere il quartier generale dell’FBI a Washington, decentralizzando le operazioni su tutto il territorio nazionale. Un altra proposta di Patel è di inasprire le misure contro la fuga di informazioni da parte di funzionari governativi ai media. Questo implicherebbe che il Dipartimento di Giustizia annulli l’attuale politica che vieta la confisca segreta dei registri telefonici dei giornalisti durante le indagini sulle fughe di notizie. Questa politica fu attuata dal Procuratore Generale Garland a seguito dell’indignazione suscitata dalla rivelazione che i procuratori federali avevano ottenuto mandati di comparizione per i registri telefonici dei giornalisti.

Infine vorrebbe separare le attività di intelligence (quindi il cuore dell’agenzia) dell’FBI dal resto delle operazioni, un’opzione delicata in un contesto di crescente minaccia terroristica.

Un’altra novità interessante è la nomina dell’addetto stampa Karoline Leavitt. Giovanissima, appena 27 anni, Leavitt è stata la numero due dietro la leggendaria Kayleigh McEnany (soprannominata allora la donna dei faldoni, non avendo mai sbagliato una citazione nè una risposta)durante la precedente amministrazione. Leavitt si è già distinta come portavoce durante la campagna elettorale, dimostrando abilità comunicative eccezionali. Un aspetto interessante della nuova amministrazione è la scelta di invitare per la prima volta nella storia i podcaster alle conferenze stampa della Casa Bianca. È probabile che figure come Megan Kelly, Tucker Carlson e Ben Shapiro vengano invitati, dando così un messaggio forte e di rottura con i grandi quotidiani e i network tradizionali, CBS, NBC e ABC, accusati di parzialità.

Concludiamo con la novità che più di qualsiasi altra, definisce l’originalità a sorpresa di Trum: Elon Musk e Vivek Ramaswamy a capo di un nuovo ministero senza portafoglio, il “Department of Government Efficiency” (DOGE), acronimo che richiama la criptovaluta Dogecoin, promossa da Musk. La missione di questo dipartimento sarebbe quella di eliminare 2,5 milioni di impiegati federali. Il governo federale degli Stati Uniti è 5 volte quello cinese, e la burocrazia è estremamente rigida. Musk e Ramaswamy si propongono di razionalizzare questa macchina, affrontando la difficoltà di licenziare dipendenti in posizioni protette.

Il nuovo dipartimento è già in fase di reclutamento, con un annuncio pubblicato sull’account X di DOGE, che conta 1,2 milioni di follower, e il processo di assunzione è in corso.

In un editoriale del Wall Street Journal, Musk e Vivek hanno spiegato la loro visione sulle spese federali: “La maggior parte delle decisioni attuative di leggi e spese a discrezione del governo non viene presa dal presidente, democraticamente eletto, né dai suoi delegati, o funzionari scelti, ma da milioni di funzionari pubblici non eletti e non nominati, che lavorano all’interno di agenzie governative, che si considerano immuni al licenziamento grazie alle tutele del servizio civile. Questo è antidemocratico e contrario alla visione dei Padri Fondatori. Comporta costi enormi, sia diretti che indiretti, per i contribuenti”. La nomina scade il 4 luglio 2026.


Verso l’amministrazione Trump: il Gabinetto presidenziale – Prima parte

di Melissa de Teffè.

A nemmeno di un mese dalla vittoria, Trump, al secondo giro,  ha organizzzato una macchina politica ben oleata e pronta a non commettere gli errori del 2016.

Nel caldo ed elegante scenario di Mar a Lago si lavora incessantemente per compilare la lista delle tante nomine necessarie prima dell’insediamento a gennaio. Il team è capeggiato da Brian Hook, ex rappresentante speciale degli Stati Uniti per l’Iran durante il primo mandato di Trump e collaboratore sia di Pompeo che dell’ex Segretario di Stato Rex Tillerson. Hook ha lavorato per mesi sulle idee politiche da attuare, incontrandosi con i diplomatici stranieri più rilevanti al momento e purtroppo non ci sono ancora stati incontri ufficiali di transizione con il team Biden-Harris, nonostante le affermazioni di quest’ultima nel suo speech di concessione.

Per correttezza di cronaca trascriviamo la lista completa delle nomine, ma ci soffermeremo su quelle più rilevanti:

Capo di gabinetto della Casa Bianca: Susie Wiles
 Segretario di Stato: Marco Rubio
 Procuratore generale: Pam Bondi (dopo il ritiro di Matt Gaetz)
 Vice procuratore generale: Todd Blanche
 Segretario per la salute (HHS): Robert F. Kennedy Jr.
 Direttore bilancio: Russ Vought
 Ambasciatore alle Nazioni Unite: Elise Stefanik
 “Zar del confine”: Tom Homan
 Segretario della difesa: Pete Hegseth
 Segretario per gli affari dei veterani: Doug Collins
 Consigliere per la sicurezza nazionale: Michael Waltz
 Segretario degli interni: Doug Burgum
 Segretario dell’energia: Chris Wright
 Segretario dei trasporti: Sean Duffy
 Segretario per il  commercio: Howard Lutnick
 Segretario dell’istruzione: Linda McMahon
 Segretario del tesoro: Scott Bessent
 Segretario del lavoro: Lori Chavez-DeRemer
 Consigliere legale della Casa Bianca: William McGinley
 Ambasciatore degli Stati Uniti presso la NATO: Matthew Whitaker
 Segretario della sicurezza interna: Kristi Noem
 Segretario per lo sviluppo urbano e abitativo (HUD): Scott Turner
 Direttore della CIA: John Ratcliffe
 Direttore dell’intelligence nazionale: Tulsi Gabbard
 Amministratore dell’EPA (Environmental Protection Agency): Lee Zeldin
 Solicitor General: Dean John Sauer
 Commissario della FDA (Food and Drugs Administration): Marty Makary
 Segretario dell’agricoltura: Brooke Rollins
 Direttore dei CDC: David Weldon
 Presidente della FCC: Brendan Carr
 Amministratore dei Servizi nei Centri Medicare e Medicaid: Dr. Mehmet Oz
 Medico generale (Surgeon General): Dr. Janette Nesheiwat
 Ambasciatore degli Stati Uniti in Israele: Mike Huckabee
 Ambasciatore degli Stati Uniti in Canada: Pete Hoekstra
 Procuratore degli Stati Uniti per il Distretto Meridionale di New York: Jay Clayton
 Dipartimento per l’efficienza governativa: Elon Musk e Vivek Ramaswamy
 Vice capo di gabinetto: Dan Scavino
 Vice capo di gabinetto per affari legislativi, politici e pubblici: James Blair
 Vice capo di gabinetto per comunicazioni e personale: Taylor Budowich
 Capo dell’Ufficio del personale presidenziale: Sergio Gor
 Direttore delle comunicazioni della Casa Bianca: Steven Cheung
 Portavoce della Casa Bianca: Karoline Leavitt

