MDMH_002

MDHM nell’era digitale: il doppio volto dell’Intelligenza Artificiale tra minaccia e soluzione per la democrazia.

di Claudio Bertolotti.

Abstract

La diffusione di informazioni false, fuorvianti o manipolate – riassunta nell’acronimo MDHM (misinformation, disinformation, malinformation e hate speech) – rappresenta una delle sfide più critiche dell’era digitale, con conseguenze profonde sulla coesione sociale, la stabilità politica e la sicurezza globale. Questo studio analizza le caratteristiche distintive di ciascun fenomeno e il loro impatto interconnesso, evidenziando come alimentino l’erosione della fiducia nelle istituzioni, la polarizzazione sociale e l’instabilità politica.

L’intelligenza artificiale emerge come una risorsa cruciale per contrastare il MDHM, offrendo strumenti avanzati per il rilevamento di contenuti manipolati e il monitoraggio delle reti di disinformazione. Tuttavia, la stessa tecnologia alimenta nuove minacce, come la creazione di deepfake e la generazione di contenuti automatizzati che amplificano la portata e la sofisticazione della disinformazione. Questo paradosso evidenzia la necessità di un uso etico e strategico delle tecnologie emergenti.

Il lavoro propone un approccio multidimensionale per affrontare il MDHM, articolato su tre direttrici principali: l’educazione critica, con programmi scolastici e campagne pubbliche per rafforzare l’alfabetizzazione mediatica; la regolamentazione delle piattaforme digitali, mirata a bilanciare la rimozione dei contenuti dannosi con la tutela della libertà di espressione; la collaborazione globale, per garantire una risposta coordinata a una minaccia transnazionale.

In conclusione, l’articolo sottolinea l’importanza di un impegno concertato tra governi, aziende tecnologiche e società civile per mitigare gli effetti destabilizzanti del MDHM e preservare la democrazia, la sicurezza e la fiducia nelle informazioni.

Definizioni e Distinzioni

La diffusione di informazioni false, fuorvianti o manipolate costituisce una delle sfide più complesse e pericolose dell’era digitale, con ripercussioni significative sull’equilibrio sociale, politico e culturale. I fenomeni noti come misinformation,disinformation, malinformatione hate speech, sintetizzati nell’acronimo MDHM, rappresentano manifestazioni distinte ma strettamente interconnesse di questa problematica. Una comprensione approfondita delle loro specificità è imprescindibile per sviluppare strategie efficaci volte a contenere e contrastare le minacce che tali fenomeni pongono alla coesione sociale e alla stabilità delle istituzioni.

Misinformation: Informazioni false diffuse senza l’intenzione di causare danno. Ad esempio, la condivisione involontaria di notizie non verificate sui social media.

Disinformation: Informazioni deliberatamente create per ingannare, danneggiare o manipolare individui, gruppi sociali, organizzazioni o nazioni. Un esempio è la diffusione intenzionale di notizie false per influenzare l’opinione pubblica o destabilizzare istituzioni.

Malinformation: informazioni basate su fatti reali, ma utilizzate fuori contesto per fuorviare, causare danno o manipolare. Ad esempio, la divulgazione di dati personali con l’intento di danneggiare la reputazione di qualcuno.

Hate Speech: espressioni che incitano all’odio contro individui o gruppi basati su caratteristiche come razza, religione, etnia, genere o orientamento sessuale. Questo tipo di discorso può fomentare violenza e discriminazione.

Impatto sulla Società

La diffusione di misinformation, disinformation, malinformation e hate speech rappresenta una sfida cruciale per la stabilità delle società moderne. Questi fenomeni, potenziati dalla rapidità e dalla portata globale dei media digitali, hanno conseguenze significative che si manifestano in vari ambiti sociali, politici e culturali. Tra i principali effetti troviamo l’erosione della fiducia nelle istituzioni, la polarizzazione sociale e l’acuirsi delle minacce alla sicurezza.

 

Erosione della Fiducia

L’informazione falsa o manipolata rappresenta un attacco diretto alla credibilità delle istituzioni pubbliche, dei media e persino della comunità scientifica. Quando le persone vengono sommerse da un flusso costante di notizie contraddittorie o palesemente mendaci, il risultato inevitabile è una crisi di fiducia generalizzata. Nessuna fonte viene risparmiata dal dubbio, nemmeno i giornalisti più autorevoli o gli organismi governativi più trasparenti. Questo processo mina le fondamenta della società e alimenta un clima di incertezza che, a lungo andare, può trasformarsi in alienazione.

Un esempio emblematico si osserva nel contesto del processo democratico, dove la disinformazione colpisce con particolare intensità. Le campagne di manipolazione delle informazioni, mirate a diffondere falsità sulle procedure di voto o sui candidati, hanno un effetto devastante sull’integrità elettorale. Ciò non solo alimenta il sospetto e la sfiducia nelle istituzioni democratiche, ma crea anche un senso di disillusione tra i cittadini, allontanandoli ulteriormente dalla partecipazione attiva.

Le conseguenze diventano ancora più evidenti nella gestione delle crisi globali. Durante la pandemia da COVID-19, l’ondata di teorie del complotto e la diffusione di cure non verificate hanno rappresentato un ostacolo significativo per gli sforzi della salute pubblica. La disinformazione ha alimentato paure infondate e diffidenza verso i vaccini, rallentando la risposta globale alla crisi e aumentando la diffusione del virus.

Ma questa erosione della fiducia non si ferma al singolo individuo. Le sue ripercussioni si estendono a tutta la società, frammentandola. I legami sociali, già indeboliti da divisioni preesistenti, diventano ancora più vulnerabili alla manipolazione. E così, si crea un terreno fertile per ulteriori conflitti e instabilità, in cui le istituzioni si trovano sempre più isolate, mentre cresce il rischio di una società incapace di reagire a sfide collettive.

 

Polarizzazione Sociale

Le campagne di disinformazione trovano terreno fertile nelle divisioni già esistenti all’interno della società, sfruttandole con l’obiettivo di amplificarle e renderle insormontabili. Questi fenomeni, alimentati da strategie mirate e potenziati dalle piattaforme digitali, intensificano il conflitto sociale e compromettono la possibilità di dialogo, lasciando spazio a una polarizzazione sempre più marcata.

L’amplificazione delle divisioni è forse il risultato più visibile della disinformazione. La manipolazione delle informazioni viene utilizzata per radicalizzare le opinioni politiche, culturali o religiose, costruendo una narrazione di contrapposizione tra un “noi” e un “loro”. Nei contesti di tensioni etniche, per esempio, la malinformation, diffusa con l’intento di distorcere eventi storici o di strumentalizzare questioni politiche attuali, accentua le differenze percepite tra gruppi sociali. Questi contrasti, spesso già esistenti, vengono esasperati fino a cristallizzarsi in conflitti identitari difficili da sanare.

A ciò si aggiunge l’effetto delle cosiddette “bolle informative”, create dagli algoritmi delle piattaforme digitali. Questi sistemi, progettati per massimizzare l’engagement degli utenti, propongono contenuti che rafforzano le loro opinioni preesistenti, limitandone l’esposizione a prospettive alternative. Questo fenomeno, noto come “filtro bolla”, non solo solidifica pregiudizi, ma isola gli individui all’interno di una realtà mediatica che si nutre di conferme continue, impedendo la comprensione di punti di vista differenti.

La polarizzazione, alimentata dal MDHM, non si ferma però al piano ideologico. In molti casi, la radicalizzazione delle opinioni si traduce in azioni concrete: proteste, scontri tra gruppi e, nei casi più estremi, conflitti armati. Guerre civili e crisi sociali sono spesso il culmine di una spirale di divisione che parte dalle narrative divisive diffuse attraverso disinformazione e hate speech.

In definitiva, la polarizzazione generata dal MDHM non danneggia solo il dialogo sociale, ma mina anche le fondamenta della coesione collettiva. In un tale contesto, risulta impossibile trovare soluzioni condivise a problemi comuni. Ciò che rimane è un clima di conflittualità permanente, dove il “noi contro loro” sostituisce qualsiasi tentativo di collaborazione, rendendo la società più fragile e vulnerabile.

Minaccia alla Sicurezza

Nei contesti di conflitto, il MDHM si rivela un’arma potente e pericolosa, capace di destabilizzare società e istituzioni con implicazioni devastanti per la sicurezza collettiva e individuale. La disinformazione, insieme al discorso d’odio, alimenta un ciclo di violenza e instabilità politica, minacciando la pace e compromettendo i diritti umani. Gli esempi concreti di come queste dinamiche si manifestano non solo illustrano la gravità del problema, ma evidenziano anche l’urgenza di risposte efficaci.

La propaganda e la destabilizzazione costituiscono uno degli utilizzi più insidiosi della disinformazione. Stati e gruppi non statali sfruttano queste pratiche come strumenti di guerra ibrida, mirati a indebolire il morale delle popolazioni avversarie e a fomentare divisioni interne. In scenari geopolitici recenti, la diffusione di informazioni false ha generato confusione e panico, rallentando la capacità di risposta delle istituzioni. Questa strategia, pianificata e sistematica, non si limita a disorientare l’opinione pubblica ma colpisce direttamente il cuore della coesione sociale.

