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Trump e lo Alien Enemies Act del 1798: il rimpatrio dei membri di gang venezuelane come “guerra irregolare”.

di Andrea Molle, dagli Stati Uniti.

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Lo Alien Enemies Act del 1798 è una legge federale che concede al presidente degli Stati Uniti l’autorità di detenere o deportare cittadini stranieri provenienti da nazioni considerate ostili in tempi di guerra. Promulgata il 6 luglio 1798 come parte degli Alien and Sedition Acts, il suo obiettivo principale è quello di proteggere la sicurezza nazionale in un contesto di conflitto armato.

Alla fine del XVIII secolo, le tensioni tra Stati Uniti e Francia aumentarono, alimentando timori di spionaggio e sovversione interna. Per rispondere a queste preoccupazioni, il Congresso, controllato dai Federalisti, approvò quattro leggi collettivamente note come Alien and Sedition Acts. Queste includevano il Naturalization Act, che aumentava il requisito di residenza per la cittadinanza statunitense da cinque a quattordici anni; lo Alien Friends Act, che autorizzava il presidente a deportare qualsiasi straniero ritenuto pericoloso per la sicurezza nazionale; lo Alien Enemies Act, che permetteva al presidente di detenere o deportare cittadini maschi di una nazione ostile, di età pari o superiore ai quattordici anni, durante i periodi di guerra; e il Sedition Act, che rendeva un crimine la pubblicazione di scritti “falsi, scandalosi e maligni” contro il governo o i suoi funzionari. A differenza degli altri tre atti, che furono abrogati o scaddero entro il 1802, lo Alien Enemies Act rimane in vigore ancora oggi, sebbene in una forma modificata. La sua stessa presenza continua nel diritto statunitense alimenta dibattiti su libertà civili e l’equilibrio tra sicurezza nazionale e diritti individuali.

Nel corso della storia degli Stati Uniti, lo Alien Enemies Act è stato invocato solo durante conflitti significativi. Durante la Guerra del 1812, fu applicato ai cittadini britannici residenti negli Stati Uniti. Nella Prima Guerra Mondiale, prese di mira cittadini della Germania e dei suoi alleati. Nella Seconda Guerra Mondiale, giustificò l’internamento di cittadini giapponesi, tedeschi e italiani, nonché di cittadini americani di origine giapponese, segnando una delle applicazioni più controverse della legge. In ogni caso, l’atto ha facilitato la detenzione, il trasferimento o la deportazione di individui sulla base della loro nazionalità in tempo di guerra.

Nel marzo 2025, il presidente Donald Trump ha invocato lo Alien Enemies Act per accelerare la deportazione di migranti venezuelani sospettati di affiliazione con gang criminali, in particolare il gruppo Tren de Aragua. Questo ha segnato un’inedita applicazione della legge in tempo di pace, poiché gli Stati Uniti non sono ufficialmente in guerra con il Venezuela. Sebbene l’inizio delle deportazioni non sia stato fermato, un giudice federale ha emesso un’ordinanza restrittiva di quattordici giorni, aprendo un dibattito legale sull’ambito e l’applicabilità della legge nel contesto contemporaneo.

L’invocazione del Alien Enemies Act del 1798 per deportare membri di gang venezuelane suggerisce che l’amministrazione Trump stia inquadrando l’attività criminale come una forma di guerra irregolare. Questo si allinea con precedenti passi volti a classificare alcuni cartelli della droga come organizzazioni terroristiche, riflettendo un più ampio cambiamento nel modo in cui gli attori non statali coinvolti nel crimine organizzato sono percepiti all’interno della politica di sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Trattando le organizzazioni criminali come attori di guerra irregolare piuttosto che come semplici imprese criminali, l’amministrazione probabilmente cerca di espandere gli strumenti legali e militari disponibili per combatterle.

La guerra irregolare è generalmente intesa come un conflitto che coinvolge attori non statali che utilizzano tattiche asimmetriche, tra cui insurrezione, guerriglia e terrorismo, per sfidare l’autorità statale. I cartelli della droga e le gang transnazionali, pur non essendo insurrezioni ideologiche nel senso tradizionale, esercitano violenza, controllo territoriale e sfruttamento economico che destabilizzano le regioni e minacciano la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Equiparare l’attività delle gang alla guerra irregolare potrebbe giustificare misure più forti, come interventi militari, operazioni di intelligence e l’applicazione di poteri straordinari tipici del tempo di guerra, comprese deportazioni accelerate e potenzialmente detenzioni a tempo indeterminato.

Esistono diversi potenziali vantaggi in questo approccio. In primo luogo, consente una risposta più aggressiva e coordinata contro organizzazioni criminali che operano oltre i confini e hanno legami con reti terroristiche. Se i cartelli e le gang transnazionali vengono trattati come minacce paragonabili alle insurrezioni, allora possono essere applicate strategie di controterrorismo e controinsurrezione per smantellarli. Ciò potrebbe migliorare la sicurezza lungo il confine tra Stati Uniti e Messico e nelle aree urbane colpite dalla violenza delle gang, riducendo potenzialmente i crimini e le morti legate alla droga. Potrebbe anche esercitare pressione sui governi stranieri, come quelli di Messico e Venezuela, affinché prendano misure più forti contro i gruppi criminali operanti nei loro territori.

Tuttavia, esistono anche rischi significativi e potenziali conseguenze negative. Dal punto di vista legale, l’ampia applicazione di poteri straordinari in un contesto di pace potrebbe creare un precedente pericoloso, erodendo le libertà civili e le garanzie del giusto processo. L’uso del Alien Enemies Act contro individui non affiliati a uno stato nemico riconosciuto solleva preoccupazioni sulla sua costituzionalità e sulla possibilità di discriminazione razziale o etnica. Inoltre, l’espansione del concetto di guerra irregolare per includere l’attività delle gang potrebbe portare alla militarizzazione delle forze dell’ordine domestiche, aumentando l’uso della forza, le potenziali violazioni dei diritti umani e le tensioni tra comunità e autorità governative.

A livello internazionale, trattare cartelli e gang come organizzazioni terroristiche o combattenti nemici potrebbe aumentare le tensioni con i governi stranieri. Se gli Stati Uniti iniziassero a prendere di mira questi gruppi attraverso operazioni militari o di intelligence, ciò potrebbe essere visto come una violazione della sovranità nazionale, specialmente in America Latina. Paesi come il Messico hanno già resistito agli sforzi statunitensi di designare i cartelli come organizzazioni terroristiche, temendo che ciò possa giustificare azioni militari unilaterali da parte degli Stati Uniti nei loro territori. Questo approccio potrebbe anche provocare ritorsioni da parte delle organizzazioni criminali, aumentando la violenza contro cittadini americani e forze dell’ordine. In conclusione, mentre la classificazione dell’attività delle gang come guerra irregolare può offrire vantaggi tattici nella lotta contro il crimine organizzato, essa comporta profondi rischi legali, etici e geopolitici che devono essere attentamente valutati. È necessario trovare un equilibrio tra la sicurezza nazionale e il rispetto dello stato di diritto, delle libertà civili e della cooperazione internazionale. Inoltre, le conseguenze a lungo termine della ridefinizione delle organizzazioni criminali come minacce militari potrebbero modellare la politica degli Stati Uniti in modi difficili da controllare o invertire.


La telefonata Trump-Zelensky sulla pace in Ucraina: leggiamo tra le righe

di Claudio Bertolotti.

Dall’intervista a “Effetto Notte” – Radio24, ospite di Roberta Giordano (puntata del 19 marzo 2025).

La dichiarazione al termine della conversazione telefonica è stata concordata e allineata, una copia l’una dell’altra. Dalla convergenza sulla riconosciuta importanza degli incontri negoziali di Gedda alla decisione di accettare un cessate il fuoco incondizionato, il che equivale a cedere alla Russia. Quello di un’Ucraina provata dei territori conquistati da Mosca è lo scenario che prospettiamo da almeno due anni ma di cui si è preferito non parlare prediligendo una narrazione ideale e non realistica volta alla liberazione dell’Ucraina tout court. Purtroppo.

C’è una differenza sottile però nelle dichiarazioni di Washington e Kiev: Zelensky ha ribadito la necessità di rinforzare la difesa contraerea. Trump ha concordato su questa necessità, evidenziando però che farà il possibile per trovare in Europa la risposta a tale necessità. Dunque passando la palla agli europei, o quantomeno richiamando l’UE a un ruolo che, a parole, pretende ma che nella pratica ha giocato Washington fo dal principio. Forse non in termini economici, ma certamente in termini di forniture materiali di armi ed equipaggiamenti. Inoltre, Zelensky non l’ha fatto, Trump si, è stata ventilata l’ipotesi di un passaggio di proprietà del settore energetico ucraino a favore di aziende statunitensi. Interessante, poiché questo potrebbe essere un limite all’eventuale aggressiva pretesa futura da parte di Mosca.

Di fatto l’Ucraina ha incassato il colpo piegandosi alla volontà statunitense, non potendo fare altrimenti e non essendoci una reale alternativa.