 GEORGE BESSENT – Segretario del Tesoro

 CEO di un hedge fund, Scott Bessent, è stato scelto da Trump lo scorso venerdì con questa dichiarazione: “sono molto lieto di nominare Bessent, un uomo ampiamente rispettato sia come investitore internazionale molto importante che come stratega geopolitico ed economico del mondo.” – “Scott “sosterrà” politiche che “promuovono la competitività degli Stati Uniti e arginerà gli squilibri commerciali ingiusti.” Fondatore  e AD del Key Square Group, Hedge Fund, con sede in Connecticut, il 62enne, originario della Carolina del Sud, e laureato all’Università di Yale, come Trump, sostiene la politica dei dazi, considerandoli un modo efficiente ed utile per aumentare le entrate e proteggere le industrie americane. Durante gli anni ’90,  ha lavorato per quasi un decennio con il notissimo miliardario investitore George Soros, uno dei più importanti sostenitori delle cause liberali, come direttore esecutivo del Fondo Soros. Apertamente gay, lui e suo marito, l’ex procuratore di New York John Freeman, hanno due figli. Se confermato, Bessent sarebbe il primo membro dichiaratamente gay a far parte di un esecutivo presidenziale repubblicano.

Robert F. Kennedy jr – Segretario del Dipartimento per la Salute e Servizi Umani (HHS)

Se Robert F. Kennedy Jr. guiderà il Dipartimento della Salute, ha già detto che come primo compito vorrà affrontare i non pochi problemi causati ”dall’industria alimentare e dalle aziende farmaceutiche, che per motivi di lucro, hanno ingannato, disinformato e divulgato falsità”. Il suo contributo sarà focalizzato nel cercare di “Rendere l’America di nuovo Sana!”  (Make America Healthy Again- MAHA). Molto critico delle politiche riguardo ai vaccini, ormai divenuta storica, è un’antica diatriba che si trascina da quando ha iniziato la sua campagna elettorale. La sua posizione non è contro i vaccini in generale, ma contro l’accanimento di alcune Big Farma nel voler imporre questa soluzione medicale senza aver raccolto le necessarie verifiche sull’effettivo risultato sanifico. Kennedy non nega l’utilità di questi e ha spesso sottilineato d’averne sempre fatto uso soprattutto i vaccini

 antiinfluenzali. Ma l’impatto maggiore delle ideologie Kennediane si sentiranno maggiormente nel contesto alimentare. Infatti secondo i sondaggi del 2021, il National Center for Health Statistics, National Health Examination Survey e il National Health and Nutrition Examination Survey, risulta che il 31,1% degli adulti statunitensi è sovrappeso, il 42,5% è obeso e il 9% ha un’obesità grave.

Il piano Kennedy, MAHA, parte dal presupposto che le aziende sono i  principali attori responsabili dei problemi di salute dei cittadini e che il governo ha quindi il dovere di intervenire. L’industria alimentare, che storicamente ha considerato il Partito Repubblicano un alleato, è ovviamente assai preoccupata. Le quotazioni di borsa delle società alimentari hanno subìto forti cali dopo l’annuncio della nomina di Kennedy lo scorso giovedì. Alla chiusura dei mercati, martedì, le azioni del gigante delle bevande e degli snack PepsiCo sono scese del 5,1%, il produttore di cioccolato Hershey ha perso il 4,9%, mentre i conglomerati di alimenti confezionati Kraft Heinz, Conagra Brands e General Mills hanno registrato cali rispettivamente del 3,8%, 3,5% e 3%. La campagna MAHA si propone di contrastare l’epidemia di malattie croniche che da anni affligge il paese, adottando una strategia innovativa. L’obiettivo è migliorare la filiera alimentare attraverso l’agricoltura rigenerativa, la tutela degli habitat naturali, l’eliminazione delle influenze delle lobby aziendali sulle agenzie sanitarie governative e la riduzione di sostanze chimiche e tossine dannose, come il fluoro nelle tubazioni idriche, dal sistema alimentare e dall’ambiente.

Kennedy, che ha accusato le aziende alimentari di aver “avvelenato in massa” il pubblico americano ha espresso chiaramente il desiderio di voler limitare l’accesso alle bevande zuccherate e ai cibi ultraprocessati, considerati da molti nutrizionisti poco salutari. Tra le sue proposte figura l’idea di impedire a chi usufruisce dell’assistenza pubblica di acquistare cibi “spazzatura” con i buoni alimentari, una misura che potrebbe penalizzare aziende come PepsiCo, Conagra, Kraft Heinz, Coca-Cola, J.M. Smucker e WK Kellogg, le cui vendite a questi utenti rappresentano una fonte significativa di ricavi. Inoltre, Kennedy mira ad eliminare bevande gassate e cibi processati dalle mense scolastiche, aggravando ulteriormente le difficoltà per il settore. “Questo tipo di speculazione negativa sul mercato è l’ultima cosa di cui il settore alimentare confezionato, già sotto pressione, ha bisogno,” ha scritto l’analista di J.P. Morgan Ken Goldman in una nota di lunedì scorso. Kennedy propone di ridurre l’uso di additivi e sostanze chimiche, tra cui aromi e coloranti artificiali. Molti Stati stanno già prendendo provvedimenti in questa direzione. L’anno scorso, la California ha vietato un gruppo di sostanze chimiche, tra cui il colorante alimentare Rosso n. 3, utilizzato in cibi e caramelle. New York e Pennsylvania stanno valutando divieti simili. “La FDA – Food and Drugs Administration – è rimasta indietro rispetto ad altri paesi nella regolamentazione degli additivi alimentari”, dice il candidato. Se la sua nomina sarà confermata, Kennedy potrebbe accelerare questo processo innovativo, anche attraverso una riorganizzazione del personale. Ha già promesso di riformare l’agenzia che, ha accusato di servire più gli interessi dei Big Pharma e Big Food che quelli della popolazione.