Il discorso d’odio, amplificato dalle piattaforme digitali, è spesso un precursore di violenze di massa. Ne è tragico esempio il genocidio dei Rohingya in Myanmar, preceduto da una campagna di odio online che ha progressivamente deumanizzato questa minoranza etnica, preparandone il terreno per persecuzioni e massacri. Questi episodi dimostrano come lo hate speech, una volta radicato, possa tradursi in azioni violente e sistematiche, con conseguenze irreparabili per le comunità coinvolte.

Anche sul piano individuale, gli effetti del MDHM sono profondamente distruttivi. Fenomeni come il doxxing – la divulgazione pubblica di informazioni personali con intenti malevoli – mettono a rischio diretto la sicurezza fisica e psicologica delle vittime. Questo tipo di attacco non solo espone le persone a minacce e aggressioni, ma amplifica un senso di vulnerabilità che si estende ben oltre il singolo episodio, minando la fiducia nel sistema stesso.

L’impatto cumulativo di queste dinamiche mina la stabilità sociale nel suo complesso, creando fratture profonde che richiedono risposte immediate e coordinate. Affrontare il MDHM non è solo una questione di difesa contro la disinformazione, ma un passo essenziale per preservare la pace, proteggere i diritti umani e garantire la sicurezza globale in un’epoca sempre più interconnessa e vulnerabile.

 

Strategie di Mitigazione

La lotta contro il fenomeno MDHM richiede una risposta articolata e coordinata, capace di affrontare le diverse sfaccettature del problema. Dato l’impatto complesso e devastante che questi fenomeni hanno sulla società, le strategie di mitigazione devono essere sviluppate con un approccio multidimensionale, combinando educazione, collaborazione tra i diversi attori e un quadro normativo adeguato.

Educazione e Consapevolezza

La prima e più efficace linea di difesa contro il fenomeno MDHM risiede nell’educazione e nella promozione di una diffusa alfabetizzazione mediatica. In un contesto globale in cui le informazioni circolano con una rapidità senza precedenti e spesso senza un adeguato controllo, la capacità dei cittadini di identificare e analizzare criticamente i contenuti che consumano diventa una competenza indispensabile. Solo attraverso una maggiore consapevolezza sarà possibile arginare gli effetti negativi della disinformazione e costruire una società più resiliente.

Il pensiero critico rappresenta la base di questa strategia. I cittadini devono essere messi nelle condizioni di distinguere le informazioni affidabili dai contenuti falsi o manipolati. Questo processo richiede l’adozione di strumenti educativi che insegnino come verificare le fonti, identificare segnali di manipolazione e analizzare il contesto delle notizie. È un impegno che va oltre la semplice formazione: si tratta di creare una cultura della verifica e del dubbio costruttivo, elementi essenziali per contrastare la manipolazione informativa.

Un ruolo cruciale in questa battaglia è giocato dalla formazione scolastica. Le scuole devono diventare il luogo privilegiato per l’insegnamento dell’alfabetizzazione mediatica, preparando le nuove generazioni a navigare consapevolmente nel complesso panorama digitale. L’integrazione di questi insegnamenti nei programmi educativi non può più essere considerata un’opzione, ma una necessità. Attraverso laboratori pratici, analisi di casi reali e simulazioni, i giovani possono sviluppare le competenze necessarie per riconoscere contenuti manipolati e comprendere le implicazioni della diffusione di informazioni false.

Tuttavia, l’educazione non deve limitarsi ai giovani. Anche gli adulti, spesso più esposti e vulnerabili alla disinformazione, devono essere coinvolti attraverso campagne di sensibilizzazione pubblica. Queste iniziative, veicolate sia attraverso i media tradizionali che digitali, devono illustrare le tecniche più comuni utilizzate per diffondere contenuti falsi, sottolineando le conseguenze negative di tali fenomeni per la società. Un cittadino informato, consapevole dei rischi e capace di riconoscerli, diventa un elemento di forza nella lotta contro la disinformazione.

Investire nell’educazione e nella sensibilizzazione non è solo una misura preventiva, ma un pilastro fondamentale per contrastare il MDHM. Una popolazione dotata di strumenti critici è meno suscettibile alle manipolazioni, contribuendo così a rafforzare la coesione sociale e la stabilità delle istituzioni democratiche. Questo percorso, pur richiedendo un impegno costante e coordinato, rappresenta una delle risposte più efficaci a una delle minacce più insidiose del nostro tempo.

Collaborazione Intersettoriale

La complessità del fenomeno MDHM è tale che nessun singolo attore può affrontarlo efficacemente da solo. È una sfida globale che richiede una risposta collettiva e coordinata, in cui governi, organizzazioni non governative, aziende tecnologiche e società civile collaborano per sviluppare strategie condivise. Solo attraverso un impegno sinergico è possibile arginare gli effetti destabilizzanti di questa minaccia.

Le istituzioni governative devono assumere un ruolo guida. I governi sono chiamati a creare regolamentazioni efficaci e ambienti sicuri per lo scambio di informazioni, garantendo che queste misure bilancino due aspetti fondamentali: la lotta contro i contenuti dannosi e la protezione della libertà di espressione. Un eccesso di controllo rischierebbe infatti di scivolare nella censura, minando i principi democratici che si intendono tutelare. L’approccio deve essere trasparente, mirato e in grado di adattarsi all’evoluzione delle tecnologie e delle dinamiche di disinformazione.

Le aziende tecnologiche, in particolare i social media, giocano un ruolo centrale in questa sfida. Hanno una responsabilità significativa nel contrastare la diffusione del MDHM, essendo i principali veicoli attraverso cui queste dinamiche si propagano. Devono investire nello sviluppo di algoritmi avanzati, capaci di identificare e rimuovere i contenuti dannosi in modo tempestivo ed efficace. Tuttavia, l’efficacia degli interventi non può venire a scapito della libertà degli utenti di esprimersi. La trasparenza nei criteri di moderazione, nella gestione dei dati e nei meccanismi di segnalazione è fondamentale per mantenere la fiducia degli utenti e prevenire abusi.

Accanto a questi attori, le organizzazioni non governative (ONG) e la società civile svolgono un ruolo di intermediazione. Le ONG possono fungere da ponte tra istituzioni e cittadini, offrendo informazioni verificate e affidabili, monitorando i fenomeni di disinformazione e promuovendo iniziative di sensibilizzazione. Queste organizzazioni hanno anche la capacità di operare a livello locale, comprendendo meglio le dinamiche specifiche di determinate comunità e adattando le strategie di contrasto alle loro esigenze.

Infine, è imprescindibile favorire partnership pubbliche e private. La collaborazione tra settori pubblico e privato è essenziale per condividere risorse, conoscenze e strumenti tecnologici utili a combattere il MDHM. In particolare, le aziende possono offrire soluzioni innovative, mentre i governi possono fornire il quadro normativo e il supporto necessario per implementarle. Questa sinergia permette di affrontare la disinformazione con un approccio più ampio e integrato, combinando competenze tecniche, capacità di monitoraggio e intervento.

La risposta al MDHM non può dunque essere frammentata né limitata a un singolo settore. Solo attraverso una collaborazione trasversale e globale sarà possibile mitigare le conseguenze di questi fenomeni, proteggendo le istituzioni, i cittadini e la società nel suo insieme.

Ruolo delle Tecnologie Avanzate e Artificial Intelligence (AI) nel Contesto del MDHM

Le tecnologie emergenti, in particolare l’intelligenza artificiale (IA), svolgono un ruolo cruciale nel contesto di misinformation, disinformation, malinformation e hate speech. L’AI rappresenta un’arma a doppio taglio: da un lato, offre strumenti potenti per individuare e contrastare la diffusione di contenuti dannosi; dall’altro, alimenta nuove minacce, rendendo più sofisticati e difficili da rilevare gli strumenti di disinformazione.

Rilevamento Automatico

L’intelligenza artificiale ha rivoluzionato il modo in cui affrontiamo il fenomeno della disinformazione, introducendo sistemi avanzati di rilevamento capaci di identificare rapidamente contenuti falsi o dannosi. In un panorama digitale in cui il volume di dati generato quotidianamente è immenso, il monitoraggio umano non è più sufficiente. Gli strumenti basati sull’AI si rivelano quindi essenziali per gestire questa complessità, offrendo risposte tempestive e precise.

Tra le innovazioni più rilevanti troviamo gli algoritmi di machine learning, che rappresentano il cuore dei sistemi di rilevamento automatico. Questi algoritmi, attraverso tecniche di apprendimento automatico, analizzano enormi quantità di dati alla ricerca di schemi che possano indicare la presenza di contenuti manipolati o falsi. Addestrati su dataset contenenti esempi di disinformazione già identificati, questi sistemi sono in grado di riconoscere caratteristiche comuni, come l’uso di titoli sensazionalistici, un linguaggio emotivamente carico o la presenza di immagini alterate. L’efficacia di tali strumenti risiede nella loro capacità di adattarsi a nuovi modelli di manipolazione, migliorando costantemente le proprie performance.