Dunque l’opzione che si prospetta all’orizzonte è quella di un’Ucraina ridimensionata, territorialmente, in termini di risorse naturali, e privata di un eventuale possibilità di inclusione all’interno dell’Alleanza atlantica, ma non dell’Unione europea: un’opzione che, però, sarebbe molto vantaggiosa per la Russia che, nell’Europa, non intravede un baluardo invalicabile.


Il dilemma della difesa europea: perché PESCO e altre iniziative non riescono mai a dare risultati

di Andrea Molle, dagli Stati Uniti.

L’Unione Europea ha sempre aspirato a rafforzare la sua sicurezza collettiva e l’autonomia strategica. Negli ultimi anni, iniziative come la Cooperazione Strutturata Permanente (PESCO), il Fondo europeo per la difesa (EDF) e la Revisione annuale coordinata sulla difesa (CARD) sono state lanciate per potenziare le capacità di difesa europee. Tuttavia, queste iniziative, pur essendo simbolicamente significative, non sono riuscite a dare all’Europa un framework per la sicurezza coerente ed efficace. Con l’aumento delle tensioni geopolitiche, in particolare con una Russia sempre più aggressiva e l’instabilità in corso in Medio Oriente e Nord Africa, è giunto il momento per l’Europa di riconoscere i difetti fondamentali nel suo attuale approccio alla difesa e considerare soluzioni più radicali.

Ad oggi, la Cooperazione Strutturata Permanente (PESCO) continua a essere il quadro di riferimento dell’Unione Europea per approfondire la collaborazione in ambito difensivo tra i suoi Stati membri. Dalla sua creazione nel 2017, PESCO si è estesa includendo oggi 26 paesi che lavorano collettivamente su 68 progetti volti a migliorare le capacità militari e l’interoperabilità. Nel novembre 2024, il Consiglio dell’Unione Europea ha approvato le conclusioni della revisione strategica di PESCO, riaffermando il suo ruolo centrale nel promuovere la cooperazione nell’ambito della difesa. La revisione ha messo in luce la necessità di adattare PESCO al mutato panorama geopolitico e ha evidenziato l’importanza di affrontare le sfide esistenti per potenziarne l’efficacia.

Nonostante questi sforzi, PESCO continua comunque ad avere limiti significativi. Molti progetti hanno subito ritardi a causa di una pianificazione finanziaria e opertativa insufficiente, portando a discussioni sul rilancio o l’abbandono di iniziative poco performanti. Inoltre, gli interessi nazionali divergenti e le diverse interpretazioni dell’autonomia strategica tra gli Stati membri hanno ostacolato il raggiungimento di un livello accettabile di coesione. Ad esempio, la Polonia ha espresso preoccupazioni sul fatto che PESCO potrebbe minare la NATO o indebolire la cooperazione in materia di sicurezza con gli Stati Uniti, entrambi vitali per la sicurezza del fianco orientale della NATO.

Per aumentare l’efficacia di PESCO, l’UE ha lanciato diversi progetti aperti alla partecipazione di terzi rispetto all’Unione. In particolare, Canada, Norvegia e Stati Uniti sono coinvolti nel progetto “Mobilità Militare” dal dicembre 2021, con il Regno Unito che si è unito nel novembre 2022. Il Canada è stato anche invitato a partecipare, a partire da febbraio 2023, al progetto di creazione di una rete di hub logistici in Europa e supporto alle operazioni. Questa inclusione mira a sfruttare competenze e risorse esterne per rafforzare le iniziative PESCO. Nell’agosto 2024, la Svizzera ha ottenuto l’approvazione per partecipare a due progetti PESCO: “Mobilità Militare” e “Cyber Ranges Federation”. Questa apertura è volta a potenziare le capacità di difesa nazionale della Svizzera, pur rispettando i suoi obblighi di neutralità.

Guardando al futuro, la revisione strategica in corso di PESCO, prevista per concludersi entro la fine del 2025, offre un’opportunità per rimodellare il quadro per affrontare meglio le sfide di sicurezza contemporanee. La revisione mira a rivitalizzare PESCO affinando i suoi obiettivi, migliorando la gestione dei progetti e garantendo che gli sforzi collaborativi portino a concreti avanzamenti militari. In sintesi, sebbene PESCO abbia fatto progressi nel promuovere la cooperazione in ambito difensivo all’interno dell’UE, continua a fare i conti con inefficienze burocratiche, priorità nazionali divergenti e livelli variabili di impegno tra gli Stati membri. La valutazione dei risultati della revisione strategica e dell’inclusione di partecipanti terzi saranno cruciali per determinare l’efficacia futura di PESCO nel rafforzare la postura difensiva dell’Europa.

Allo stesso modo, il Fondo europeo per la difesa (EDF), istituito nel 2017, è uno strumento fondamentale per rafforzare la ricerca e l’innovazione nel settore della difesa dell’Unione Europea. Per il periodo 2021-2027, l’EDF ha ricevuto un budget di circa 8 miliardi di euro, di cui 2,7 miliardi destinati alla ricerca difensiva collaborativa e 5,3 miliardi destinati a progetti di sviluppo delle capacità. Riconoscendo la necessità di potenziare le capacità di difesa, la Commissione Europea ha proposto un sostanziale aumento dei fondi per la difesa. Nel marzo 2025, la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha annunciato piani per un fondo di difesa da 150 miliardi di euro, volto a incoraggiare gli Stati membri a investire in capacità militari con il supporto di prestiti sostenuti dall’UE. Questa iniziativa sottolinea l’impegno dell’UE nel rafforzare la propria postura difensiva in risposta alle sfide geopolitiche in evoluzione.

La Revisione Annuale Coordinata sulla Difesa (CARD) è un altro meccanismo cruciale progettato per armonizzare la pianificazione e gli investimenti della difesa tra gli Stati membri dell’UE. CARD fornisce una panoramica completa del panorama della difesa dell’UE, identificando opportunità di collaborazione e facilitando la cooperazione. Tuttavia, il rapporto CARD del 2024 indica che, nonostante i progressi nella spesa per la difesa e nella cooperazione, resta ampio spazio per miglioramenti. Gli Stati membri sono incoraggiati a prendere azioni decisive per mantenere gli investimenti e migliorare l’efficienza delle loro forze armate.

In aggiunta all’EDF e al CARD, numerose altre iniziative e agenzie difensive europee contribuiscono al potenziamento delle capacità di difesa dell’Unione Europea. Istituita nel 2004, l’Agenzia Europea per la Difesa (EDA) supporta gli Stati membri dell’UE nel migliorare le loro capacità di difesa attraverso la cooperazione europea. Agendo come facilitatore per progetti difensivi collaborativi, l’EDA funge da centro per la cooperazione nella difesa europea, coprendo una vasta gamma di attività legate alla difesa.

La Politica Comune di Sicurezza e Difesa (CSDP) è il quadro dell’UE per la difesa e la gestione delle crisi, formando una componente principale della Politica Estera e di Sicurezza Comune (CFSP) dell’UE. La CSDP consente all’UE di intraprendere missioni operative al di fuori dei suoi confini, utilizzando sia risorse civili che militari per garantire il mantenimento della pace, la prevenzione dei conflitti e il rafforzamento della sicurezza internazionale. L’UE sta anche esplorando lo sviluppo di una nuova rete satellitare per ridurre la dipendenza dall’intelligence militare degli Stati Uniti. Questa iniziativa mira a migliorare la capacità dell’UE di rilevare minacce e coordinare azioni militari, fornendo aggiornamenti più frequenti e maggiore autonomia nella raccolta di informazioni. Queste iniziative e agenzie contribuiscono collettivamente a un quadro difensivo europeo più integrato e robusto, affrontando le sfide di sicurezza sia attuali che emergenti.

A complicare le sfide affrontate da queste iniziative c’è comunque la continua dipendenza dell’UE dalla NATO come suo principale garante della sicurezza. Mentre i leader europei parlano spesso di “autonomia strategica”, la realtà è che l’Europa rimane dipendente dal potere militare americano. La guerra in Ucraina ha sottolineato il ruolo insostituibile della NATO nella sicurezza europea, con gli Stati Uniti che forniscono la maggior parte degli aiuti militari e del coordinamento strategico. Questa dipendenza dalla NATO crea un paradosso: mentre l’UE desidera una maggiore indipendenza difensiva, non è disposta o in grado di sviluppare le capacità necessarie per rendere quell’indipendenza significativa. I tentativi di stabilire un’identità difensiva europea credibile, come l’Iniziativa di Intervento Europea (EI2) guidata dalla Francia, hanno fatto pochi progressi a causa delle priorità concorrenti degli Stati membri.

Per affrontare queste carenze, l’Europa deve riconsiderare la sua strategia di difesa con soluzioni audaci e pragmatiche. In primo luogo, è necessaria un’autentica volontà di spesa per la difesa. L’UE dovrebbe stabilire obiettivi vincolanti di investimento in difesa, simili all’aumento della richiesta di PIL della NATO. ReArm Europe è un passo nella giusta direzione, ma un bilancio militare comune europeo, finanziato attraverso meccanismi a livello UE, potrebbe aiutare a superare la frammentazione nell’acquisto di armamenti e nello sviluppo delle capacità.