Secondo Scott Faber, vicepresidente senior per gli affari governativi del gruppo ambientale no-profit EWG, restrizioni più severe sugli additivi avranno un impatto limitato sui bilanci dei produttori alimentari. Molte sostanze chimiche sono già vietate in Europa e in altri mercati internazionali, e le aziende alimentari hanno adottato ingredienti alternativi per rispettare le leggi locali. Adeguare le stesse ricette al mercato interno non comporterà costi aggiuntivi significativi, ha dichiarato. I consumatori di solito non notano la rimozione o il cambiamento degli additivi alimentari. “Ci sono stati casi in cui le vendite sono diminuite dopo l’eliminazione di coloranti alimentari, ma ciò è avvenuto perché un’unica azienda ha apportato il cambiamento”, ha scritto Goldman di J.P. Morgan in una recente nota. Se tutte le aziende si adattano a nuove regolamentazioni, probabilmente non ci saranno grandi cambiamenti nelle preferenze dei consumatori, ha concluso. Coopererà a questa rivoluzione il nuovo Commissario della FDA Marty Makary, chirurgo presso la nota Johns Hopkins e professore sempre alla Johns Hopkins Carey Business School. Sempre sotto lo stesso dipartimento si colloca il programma per l’Assistenza Sanitaria, Medicare – Medicaid, con 140 milioni di iscritti, che verrebbe gestito dal Dr. Oz, noto cardiochirurgo e star televisiva. In una recente intervista ha dichiarato: “Non è un segreto che il nostro sistema sanitario non funizoni. Continuiamo a spendere sempre più denaro senza alcun chiaro ritorno sull’investimento in termini di salute e benessere della nostra nazione”.  Quasi il 50% degli americani vive con una condizione di salute cronica, come diabete, ipertensione o obesità. Per quanto riguarda i bambini, uno studio prevede che oltre 220.000 persone sotto i 20 anni avranno il diabete di tipo 2 entro il 2060, un aumento del 700%.”

Marco Rubio: Segretario di Stato

Cubano-Americano e senatore per lo Stato della Florida, Marco Rubio è famoso per le denuncie su X contro gli illeciti di agenti cubani o come scrive lui “per le azioni vili e le aggressioni” ingiustificabili contro, ad esempio, Carolina Barrero, storica dell’arte che rappresenta il volto dell’opposizione.  Questa nomina dà un chiaro segnale della nuova politica presidenziale contro l’infiltrazione marxista sia da parte cinese che da alcuni dei paesi caraibichi come Cuba e altri del Sud America. Se le ultime amministrazioni americane potrebbero aver trascurato la dottrina Monroe, con Rubio c’è sicuramente un ritorno alle priorità regionali non più attraverso una lente del politicamente corretto apologetico, ma con un’attenzione chiara e lucida su sicurezza, prosperità e democrazia.

Thomas Douglas Homan: funzionario per ICE (Immigration and Customs Enforcement) lo zar del confine.

Thomas Douglas Homan, ex agente di polizia, funzionario per ICE (Immigration and Customs Enforcement) e commentatore politico statunitense, ha già prestato servizio durante l’amministrazione Obama e nella prima amministrazione Trump. In questo ruolo che non prevede la conferma del Senato, Homan sarà responsabile di tutti i confini statunitensi, nord, sud, spazi aerei e marittimi. Inoltre si occuperà anche delle deportazioni di immigrati illegali, oltre ai gruppi di immigrati che ledono la quiete con atti di violenza, (qui si riferisce all’invasione di alcuni gruppi di delinquenti venezuelani che si sono impadroniti abusivamente e con la forza di interi palazzi).  Inoltre ha garantito il taglio dei finanziamenti federali agli Stati che non collaborano con le sue nuove politiche. Parlando dal palco della Convenzione Nazionale Repubblicana, Homan ha dichiarato che Trump designerà i cartelli messicani come una “organizzazione terroristica” per il loro ruolo nel traffico di fentanyl attraverso il confine, avvertendo: “Vi cancellerà dalla faccia della Terra.” –  riferendosi a Trump.

Homan ha espresso disprezzo verso le città santuario, come New York, Los Angeles, Denver, e molte altre, ossia quelle giurisdizioni che adottano politiche volte a non sanzionare l’immigrazione illegale. Ha espresso la speranza che la polizia locale di queste città collabori con la nuova amministrazione, sottolineando con forza come, in passato, Trump abbia utilizzato il Dipartimento di Giustizia per imporre le proprie politiche in questo ambito.

“Le città santuario sono santuari per criminali,” ha dichiarato Homan a Fox News. L’immigrazione è stata uno dei punti fondamentali in questa campagna elettorale e l’ex presidente ha promesso più volte di deportare milioni di immigrati senza documenti. In una recente intervista alla CBS, alla domanda se intenda separare nuovamente le famiglie come accaduto nel 2018, evento che suscitò un’ondata di critiche a livello nazionale, Homan ha dichiarato che “le famiglie possono essere deportate al completo“. Ha inoltre sottolineato che l’operazione sarebbe mirata, pur riconoscendo che i dettagli su come verrà attuata devono ancora essere definiti. “Non sarà una retata di massa quartiere per quartiere. Non sarà la costruzione di campi di concentramento, – ho letto di tutto – È ridicolo,” ha detto Homan alla CBS.


La strategia russa: offensiva (azione e interferenza), difensiva e deterrente. Diplomazia digitale, guerra informatica e intelligenza artificiale nella competizione globale.

di Claudio Bertolotti.

Abstract

Questo articolo esplora la strategia russa di diplomazia digitale, guerra informatica e uso dell’intelligenza artificiale (AI) come strumenti fondamentali nella competizione globale. La soft diplomacy russa, inizialmente accolta con favore, ha subito evoluzioni altalenanti a causa di campagne informative che hanno danneggiato l’immagine internazionale del paese. Negli ultimi anni, la Russia ha sviluppato una “diplomazia digitale” per influenzare l’opinione pubblica internazionale, sfruttando strumenti come i social media per diffondere messaggi polarizzanti e notizie alternative. Parallelamente, il paese ha potenziato le sue capacità di guerra informatica, considerandola una componente essenziale delle operazioni di informazione e un mezzo per raggiungere un equilibrio militare asimmetrico contro l’Occidente. L’uso dell’AI amplifica queste operazioni, consentendo la creazione di disinformazione su vasta scala e potenziando tecniche di spionaggio e attacchi cibernetici, con l’obiettivo di destabilizzare gli avversari e consolidare l’influenza russa a livello globale.

Soft diplomacy pubblica, diplomazia digitale e operazioni informatiche

All’inizio del 21° secolo, l’affermarsi della soft diplomacy pubblica russa è stata accolta con ottimismo sia dagli analisti che dall’opinione pubblica internazionale. Tuttavia, successivamente, la diplomazia pubblica russa ha attraversato diverse fasi altalenanti a causa di campagne informative che hanno danneggiato l’immagine della Russia a livello globale, in particolare dopo il conflitto russo-georgiano del 2008.