Un altro ambito cruciale è quello della verifica delle fonti. Strumenti basati su AI possono confrontare le informazioni che circolano online con fonti affidabili, identificando discrepanze e facilitando il lavoro dei fact-checker. In questo modo, la tecnologia accelera i tempi di verifica, permettendo di contrastare in maniera più efficiente la diffusione di contenuti falsi prima che raggiungano un pubblico vasto.

L’AI è anche fondamentale per contrastare una delle minacce più sofisticate: i deepfake, di cui più oltre tratteremo. Grazie a tecniche avanzate, è possibile analizzare video e immagini manipolati, individuando anomalie nei movimenti facciali, nella sincronizzazione delle labbra o nella qualità complessiva del contenuto visivo. Aziende come Adobe e Microsoft stanno sviluppando strumenti dedicati alla verifica dell’autenticità dei contenuti visivi, offrendo una risposta concreta a una tecnologia che può facilmente essere sfruttata per scopi malevoli.

Il monitoraggio del linguaggio d’odio è un altro fronte in cui l’AI dimostra il suo valore. Attraverso algoritmi di elaborazione del linguaggio naturale (NLP), è possibile analizzare i testi in tempo reale per identificare espressioni di hate speech. Questi sistemi non solo categorizzano i contenuti, ma assegnano priorità agli interventi, garantendo una risposta rapida ed efficace ai casi più gravi. In un contesto in cui il discorso d’odio può rapidamente degenerare in violenza reale, la capacità di intervenire tempestivamente è cruciale.

Infine, l’intelligenza artificiale è in grado di rilevare e analizzare reti di disinformazione. Attraverso l’analisi delle interazioni social, l’AI può individuare schemi che suggeriscono campagne coordinate, come la diffusione simultanea di messaggi simili da account collegati. Questa funzione è particolarmente utile per smascherare operazioni orchestrate, sia a livello politico che sociale, che mirano a destabilizzare la fiducia pubblica o a manipolare l’opinione delle persone.

In definitiva, l’intelligenza artificiale rappresenta uno strumento indispensabile per affrontare il fenomeno della disinformazione e dell’hate speech. Tuttavia, come ogni tecnologia, richiede un uso etico e responsabile. Solo attraverso un’implementazione trasparente e mirata sarà possibile sfruttare appieno il potenziale dell’AI per proteggere l’integrità delle informazioni e la coesione sociale.

Generazione di Contenuti

L’intelligenza artificiale, se da un lato rappresenta una risorsa preziosa per contrastare la disinformazione, dall’altro contribuisce a rendere il fenomeno MDHM ancora più pericoloso, fornendo strumenti per la creazione di contenuti falsi e manipolati con livelli di sofisticazione senza precedenti. È proprio questa ambivalenza che rende l’IA una tecnologia tanto potente quanto insidiosa.

Un esempio emblematico è rappresentato dai citati deepfake, prodotti grazie a tecnologie basate su reti generative avversarie (GAN). Questi strumenti permettono di creare video e immagini estremamente realistici, in cui persone possono essere mostrate mentre affermano o compiono azioni mai avvenute. I deepfake compromettono gravemente la fiducia nelle informazioni visive, un tempo considerate una prova tangibile della realtà. Ma non si fermano qui: la loro diffusione può essere utilizzata per campagne di diffamazione, per manipolare l’opinione pubblica o per destabilizzare contesti politici già fragili. La capacità di creare realtà alternative visive rappresenta una minaccia diretta alla credibilità delle fonti visive e alla coesione sociale.

Parallelamente, i testi generati automaticamente da modelli di linguaggio avanzati, come GPT, hanno aperto nuove frontiere nella disinformazione. Questi sistemi sono in grado di produrre articoli, commenti e post sui social media che appaiono del tutto autentici, rendendo estremamente difficile distinguere i contenuti generati da una macchina da quelli scritti da una persona reale. Non a caso, tali strumenti vengono già sfruttati per alimentare botnet, reti automatizzate che diffondono narrazioni polarizzanti o completamente false, spesso con l’obiettivo di manipolare opinioni e alimentare conflitti sociali.

Un ulteriore aspetto cruciale è rappresentato dalla scalabilità della disinformazione. L’automazione garantita dall’AI consente la creazione e la diffusione di contenuti falsi su larga scala, amplificandone in modo esponenziale l’impatto. Ad esempio, un singolo attore malevolo, sfruttando questi strumenti, può generare migliaia di varianti di un messaggio falso, complicando ulteriormente il compito dei sistemi di rilevamento. In pochi istanti, contenuti manipolati possono essere diffusi a livello globale, raggiungendo milioni di persone prima che si possa intervenire.

Infine, l’AI offre strumenti per la mimetizzazione dei contenuti, che rendono i messaggi manipolati ancora più difficili da individuare. Algoritmi avanzati consentono di apportare modifiche minime ma strategiche a testi o immagini, eludendo così i sistemi di monitoraggio tradizionali. Questa capacità di adattamento rappresenta una sfida continua per gli sviluppatori di strumenti di contrasto, che devono aggiornarsi costantemente per stare al passo con le nuove tecniche di manipolazione.

In definitiva, l’intelligenza artificiale, nella sua capacità di generare contenuti altamente sofisticati, rappresenta un’arma a doppio taglio nel panorama del MDHM. Se non regolamentata e utilizzata in modo etico, rischia di accelerare la diffusione della disinformazione, minando ulteriormente la fiducia pubblica nelle informazioni e destabilizzando la società. È indispensabile affrontare questa minaccia con consapevolezza e strumenti adeguati, combinando innovazione tecnologica e principi etici per limitare gli effetti di questa pericolosa evoluzione.

Sfide e Opportunità

L’impiego dell’intelligenza artificiale nella lotta contro il fenomeno del MDHM rappresenta una delle frontiere più promettenti ma anche più complesse dell’era digitale. Sebbene l’IA offra opportunità straordinarie per contrastare la diffusione di informazioni dannose, essa pone anche sfide significative, evidenziando la necessità di un approccio etico e strategico.

Le Opportunità Offerte dall’IA

Tra i vantaggi più rilevanti, spicca la capacità dell’AI di analizzare dati in tempo reale. Grazie a questa caratteristica, è possibile anticipare le campagne di disinformazione, identificandone i segnali prima che si diffondano su larga scala. Questo permette di ridurre l’impatto di tali fenomeni, intervenendo tempestivamente per arginare i danni.

Un altro aspetto fondamentale è l’impiego di strumenti avanzati per certificare l’autenticità dei contenuti. Tecnologie sviluppate da organizzazioni leader nel settore consentono di verificare l’origine e l’integrità dei dati digitali, restituendo fiducia agli utenti. In un contesto in cui la manipolazione visiva e testuale è sempre più sofisticata, queste soluzioni rappresentano un baluardo essenziale contro il caos informativo.

L’AI contribuisce inoltre a snellire le attività di fact-checking. L’automazione delle verifiche consente di ridurre il carico di lavoro umano, velocizzando la risposta alla diffusione di contenuti falsi. Questo non solo migliora l’efficienza, ma permette anche di concentrare le risorse umane su casi particolarmente complessi o delicati.

Le Sfide dell’AI nella Lotta al MDHM

Tuttavia, le stesse tecnologie che offrono queste opportunità possono essere sfruttate per scopi malevoli. Gli strumenti utilizzati per combattere la disinformazione possono essere manipolati per aumentare la sofisticazione degli attacchi, creando contenuti ancora più difficili da rilevare. È un paradosso che sottolinea l’importanza di un controllo rigoroso e di un uso responsabile di queste tecnologie.

La difficoltà nel distinguere tra contenuti autentici e manipolati rappresenta un’altra sfida cruciale. Man mano che le tecniche di disinformazione evolvono, anche gli algoritmi devono essere costantemente aggiornati per mantenere la loro efficacia. Questo richiede non solo investimenti tecnologici, ma anche una collaborazione continua tra esperti di diversi settori.

Infine, è impossibile ignorare i bias insiti nei modelli di AI, che possono portare a errori significativi. Algoritmi mal progettati o addestrati su dataset non rappresentativi rischiano di rimuovere contenuti legittimi o, al contrario, di non individuare alcune forme di disinformazione. Questi errori non solo compromettono l’efficacia delle operazioni, ma possono minare la fiducia nel sistema stesso.

Conclusione

L’intelligenza artificiale è una risorsa strategica nella lotta contro misinformation, disinformation, malinformation e hate speech, ma rappresenta anche una sfida complessa. La sua ambivalenza come strumento di difesa e al contempo di attacco richiede un uso consapevole e responsabile. Mentre da un lato offre soluzioni innovative per rilevare e contrastare contenuti manipolati, dall’altro consente la creazione di disinformazione sempre più sofisticata, amplificando il rischio per la stabilità sociale e istituzionale.