In secondo luogo, dobbiamo capire che la creazione di un esercito europeo pienamente integrato è stata a lungo considerata politicamente irrealizzabile a causa delle preoccupazioni sulla sovranità nazionale e della complessità nell’allineare strutture militari diversificate. Tuttavia, gli sviluppi recenti indicano un cambiamento verso capacità difensive europee più coese. Nel marzo 2022, l’UE ha introdotto lo strumento dello Strategic Compass, delineando la creazione di una Capacità di Dispiegamento Rapido (RDC) entro il 2025. Questa forza modulare mira a mobilitare fino a 5.000 persone, incorporando i battaglioni modificati dell’UE e forze aggiuntive degli Stati membri.

Il presidente francese Emmanuel Macron è da sempre un sostenitore vocale del rafforzamento dei meccanismi di difesa dell’UE. Nell’aprile 2024, ha proposto l’istituzione di una Forza di Reazione Rapida Europea entro il 2025, sottolineando la necessità di un'”Iniziativa di Difesa Europea” per sviluppare concetti strategici e capacità, in particolare nella difesa aerea e nelle operazioni a lungo raggio. Nonostante queste iniziative, permangono numerosi problemi. Nazioni come la Germania affrontano difficoltà nel reclutare e preparare le loro forze armate, soprattutto tra le giovani generazioni che potrebbero dare priorità all’equilibrio tra vita lavorativa e impegni militari. Nazioni come l’Italia non si fidano della Francia, riconoscendo che molto spesso le priorità strategiche e gli interessi nazionali di Parigi divergono da quelli di Roma.

Infine, potenziare la sicurezza dell’Europa richiede un approccio globale che integri i quadri militari istituzionali e la preparazione civile. Sebbene l’idea di un diritto di autodifesa a livello dell’UE simile al Secondo Emendamento degli Stati Uniti sia culturalmente e giuridicamente complessa, l’Europa ha avviato iniziative per rafforzare la resilienza e la preparazione civile.

In conclusione, l’ambiente di sicurezza dell’Europa sta peggiorando, e le attuali iniziative di difesa sono inadeguate per affrontare le sfide future. PESCO, l’EDF e il CARD non sono riusciti a offrire un cammino credibile verso l’autonomia strategica. Se l’Europa è seria nel difendersi, deve adottare soluzioni più ambiziose, tra cui un aumento della spesa per la difesa, l’integrazione operativa e un quadro giuridico che dia potere agli Stati e ai cittadini in materia di sicurezza. Senza tali misure, la difesa europea rimarrà un mosaico frammentato e inefficace, lasciando il continente vulnerabile in un mondo sempre più ostile.


Trump: pressioni sull’Iran per colpire la Cina.

di Claudio Bertolotti.

L’amministrazione Trump ha deciso di intensificare la propria politica di massima pressione nei confronti dell’Iran, colpendo direttamente il settore petrolifero e le relative infrastrutture logistiche. Le recenti azioni statunitensi mirano a ridurre significativamente le esportazioni iraniane di petrolio, specialmente verso la Cina, per limitare il finanziamento delle attività destabilizzanti del regime iraniano in Medio Oriente.
Il Dipartimento di Stato ha imposto nuove sanzioni contro tre società che hanno facilitato trasferimenti illeciti di petrolio iraniano mediante operazioni navali ship-to-ship (STS) svolte al largo dei porti nel Sud-est asiatico. Contemporaneamente, sono state individuate tre navi utilizzate per queste operazioni, dichiarandole beni soggetti a blocco. Queste misure puntano a bloccare il flusso finanziario che consente a Teheran di sostenere i suoi programmi nucleari e missilistici, oltre al sostegno ai gruppi terroristici regionali.
Parallelamente, il Dipartimento del Tesoro ha colpito direttamente il Ministro del Petrolio iraniano, Mohsen Paknejad, figura chiave nelle operazioni petrolifere iraniane, accusato di usare le risorse energetiche nazionali a favore delle attività illecite del regime. Sono state inoltre sanzionate diverse compagnie coinvolte nel trasporto e nella vendita del petrolio iraniano, soprattutto verso la Cina.
Le società colpite dalle sanzioni hanno operato con navi registrate in vari Paesi, nascondendo l’origine reale del petrolio trasportato, disattivando o manipolando i sistemi di identificazione automatica (AIS) per eludere i controlli internazionali. Tra queste società vi sono la PT. Bintang Samudra Utama (Bintang), la Shipload Maritime Pte. Ltd. e la PT. Gianira Adhinusa Senatama (Gianira), che hanno rispettivamente gestito le navi CELEBES, MALILI e MARINA VISION. Queste navi sono state coinvolte in un’importante operazione di trasferimento STS di petrolio iraniano il 25 dicembre 2024 nei pressi di Nipa, in Indonesia.
Gli analisti sottolineano che questa strategia riflette una consolidata tattica statunitense, volta non solo a bloccare le principali entrate economiche di Teheran ma anche a scoraggiare società e stati terzi dal collaborare direttamente o indirettamente con il regime iraniano. Questo genere di sanzioni genera un forte effetto dissuasivo, aumentando i costi e i rischi per gli operatori internazionali che cercano di aggirare le restrizioni imposte dagli USA.
Sul piano economico e strategico, questa ulteriore stretta punta dunque ad azzerare progressivamente le entrate petrolifere dell’Iran, indebolendo la capacità del regime di finanziare sia le proprie forze armate convenzionali sia le reti di milizie e gruppi affiliati, considerati da Washington come fattori principali di instabilità regionale.
È prevedibile che l’intensificazione delle sanzioni porti a un ulteriore aumento della tensione internazionale, ribadendo però la determinazione dell’amministrazione Trump a proseguire con la politica di massima pressione, con l’obiettivo finale di costringere l’Iran a rivedere le proprie strategie regionali e le proprie ambizioni nucleari e missilistiche.


L’evoluzione della guerra irregolare e una roadmap per il futuro.

di Andrea Molle, dagli Stati Uniti.

Storicamente parlando, la guerra irregolare (IW) è stata una costante dei conflitti, evolvendosi in risposta a dinamiche politiche, tecnologiche e sociali in continuo cambiamento. Nella dottrina militare degli Stati Uniti, essa è definita come “una lotta violenta tra attori statali e non statali per la legittimità e l’influenza sulle popolazioni di interesse” e, secondo la legge statunitense, come “attività del Dipartimento della Difesa che non coinvolgono conflitti armati ma supportano politiche e obiettivi militari prestabiliti degli Stati Uniti, condotte da, con e attraverso forze regolari, forze irregolari, gruppi e individui”. In senso più ampio, si tratta di una forma di guerra che mira a minare il potere di un avversario attraverso tattiche asimmetriche. Oggi, la guerra irregolare ha assunto molte forme, dalla guerriglia alle operazioni cyber-enabled. Sebbene il dibattito moderno sulla IW sia fortemente influenzato dalle esperienze occidentali, in particolare dagli Stati Uniti, è essenziale esaminare una gamma più ampia di casi storici e contemporanei per comprenderne l’evoluzione e affrontare le sfide della sicurezza futura.

Nel corso della storia, la guerra irregolare è stata l’arma della parte più debole in un conflitto, che si trattasse di insorti contro potenze coloniali, movimenti di resistenza contro occupazioni o attori non statali che sfidavano l’autorità statale. Esempi precoci includono le tattiche di guerriglia impiegate dagli spagnoli contro le forze napoleoniche nella Guerra d’Indipendenza spagnola (1808-1814) e le strategie asimmetriche utilizzate dai gruppi indigeni contro gli eserciti coloniali europei.

Nel XX secolo, la guerra irregolare è diventata una caratteristica dominante dei conflitti globali, soprattutto nelle lotte di decolonizzazione. La resistenza vietnamita contro le forze francesi e, successivamente, contro quelle americane ha dimostrato l’efficacia di una combinazione di tattiche di guerriglia, guerra politica e operazioni convenzionali. Analogamente, la strategia della guerra prolungata di Mao Zedong in Cina ha enfatizzato l’importanza della mobilitazione della popolazione e della fusione tra ideologia politica e azione militare per logorare un avversario più forte nel tempo.

Durante la Guerra Fredda, entrambe le superpotenze furono coinvolte in campagne di guerra irregolare attraverso guerre per procura, sostegno alle insurrezioni e operazioni di controinsurrezione. L’esperienza sovietica in Afghanistan (1979-1989) e i conflitti degli Stati Uniti in Vietnam, Iraq e Afghanistan dimostrano le difficoltà di combattere avversari irregolari con mezzi militari convenzionali. Questi casi evidenziano l’importanza della comprensione delle dinamiche locali, della legittimità politica e dei limiti del potere militare nei conflitti irregolari.