Negli ultimi anni, l’avanzamento delle tecnologie dell’informazione e la crescente diffusione dei social media hanno introdotto la cosiddetta “diplomazia digitale”. Questa forma di comunicazione, lanciata per la prima volta dall’amministrazione Obama, consiste in un dialogo diretto tra i governi e la comunità degli utenti Internet, conosciuta come netizen o cybercittadini, con l’obiettivo di influenzare l’opinione pubblica. Inizialmente, la diplomazia digitale è stata apprezzata per la sua capacità di esercitare un impatto significativo sull’opinione pubblica internazionale durante i conflitti, grazie a strategie di comunicazione mirate, guerra psicologica e operazioni online.[1] Tuttavia, ben presto si è rivelato l’aspetto negativo della diplomazia digitale, soprattutto quando alcuni regimi autoritari hanno utilizzato le risorse di Internet per manipolare il traffico online, con l’obiettivo di ostacolare i gruppi dissidenti e l’opposizione politica.[2]

Un altro aspetto significativo legato al progresso digitale dell’informazione è l’uso crescente della guerra dell’informazione, ora potenziata dall’intelligenza artificiale, che è diventata un fattore cruciale nel raggiungimento di obiettivi strategici.[3]

La strategia e la dottrina russe hanno sempre attribuito grande importanza alla sicurezza informatica e alle operazioni cibernetiche, considerandole una parte essenziale delle più ampie operazioni di informazione. Questo approccio rende spesso indistinguibile la linea di confine tra capacità militari e civili, poiché entrambe collaborano all’interno della strategia nazionale complessiva. Le principali agenzie informatiche russe, infatti, partecipano attivamente, anche ai più alti livelli, all’interno del Consiglio di sicurezza del governo, che include membri come il ministro della Difesa, il capo del Servizio di sicurezza federale (FSB) e il capo di stato maggiore generale.

La dottrina militare del 2015, che ha preceduto la dottrina per la sicurezza informatica del 2016, sottolinea l’importanza della protezione dello spazio cibernetico come parte integrante della sicurezza nazionale russa, affidando questo compito alle forze armate. In linea con questa dottrina, nel 2017 la Russia ha istituito “unità per le operazioni di informazione”, inizialmente concepite per la difesa del cyberspazio, ma che hanno rapidamente assunto un ruolo più ampio, includendo attività di informazione tradizionali e operazioni psicologiche. La “Direzione Principale dello Stato Maggiore” (GU), precedentemente nota come GRU, insieme ai suoi comandi subordinati, come l’85° Centro Servizi Speciali Principali (Unità 26165) e il 72° Centro Servizi Speciali (Unità 54777), sotto il diretto controllo del capo di stato maggiore delle forze armate russe, è considerata l’entità principale responsabile delle operazioni cibernetiche offensive e di influenza.

Figura 1. Evoluzione della Diplomazia russa e delle operazioni informatiche.

Il grafico in Figura 1 rappresenta l’evoluzione della diplomazia russa e delle operazioni informatiche, mostrando come queste siano diventate sempre più influenti nel tempo. Le fasi temporali sono così illustrate:

Prima fase: inizio del 21° secolo – Introduzione della soft diplomacy pubblica.

Seconda fase: 2008-2012 – Sviluppo della diplomazia digitale e delle prime operazioni informatiche, specialmente dopo il conflitto russo-georgiano.

Terza fase: 2013-Presente – Consolidamento e intensificazione delle operazioni informatiche e dell’influenza attraverso la diplomazia digitale, potenziate dall’intelligenza artificiale.

Il grafico evidenzia un aumento progressivo del livello di influenza di queste strategie nel contesto globale.

La diplomazia pubblica della Russia: tra strategia e meccanismi

La diplomazia pubblica russa contemporanea si fonda sulla strategia di politica estera delineata nel 2013. In un articolo intitolato “Russia and the Changing World“, pubblicato nel febbraio 2012, il presidente russo Vladimir Putin ha definito il soft power come un insieme di strumenti e metodi per conseguire obiettivi di politica estera senza ricorrere all’uso di armi o altre forme di pressione, con un’enfasi particolare sull’utilizzo della leva finanziaria.[4]  In linea con questa visione, il “Concetto di politica estera della Federazione Russa”, approvato da Putin nel febbraio 2013, dichiara che il soft power, un insieme completo di strumenti per il raggiungimento degli obiettivi di politica estera basato sul potenziale della società civile, dell’informazione, e su metodi e tecnologie culturali alternativi alla diplomazia tradizionale, è diventato una componente essenziale nelle relazioni internazionali contemporanee.

Tuttavia, l’intensificazione della competizione globale e l’aumento del rischio di crisi possono talvolta portare a un uso distorto e illegale del soft power e dei diritti umani «per esercitare pressioni politiche sui paesi sovrani, interferire nei loro affari interni, destabilizzare la situazione politica e manipolare l’opinione pubblica, anche attraverso il finanziamento di progetti culturali e sui diritti umani».[5] La citazione inquadra molto bene l’atteggiamento della Russia verso il concetto di soft power, inteso come motore delle cosiddette “rivoluzioni colorate” e delle attività dell’Occidente che la Russia considera sfavorevoli per sé stessa. Russia che, nello sviluppo della propria diplomazia pubblica, ha fatto ampio utilizzo degli strumenti d’influenza per condizionare la vita politica di paesi terzi.[6]

Con queste ambizioni, nel 2010 la Russia ha creato due agenzie diplomatiche: il “Russian World”, focalizzato sulla diffusione della lingua russa, e il “Fondo Alexander Gorchakov per la Diplomazia Pubblica”. Inoltre, già nel 2008, all’interno del ministero degli Affari Esteri era stata istituita la Divisione Rossotrudnichestvo, l’Agenzia federale responsabile degli affari della Comunità degli Stati Indipendenti, dei compatrioti all’estero e della cooperazione umanitaria internazionale. Questa agenzia si occupa dei russi e delle comunità di lingua russa all’estero. Nel 2020, Rossotrudnichestvo ha ampliato la sua struttura aggiungendo dipartimenti dedicati all’informazione e alla sicurezza informatica, alla scienza e all’istruzione, e agli aiuti esteri.