Il MDHM non è un fenomeno isolato o temporaneo, ma una minaccia sistemica che mina le fondamenta della coesione sociale e della sicurezza globale. La sua proliferazione alimenta un circolo vizioso in cui l’erosione della fiducia, la polarizzazione sociale e le minacce alla sicurezza si rafforzano reciprocamente. Quando la disinformazione contamina il flusso informativo, la fiducia nelle istituzioni, nei media e persino nella scienza si sgretola. Questo fenomeno non solo genera alienazione e incertezza, ma riduce la capacità dei cittadini di partecipare attivamente alla vita democratica.

La polarizzazione sociale, amplificata dalla manipolazione delle informazioni, è un effetto diretto di questa dinamica. Narrativi divisivi e contenuti polarizzanti, spinti da algoritmi che privilegiano l’engagement a scapito dell’accuratezza, frammentano il tessuto sociale e rendono impossibile il dialogo. In un clima di contrapposizione “noi contro loro”, le divisioni politiche, culturali ed etniche si trasformano in barriere insormontabili.

A livello di sicurezza, il MDHM rappresenta una minaccia globale. Le campagne di disinformazione orchestrate da stati o gruppi non statali destabilizzano intere regioni, fomentano violenze e alimentano conflitti armati. L’uso del hate speech come strumento di deumanizzazione ha dimostrato il suo potenziale distruttivo in numerosi contesti, contribuendo a un clima di vulnerabilità collettiva e individuale.

Affrontare questa sfida richiede un approccio integrato che combini educazione, regolamentazione e cooperazione globale.

Promuovere l’educazione critica: l’alfabetizzazione mediatica deve essere una priorità. Educare i cittadini a riconoscere e contrastare la disinformazione è il primo passo per costruire una società resiliente. Programmi educativi e campagne di sensibilizzazione devono dotare le persone degli strumenti necessari per navigare nel complesso panorama informativo.

Rafforzare la regolamentazione delle piattaforme digitali: le aziende tecnologiche non possono più essere semplici spettatori. È indispensabile che adottino standard chiari e trasparenti per la gestione dei contenuti dannosi, garantendo al contempo il rispetto della libertà di espressione. Una supervisione indipendente può assicurare l’equilibrio tra sicurezza e diritti fondamentali.

Incentivare la collaborazione globale: la natura transnazionale del MDHM richiede una risposta coordinata. Governi, aziende private e organizzazioni internazionali devono lavorare insieme per condividere risorse, sviluppare tecnologie innovative e contrastare le campagne di disinformazione su scala globale.

Solo attraverso un’azione concertata sarà possibile mitigare gli effetti devastanti del MDHM e costruire una società più resiliente e informata. Il futuro della democrazia, della coesione sociale e della sicurezza dipende dalla capacità collettiva di affrontare questa minaccia con determinazione, lungimiranza e responsabilità.


#ReaCT2023, n. 4: Pubblicato il rapporto annuale sui radicalismi e i terrorismi in Europa

Come Direttore dell’Osservatorio sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo in Europa (ReaCT), sono lieto di presentare il 4° rapporto annuale sul terrorismo e il radicalismo in Europa, #ReaCT2023 (vai all’indice e scarica il volume), che intende fornire un’analisi quanto più completa dell’evoluzione della minaccia del terrorismo nel nostro continente.

Il rapporto rappresenta la combinazione unica di rivista scientifica e volume collettivo, con contributi di vari autori, ricercatori e collaboratori che hanno dedicato il loro tempo, la loro esperienza e le loro conoscenze. Vorrei esprimere la mia gratitudine a tutti loro per il prezioso contributo e i loro sforzi instancabili. Voglio, altresì, ringraziare il Ministero della Difesa italiano per aver confermato la stima e la fiducia nell’Osservatorio che dirigo concedendo il patrocinio all’evento di presentazione del rapporto, e il prestigioso Centro Alti Studi per la Difesa per la disponibilità dimostrata. Gratitudine che si estende al Ministero dell’Interno italiano che, attraverso il contributo della Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione, ha permesso di completare il nostro sforzo per la comprensione e la definizione della contemporanea minaccia rappresentata dai radicalismi ideologici e dai terrorismi violenti.

Quali risultati ci consegna la ricerca dell’Osservatorio?

Negli ultimi tre anni, dal punto di vista quantitativo, la frequenza degli attacchi terroristici è rimasta lineare. L’Europa è classificata come la terza regione maggiormente colpita dai terrorismi, seguendo la Russia e l’Eurasia, e l’America centrale e i Caraibi. I Paesi dell’Unione europea, il Regno Unito e la Svizzera sono stati afflitti nel 2022 da 50 attacchi terroristici di varia natura, una significativa flessione rispetto ai 73 del 2021. Sul piano qualitativo, guardando in particolare al mai sopito dell’islamismo violento, il rapporto evidenzia la natura in continua evoluzione del jihadismo, che ha subito molteplici trasformazioni fin dalle sue origini in Afghanistan negli anni ’80, diffondendosi e radicalizzandosi. Al Qa’ida è stata l’incarnazione del movimento globalizzato e radicalizzato fino a quando il gruppo terroristico Stato islamico è emerso nel 2014, proponendo un approccio ancora più estremo. La sconfitta dello Stato islamico in Iraq e Siria nel 2017-18 ha segnato la prima sconfitta tangibile del movimento jihadista. I movimenti jihadisti nazionali, per lo più nutriti dai soggetti globali, sono ora di nuovo di moda, e la regione del Sahel il centro del jihadismo riemergente. Da Sud a Est, il rapporto evidenzia il pericolo del terrorismo jihadista nella regione balcanica, che rimane una minaccia per la sicurezza italiana ed europea. L’Italia ha attuato e confermato varie iniziative per contrastare questa minaccia, in particolare confermando il proprio impegno a livello di missioni internazionali di mantenimento della pace.

Il rapporto approfondisce poi il tema della minaccia dell’estremismo di destra, della disinformazione, delle teorie del complotto, del suprematismo bianco e del crescente fenomeno dell’anarco-insurrezionalismo.

Alla luce del mondo in continua evoluzione e del conflitto che ora ha raggiunto l’Europa, è essenziale adattare i nostri paradigmi interpretativi della minaccia e mettere in discussione la definizione di terrorismo, l’approccio al contrasto al processo di radicalizzazione e la ricollocazione del terrorismo stesso nel nuovo scenario di conflitto.

Inoltre, in un quadro sempre più complesso e dinamico, la gestione delle crisi nel XXI secolo presenta sfide uniche a causa del contesto interconnesso e interdipendente, rendendo difficile la previsione. Il rapporto #ReaCT2023 ha dato ampio spazio anche a questo aspetto.

Infine, abbiamo voluto porre l’attenzione sulla recente pubblicazione del progetto di ricerca spagnolo sul contrasto al terrorismo internazionale all’interno delle fonti criminali multilivello e sull’analisi critica delle questioni di diritto penitenziario, giurisprudenza e pratica applicata alle sentenze per gli autori di atti terroristici. Il progetto di ricerca qui illustrato offre proposte costruttive per combinare le sfide poste da questo fenomeno criminale con la garanzia dei diritti umani fondamentali ed esplora il potenziale della giustizia riparativa.

In conclusione, il contributo di quest’anno è una testimonianza della forza e della dedizione della nostra comunità di studiosi e operatori nella lotta in corso contro i radicalismi e i terrorismi. Auspico che le idee contenute in questo rapporto contribuiscano a una migliore comprensione dell’evoluzione della minaccia dei terrorismi in Europa e servano come appello all’azione per tutti i soggetti interessati a lavorare insieme per prevenire e contrastare l’estremismo violento.



Grazie a tutti gli Autori che, con il loro encomiabile lavoro, hanno contribuito ancora una volta alla realizzazione di #ReaCT2023. Un ringraziamento speciale per il sostegno va anche alla Chapman University con sede ad Orange, California, all’Università della Svizzera Italiana – USI a Lugano e alla Piattaforma cantonale di prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo violento (Repubblica e Cantone Ticino). Infine, come sempre, a START InSight, che ha consentito la pubblicazione e la distribuzione internazionale del nostro rapporto annuale.

Claudio Bertolotti, Direttore Esecutivo dell’Osservatorio ReaCT

ORDINA LA TUA COPIA CARTACEA DEL VOLUME (VIA AMAZON)

VAI ALL’INDICE E SCARICA IL VOLUME (FORMATO PDF)


Il suprematismo bianco e la sua diffusione

LIVE streaming con Andrea Molle – approfondimento storico-sociologico su ideologie e attività che si rifanno ai concetti del suprematismo bianco, dell’accelerazionismo e del survivalismo


Alex Jones e il mondo del cospirazionismo. Focus a cura di Andrea Molle

La parabola del conduttore radiofonico Alex Jones, fondatore del sito Infowars.