Oggi, la guerra irregolare si è espansa oltre le insurrezioni tradizionali e i movimenti di guerriglia per includere la guerra cibernetica, la guerra dell’informazione e le minacce ibride. Attori non statali come l’ISIS e minacce ibride da parte di stati, come l’uso russo di forze proxy e delle campagne di disinformazione in Ucraina, illustrano la natura in evoluzione della guerra irregolare. Il ruolo della tecnologia, in particolare l’intelligenza artificiale, i droni e le capacità informatiche, ha poi cambiato radicalmente il modo in cui la guerra irregolare viene condotta.

Tuttavia, una carenza critica negli studi attuali sulla guerra irregolare è il focus occidentale, che spesso ignora le esperienze ricche e variegate di altre regioni. Ad esempio, le strategie di guerra asimmetrica di Hezbollah contro Israele, l’uso di droni e missili da parte degli Houthi in Yemen e l’insurrezione prolungata delle FARC in Colombia offrono lezioni preziose sull’adattabilità e la resilienza delle forze irregolari. Esaminare come le nazioni africane contrastano le insurrezioni, come la lotta della Nigeria contro Boko Haram, o come l’India ha affrontato le insurrezioni in Kashmir e nel Nord-Est, potrebbe offrire nuove prospettive sulle strategie di controinsurrezione e stabilizzazione.

Per affrontare efficacemente le sfide della guerra irregolare futura, è necessaria una revisione del pensiero strategico. I responsabili politici e i militari dovrebbero ampliare la base di conoscenza oltre le esperienze occidentali, integrando le lezioni derivanti da conflitti globali diversificati. Le esperienze di attori mediorientali, africani e asiatici, sia nell’insurrezione che nella controinsurrezione, forniscono lezioni critiche di adattabilità e resilienza. Allo stesso tempo, i progressi nell’intelligenza artificiale, nei sistemi autonomi e nella guerra cibernetica modelleranno il futuro della guerra irregolare. Molti attori ostili stanno infatti già integrando propaganda basata sull’IA, deepfake e sabotaggi informatici nei loro arsenali, rendendo essenziale lo sviluppo di contromisure e strategie proattive.

Come la storia ha dimostrato, la guerra irregolare non riguarda solo la forza militare, ma anche la vittoria nelle battaglie politiche e sociali. Le future strategie devono integrare la guerra politica, le operazioni di informazione e gli strumenti economici per contrastare efficacemente gli avversari. Con l’aumento delle minacce ibride che fondono tattiche convenzionali, irregolari e cibernetiche, le nazioni devono adottare un approccio alla sicurezza globale che coinvolga collaborazione tra settori militare, civile e privato. Inoltre, è fondamentale dare priorità alle partnership locali e alla comprensione culturale, riconoscendo che le soluzioni ai conflitti irregolari sono spesso specifiche del contesto. Programmi di addestramento, raccolta di intelligence e operazioni militari dovrebbero incorporare una conoscenza profonda della cultura e della storia locale.

Per sviluppare efficacemente le strategie di guerra irregolare, dovrebbe essere implementata il prima possibile una roadmap strutturata. Tale roadmap dovrebbe iniziare con una fase dedicata alla ricerca e all’analisi da condursi nei prossimi anni, concentrandosi su studi approfonditi delle esperienze non occidentali e sull’integrazione delle loro lezioni nei programmi di formazione militare e politica. Dovrebbero essere istituiti gruppi di lavoro internazionali composti da esperti di diverse regioni, mentre modelli predittivi basati su IA e big data potrebbero anticipare le tendenze della guerra irregolare e le potenziali minacce, garantendo strategie adattabili e lungimiranti.

Dopo questa fase di ricerca, i successivi due o tre anni dovrebbero essere dedicati alla revisione delle politiche e delle dottrine militari. Questo comporterebbe l’aggiornamento delle linee guida operative per integrare le lezioni della guerra ibrida e informatica, il rafforzamento dei meccanismi di condivisione dell’intelligence tra nazioni alleate e l’affinamento dei quadri legali ed etici per affrontare le complessità della guerra irregolare, specialmente nel cyberspazio e nelle operazioni di informazione. Man mano che gli avversari evolvono le loro tattiche, i responsabili politici devono garantire che i quadri giuridici rimangano solidi ma flessibili di fronte alle nuove sfide.

Successivamente, gli sforzi dovrebbero concentrarsi sulla costruzione delle capacità e sulla formazione. Dovrebbero essere istituiti programmi di addestramento specializzati che si focalizzino su studi di casi non occidentali e sulle tattiche di guerra ibrida, preparando il personale militare e dell’intelligence a operare in ambienti diversi. Le innovazioni tecnologiche dovrebbero essere integrate in questi programmi, mentre partenariati tra governi, mondo accademico e settore privato dovrebbero favorire lo sviluppo di contromisure innovative contro le campagne di disinformazione e la propaganda digitale. In conclusione, la guerra irregolare è una forma di conflitto persistente ed evolutiva che richiede un adattamento continuo. L’approccio occidentale ha fornito importanti intuizioni, ma le strategie future devono incorporare un’ampia gamma di esperienze globali per rimanere efficaci. Solo abbracciando questi cambiamenti, le nazioni potranno contrastare efficacemente le minacce irregolari del futuro.


L’Alleanza dei Five Eyes e l’erosione della fiducia sotto la politica di Trump.

di Andrea Molle, dagli Stati Uniti.

L’Alleanza dei Five Eyes, formata nel periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale, è una delle reti di condivisione di informazioni più potenti al mondo. Composta da Australia, Canada, Nuova Zelanda, Regno Unito e Stati Uniti, i Five Eyes rappresentano un raro esempio di cooperazione internazionale nel mondo oscuro dell’intelligence e della sicurezza. I suoi membri condividono dati riservati, conducono operazioni congiunte e valutano regolarmente le minacce globali. In questo modo, si scambiano le informazioni critiche necessarie per proteggere gli interessi nazionali, prevenire il terrorismo e rispondere alle sfide militari.

Per quasi otto decenni, le nazioni dei Five Eyes hanno operato sulla base della fiducia reciproca. Questa fiducia ha permesso loro di cooperare senza problemi, condividendo non solo informazioni di intelligence, ma anche priorità strategiche. Tuttavia, gli sviluppi recenti sotto la leadership di Donald Trump hanno sollevato preoccupazioni che questa partnership potrebbe essere sull’orlo del collasso.

Dall’inizio del suo attuale mandato, le politiche e la retorica di Trump hanno gettato una lunga ombra sulle relazioni degli Stati Uniti con i suoi alleati più stretti. La sua decisione di ritirare il supporto militare e di intelligence all’Ucraina, ad esempio, ha segnato un cambiamento drammatico nella politica estera americana. Questo ritiro, avvenuto in un periodo di crescente aggressività russa, ha lasciato gli alleati degli Stati Uniti perplessi e ansiosi riguardo l’affidabilità degli Stati Uniti come partner. Sebbene la decisione di Trump fosse apparentemente motivata dal desiderio di concentrarsi sugli interessi americani, ha ulteriormente indebolito la fiducia tra le nazioni dei Five Eyes.

Infatti, mentre gli Stati Uniti si ritirano dai loro impegni, paesi come il Regno Unito e il Canada si trovano a dover colmare il divario. Ci sono già piani per aumentare la spesa per la difesa e intensificare gli aiuti all’Ucraina. Ma la domanda più grande è: cosa significa per i Five Eyes quando uno dei suoi membri fondatori, gli Stati Uniti, segnala che non condivide più lo stesso livello di impegno verso gli obiettivi comuni dell’alleanza?

Le radici del problema non risiedono solo nelle decisioni controverse di politica estera di Trump, ma anche nella sua gestione avventata delle informazioni sensibili. Diversi episodi, tra cui la fuga di materiale riservato a leader stranieri e la cattiva gestione di documenti, hanno sollevato dubbi sull’affidabilità degli Stati Uniti nella salvaguardia dell’intelligence. Se gli Stati Uniti non possono proteggere i propri dati riservati, come si può fare affidamento su di loro per gestire i segreti degli alleati dei Five Eyes?

Questa nuova postura ha avuto un effetto a catena sull’alleanza. I paesi che un tempo erano desiderosi di condividere informazioni con gli Stati Uniti si trovano ora a chiedersi se valga la pena correre il rischio. Funzionari britannici e canadesi hanno espresso preoccupazione che la loro intelligence possa essere mal gestita o abusata, con gravi conseguenze per la sicurezza nazionale. E forse ancor più preoccupante è il crescente senso che gli Stati Uniti non stiano più dando priorità alla sicurezza a lungo termine dei loro alleati. I Five Eyes hanno sempre operato sul principio del “rischio condiviso”; quando uno dei partner è compromesso, tutti i partner ne sentono l’impatto.