Nel complesso, l’approccio russo alla diplomazia pubblica mostra una continua evoluzione nella comunicazione strategica e nel marketing politico di Mosca, in cui strumenti come messaggi mirati, tweet, e il coinvolgimento del pubblico diventano sempre più centrali, sia nella comunicazione tradizionale che in quella digitale.[7]

L’influenza russa attraverso la diffusione di informazioni è limitata dalla scarsa accessibilità e penetrazione dei contenuti in lingua russa, soprattutto in Europa e negli Stati Uniti. Per superare questo ostacolo, la Russia sta efficacemente potenziando le sue capacità di azione e penetrazione nel cyberspazio. Considerando le pressioni politiche e l’inefficacia della diplomazia culturale tradizionale russa, è la diplomazia digitale e dei dati che viene utilizzata come strumento per diffondere “notizie alternative” nei paesi di interesse per il Cremlino. In questo contesto, i messaggi politici e le comunicazioni divisive sono mirati a polarizzare le opinioni pubbliche nazionali tramite social network come Facebook, Twitter e YouTube, utilizzati come strumenti di guerra informativa da utenti registrati in Russia.[8] Attraverso questi strumenti, la diplomazia pubblica russa ha intensificato i suoi sforzi durante la pandemia da Covid-19, sfruttando il supporto umanitario russo per presentarsi in modo credibile alle opinioni pubbliche straniere. Paesi come la Serbia nei Balcani, la Siria in Medio Oriente, il Venezuela in America Latina e persino l’Italia nell’Unione Europea hanno ricevuto aiuti russi, la cui portata è stata promossa sui social network attraverso una campagna propagandistica ben organizzata ed efficace.

Information warfare, artificial intelligence e la competizione con la Nato

Come discusso, la Russia percepisce l’Occidente come una minaccia. Questo punto di vista è stato ribadito dal capo di stato maggiore generale delle forze armate russe, Valery Gerasimov, nell’aprile 2019, quando ha sottolineato il pericolo rappresentato dall’espansione della NATO verso i confini russi e dai tentativi occidentali di destabilizzare il governo del presidente Putin attraverso l’uso della “guerra ibrida”.[9]

Questa percezione è ulteriormente rafforzata dalla consapevolezza della debolezza delle forze armate convenzionali russe, ritenute non sufficientemente preparate per affrontare un eventuale conflitto con la NATO. I vertici militari russi credono fermamente che sia essenziale evitare una guerra convenzionale, preferendo spostare il confronto sul piano cibernetico per raggiungere un equilibrio militare asimmetrico. Questa strategia è attivamente perseguita dal Cremlino per garantire alla Russia un vantaggio militare capace di contrastare le ambizioni dell’Alleanza Atlantica, senza dover ricorrere all’uso della forza cinetica convenzionale.

L’approccio russo può essere descritto come una forma di “dissuasione strategica”, o come ha indicato lo stesso Gerasimov, una “strategia di difesa attiva”, nota in Occidente come “guerra ibrida” o “attività sotto soglia”. Questo concetto si basa su operazioni non cinetiche mirate a indebolire, nel lungo termine, i potenziali avversari durante il tempo di pace, creando divisioni politiche e sociali al loro interno per minare la risolutezza e la capacità decisionale strategica dello Stato bersaglio. Gli obiettivi principali sarebbero i paesi fortemente anti-russi, in particolare quelli situati sul fianco orientale della NATO, dove la Russia potrebbe concentrare un’intensa guerra d’informazione per provocare cambiamenti politici significativi. In questo modo, la Russia potrebbe perseguire la sua dottrina di “autoaffermazione sovrana” e ottenere maggiore libertà di azione in regioni critiche come la Siria, il Medio Oriente e l’Africa. Queste misure preventive potrebbero anche servire a ostacolare qualsiasi decisione collettiva della NATO, compresa l’eventualità di un intervento diretto contro Mosca.[10]  In linea con questa lettura, in occasione dell’avvio della guerra russo-ucraina nel febbraio 2022 è stata registrata un’ondata di azioni per penetrare le reti della Nato all’inizio del conflitto, una precauzione ragionevole dal punto di vista russo, dato il timore di un possibile intervento dell’Alleanza a supporto di Kiev.

Information Warfare e Intelligenza Artificiale (AI)

Come già menzionato, Gerasimov ha sottolineato l’importanza crescente dell’informazione per neutralizzare gli oppositori dello Stato, sia interni che esterni. Secondo Gerasimov, «le tecnologie dell’informazione» stanno diventando «uno dei tipi di armi più promettenti» da impiegare contro altri paesi. Per questo motivo, egli afferma che «lo studio dei temi legati alla preparazione e alla conduzione delle azioni di informazione è il compito più importante della scienza militare».

Con questo approccio, la Russia ha dato priorità allo sviluppo di operazioni informative avanzate piuttosto che all’espansione di armi convenzionali, come carri armati o sistemi missilistici, poiché oggi le “tecnologie dell’informazione” possono essere notevolmente potenziate dall’intelligenza artificiale (AI).[11] Il pensiero delle forze armate russe riguardo allo sviluppo e all’impiego dell’intelligenza artificiale in ambito militare si focalizza sui vantaggi che essa può offrire nel supporto alle operazioni militari. Questi vantaggi spaziano dal miglioramento dei sistemi autonomi e di altre tecnologie militari fino alla gestione dell’informazione, in particolare a livello strategico globale. In questo contesto, l’intelligenza artificiale agisce come un amplificatore, potenziando le operazioni di disinformazione attraverso la diffusione intenzionale di notizie false e ingannevoli, con l’obiettivo di influenzare politiche e società e di creare instabilità su larga scala mediante la manipolazione delle informazioni e attività cibernetiche.[12]

Durante la crisi in Ucraina, la Russia avrebbe messo in atto un’ampia campagna di operazioni informative mirate a influenzare l’opinione pubblica e a creare confusione nello spazio dell’informazione, diffondendo una combinazione di informazioni vere, parzialmente vere e false per renderle credibili. Un esempio significativo di questi sforzi è rappresentato dai più di 65.000 tweet diffusi da falsi account russi nelle ventiquattr’ore successive all’abbattimento del volo MH-17 della Malaysia Airlines il 17 luglio 2014, con l’obiettivo di attribuire la colpa dell’incidente al governo ucraino. Inoltre, durante l’annessione della Crimea, le forze russe avrebbero oscurato nove canali televisivi ucraini in Crimea, sostituendoli con emittenti televisive russe per silenziare i media filo-governativi ucraini:[13] un fatto che confermerebbe la condotta di azioni di guerra elettronica (Electronic warfare, EW) come fattore abilitante per le operazioni di informazione.[14]

Le azioni menzionate evidenziano la determinazione della Russia a migliorare e intensificare le proprie capacità nel contesto della guerra informatica, che all’interno della dottrina militare russa è considerata una componente della più ampia guerra dell’informazione. La minaccia strategica posta dalla guerra informatica potenziata dall’intelligenza artificiale sarà particolarmente pericolosa, poiché gli strumenti informatici diventeranno sempre più capaci di generare disinformazione dettagliata e credibile (inclusi i “deep fake[15]) in volumi tali da rendere estremamente difficile distinguere la verità reale da un’enorme quantità di informazioni contrastanti.[16] L’AI consentirà di saturare lo spazio informativo con dati artificiali, creando una “verità virtuale” che potrà confondere e destabilizzare gli avversari, aprendo la strada a una possibile “guerra cognitiva” che la Russia potrebbe dominare.