La video-analisi con Andrea Molle


Dugin e la “Quarta Teoria Politica”: l’ideologia illiberale russa che spopola in Occidente e giustifica l’invasione dell’Ucraina

di Andrea Molle

Chi critica l’accostamento tra la crisi nei rapporti tra Russia e Occidente, culminata nel conflitto in Ucraina, con la Guerra Fredda sostiene che la situazione attuale non abbia la forma di un conflitto tra due blocchi ideologici distinti e contrapposti. Si tratta di una conclusione affrettata e a mio avviso molto superficiale, che ignora la realtà e gli effetti di decenni di penetrazione nella società e nel sistema politico-militare russo di un apparato ideologico e pseudo-religioso chiamato Neo-Euroasianesmo. Il rischio principale nel non comprendere la dimensione ideologica della crisi è quello di guardare all’invasione dell’Ucraina come una mera guerra territoriale ed essere impreparati per gli scenari futuri che non potranno che vedere un aumento della tensione dei rapporti tra Occidente e Russia.

Nella sua versione originale, l’Euroasianesimo fu un movimento culturale e politico fondato sull’idea che la civiltà russa non fosse né europea né asiatica, ma piuttosto una civiltà euroasiatica a sé stante. Sviluppatosi negli anni ’20 del 1900, l’Euroasianesimo sostenne la rivoluzione bolscevica, ma non il suo obiettivo di realizzare nel paese il comunismo, vedendo l’Unione Sovietica unicamente come una tappa nel processo di ricostruzione dell’identità nazionale e imperiale russa che riflettesse il carattere unico della sua situazione geopolitica.

In seguito allo scioglimento dell’URSS, l’Euroasianesimo entrò in una fase pragmatica, abbracciando l’idea di costituire delle organizzazioni internazionali sul modello di quelle già esistenti in Europa e Nord-America e la cui funzione era di aumentare i rapporti tra Russia e Oriente, con particolare attenzione alla Cina. Tra queste vale la pena di menzionare l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai e l’Unione Euroasiatica.

Unitamente a questa sua versione pragmatica, l’Euroasianesimo manteneva però una visione mistica. Il suo maggior esponente è il fondatore del Neo-Euroasianesimo, Aleksandr Gelyevich Dugin. Il filosofo politico, nato intellettualmente nel solco della corrente mistica e noepagana dell’Ortodossia cristiana moscovita, è ben conosciuto anche in Italia grazie ai suoi collegamenti con la cosiddetta “Lobby Nera” costituita da gruppi identitari e tradizionalisti di estema destra. La versione dughiniana dell’Euroasianesimo, detta anche Quarta Teoria Politica, è una forma di ideologia neo-fascista il cui progetto politico consiste nel ricostruire un Impero Eurasiatico totalitario, dominato dalla Russia, che si contrapponga agli Stati Uniti e dai suoi alleati atlantisti. Secondo Dugin, nella visione escatologica del movimento che abbonda di riferimenti biblici l’inevitabile conflitto tra i due blocchi finirebbe per dare vita a una nuova “età dell’oro dell’illiberalismo politico e culturale globale”, promuovendo un’era di pace universale e di riaffermazione dei principi religiosi, tradizionali, di convivenza tra gli uomini.

Non può dunque passare inosservato il fatto che Dugin consideri l’attuale conflitto ucraino come l’inizio della fase bellica del “confronto contro il globalismo come fenomeno planetario integrale”. Un conflitto che il filosofo ritiene essere sia geopolitico che ideologico e che vede essere una vittoria in tutti i paesi del mondo, inclusi Europa e Stati Uniti, di tutte le forze da lui definite come alternative, sia di destra che di sinistra, creando le condizioni per una nuova multipolarità. Infatti, nella visione Neo-Euroasiatica, come fu nella visione ideologica comunista, la Russia viene concepita come una civiltà destinata a salvare il mondo dal neoliberismo, riportando l’Occidente a riabbracciare le proprie radici tradizionali greco-romane, cristiane, bizantine, oggi incarnate dalla Russia in quanto erede sia dell’Impero Romano che del Sacro Romano Impero. Mosca incarnerebbe così l’eredità imperiare di Roma e conseguentemente il suo destino di grande unificatrice e civilizzatrice.

Ma quanto è diffusa e influente questa visione nel contesto del governo russo? Nel 1997 Dugin pubblicò un volume dal titolo “I fondamenti della geopolitica: il futuro geopolitico della Russia” che esercitò fin da subito un’influenza significativa sulle élite militari e di politica estera del paese diventanto ben presto uno dei libri di testo nelle accademie militari e di polizia del paese, anche grazie al supporto del Generale Nikolai Klokotov. Grazie all’assenza di riferimenti esoterici e mistici, presenti in molte delle sue opere precedenti, Dugin riuscì anche a far breccia nella società civile, e il libro fu anche adottato in diversi curriculum scolastici arrivando a contribuire a costruire l’attuale ceto dirigente russo e la percezione popolare del paese. Quanto a Putin, sappiamo che Dugin ha esercitato sia un’influenza diretta sul presidente russo, tramite il partito Eurasia fondato nel 2002, che una indiretta, tramite molti dei suoi consiglieri personali che seguono i precetti della Quarta Teoria Politica e la Chiesa Ortodossa Moscovita che ne ha abbracciato la visione teocratica.

La recente invasione dell’Ucraina potrebbe dunque essere coerente con una strategia basata sull’ideologia Neo-Euroasiatica patrocinata da Dugin per indebolire l’ordine liberale internazionale. Se così fosse, questa sarebbe dunque solo una fase in una guerra più ampia e destinata a protrarsi nel tempo irrigidendosi su linee ideologiche e pseudo-religiose.


#ReaCT2022: il 3° Rapporto sul terrorismo e il radicalismo in Europa. Online il 24 febbraio

Disponibile dal 24 febbraio, in italiano e inglese, su osservatorioreact.it e su startinsight.eu (link diretto): presentazione, in collaborazione con Formiche.net, giovedì 24 febbraio 2022 sul canale web di Formiche.

È disponibile dal 24 febbraio in formato digitale e cartaceo #ReaCT2022 – La Rivista, il 3° Rapporto sul terrorismo e il radicalismo in Europa, che offre al lettore uno studio sulla sua evoluzione, le sue tendenze ed effetti, attraverso un approccio quantitativo, qualitativo e comparativo. Curato dall’Osservatorio ReaCT, il documento è composto da 15 contributi d’analisi su jihadismo e altre forme di estremismo violento che caratterizzano il panorama attuale e che durante la pandemia hanno acquisito ulteriore forza e visibilità, proponendo nel contempo casi studio, prospettive e riflessioni volte a portare un contributo concreto e a intavolare un dialogo continuativo con tutte quelle realtà -accademiche e istituzionali- che si occupano della questione e delle sue problematiche pratiche. #ReaCT2022 vuole essere uno strumento utile messo a disposizione di operatori per la sicurezza, sociali ed istituzionali, di giornalisti, studenti e del più ampio pubblico.

I numeri del terrorismo jihadista. Come ogni anno, il Rapporto si apre con la fotografia aggiornata del terrorismo di matrice jihadista in Europa, grazie alle informazioni raccolte nel database di START InSight, curato da Claudio Bertolotti, direttore esecutivo di ReaCT. Se la violenza di matrice jihadista può essere considerata marginale in termini assoluti, rispetto cioè al totale delle azioni portate avanti da gruppi e militanti di varie ideologie, essa continua ad essere rilevante sia per le conseguenze, che per il numero di vittime. La minaccia rimane dunque significativa ed è rappresentata oggi in particolar modo dagli attacchi da parte di individui che agiscono in modo autonomo, indipendente, spesso senza un legame diretto con l’organizzazione terroristica ma mobilitati da narrative jihadiste globali.

Nel 2021 gli eventi jihadisti sono stati 18, in lieve flessione rispetto ai 25 attacchi dell’anno precedente ma con un aumento di azioni di tipo “emulativo”, ossia ispirate da altri attacchi nei giorni precedenti: dal 48% del totale di azioni emulative nel 2020 al 56% nel 2021 (erano il 21% nel 2019). Il 2021 ha inoltre confermato la predominanza delle azioni individuali, non organizzate, in genere improvvisate e fallimentari che hanno progressivamente sostituito le azioni strutturate e coordinate caratterizzanti il “campo di battaglia” urbano europeo negli anni 2015-2017. Il terrorismo si conferma inoltre un fenomeno prevalentemente maschile: su 207 attentatori (dal 2014), il 97% sono uomini mentre l’età media è di 26 anni. Di rilievo negli ultimi anni è stato anche il ruolo di recidivi, attentatori già noti alle forze dell’ordine o con precedenti detentivi. Infine, va ricordato che anche quando fallimentare, un attacco terroristico ottiene un risultato favorevole che consiste nell’imporre costi economici e sociali alla collettività e nel condizionarne i comportamenti nel tempo. La limitazione della libertà dei cittadini è un risultato misurabile, che il terrorismo ottiene attraverso le proprie azioni: questo è il “blocco funzionale”, ottenuto nell’82% dei casi: un risultato che conferma il vantaggioso rapporto costo-beneficio a favore del terrorismo.