La retorica di “America First” di Trump ha anche contribuito a un cambiamento nelle dinamiche di potere globali, mentre gli Stati Uniti si ritirano sempre più in se stessi. Sotto la sua leadership, gli Stati Uniti non solo hanno ridotto il loro supporto per alleanze tradizionali come la NATO, ma hanno anche mostrato scarso rispetto per l’ordine internazionale più ampio. Le conseguenze di questo approccio non sono solo teoriche: sono già evidenti. I leader europei, in particolare nel Regno Unito, sono stati costretti a riconsiderare i loro accordi di sicurezza. Alcuni stanno addirittura contemplando la possibilità di formare alleanze alternative senza gli Stati Uniti, in risposta alla politica estera imprevedibile di Trump.

Per paesi come il Regno Unito, questa è una situazione particolarmente difficile. L’Alleanza dei Five Eyes è stata la pietra angolare delle operazioni di intelligence britanniche per decenni, offrendo un accesso senza pari alle capacità di intelligence degli Stati Uniti. Ma alla luce del comportamento erratico di Trump, ora si sta diffondendo la consapevolezza che la Gran Bretagna potrebbe dover diversificare le proprie partnership di intelligence per tutelare i propri interessi di sicurezza. Questo potrebbe portare a un riallineamento delle alleanze, con le potenze europee che cercano legami più stretti con i membri della NATO al di fuori degli Stati Uniti o addirittura esplorando la cooperazione con altri attori globali.

Le ripercussioni delle politiche di Trump sono evidenti anche nel suo approccio ai conflitti globali. Il suo ritiro del supporto all’Ucraina, ad esempio, ha lasciato le nazioni europee in una posizione scomoda. Con gli Stati Uniti che si ritirano dal campo di battaglia, i membri della NATO come il Regno Unito e la Francia hanno dovuto assumere un ruolo più attivo nel supportare la difesa dell’Ucraina contro l’aggressione russa. Questo ha aumentato il senso di incertezza tra i partner dei Five Eyes riguardo l’affidabilità degli Stati Uniti come alleato. Se gli Stati Uniti sono disposti ad abbandonare i propri impegni verso uno dei suoi alleati più stretti di fronte all’espansionismo russo, cosa accadrà quando emergerà la prossima crisi globale?

C’è anche la pressante questione delle relazioni tra Stati Uniti e Cina, che ha ulteriormente complicato la capacità dei Five Eyes di mantenere la coesione. L’approccio di Trump verso la Cina—caratterizzato da una guerra commerciale e da tentativi di minare l’ascesa tecnologica di Pechino—ha avvicinato gli Stati Uniti a un confronto con la Cina. Ciò ha costretto le nazioni dei Five Eyes a schierarsi. Mentre l’Australia e il Regno Unito hanno sostenuto la posizione degli Stati Uniti sulla Cina, paesi come il Canada e la Nuova Zelanda hanno mostrato riluttanza nell’adottare un approccio duro, in parte a causa dei loro legami economici con la Cina. Questa spaccatura potrebbe minare il quadro di condivisione dell’intelligence che è stato il marchio di fabbrica dei Five Eyes, soprattutto mentre le dinamiche globali di potere cambiano.

Guardando al futuro, il destino dell’Alleanza dei Five Eyes è incerto. L’aumento dell’imprevedibilità della politica estera degli Stati Uniti sotto Trump—unito alle preoccupazioni per la gestione impropria delle informazioni e l’isolazionismo diplomatico—ha lasciato molti a chiedersi se l’alleanza possa continuare nella sua forma attuale. Se gli Stati Uniti rimarranno riluttanti o incapaci di riaffermare i propri impegni verso i suoi alleati, i Five Eyes potrebbero dover subire una trasformazione significativa. L’alleanza potrebbe evolversi per fare più affidamento sui suoi membri europei, con nuovi accordi forgiati al di fuori dell’orbita degli Stati Uniti. In conclusione, mentre l’Alleanza dei Five Eyes è stata una forza potente nella sicurezza globale per decenni, lo stato attuale della politica estera degli Stati Uniti sotto Donald Trump ha messo a rischio questa partnership. Se la fiducia continua a erodersi, le fondamenta stesse dell’alleanza potrebbero crollare, costringendo i suoi membri a tracciare un nuovo corso. La domanda rimane: possono i Five Eyes rimanere uniti di fronte a un ordine mondiale in cambiamento, o saranno costretti ad adattarsi a un futuro senza gli Stati Uniti al centro?


Un arsenale nucleare per l’Italia: quanto costerebbe?

di Andrea Molle e Claudio Bertolotti.

Quanto costerebbe all’Italia dotarsi di un proprio arsenale nucleare?

L’idea che l’Italia possa dotarsi di un’arma nucleare è un tema complesso, con implicazioni economiche, politiche e strategiche. In uno scenario ipotetico, Roma potrebbe scegliere tra due modelli: una triade nucleare completa, come quella di Stati Uniti, Russia e Cina, oppure una forza nucleare più limitata, simile alla “Force de Frappe” francese. Ma quanto costerebbe ciascuna opzione?

Una deterrenza nucleare basata su tre componenti – missili balistici terrestri, sottomarini nucleari con missili balistici e bombardieri strategici – richiederebbe enormi investimenti in ricerca, produzione e infrastrutture. Per la componente terrestre, lo sviluppo dei missili balistici intercontinentali potrebbe costare tra i 10 e i 20 miliardi di euro, mentre la loro produzione richiederebbe un investimento di circa 50-100 milioni per ogni missile. Le infrastrutture, tra cui silos e basi mobili, avrebbero un costo aggiuntivo tra i 5 e i 10 miliardi, mentre la manutenzione e gli aggiornamenti per un periodo di trent’anni potrebbero richiedere tra i 30 e i 50 miliardi. Nel complesso, questa componente costerebbe tra i 50 e gli 80 miliardi di euro. Questo senza contare il problema politico di dove allestire le basi di lancio.

La componente sottomarina prevedrebbe la costruzione di quattro o meglio sei sottomarini nucleari con missili balistici, con un costo stimato tra i 3 e i 5 miliardi per unità. Sappiamo che la Marina sta già considerando lo sviluppo di unità a propulsione nucleare, ma lo sviluppo e la produzione dei missili SLBM comporterebbe una spesa tra i 5 e i 10 miliardi, mentre le infrastrutture e la manutenzione richiederebbero un ulteriore investimento tra i 15 e i 20 miliardi. Complessivamente, questa parte del programma costerebbe tra i 50 e i 70 miliardi di euro.

Per la componente aerea, lo sviluppo di un nuovo bombardiere stealth richiederebbe un investimento tra i 20 e i 40 miliardi di euro, mentre l’acquisto di bombardieri esistenti costerebbe tra 1 e 2 miliardi per unità. Le infrastrutture e gli aggiornamenti aggiungerebbero altri 5-10 miliardi. Il costo totale di questa componente sarebbe tra i 30 e i 50 miliardi di euro.

Infine, lo sviluppo e la produzione delle testate nucleari richiederebbe tra i 10 e i 20 miliardi di euro. La costruzione di impianti per l’arricchimento dell’uranio e la produzione di plutonio costerebbe tra i 10 e i 15 miliardi, mentre la creazione di sistemi di comando, controllo e comunicazione necessiterebbe di ulteriori 15-20 miliardi. Il costo totale di questa parte del programma sarebbe compreso tra i 35 e i 55 miliardi di euro.

Nel complesso, il costo stimato per una triade nucleare completa si aggirerebbe tra i 165 e i 255 miliardi di euro, con un periodo di realizzazione tra i 20 e i 30 anni.

Un modello più realistico per l’Italia potrebbe essere quello della Francia, che basa la sua deterrenza nucleare su sottomarini con missili balistici e una componente aerea con missili da crociera lanciabili da caccia. La costruzione di quattro sottomarini nucleari lanciamissili avrebbe un costo di circa 3-5 miliardi per unità. Lo sviluppo dei missili balistici per sottomarini richiederebbe tra i 5 e i 10 miliardi, mentre le infrastrutture e la manutenzione costerebbero tra i 10 e i 15 miliardi. Nel complesso, questa componente costerebbe tra i 40 e i 60 miliardi di euro.

Per la componente aerea, l’Italia potrebbe affidarsi agli F-35, già in dotazione e capaci di trasportare missili da crociera con testate nucleari. Lo sviluppo di tali missili comporterebbe una spesa tra i 5 e i 10 miliardi, portando il costo totale della componente aerea tra i 10 e i 20 miliardi di euro.

Infine, lo sviluppo e la produzione delle testate nucleari costerebbe tra i 10 e i 15 miliardi, mentre la costruzione di impianti per l’arricchimento e la produzione di plutonio avrebbe un costo di circa 10 miliardi. I sistemi di comando e controllo aggiungerebbero un ulteriore investimento di circa 10 miliardi. Il costo totale di questa parte del programma sarebbe compreso tra i 30 e i 35 miliardi di euro.

Nel complesso, il costo stimato per una forza nucleare ridotta si aggirerebbe tra gli 80 e i 115 miliardi di euro, con un periodo di realizzazione tra i 15 e i 20 anni.