Un altro aspetto cruciale della guerra informatica riguarda il piano tecnico: lo spionaggio, l’installazione di malware, la distruzione selettiva e, in particolare, la ricerca di vulnerabilità nei sistemi informatici degli avversari. Con l’avvento dell’AI, queste tecniche cibernetiche diventeranno sempre più efficaci, permettendo di individuare le debolezze dei sistemi IT avversari con maggiore rapidità.[17]

Figura 2. Evoluzione dell’importanza della sicurezza informatica nella strategia russa.

Il grafico rappresenta l’evoluzione dell’importanza attribuita alla sicurezza informatica e alle operazioni cibernetiche nella strategia russa nel corso degli anni. Il grafico mostra un aumento significativo dell’enfasi sulla sicurezza informatica dal 2010 al 2020, indicando la sua crescente priorità nella pianificazione strategica della Russia.


[1] J. Fieke, Digital Activism in the Middle East: Mapping Issue Networks in Egypt, “Knowledge Management for Development Journal” 6 (1), 2010, pp. 37–52.

[2] N. Tsvetkova, D. Rushchin, (2021), Russia’s Public Diplomacy: From Soft Power to Strategic Communication, Journal of Political Marketing. 20. 1-12. 10.1080/15377857.2020.1869845.

[3] R. Thornton & M. Miron, Towards the ‘Third Revolution in Military Affairs’, The RUSI Journal, 165:3, 2020, pp. 12-21, DOI: 10.1080/03071847.2020.1765514: https://doi.org/10.1080/03071847.2020.1765514.

[4] V. Putin (2012), Russia and the Changing World, “Rossiyskaya Gaseta”. Accessed October 20, 2020.

[5] A. Sergunin, L. Karabeshkin, Understanding Russia’s Soft Power Strategy, “Politics” 35

(3–4):347–63, 2015.

[6] U.S. Congress. 2015. “U.S. Senate Committee on the Judiciary. Extremist Content and Russian Disinformation

Online: Working with Tech to Find Solutions.”. In: https://www.judiciary.senate.gov/meetings/extremist-content-and-russian-disinformation-online-working-with-tech-to-find-solutions (ultimo accesso 21 luglio 2021).

[7] N. Tsvetkova & D. Rushchin, Russia’s Public Diplomacy…, cit.

[8] J. Bērziņš (2014), Russia’s New Generation Warfare in Ukraine: Implications for Latvian Defense Policy, Policy Paper No 02, (Riga: National Defence Academy of Latvian Center for Security and Strategic Research, April 2014), 5.

[9] V. Gerasimov, Vektory Razvitiya Voyennoy Strategii [“The Vectors of Military Strategic Development”], “Krasnaya Zvezda” [Red Star], 3 aprile 2019, in http://redstar.ru/vektory-razvitiya-voennoj-strategii/.

[10] R. Thornton & M. Miron, Towards the ‘Third Revolution…, cit.

[11] Ivi.

[12] Ivi.

[13] Office of the UN High Commissioner for Human Rights, ‘Report on the Human Rights Situation in Ukraine’, 15 July 2014, p. 31. In: https://www.ohchr.org/Documents/Countries/UA/Ukraine_Report_15July2014.pdf (ultimo accesso 21 luglio 2021).

[14] D. McCrory (2021), Russian Electronic Warfare, Cyber and Information Operations in Ukraine, “The RUSI Journal”, 2021, pp –.

[15] Deepfake: tecnica per la rielaborazione dell’immagine umana basata sull’intelligenza artificiale, usata per combinare e sovrapporre immagini e video esistenti con altri video, o immagini originali, tramite una tecnica di apprendimento automatico, nota come rete antagonista generativa.

[16] R. Thornton & M. Miron, Towards the ‘Third Revolution…, cit.

[17] Ivi.


Elezioni USA: la vittoria (di Trump) e le sconfitte (di democratici e stampa)

di Melissa de Teffè.

Ieri sera, durante una lunga maratona di interviste al quartier generale di Trump a Mar-a-Lago, il celebre giornalista conservatore Tucker Carlson ha posto a Elon Musk una domanda diretta: “perché ha deciso di sostenere Trump?” – La risposta di Musk non ha lasciato spazio a dubbi: “Quando vedi una persona sotto tiro e osservi la sua reazione, capisci subito se ha coraggio o è una codarda. La pallottola lo aveva colpito, c’era sangue che gli colava sul viso, e avrebbe potuto esserci un secondo tiratore. Invece ha gridato: ‘Combattiamo, combattiamo, combattiamo’. Quello è vero coraggio. L’America (come dice l’inno, ndt) è la terra degli uomini liberi e la casa dei valorosi, e noi vogliamo come Presidente un uomo coraggioso”. 

Ma cosa ha portato Trump alla vittoria? 

Diversi elementi e strategie vincenti si sono sommati, rendendo questa campagna elettorale efficace. Innanzitutto, i lunghi podcast sia di Trump sia del suo vicepresidente J.D. Vance, uomo brillante e preparato, che insieme ai membri del loro team, hanno consentito al pubblico di conoscere soluzioni chiare e concrete, sui temi che più hanno interessato gli elettori: inflazione, economia, guerra.  Questo approccio , nonostante le frasi a volte “pazze” di Trump, ha avvicinato candidato ed elettori. Vivek, Bob Kennedy, Gabbard, Musk, non si sono risparmiati presentandosi ovunque, come ad esempio presso le università, rispondendo liberamente e senza filtri alle domande dei ragazzi, illustrando apertamente il programma politico e le soluzioni offerte ai vari problemi del paese.