Estremismi violenti, radicalizzazione e casi studio. I contenuti del Rapporto. I contenuti complessivi del Rapporto 2022 spaziano dalla presentazione dei numeri e profili dei terroristi jihadisti in Europa, alla discussione sul Nuovo Terrorismo Insurrezionale (NIT), che trae ulteriore vigore e motivazione anche dal ritorno dei Talebani in Afghanistan; dall’esame del contesto sub-sahariano, dove operano organizzazioni jihadiste caratterizzate da una retorica globalista ma che restano profondamente connesse a dinamiche locali, all’impegno europeo nella prevenzione del radicalismo violento nei Balcani Occidentali; dai processi per terrorismo di cui si è occupato il Tribunale Penale Federale in Svizzera dal 2001 ad oggi, alle dinamiche delle comunità jihadiste online; dai nuovi orizzonti della radicalizzazione, che si sono allargati ulteriormente durante la pandemia e richiedono che si presti maggiore  attenzione alle dinamiche di gruppo e ai problemi sociali collegati alla violenza; ai focus sull’estrema destra, l’anti-semitismo di ritorno, il cospirazionismo, il movimento NoVax; fino ai casi studio sul reinserimento sociale dei minori radicalizzati e la deradicalizzazione nel contesto neo-nazista, che mettono in evidenza anche l’approccio e il  lavoro portato avanti dalle autorità italiane. Infine, il documento include considerazioni riguardo l’aggiornamento dei Terrorism Risk Assessment Instruments (TRA-I), che sono sviluppati con lo scopo di poter meglio valutare la minaccia rappresentata dai processi di radicalizzazione e dalle attività ad essi affini; riflessioni sugli scenari delle guerre future; la recensione del volume “Understanding radicalisation, terrorism and de-radicalisation. Historical, socio-political and educational perspectives from Algeria, Azerbaijan and Italy”.

ReaCT nasce su iniziativa di una ‘squadra’ composta da esperti e professionisti della società svizzera di ricerca e produzione editoriale START InSight di Lugano, del Centro di ricerca ITSTIME dell’Università Cattolica di Milano, del Centro di Ricerca CEMAS dell’Università La Sapienza e della SIOI sempre a Roma. A ReaCT hanno anche aderito come partner Europa Atlantica e il Gruppo Italiano Studio Terrorismo (GRIST).

L’Osservatorio ReaCT è composto da una Direzione, un Comitato Scientifico di indirizzo ed editoriale, un Comitato Parlamentare e un Gruppo di lavoro permanente.

Tutte le informazioni sul sito www.osservatorioreact.it info@startinsight.eu


#ReaCT2022: pubblicato il 3° rapporto sul radicalismo e il terrorismo

I terrorismi tra pandemia, disagio sociale ed esaltazione jihadista

In qualità di Direttore Esecutivo dell’Osservatorio ReaCT, ho l’onore di presentare #ReaCT2022, il 3° Rapporto sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo in Europa (www.osservatorioreact.it: vai al report #ReaCT2022 n. 3, Anno 3).

Il Covid-19 e i talebani alimentano nuove minacce di terrorismo

Il terrorismo si adatta, si evolve e viene condizionato da eventi che hanno la capacità di stimolare la condotta di azioni violente nel nome di un’ideologia che ne giustifica metodi, obiettivi e finalità. I trend del 2021 hanno evidenziato aspetti coerenti con le dinamiche degli ultimi anni e anticipato un possibile scenario per il 2022, che continuerà ad essere influenzato da due sviluppi che in modo diverso andranno ad allargare il panorama della minaccia. Da un lato, la pandemia di COVID-19, le cui conseguenze sociali saranno in grado di accrescere forme radicali eterogenee ed esaltare la violenza associata a movimenti complottisti e aderenti a ideologie estremiste; d’altro lato, la vittoria dei talebani in Afghanistan, il cui grande risultato si è imposto quale leit motiv della narrativa jihadista a livello globale.

Lo scenario del terrorismo che sfida l’Europa nel 2022

I dati presentati in questa analisi provengono dal database di START InSight, che traccia i trend annuali per ciò che riguarda il terrorismo jihadista in Europa. In generale, l’Occidente guarda oggi con preoccupazione all’esaltazione jihadista, dall’Africa all’Afghanistan. Lo Stato Islamico non è più in grado di dirigere terroristi verso l’Europa poiché la perdita di territorio, risorse finanziarie e reclute ha ridotto notevolmente le sue capacità operative. La minaccia comunque rimane significativa ed è dovuta alla disponibilità e alle azioni di lone actors e self-starters senza un legame diretto con l’organizzazione ma mobilitati da narrative jihadiste globali. I rischi connessi agli attacchi emulativi sono alti: il 56% degli eventi nel 2021 rientra in questa categoria, secondo il database di START InSight. Il trend è in aumento. Negli ultimi tre anni, da un punto di vista quantitativo, la frequenza degli attacchi terroristici è rimasta lineare. Secondo Europol, 43% sono attribuiti a movimenti della sinistra radicale, il 24% a gruppi separatisti ed etno-nazionalisti, il 7% a gruppi di estrema destra, il 26% sono azioni di matrice jihadista. Se la violenza jihadista è marginale in termini assoluti, tuttavia continua ad essere la più rilevante per le conseguenze e il numero di vittime. Il database di START InSight ha registrato 18 eventi jihadisti in Europa nel 2021. 

Due decenni di processi per terrorismo: il caso svizzero

Nonostante la Svizzera non abbia subito attacchi su vasta scala come quelli che hanno colpito altre nazioni europee nell’ultimo decennio, il fenomeno della violenza politico-ideologica di matrice jihadista è tuttavia presente. Dal 2004 al novembre 2021, il Tribunale Penale Federale si è occupato di un totale di 17 procedimenti penali legati al terrorismo jihadista. Ahmed Ajil rileva che la maggior parte di questi ha avuto luogo dopo lo scoppio della guerra civile siriana e la conseguente espansione territoriale del gruppo Stato Islamiconel giugno del 2014. L’attività ha avuto luogo principalmente nell’ambito digitale, mentre gli atti “concreti” sono consistiti in tentativi di recarsi in aree di conflitto o attività legate ai combattimenti all’estero.

Il rischio africano

Come rilevano Enrico Casini e Luciano Pollichieni, dagli anni duemila sono emerse in Africa numerose organizzazioni jihadiste caratterizzate da una retorica globalista ma che restano profondamente connesse a dinamiche locali, sia di carattere politico, etnico o di natura criminale, con il coinvolgimento in traffici illeciti di diverso tipo (dal contrabbando alla tratta di esseri umani alla pirateria). In virtù della contiguità con il Mediterraneo, le vicende socio-politiche e l’instabilità generata dai gruppi jihadisti in Africa, hanno un effetto immediato sulla sicurezza di tutta la regione, come dimostrato dalle diverse crisi migratorie degli ultimi anni.

Verso nuovi orizzonti della radicalizzazione jihadista e della sua prevenzione

Le comunità virtuali che avevano preso avvio sotto forma di estensioni dirette di un’organizzazione specifica come il gruppo terrorista Stato islamico, suggerisce Michael Krona, si intrecciano progressivamente con degli orientamenti ideologici più ampi, piuttosto che trasmettere esclusivamente la propaganda ufficiale dell’organizzazione terroristica. Chiara Sulmoni sottolinea come l’ecosistema dell’estremismo violento sia oggi caratterizzato da forte competizione ma anche da maggiore esposizione a strategie e narrative di gruppi diversi. I profili di radicalizzati e terroristi sembrano spesso rivelare una propensione alla violenza piuttosto che una solida convinzione ideologica. L’autrice ritiene utile prestare attenzione agli aspetti sociologici e psicologici insiti nei processi di radicalizzazione, con l’obiettivo di migliorare la prevenzione.  

A riguardo del fenomeno osservato nei Balcani occidentali, rileva Matteo Bressan che la prevenzione della radicalizzazione che conduce all’estremismo violento e al terrorismo è una priorità fondamentale per gli Stati membri dell’Unione europea. In questo senso, la Commissione, da un lato, sosterrà la regione nella prevenzione e nella lotta a tutte le forme di radicalizzazione; dall’altro lato, la Commissione mobiliterà le competenze dei professionisti nell’ambito della rete di sensibilizzazione in materia di radicalizzazione (RAN) per sostenere il lavoro di prevenzione e facilitare gli scambi tra professionisti.

I minori radicalizzati: l’approccio italiano

La propaganda jihadista e in genere le ideologie estremiste hanno come target anche i minori di 18 anni, che possono essere coinvolti in vario modo come vittime inconsapevoli delle scelte degli adulti (in genere, i genitori) o come destinatari diretti di un’ideologia che sfrutta il loro bisogno di appartenenza. Nel suo case study Alessandra Lanzetti spiega che la Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione (DCPP) della Polizia di Stato ha maturato una forte esperienza in questo campo, sperimentando un protocollo di intervento sui child returnee, improntato a criteri di tempestività e multi-disciplinarietà.