L’Italia, come firmataria del Trattato di Non Proliferazione Nucleare (TNP) e membro della NATO, non ha avuto bisogno fino ad ora di un arsenale nucleare nazionale grazie alla protezione dell’ombrello nucleare statunitense. Tuttavia, in un contesto geopolitico in rapido mutamento, il dibattito su un’eventuale autonomia strategica non è da escludere. Se si optasse per una triade nucleare completa, il costo sarebbe esorbitante e difficilmente sostenibile. Un modello alla francese, più agile e meno oneroso, potrebbe essere una scelta più realistica, ma comunque con un prezzo elevato, sia in termini economici che diplomatici. Alla luce di questi numeri, è evidente che la questione non è solo “possiamo permettercelo?”, ma anche “ne vale davvero la pena?”.

Quale confronto con lo stato dell’arte di Stati Uniti, Russia e Francia in termini di dissuasione?

L’ipotesi di una “capacità nucleare” italiana si scontra inevitabilmente con il confronto con le citate grandi potenze nucleari globali – Stati Uniti, Russia e Francia – le cui dottrine strategiche sono il risultato di decenni di sviluppo, test e consolidamento. Come abbiamo detto, l’Italia, pur non possedendo armi nucleari proprie, beneficia del citato ombrello nucleare e della dissuasione estesa garantita dagli Stati Uniti. Tuttavia, immaginare uno scenario in cui l’Italia si doti di una capacità nucleare autonoma solleva interrogativi strategici, tecnologici e politici di grande rilevanza.

Le capacità nucleari di Stati Uniti e Russia si basano su una strategia di dissuasione strategica, ma con alcune differenze dottrinali. Entrambi i Paesi adottano il principio della destruction mutuelle assurée (MAD), ovvero la distruzione reciproca assicurata, ma lo declinano in modi diversi.

Negli Stati Uniti, la strategia nucleare si fonda su un modello di dissuasione flessibile, concepito per rispondere a minacce su diversi livelli. Questo approccio si articola sulla cosiddetta “triade nucleare”, che include missili balistici intercontinentali (ICBM), sottomarini nucleari lanciamissili (SSBN) e bombardieri strategici in grado di trasportare armi nucleari. La dottrina americana prevede anche una dissuasione estesa, fornendo protezione nucleare agli alleati, inclusa l’Italia. Inoltre, l’introduzione di testate a bassa potenza rende più credibile la deterrenza contro attori regionali, mentre la capacità di attacco preventivo, sebbene non dichiarata esplicitamente, rimane un’opzione praticabile nel quadro della sicurezza nazionale.

La Russia, invece, adotta un modello più aggressivo, noto come “Escalate to De-Escalate”, in cui il ricorso limitato alle armi nucleari potrebbe essere impiegato per porre fine a un conflitto prima che esso si intensifichi. La strategia russa si avvale anch’essa di una triade nucleare, con una particolare enfasi sugli ICBM mobili e su nuove armi ipersoniche e strategiche, sviluppate per mantenere un vantaggio rispetto agli Stati Uniti. La dottrina russa prevede esplicitamente l’uso nucleare in risposta a una minaccia esistenziale, rendendo il confine tra guerra convenzionale e guerra nucleare più sfumato rispetto alla posizione statunitense.

Anche la Francia, con la sua Force de Frappe, si è dotata di un arsenale nucleare autonomo, incentrato su una componente sottomarina e su una flotta di caccia-bombardieri capaci di colpire obiettivi strategici con missili a testata nucleare. La Francia ha sempre rifiutato di integrare completamente il suo deterrente nucleare nella NATO, mantenendo un principio di autonomia decisionale in materia di impiego delle sue forze strategiche. Questo modello potrebbe rappresentare il riferimento più realistico per un’ipotetica capacità nucleare italiana, in quanto orientato alla difesa nazionale piuttosto che a una proiezione di forza su scala globale.

L’Italia, nel contesto della NATO, ha una dottrina di sicurezza che esclude lo sviluppo di un proprio arsenale nucleare, affidandosi piuttosto alla protezione statunitense e alle dinamiche della dissuasione collettiva. L’acquisizione di una capacità nucleare autonoma implicherebbe non solo enormi investimenti economici, ma anche un cambiamento radicale nella politica estera e di sicurezza del Paese, con inevitabili ripercussioni sulle relazioni con gli altri membri dell’Alleanza Atlantica e dell’Unione Europea.

A differenza degli Stati Uniti e della Russia, che operano sotto una logica di deterrenza su scala globale, e della Francia, che ha scelto un deterrente nazionale indipendente, l’Italia dovrebbe valutare attentamente se una strategia di dissuasione nucleare autonoma sarebbe coerente con i suoi interessi strategici. L’attuale assetto garantisce comunque un livello di sicurezza elevato, senza i costi e le implicazioni geopolitiche di un programma nucleare indipendente. In un contesto internazionale in continua evoluzione, il confronto con i modelli esistenti dimostra che la dissuasione non è solo una questione di tecnologia e arsenali, ma anche di strategia politica e di posizionamento nel sistema internazionale.


Stop degli USA al sostegno all’Ucraina. E adesso?

di Claudio Bertolotti.

Donald Trump ha ordinato una pausa negli aiuti militari statunitensi all’Ucrainatre giorni dopo lo scontro alla Casa Bianca con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky

Il commento di C. Bertolotti a Officina geopolitica di START inSight.

La scelta di Trump di spingere verso una conclusione del conflitto, anche a discapito dell’Ucraina, è razionale e coerente con la sua promessa elettorale, cioè quello per cui è stato eletto. Ed è, soprattutto, “una leva con cui fare forza nei confronti di Zelensky affinché il presidente possa rispondere al proprio elettorato, al quale aveva promesso di porre termine alla guerra russo-ucraina. È quindi una scelta di politica interna rispetto a un costo che viene imposto ai contribuenti statunitensi”. “Detto questo quello dell’amministrazione Trump è un passo certamente importante e significativo in quello che sarà lo sviluppo della guerra, perché andando a ridurre o a congelare gli aiuti l’Ucraina di fatto passerà da un livello di sufficienza minima (garantito dall’amministrazione Biden) al non avere più le risorse per condurre una guerra. Oltretutto, verrebbe a mancare anche la spinta morale, cioè l’assenza di un sostegno statunitense farebbe venir meno la volontà dei soldati stessi di combattere e degli stati maggiori di gestire la condotta sul campo di battaglia”.

Nulla da eccepire sul piano razionale: se la precedente amministrazione Biden non ha voluto porre l’Ucraina nelle condizioni di vincere la guerra, perché dovrebbe farlo l’amministrazione Trump? È semplicemente la chiusura di un dossier che Washington non reputa più conveniente sostenere.

È un game over? “È sicuramente l’avvio di un processo di conclusione di una guerra che sarà sfavorevole all’Ucraina, in termini di cessione di territori a favore della Russia, ma lo sarà ancora di più a livello strategico, proiettato nel lungo periodo”, commenta Bertolotti. “La Russia utilizzerebbe – così come ha già fatto con la Crimea – la base territoriale conquistata come punto di partenza per la successiva possibile fase offensiva. Non avverrà domani né dopodomani, ma nei prossimi 5-10 anni, indipendentemente da quella che sarà la leadership russa”.

Negli ultimi giorni si sono fatte sempre più insistenti le richieste, da parte di stretti collaboratori di Trump, di un passo indietro di  Zelensky, la cui presenza viene descritta come ormai “insostenibile”. Ipotesi, quella delle dimissioni di Zelensky che si pone come plausibile: “È un’opportunità per lui di uscire a testa alta, come l’uomo che non si è piegato alla volontà di Trump e che piuttosto lascia la guida del Paese. Se arriviamo alla scadenza naturale del suo mandato, e quindi all’ipotesi di nuove elezioni, produrrà una narrazione interna di volontà di concludere la guerra a qualunque costo, che quindi poterà la sigla di un’intesa commerciale con gli Stati Uniti a cui seguirà un sostegno statunitense all’accordo negoziale con la Russia. Soltanto a quel punto Zelensky potrebbe riproporsi come voce politica, e quindi come competitor al successivo appuntamento elettorale, come colui che non ha firmato e non avrebbe firmato, fiero della sua postura europea e occidentale e non filorussa”.


L’Europa al bivio: può difendersi senza il supporto degli Stati Uniti?

di Andrea Molle, dagli Stati Uniti.

Con l’intensificarsi delle tensioni geopolitiche e la possibilità di un ritiro parziale o completo degli Stati Uniti dalla NATO, l’Europa si trova di fronte a una domanda urgente: può difendersi senza il sostegno americano? La risposta, sebbene non impossibile, comporta costi enormi e un lungo e incerto cammino verso l’indipendenza militare.

Per decenni, l’Europa ha beneficiato della protezione degli Stati Uniti, che hanno rappresentato la spina dorsale della sua strategia di difesa. Washington fornisce non solo la deterrenza nucleare, ma anche le capacità logistiche, tecnologiche e di intelligence che i paesi europei faticano a replicare autonomamente. Un’uscita degli Stati Uniti dalla NATO lascerebbe l’Europa con un vuoto di sicurezza che richiederebbe un aumento drammatico della spesa militare e una coesione politica—entrambi aspetti tutt’altro che garantiti.