In contrasto, la vicepresidente Kamala Harris non è riuscita a connettersi empaticamente con l’elettorato, concentrandosi troppo su temi come l’aborto, che ovviamente prevedeva un focalizzarsi su un solo segmento della popolazione e senza mai riuscire a spiegare cos’altro proponesse.

Un altro punto di forza è stato presentare un team di governo già delineato: Bob Kennedy Jr. come ministro della Salute, Elon Musk come responsabile per semplificare la burocrazia governativa, Vivek Ramaswamy, imprenditore brillante e figlio di immigrati indiani, e Tulsi Gabbard, deputata delle Hawaii e riservista delle Forze Armate. Volti, nomi e competenze specifiche che hanno dato al pubblico sicurezza e fiducia, nomi, volti, certezze.

Infine, Trump ha rassicurato la popolazione sul fatto che farà il possibile per risolvere i due conflitti internazionali in corso, un’idea in netta contrapposizione con le posizioni espresse da Harris e Biden, che non sono riusciti a dissipare il timore di una possibile escalation verso una terza guerra mondiale.

Le grandi sconfitte: Harris e la stampa

Il primo grande perdente è stata ovviamente la vicepresidente Kamala Harris, il cui team non ha saputo creare e farle dire quali fossero le sue scelte politiche in primis e quali, essendo lei vicepresidente, le differenze con Biden. 

Sono stai due i momenti significativi che hanno indebolito il consenso intorno a lei. Il primo, a settembre durante un’intervista con Oprah Winfrey, peraltro in un contesto assai amichevole, la Harris ha dichiarato di essere favorevole alla costruzione del muro di Trump, un dietrofront netto e sorprendente. La sua risposta, lunga e articolata, non è riuscita ad offrire nuove politiche per la gestione della crisi alla frontiera. 

L’altro colpo di scena è stato quando ha dichiarato di essere pro il secondo emendamento della costituzione che recita il diritto al porto d’armi, d’averlo e che se un estraneo fosse apparso nella sua residenza gli avrebbe sparato senza esitazione. Anche questo un punto cruciale da sempre una delle roccaforti repubblicane.  Un altro passo falso è stato durante la sua apparizione a The View, dove, in un contesto amichevole, ha faticato a rispondere su cosa farebbe di diverso da Biden. “Non mi viene in mente nulla,” ha dichiarato Harris, lasciando perplessi gli spettatori.

Anche la stampa ha subito una grande sconfitta. I reportage di parte, la mancanza di giornalismo investigativo e le critiche incessanti su Trump e il suo team, hanno fatto emergere un giornalismo meno oggettivo e più editoriale. Pochi media si sono limitati a riportare i fatti senza aggiungere commenti, e solo raramente si è visto un approfondimento su dettagli rilevanti, come i cambiamenti di opinione di personaggi influenti e gli interessi economici che li sostengono, senza indulgere in dietrologie esasperanti e spesso superflue. Mentre siamo stati ampiamente informati sui processi di Trump, nessuno ha indagato a fondo sulla biografia di Harris, arrivata al ruolo di Procuratore Generale della California anche grazie alla sua lunga relazione con il sindaco “sposato” di San Francisco, oppure che la foto della nonna insieme a lei nella sua autobiografia non sarebbe autentica, come riportato dalla giornalista Candance Owens in una conversazione con alcuni parenti della stessa Harris. 

Secondo un sondaggio Gallup, la fiducia nei media è crollata drasticamente al 32%, con un pubblico sempre più scettico sulla capacità dei giornali di riportare le notizie in modo completo, equo e accurato.  Cambierà quindi l’atteggiamento dei media? Secondo la Fondazione Pew, “giornali e televisione hanno registrato perdite nelle entrate pubblicitarie” proprio per aver registrato un audience sempre più piccola.

Altri vincitori: il Congresso e i governatori 

Insieme alle presidenziali, le elezioni includevano seggi per il Senato, la Camera dei deputati e undici governatori. Il Senato ha già acquisito una maggioranza repubblicana, mentre per la Camera è ancora in bilico. Dei governatori in corsa, sappiamo già che sette sono repubblicani e quattro democratici. Gli stati interessati sono: Delaware, Indiana, Missouri, Montana, New Hampshire, North Carolina, North Dakota, Utah, Vermont, Washington e West Virginia.

In conclusione, la vittoria di Trump appare come il frutto di strategie ben mirate e di un messaggio chiaro, mentre la sconfitta di Harris e il calo di fiducia nei media riflettono le difficoltà di una campagna che non ha saputo conquistare né chiarire agli elettori un’alternativa solida.


Elezioni USA: lo stato dell’Unione, dal 1948 al 2024.

di Melissa de Teffè.

È inutile preoccuparsi troppo per la riduzione delle tasse, finché non avremo raggiunto alcuni degli obiettivi che dobbiamo raggiungere. Dirò loro (la gente ai comizi ndt) che la nazione più ricca del mondo è un fallimento se non è anche la più sana del mondo. Questo significa la migliore assistenza medica per le fasce di reddito più basse… E dirò loro che il sogno americano non è fare soldi. È il benessere e la libertà dell’individuo in tutto il mondo, dalla Patagonia a Detroit… E dirò loro che esiste un solo governo capace di gestire il controllo atomico, il disarmo mondiale, l’occupazione globale, la pace mondiale, e questo è un governo mondiale. Gli abitanti di 13 stati fondarono gli Stati Uniti d’America. Bene, penso che ora i cittadini di altrettante nazioni siano pronti a fondare gli Stati Uniti del Mondo, e intendo veramente gli Stati Uniti del Mondo, con una carta dei diritti, una legge internazionale, una moneta internazionale, una cittadinanza internazionale, e dirò loro che la fratellanza umana non è solo un sogno idealistico, ma una necessità pratica se l’umanità vuole sopravvivere.” 

Questa, una parte del dialogo di Grant Matthews, impersonato da Spencer Tracy nel film di Frank Capra, un milionario americano reclutato forzatamente nel 1948 come candidato presidenziale repubblicano contro Truman ( potete vederlo qui in originale su Youtube). 

Non è cambiato nulla da allora ad oggi. Nonostante tutti dicano che queste sono le elezioni più epocali del secolo, facendo i calcoli di Elon Musk, guardiamo a quella che è stato una delle tematiche scottanti nelle elezioni precedenti: la frode dei voti. 

Venerdì scorso, il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha presentato una causa contro i funzionari elettorali della Virginia, accusando lo Stato di rimuovere nomi dagli elenchi degli elettori in violazione della legge elettorale federale. 