Nuovi radicalismi e altri terrorismi alimentati dall’effetto pandemico. Estrema destra, sinistra radicale, antisemitismo: dal complottismo alla violenza

Il fenomeno NoVax rappresenta la punta di lancia del complottismo militante che sta rapidamente sostituendo il radicalismo religioso come prima causa di preoccupazione per la sicurezza nazionale. Nel suo contributo, Andrea Molle ne analizza alcuni elementi di base mettendone in luce il rischio di radicalizzazione di massa. Mattia Caniglia spiega come una delle tendenze più preoccupanti del 2021 sia stato l’aumento dell’attrazione esercitata dall’estremismo violento di destra sulle generazioni più giovani. Tale sviluppo è probabilmente legato al fatto che la propaganda estremista di destra viene diffusa principalmente online e che le piattaforme di gioco sono sempre più utilizzate per diffondere narrative estremiste e terroristiche. Le evidenze emerse dalle indagini e dalle attività di ricerca degli ultimi anni suggeriscono come, in alcuni casi, gruppi estremisti di destra abbiano la tendenza a emulare gruppi estremisti di matrice islamista per quanto attiene a tecniche di reclutamento, modi operandi e strategie di propaganda. Inoltre, attacchi terroristici di alto profilo, siano questi di matrice islamista o di estrema destra, sembrano aver acquisito la potenzialità di aumentare il rischio di processi di radicalizzazione reciproca, attivando una “dinamica a ciclo continuo”.

Una somiglianza che, come evidenzia Luca Guglielminetti, porta ad adottare analoghi strumenti di recupero e sostegno all’abbandono della violenza. In tale quadro si inserisce un persistente e diffuso sentimento antisemita; Sarah Ibrahimi Zijno pone in evidenza la estrema e facile diffusione di punti di vista sostanzialmente antisemiti nelle destre alternative americana ed europea, in particolare nella parte ex comunista del continente, e il sostanziale avvicinamento di certa stampa orientata a sinistra verso il medesimo algoritmo complottista già della destra alternativa, con il silenzioso progressivo abbandono della distinzione – già di per se fragile e discutibile – tra antisionismo e antisemitismo.

Negli utimi anni, con l’avanzare in Europa e negli Stati Uniti di forme di estremismo più o meno organizzato di estrema destra e di suprematismo bianco, rileva Barbara Lucini, i Terrorism Risk Assessment Instruments (TRA-I) sono oggetto di una nuova riflessione rispetto alla loro capacità adattativa, di resilienza e di valutazione efficace dei molteplici e variegati percorsi di radicalizzazione ai quali si sta assistendo.

Per finire, uno sguardo alle «guerre future»: nella sua analisi, Marco Lombardi condivide le sue riflessioni su alcuni aspetti emergenti del warfare, dell’intelligence e del ruolo del terrorismo. Lo scenario della guerra futura sembra sottolineare il mantenimento, anzi il rafforzamento delle modalità operative del terrorismo di questi ultimi anni, che ha trovato il suo successo proprio per la capacità di penetrazione comunicativa e per l’utilizzo innovativo (cioè sorprendente) delle tecnologie. Sembra quasi che il terrorismo del primo ventennio del nuovo secolo abbia sperimentato le nuove opportunità del warfare, che poi si sono consolidate in pratiche diffuse tra tutti gli attori in conflitto. In conclusione, Andrea Carteny e Elena Tosti Di Stefano hanno recensito per noi “Understanding radicalisation, terrorism and de-radicalisation. Historical, socio-political and educational perspectives from Algeria, Azerbaijan and Italy”, a cura di M. Brunelli.

Grazie a tutti gli Autori che, con il loro encomiabile lavoro, hanno contribuito ancora una volta alla realizzazione di #ReaCT2022. Un ringraziamento speciale va all’Editore Chiara Sulmoni, Presidente di START InSight, che ha consentito la pubblicazione e la distribuzione internazionale del nostro rapporto annuale.

Scarica il volume completo: #ReaCT2022 n. 3, Anno 3.

Indice

Claudio Bertolotti (ITA), Introduzione del Direttore: I terrorismi tra pandemia, disagio sociale ed esaltazione jihadista

Claudio Bertolotti (ITA), Terrorismo jihadista in Europa: minaccia lineare in evoluzione e partecipazione individuale

Ahmed Ajil (ITA), Due decenni di processi per terrorismo. Una panoramica dei casi di cui si è occupato il Tribunale Penale Federale svizzero dall’11 settembre 2001

Claudio Bertolotti (ITA), Dall’Afghanistan, alla Siria, al Sahel: il virus di un “Nuovo Terrorismo Insurrezionale” (NIT). È rivoluzionario, sovversivo, utopistico e guarda a Occidente

Enrico Casini, Luciano Pollichieni (ITA), Califfi, traffici e malcontento: convergenze e prospettive del terrorismo jihadista in Africa Subsahariana

Michael Krona (ITA), Le comunità jihadiste online costruiscono i loro brand ed espandono l’universo terrorista creando nuove entità

Chiara Sulmoni (ITA), I nuovi orizzonti della radicalizzazione

Alessandra Lanzetti (ITA), Caso studio – I minori radicalizzati: il modello italiano, tra tutela della sicurezza e reinserimento sociale

Matteo Bressan (ITA), Il contributo europeo alla prevenzione del radicalismo violento nei Balcani Occidentali

Barbara Lucini (ITA), I TRA-I e i processi di radicalizzazione: considerazioni attuali e prospettive future

Mattia Caniglia (ITA), L’estremismo violento di destra nel 2021: una minaccia crescente per l’Europa?

Sarah Ibrahimi Zijno (ITA), Nuovi antisemitismi: principali fattori e tendenze dopo la pandemia

Luca Guglielminetti (ITA), Caso studio – Estremismo neonazista e de-radicalizzazione: il primo caso studio in Italia

Andrea Molle (ITA), Il complottismo dalla cultura pop alla militanza violenta: il pericolo NoVax

Marco Lombardi (ITA), Guerre future: la nuova centralità dell’intelligence e la ridefinizione dello spazio cibernetico

Andrea Carteny, Elena Tosti Di Stefano (ITA), Recensione – Understanding radicalisation, terrorism and de-radicalisation. Historical, socio-political and educational perspectives from Algeria, Azerbaijan and Italy. M. Brunelli (a cura di).


LIVE STREAMING- estremismo online, No-Vax e rischio sovversione, Tunisia, Afghanistan, competizione Cina-USA

Ogni settimana il team di START InSight commenta fatti d’attualità e temi all’ordine del giorno, segnala ricerche e letture, dialoga con ospiti esterni.

I temi di questa puntata
Aggiornamenti sulla lotta all’estremismo online (a cura di Chiara Sulmoni)
Fenomeno NO-VAX: esistono frange a rischio sovversione? (a cura di Andrea Molle)
Crisi politica e istituzionale in Tunisia (a cura di Claudio Bertolotti)
Afghanistan: i talebani ospiti del governo cinese (a cura di Claudio Bertolotti)
La Grande Strategia e il futuro della competizione USA-Cina,
presentazione dello studio di Niccolò Petrelli edito da START InSight con Europa Atlantica

Tunisia: colpo di stato fatto o prevenuto? (di Claudio Bertolotti)

Il congelamento delle attività parlamentari, la sospensione del governo e il licenziamento del primo ministro imposti dal Presidente Kais Saied il 25 luglio hanno aperto le porte ad una crisi politica e istituzionale che, a sua volta, affonda le radici in una profonda crisi economica, sanitaria e sociale che il governo sostenuto dal principale gruppo politico di maggioranza, il partito islamista Ennhada, non solo non ha saputo risolvere ma ha accentuato a causa di incapacità, accuse di corruzione e mancata promessa di un riassetto strutturale della macchina statale. Insomma, il governo tunisino si è dimostrato incapace e il malcontento generale nei confronti delle istituzioni è cresciuto portando il paese, e i suoi cittadini, al limite.

Saied ha così sospeso il parlamento concentrando a se più ampi poteri, così come previsto dall’art. 80 della costituzione tunisina, e lo ha fatto approfittando del crescente malcontento e sfiducia nei confronti delle forze politiche al potere – in primis Ennahda, ormai percepito da una parte della popolazione come un partito personale, conservatore e non riformatore oltre che pericolosamente legato ai “Fratelli musulmani” il cui progetto politico preoccupa molto i paesi dell’area mediterranea e che pericolosamente l’Europa ancora non coglie come minaccia sociale. Ennhada, prima intenzionata a reagire in maniera energica, ha poi optato per accettare lo stato delle cose in attesa delle prossime mosse politiche del presidente che, per prima cosa, dovrà procedere alla nomina del prossimo primo ministro.

In questa situazione sarebbe opportuno un intervento diretto dell’Unione Europea in termini di supporto alla Tunisia, al fine di prevenire qualunque deriva, certamente di natura politica, ma principalmente sociale.

Incontro Cina-talebani: quale sorpresa? (di Claudio Bertolotti)

L’incontro della delegazione talebana guidata dal mullah Baradar non è una sorpresa ma rientra in un consolidato percorso diplomatico che ha interessato informalmente la Cina e i talebani fin dall’inizio dell’occupazione statunitense. Nel maggio 2015 ha avuto luogo il primo incontro ufficiale tra le due parti e da allora le occasioni di dialogo si sono fatte sempre più numerose.

E questo perché, da un lato i talebani guardano agli attori regionali come partner e per un riconoscimento internazionale.