I numeri sono preoccupanti. Oggi, i bilanci di difesa combinati dell’Unione Europea e del Regno Unito ammontano a circa 380 miliardi di dollari all’anno. Tuttavia, gli esperti stimano che, per compensare la perdita delle capacità statunitensi, l’Europa dovrebbe investire un ulteriore 300-400 miliardi di dollari in espansione militare. Per sostenere questo, i paesi europei dovrebbero aumentare la loro spesa annuale per la difesa al 3-4% del PIL, rispetto all’attuale 1,5-2%.

Per l’Italia, la sfida è particolarmente difficile. Destinando attualmente circa l’1,5% del PIL alla difesa, circa 30 miliardi di euro all’anno, Roma dovrebbe probabilmente raddoppiare la sua spesa a 60 miliardi di euro annui per mantenere una postura di sicurezza credibile. Non è una piccola impresa per un paese con un rapporto debito/PIL superiore al 140%, dove la spesa per la difesa storicamente è stata subordinata ad altre priorità sociali ed economiche.

Tuttavia, l’Italia è un attore cruciale della NATO, data la sua posizione strategica nel Mediterraneo. Ma senza il supporto degli Stati Uniti, il Paese si troverebbe ad affrontare gravi lacune nel potere navale, nella superiorità aerea e nelle capacità di intelligence. L’Italia dovrebbe espandere ulteriormente la sua flotta, richiedendo investimenti di almeno 20-30 miliardi di euro in portaerei, sottomarini e cacciatorpediniere aggiuntivi per tutelare la sicurezza del Mediterraneo. Roma dipende fortemente dagli F-35 e dai sistemi missilistici costruiti dagli Stati Uniti, e uno scenario post-NATO comporterebbe la necessità di una costosa spinta per la produzione domestica o una maggiore dipendenza dalla Francia e dalla Germania. Inoltre, l’Italia ospita attualmente armi nucleari statunitensi sotto il programma di condivisione della NATO. Se questo programma dovesse essere terminato, Roma sarebbe costretta a prendere la difficile decisione se investire in una propria deterrenza nucleare—un’opzione economicamente e politicamente complessa—o fare affidamento sull’arsenale francese per la protezione. Affidarsi all’arsenale nucleare della Francia sarebbe un’opzione quasi inaccettabile per l’Italia, poiché i due paesi non condividono molti interessi strategici, e tale dipendenza potrebbe subordinare Roma a Parigi, minando l’autonomia dell’Italia nelle questioni di difesa e limitando la sua capacità di agire in modo indipendente sulla scena internazionale. Questo complicherebbe ulteriormente la politica estera dell’Italia, poiché dovrebbe allinearsi più strettamente con le priorità francesi, che potrebbero non coincidere sempre con le proprie.

Oltre agli ostacoli finanziari e tecnologici, la questione del personale è di primaria importanza. Le forze armate europee si sono ridotte significativamente dalla fine della Guerra Fredda, con molti paesi che si sono orientati verso eserciti più piccoli e professionisti piuttosto che la coscrizione di massa. L’Italia, come gran parte d’Europa, dovrebbe espandere rapidamente le proprie Forze Armate per soddisfare le esigenze di una difesa autosufficiente. Ciò significa non solo reclutare più soldati, ma anche formare e mantenere personale qualificato in settori chiave come la guerra cibernetica, l’intelligence e la logistica. Senza la forza lavoro per operare e mantenere una infrastruttura militare ampliata, anche i sistemi d’arma più avanzati sarebbero di scarsa utilità. La leva militare, da tempo abbandonata, potrebbe dover essere riconsiderata—un passo politicamente sensibile ma forse necessario se l’Europa vuole sostenere una prontezza militare a lungo termine.

Inoltre, costruire un sistema di difesa europeo autonomo richiederebbe decenni. A breve termine, i primi cinque anni richiederebbero un’accelerazione dei bilanci e una riorganizzazione delle alleanze, sebbene l’Europa rimarrebbe altamente vulnerabile. A medio termine, entro cinque-dieci anni, potrebbe emergere un’alternativa funzionale ma più debole alla NATO, con operazioni congiunte ampliate e un rapido approvvigionamento di nuovi beni di difesa. A lungo termine, entro dieci-venti anni, potrebbe essere operativo un corpo di difesa europeo completamente indipendente, sebbene rimarrebbero sfide legate alla frammentazione, alle inefficienze e alle difficoltà economiche.

Oltre ai vincoli finanziari, le nazioni europee—compresa l’Italia—faticano con le divisioni politiche sulle questioni militari. La Germania ha solo recentemente iniziato a invertire decenni di sotto-investimento nella difesa, mentre l’Italia ha a lungo dovuto affrontare lo scetticismo pubblico sull’espansione militare. Senza una forte volontà politica e una leadership decisiva, il cammino dell’Europa verso l’autonomia difensiva sarà lento e frammentato. Il peso economico è un’altra grande preoccupazione. Mentre Francia e Germania potrebbero assorbire costi di difesa più alti, paesi come Italia, Spagna e Grecia potrebbero trovarlo quasi impossibile senza sacrifici significativi in altri settori, come infrastrutture, programmi sociali e investimenti energetici.

Un’altra possibilità è ovviamente che Roma garantisca il continuo supporto militare e strategico americano. Tuttavia, un allineamento con Washington allontanerebbe alcuni dei partner europei dell’Italia che potrebbero preferire un quadro di difesa più autonomo, potenzialmente mettendo a rischio l’unità europea. Inoltre, rafforzerebbe la dipendenza dell’Italia dagli Stati Uniti per la sicurezza, lasciandola vulnerabile alle priorità mutevoli della politica estera americana, limitando al contempo la sua influenza all’interno dell’Unione Europea su questioni di difesa e sicurezza. Indipendentemente dall’opzione scelta, questo segnerebbe un cambiamento radicale nella strategia militare, comportando aumenti della spesa per la difesa, espansione navale e una possibile rivalutazione del suo ruolo nella deterrenza nucleare.

In conclusione, la frammentazione politica e le limitazioni economiche potrebbero rendere difficile sostituire le capacità della NATO. L’Europa deve ora decidere: prenderà in mano la propria difesa o rimarrà vulnerabile in un mondo sempre più volatile? Una cosa è certa: senza il supporto degli Stati Uniti, il costo della sicurezza esploderà, e per paesi come l’Italia, la posta in gioco non è mai stata così alta.

Foto in copertina: www.difesa.it


Trump: Good deal or no deal.

di Melissa de Teffè, dagli Stati Uniti – giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense, accreditata per START InSight presso il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti.

Secondo quanto riportato dal Financial Times, la sera del 27 febbraio la diplomazia americana insieme al team ucraino aveva delineato un piano per il rientro delle spese militari americane, concordando la creazione di un fondo congiunto USA/Ucraina per lo sfruttamento delle terre minerarie, in cui l’Ucraina avrebbe contribuito con il 50% dei suoi minerali estratti, e i ricavi sarebbero stati utilizzati dagli Stati Uniti per investire in altri progetti nel paese.

L’accordo avrebbe dovuto essere firmato il 28 a Washington. Tutto questo non è avvenuto.

L’invito di Trump a Zelensky, prima dell’incontro con Putin che avrebbe dovuto aver luogo la settimana prossima, rifletteva sicuramente un mea culpa americana per aver convinto gli ucraini a rimanere in guerra dando la certezza di una vittoria a futuro, e dall’altro per iniziare a buttare giù le basi di quanto già concordato al telefono con Putin qualche giorno fa.  Questa è la prima amministrazione statunitense che parla seriamente di cessazione delle ostilità. Già in campagna elettorale, Trump aveva dichiarato di voler concludere questa guerra, non solo per i costi esorbitanti, (e come già raccontato l’America ha bisogno di rientrare delle spese), ma anche perché da business man, Trump è giustamente rimasto inorridito dalla quantità di morti mai realmente dichiarati, da ambo le parti e, infine, teme che questa guerra si trasformi in una terza guerra mondiale. I punti negoziali sono sicuramente molti, come ad esempio la richiesta di Zelensky di truppe americane in territorio ucraino, cosa che non avverrà, in quanto Trump ha sempre detto che, secondo lui, la presenza di businessmen americani in Ucraina è già di per sè un deterrente sufficiente. Poi c’è la richiesta di Putin di sostituire Zelensky con nuove elezioni cancellando lo stato di guerra. Putin ha sempre detto che non avrebbe mai trattato con Zelensky al potere. Questa concessione, per presidenti come Putin e Trump è facile. Noi diremmo, morto un papa se ne fa un altro che possa non solo riflettere il volere della popolazione ucraina, ma con cui, si possa proseguire.