 La denuncia, depositata presso la Corte Distrettuale degli Stati Uniti ad Alexandria, Virginia, sostiene che un ordine esecutivo emesso ad agosto dal governatore repubblicano Glenn Youngkin, il quale pretende aggiornamenti quotidiani delle liste elettorali per rimuovere elettori non idonei, violi la legge federale. Secondo il National Voter Registration Act è necessario un “periodo di silenzio” di 90 giorni prima delle elezioni per gestire gli elenchi elettorali.   

“Il Congresso ha inserito un periodo di silenzio nel National Voter Registration Act per evitare azioni dell’ultimo minuto, che possano privare ingiustamente il diritto di voto agli elettori qualificati,” ha dichiarato Kristen Clarke, Assistente del Procuratore Generale degli Stati Uniti. “Il diritto di voto è il fondamento della nostra democrazia, e il Dipartimento di Giustizia continuerà a garantire la protezione dei diritti degli elettori qualificati.” Il 22 ottobre, la Corte Suprema della Georgia ha confermato la decisione di un tribunale inferiore di bloccare l’entrata in vigore di nuove regole di voto—come l’obbligo di conteggio manuale delle schede elettorali e altre disposizioni che, secondo i Democratici, avrebbero potuto ritardare la certificazione dei risultati elettorali—il che significa che, mentre il contenzioso continuerà, le regole non saranno in vigore durante le elezioni generali. 

Il 21 ottobre, giudici in Michigan e nella Carolina del Nord hanno respinto le cause legali presentate dal Comitato Nazionale Repubblicano (RNC) contro quegli elettori all’estero che votano come residenti di questi stati anche se non sono mai stati residenti, ma ci abitano i genitori, o il coniuge. Il giudice del Michigan ha definito l’azione un “tentativo dell’ultimo minuto per privare quegli elettori del diritto al voto.” 

Mentre entrambe le parti si muovono su diversi fronti – da un lato organizzando comizi negli Stati incerti, i cosiddetti “swing States”, dall’altro avviando cause legali per ottenere situazioni il più favorevoli possibile – emergono due importanti novità. La prima, sorprendente per molti, è che il Los Angeles Times e il Washington Post hanno scelto di non appoggiare ufficialmente nessuno dei due partiti, recuperando un’imparzialità che la stampa avrebbe sempre dovuto mantenere, ma che era stata abbandonata ormai da decenni. In risposta a questa decisione da parte della proprietà, il direttore del Los Angeles Times ha rassegnato le dimissioni, insieme ad altri giornalisti come Greene. Robert Greene e altri, hanno annunciato le loro dimissioni giovedì, il giorno dopo che Mariel Garza, direttore editorialista, si è dimessa in protesta alla decisione della proprietà, il Dr. Patrick Soon-Shiong, di non sostenere alcun candidato.  

Greene, vincitore del Premio Pulitzer per alcuni dei suoi editoriali, scrive nel Columbia Journalism Review di essere “profondamente deluso” dalla decisione di non appoggiare la Harris. – “Riconosco che spetta alla proprietà prendere questa decisione,” – ha scritto. “Ma è stato particolarmente doloroso perché Donald Trump, ha dimostrato ostilità verso i princìpi fondamentali del giornalismo — il rispetto per la verità e riverenza per la democrazia.” 

 Anche altri giornalisti del Washington Post hanno dato le dimissioni dopo l’annuncio di Jeff Bezos di allinearsi alla scelta del Times. “Il nostro compito al Washington Post è fornire attraverso la redazione notizie imparziali per tutti gli americani e opinioni stimolanti, basate su reportage, dal nostro team editoriale per aiutare i lettori a formarsi un’opinione,” ha dichiarato William Lewis, editore e CEO del giornale. Durante la corsa presidenziale del 2016, Jeff Bezos, proprietario del Washington Post, avrebbe impartito al direttivo del giornale l’ordine di cercare qualsiasi notizia in grado di danneggiare Donald Trump e di esaltare Hillary Clinton. Oggi, la domanda che molti si pongono è se Bezos si sia ravveduto o se questa mossa sia dettata dalla necessità di tutelare i propri interessi economici, in risposta a potenziali ritorsioni. È importante notare che tali ritorsioni si sono già manifestate: numerosi lettori hanno infatti deciso di annullare il proprio abbonamento.  

Da un’osservazione esterna, emerge che il giornalismo investigativo sembra oggi relegato a pochi professionisti che hanno abbandonato le sicurezze offerte dai grandi gruppi mediatici, sia nel settore della stampa che della televisione, per avviare iniziative indipendenti. Questi giornalisti, attraverso piattaforme come YouTube o canali televisivi privati, cercano di fornire un’informazione alternativa a quella predominante. Tra di loro, Candace Owens ha intrapreso un’indagine approfondita sulle origini della vice presidente Kamala Harris. Owens sostiene di aver scoperto che Harris, contrariamente a quanto affermato, è nata in una famiglia molto benestante e non ha alcuna provenienza genealogica con la comunità di colore. Per cui rileggendo le affermazioni di Green viene spontaneo chiedersi perchè queste informazioni non sono state condivise da questa stampa preparata e privilegiata, ma solo una persona in tutto il paese, sembra essersi dedicata a fare ricerca? 

Concludo condividendo alcuni fatti vissuti durante un lungo viaggio attraverso vari stati del West degli Stati Uniti. Ho osservato da vicino l’ampia presenza di senzatetto e il profondo senso di sofferenza che caratterizza le strade. La disparità economica tra ricchi e poveri è palpabile: da un lato ci sono famiglie che possiedono tre o quattro ville, spesso utilizzate solo in occasioni speciali o lasciate vuote, mentre dall’altro lato molti vivono in condizioni precarie, con difficoltà non solo ad acquistare beni di prima necessità a causa dei prezzi elevati, ma anche a fronteggiare stipendi che non coprono il costo della vita.  

 Le spese per elettricità, carburante e alimentari sono in aumento, e le difficoltà economiche si avvertono tanto in America come in Europa. Nelle città, i senzatetto sono veramente tanti,si muovono come ombre, avvolti in felpe che nascondono volutamente i loro volti, privandosi visivamente di identità e descrizione. Tanti vagano con le loro borse in spalla e molti altri si trovano ai semafori con pezzi di cartone su cui chiedono aiuto.  

Sebbene non esista una soluzione semplice a questa crisi, è chiaro che un approccio meno spietato nella ricerca del profitto potrebbe contribuire a un miglioramento generale per tutti. Come gocce d’acqua che formano un mare, così piccoli cambiamenti nella mentalità potrebbero fare la differenza. Meno avidità e più generosità farebbero miracoli.