E dall’altro lato, i cinesi osservano l’Afghanistan con grande interesse per una serie di motivi e i talebani possono far sì che gli interessi cinesi siano tutelati oppure no. Quali sono i motivi per i quali i cinesi sono disposti a dialogare con i talebani?

Il primo è la ricerca cinese di un’area di influenza da sottrarre agli Stati Uniti e che, in un’ottica di competizione con l’India, consenta a pechino di avere una continuità territoriale che dal Pakistan all’Afghanistan consenta di creare un ponte commerciale diretto con l’Iran e la Russia.

Il secondo è un più ampio margine di manovra nella tutela degli interessi legati alla nuova via della seta che ha una diramazione in Pakistan e garantisce uno sbocco marittimo a sud: e un Afghanistan sicuro è una garanzia per gli investimenti cinesi.

Il terzo motivo è di sicurezza interna della Cina, legata alla politica repressiva della comunità musulmana uigura. Il rischio è che i talebani possano ospitare e incentivare i gruppi jihadisti uiguri ed è per questo che la Cina ha chiesto di agire con determinazione e in qualunque modo per eliminare i gruppi di uiguri presenti in Afghanistan, in particolare il gruppo ETIM.

Infine, il quarto è un motivo strategico di natura economica: la Cina detiene la maggior parte dei diritti estrattivi dal sottosuolo afghano e l’Afghanistan è una miniera a cielo aperto di minerali preziosi e minerali rari, strategicamente importanti per l’economia cinese che avrebbe accesso diretto a una ricchezza dal valore potenziale di 3 triliardi di dollari. Ma l’Afghanistan deve essere stabilizzato per consentire l’accesso cinese all’area, e qui entrano in gioco i talebani.

I talebani hanno garantito ai cinesi che l’Afghanistan non sarà utilizzato da gruppi per colpire altri stati. Ma sono gli stessi talebani che pochi mesi fa hanno garantito agli Stati Uniti che avrebbero cessato le violenze

per dialogare con il governo afghano. Non dobbiamo farci illusioni, ne essere sorpresi per l’interesse che i cinesi hanno per l’Afghanistan.


LIVE streaming. Parliamo di Afghanistan e QAnon

Il 15 luglio 2021 ha preso avvio il nuovo programma in LIVE streaming di START InSight. Ogni settimana commentiamo fatti d’attualità e temi all’ordine del giorno, segnaliamo letture e film, dialoghiamo con i nostri ospiti. Le dirette saranno in lingua italiana e inglese.

Nella prima puntata ci siamo occupati dell’Afghanistan, sul quale terremo accesi i riflettori in maniera permanente fino all’anniversario degli attentati dell’11 settembre, che hanno segnato in modo determinante la storia di questo paese negli ultimi venti anni, con l’avvio della lunga missione militare internazionale che volge adesso al termine. Avremo occasione di guardare da molte angolature diverse a questo paese che si trova davanti a una svolta importante, difficile e delicata.

Il nostro direttore Claudio Bertolotti, autore di Afghanistan Contemporaneo – Dentro la guerra più lunga (Ed. START InSight) ha fatto il punto di una situazione che si evolve rapidamente all’indomani della smobilitazione degli eserciti della coalizione internazionale, soffermandosi sul rischio di un ritorno alla guerra civile.

Il nostro Senior Research Fellow Andrea Molle dalla California ci ha aggiornato sull’evoluzione del movimento cospirazionista QAnon, che continua a preoccupare le agenzie di sicurezza americane, e sulla discussione attorno alla nuova strategia anti-terrorismo dell’amministrazione Biden.  


Audizione su fenomeni di estremismo violento di matrice jihadista. Commissione parlamentare – Affari Costituzionali

COMMISSIONE PARLAMENTARE  1 – AFFARI COSTITUZIONALI: AUDIZIONE  DI CLAUDIO BERTOLOTTI, DIRETTORE DI START INSIGHT

Alle ore 14 del 28 aprile 2021 la Commissione Affari costituzionali, nell’ambito dell’esame congiunto della proposta di legge recante “Misure per la prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo violento di matrice jihadista”, e della proposta di legge recante “Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sui fenomeni di estremismo violento o terroristico e di radicalizzazione di matrice jihadista”, ha svolto, in videoconferenza, l’audizione di Claudio Bertolotti, Direttore di START InSight e delll’Osservatorio sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo (ReaCT).

TRASCRIZIONE DELL’INTERVENTO

Presidente, Signore/i Onorevoli buon pomeriggio e grazie per questo invito

Seguo da tempo il dibattito su una legge per la prevenzione e il contrasto del terrorismo ideologico, e posso dire di aver ben analizzato e sostenuto la necessità dei testi di legge oggi in discussione:

Sulla base della mia esperienza, confermo, come già fatto in altre sedi, l’opportunità di proseguire nella direzione intrapresa dal Parlamento in tema di prevenzione e contrasto ritenendo quelle fatte, proposte coerenti con quello che è l’attuale quadro relativo al fenomeno della radicalizzazione, della manifestazione violenta di matrice jihadista e del terrorismo di matrice ideologica in senso più ampio.

E lo faccio focalizzando il mio contributo di pensiero sui numeri del terrorismo europeo:

Dei quasi 500 attacchi terroristici, compresi quelli falliti e sventati, registrati nell’Unione Europea il 63% sono attribuiti a gruppi separatisti ed etno-nazionalisti, il 16% a movimenti della sinistra radicale (in aumento, in particolare in Italia, paese più colpito), il 2,8% a gruppi di estrema destra (in diminuzione nel 2019; in aumento nel 2020), il 18% sono azioni di matrice jihadista. Sebbene gli atti riconducibili al jihadismo siano una parte marginale, sono però causa di tutte le morti per terrorismo nel 2019 e di 16 uccisioni nel 2020.

L’onda lunga del terrorismo in Europa, emerso con il fenomeno “Stato islamico” a partire dal 2014, ha fatto registrare 147 azioni in nome del jihad dal 2014 ad oggi: 189 i terroristi che vi hanno preso parte (59 morti in azione), 407 le vittime decedute e 2.421 i feriti (database START InSight).

Nel 2020 gli eventi sono stati 25, contro i 19 dell’anno precedente e con un raddoppio di azioni di tipo “emulativo”, ossia ispirate da altri precedenti attacchi nei giorni precedenti: sono il 48% del totale le azioni emulative nel 2020 (erano il 21% l’anno precedente). E ciò evidenzia il rischio di “reazioni a catena” che possono conseguire dalla condotta di singole azioni terroristiche.

Due gli aspetti rilevanti emersi dall’analisi dell’ultimo quadriennio:

1. Cresce il numero di terroristi recidivi – soggetti già condannati per terrorismo che compiono azioni violente a fine pena detentiva e, in alcuni casi, in carcere: dal 3% del totale dei terroristi nel 2018, al 7% (2) nel 2019, al 27% (6) nel 2020. Ciò conferma la pericolosità sociale di soggetti che, a fronte di una condanna detentiva, non abbandonano l’intento violento ma lo posticipano; un’evidenza che suggerisce l’aumento della probabilità di azioni terroristiche nei prossimi anni, in concomitanza con la fine della pena dei molti terroristi attualmente detenuti.

2. A fronte di una partecipazione al terrorismo di soggetti nati e cresciuti in Europa (prime e seconde generazioni e comunque immigrati regolari) del periodo 2014-2018, è stato verificato l’aumento del numero di immigrati irregolari tra i terroristi con ciò suggerendo un rischio potenziale di collegamento tra il terrorismo e l’aumento dei migranti irregolari. Nel 2020 il 20% dei terroristi sono immigrati irregolari. In Francia è aumentato il ruolo degli irregolari nella condotta di azioni terroristiche: se fino al 2017 nessuno degli attacchi era stato condotto da immigrati irregolari, nel 2020 il 40% dei terroristi è un irregolare.

Infine, una considerazione sulla minaccia emergente del terrorismo associato a gruppi di estrema destra e cospirazionisti:

La violenza ideologica associata alla destra radicale è un fenomeno che sta fermentando da tempo e che negli ultimi anni si è manifestato in maniera concreta, come dimostrano i fatti di Capitol Hill negli Stati Uniti e gli eventi secondari associati al movimento QANon che si sono imposti in molti paesi europei, compresa l’Italia. Ad oggi gli attacchi terroristici associati all’estrema destra rappresentano meno del 3% del totale ma con un aumento progressivo registrato negli ultimi due anni.

QAnon desta serie preoccupazioni tra gli analisti per la velocità con la quale si diffonde. Inoltre, come evidenziato dal Prof. Andrea Molle nelle sue analisi sul fenomeno, esso ha già mostrato negli Stati Uniti il potenziale per azioni di stampo terroristico. Si consiglia pertanto un monitoraggio dei social media associati a tale movimento in Italia e di stabilire una rete di collaborazioni con istituzioni pubbliche e private che già si occupano di questo fenomeno in Europa come negli Stati Uniti.

Insieme agli analisti dell’Osservatorio che dirigo, rimango a vostra disposizione.

fonte sito web della Camera dei Deputati – Parlamento Italiano