Ma oggi in pochi minuti, neanche una manciata, le aspettative di tutto il mondo di vedere un passo concreto verso la cessazione delle ostilità sono sfumate. Le battute e risposte volate oggi nell’ufficio ovale ci raccontano un’altra storia. Zelensky non si è lost in translation, ma ha usato un tono molto duro confrontandosi con il Presidente Trump, in casa sua e davanti a tutta la stampa. Errore diplomatico imperdonabile. Il primo sbaglio è stato quello di Zelensky nel fare “La” domanda, forse più importante dell’incontro davanti al mondo e non a porte chiuse: “di che tipo di diplomazia state parlando?” sottintendendo che se nessuno è riuscito a fermare Putin dal 2014 al 2024 – cosa vi dice che voi ci riuscirete? E qui, JD Vance è corso ai ripari, dichiarando che questa domanda, seppur giusta ma piccata, era una mancanza di rispetto nei contenuti sottintesi, aggiungiamo, di fronte al mondo. I panni si lavano sempre a porte chiuse, soprattutto se le carte da giocarsi sono poche. Se Zelensky voleva portarsi a casa il mondo, che dicesse poi, come per altro avvenuto: “Ha ragione lui”, chi lo dice non ha alcune potere fattuale. Poi c’è stato il rincaro, con la seconda frase, che ha chiuso la strada per Damasco, quando Zelenski ha minacciato il Presidente dicendo: “Qualsiasi paese sente le conseguenze di una guerra, e voi che avete un oceano non ne sentite le conseguenze, ma le sentirete”. Quel ma le senterite, è stata la sberla che ha chiuso i battenti americani, perché non poteva che essere interpretata come una minaccia chiara.  Se Zelensky aveva tutte le ragioni di chiedere come e perché gli americani questa volta fossero certi di riuscire ad ottenere la pace, la minaccia del ne sentirete le conseguenze ha toccato l’orgoglio anglosassone. Persino il senatore Graham, (R-South Carolina) presente come osservatore, alla fine dell’incontro, ha dichiarato alla stampa che il comportamento di Zelensky era stato vergognoso, suggerendo al presidente ucraino o di cambiare atteggiamento o dare le dimissioni se si vuole raggiungere un accordo.

Riassumendo: Donald Trump ha avanzato una richiesta di 500 miliardi di dollari, un importo ben superiore a quanto gli Stati Uniti hanno finora fornito all’Ucraina, dando molto poco in cambio, oltre alla tecnologia per l’estrazione mineraria. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky,ha tentato di mantenere un atteggiamento diplomatico e non c’è riuscito. Sperava che l’accordo minerario potesse includere una “garanzia di sicurezza” come anche suggerito dagli europei, ma non si è concretizzata.

Se guardiamo, e dobbiamo, il pregresso diplomatico politico di Obama prima e Biden dopo, l’Ucraina sarebbe entrata prima nella Nato e poi nell’Unione. Europa tutta accondiscendente. Un sogno impossibile in qualsiasi libro di testo di geopolitica basica. E seppur l’economia russa sia in difficoltà e impiegherebbe diversi anni prima di conquistare l’Ucraina, il sogno EU/USA/Ucraina avrebbe visto Putin mantenere il controllo su alcune porzioni dell’Ucraina orientale, (Donbass e Crimea) mentre l’Ucraina occidentale con l’ingresso nell’Alleanza Atlantica si sarebbe garantita la protezione militare secondo l’Articolo 5, che prevede in caso di invasione, una risposta da parte della NATO.

Dall’altra parte, nella realtà di oggi, Putin chiede il pieno riconoscimento dei territori occupati, l’acquisizione di nuove terre, la smilitarizzazione dell’Ucraina, la rimozione di Zelensky, la revoca delle sanzioni e il riconoscimento dell’Ucraina orientale come parte integrante della Russia.

Ma cosa possiamo capire da quanto successo nell’Oval Office? Le parole dette descrivono con maggior chiarezza che il piano di Trump pare combaciare a quello di Putin. I motivi possono essere svariati. Per Trump questa è una relazione “speciale”, come ama raccontarci; oppure è necessario per l’America che la Russia, diventi l’alleato ideale come arma di contrattazione contro la Cina; oppure ancora, che il desiderio egocentrico trumpiano, non dimentichiamone l’età, desideri più di qualsiasi altra cosa, il farsi ricordare dai posteri come il Presidente negoziatore, e il “grande pacificatore”, frase ripetuta pure oggi in conferenza stampa. Persino davanti al presidente francese Macron, Trump, si è dimostrato orgoglioso d’avere un enorme esperienza come negoziatore.

Sorge comunque un dubbio. I russi sono sempre stati molto scaltri. Non dimentichiamoci di come Stalin raggirò sia Churchill che Roosvelt. Possiamo perciò ipotizzare che Putin potrebbe aver circuito Trump facendolo tornare al tavolo delle trattative: gli Stati Uniti, ad oggi, sono ancora il principale attore internazionale.  Dichiara Trump dopo una lunga conversazione telefonica con Putin: “Mi fido”; suscitando così altre frustrazioni a Zelensky. Concludendo le terre minerarie sono cruciali come moneta di scambio, ma purtroppo la gran parte di questa ricchezza è nelle zone occupate dai russi.

Inizialmente, la soluzione proposta, era che l’Ucraina rimanesse neutrale, senza armi (peraltro quelle nucleari le aveva già consegnate alla Russia nel 1994 con il Memorandum di Budapest), fuori dalla Nato e non un membro dell’UE. Uno Stato cuscinetto* tra UE e Russia.

(Sappiamo bene che gli stati cuscinetto sono una realtà geopolitica che esiste da secoli, creati per la loro posizione strategica tra due o più potenze rivali, con lo scopo di prevenire conflitti diretti. Questi paesi hanno svolto un ruolo cruciale nel definire gli equilibri mondiali, fungendo da zone di separazione tra interessi contrapposti. In Europa, uno degli esempi più emblematici è la Svizzera, che ha svolto un ruolo di neutralità tra grandi potenze come Francia, Germania, Italia e Austria sin dal 1815, quando il Congresso di Vienna sancì la sua posizione di zona di separazione. La sua politica di neutralità ha permesso alla Svizzera di evitare coinvolgimenti diretti nei conflitti mondiali, rendendola un punto di riferimento per la diplomazia internazionale. Altri esempi europei includono il Belgio, che nel XIX secolo e all’inizio del XX secolo fu una zona di separazione tra la Francia e la Germania, sebbene non riuscisse a evitare invasioni da entrambe le potenze. La Polonia, infine, ha svolto il ruolo di stato cuscinetto tra la Germania e la Russia, subendo l’invasione simultanea di entrambe le potenze durante la Seconda Guerra Mondiale.

In Asia, l’Afghanistan ha ricoperto una funzione simile durante il conflitto tra l’Impero britannico e l’Impero russo nel XIX secolo, noto come il “Grande Gioco”. La sua posizione strategica lo ha reso un terreno di scontro tra le due potenze imperiali. In Sud America, l’Uruguay ha avuto una funzione analoga nel XIX secolo, fungendo da zona di separazione tra l’Argentina e il Brasile, che si contendevano il controllo delle terre sudamericane. Nonostante la sua limitata forza militare, l’Uruguay riuscì a mantenere la sua indipendenza grazie a una diplomazia abile, sostenuta dalle potenze europee.)

Oggi invece abbiamo assistito a un cambio di strategia politica in diplomazia che per gli Stati Uniti degli ultimi due secoli sarà la terza.

  1. La prima con la dottrina Monroe, proclamata dal presidente degli Stati Uniti James Monroe il 2 dicembre 1823, nel suo discorso sullo stato dell’Unione,  affermava che qualsiasi intervento europeo nelle questioni politiche o territoriali dell’America Latina sarebbe stato considerato un atto ostile verso gli Stati Uniti, stabilendo così che l’emisfero occidentale era sotto l’influenza degli Stati Uniti e che le potenze europee non avrebbero dovuto interferire nelle sue vicende, e similmente gli Stati Uniti non avrebbero interferito negli affari interni delle potenze europee, mantenendo una politica di neutralità in Europa.
  2. Questa fu aggiornata con la politica di Theodore Roosevelt detta la “Big Stick Diplomacy”.  Il termine deriva dal famoso detto di Roosevelt: “Parla con gentilezza e porta con te un grosso bastone” (“Speak softly and carry a big stick”), che rifletteva la sua convinzione che la potenza militare degli Stati Uniti dovesse essere usata come strumento di dissuasione e influenza nelle relazioni internazionali. Il concetto si basa su un approccio diplomatico assertivo, ma non necessariamente bellicoso. Roosevelt credeva che fosse fondamentale che gli Stati Uniti mantenessero una forza militare robusta per garantire la loro posizione di potenza mondiale per proteggere i propri interessi, soprattutto nel continente americano e nei Caraibi. La “gentilezza” si riferiva alla diplomazia e alle trattative pacifiche, mentre il “grande bastone” rappresentava la minaccia implicita di un intervento militare se necessario.
  3. La diplomazia oggi di Trump la potremmo chiamare quella del “Good deal or no Deal”. Più avanti ne capiremo meglio i contenuti.