Articolo originale pubblicato su Osservatorio Strategico 1/2025 del Centro Alti Studi per la Difesa – Scuola Superiore Universitaria.
Abstract
L’articolo analizza le principali minacce alla sicurezza nazionale italiana attribuite alla Russia, con un focus su tre aree strategiche: cyber security, disinformazione e spionaggio. La Russia emerge come una delle principali sfide per l’Italia in ambito informatico, grazie alla sua capacità di condurre attacchi mirati volti a ottenere informazioni sensibili o a interferire con le infrastrutture critiche. Parallelamente, l’uso sistematico della disinformazione da parte di Mosca rappresenta uno strumento per influenzare l’opinione pubblica e le decisioni politiche in Italia, sfruttando social media e media tradizionali per diffondere contenuti falsi o manipolati. Il tema dello spionaggio si inserisce nel quadro di cooperazioni bilaterali come l’operazione “Dalla Russia con amore” del 2020, durante la quale sono emersi rischi legati alla raccolta di informazioni sensibili sotto il pretesto di assistenza sanitaria. Questo aspetto si collega a casi emblematici come l’arresto di Walter Biot, ufficiale della Marina militare italiana, accusato di spionaggio a favore della Russia. L’articolo sottolinea la necessità di strategie di contrasto multidimensionali per fronteggiare queste minacce, combinando tecnologie avanzate, cooperazione internazionale e rafforzamento della resilienza istituzionale.
Situazioni di emergenza, crisi e vulnerabilità: il terreno ideale per l’emergere di nuove minacce.
Le dinamiche delle relazioni
internazionali e le politiche globali incidono profondamente sulla competizione
tra attori statali e non statali, influenzando i settori politico, sociale ed
economico. L’assertività dimostrata da alcuni Paesi nell’arena internazionale
sta contribuendo, inoltre, a ridefinire gli equilibri di potere sia a livello
regionale che globale. Fenomeni come l’emergenza pandemica da Covid-19, il
conflitto tra Russia e Ucraina e la crisi energetica stanno già lasciando
un’impronta destinata a perdurare a lungo, sia per l’Italia che per molte altre
nazioni, con effetti significativi in ambito economico e sociale.
La pandemia da Covid-19 ha
messo a dura prova l’Italia, evidenziando vulnerabilità sistemiche e criticità
latenti. Essa ha generato una crisi sanitaria senza precedenti, con un
incremento esponenziale dei contagi e dei decessi, oltre a un sovraccarico del
sistema sanitario. A ciò si è aggiunta una crisi economica e sociale, caratterizzata
da un aumento della disoccupazione e da una contrazione dei consumi,
conseguenze dirette delle misure restrittive come i lockdown, che hanno portato alla chiusura di numerose attività
produttive.
Prima che gli impatti della
pandemia potessero essere completamente assorbiti, il 24 febbraio 2022 è
scoppiato il conflitto in Ucraina, avviato dall’invasione russa. Questa guerra
ha innescato una nuova crisi economica, aggravata dall’aumento dei costi delle
materie prime e dalla riduzione dei flussi commerciali. Parallelamente, ha
provocato una crisi politica internazionale, con l’introduzione di sanzioni
contro la Russia e complicazioni nell’approvvigionamento energetico per molti
Paesi europei.
La crisi energetica che ne è
derivata ha ulteriormente peggiorato il quadro economico, determinando un
ulteriore incremento dei prezzi delle risorse primarie e difficoltà di accesso
all’energia. Questi fattori hanno avuto un impatto diretto sull’economia
italiana, riducendo la competitività delle imprese nazionali. Questo contesto
evidenzia la complessità delle relazioni internazionali e la volatilità dei
rapporti tra alleati e rivali, sottolineando l’imprevedibilità di eventi capaci
di ostacolare l’accesso alle risorse energetiche, condizionandone disponibilità
e prezzi. Tali dinamiche hanno ripercussioni significative sui piani sociale,
politico ed economico, rendendo indispensabile una gestione attenta e
strategica di questi fenomeni globali (Bertolotti, 2023).
Minacce emergenti per la sicurezza dell’Italia e capacità della Russia (e sue linee d’azione).
La sicurezza e la difesa dell’Italia sono
messe a rischio da una serie di minacce emergenti, che si manifestano in vari
ambiti in relazione al contesto globale. Tra queste, il cybercrime rappresenta una delle sfide più rilevanti. Con la
crescente dipendenza dalle tecnologie digitali, le infrastrutture critiche e le
imprese italiane diventano bersagli sempre più vulnerabili ad attacchi
informatici. Tali attacchi, spesso condotti attraverso metodi sofisticati,
mirano a sottrarre informazioni sensibili o compromettere sistemi, causando
danni significativi. La Russia, in particolare, è considerata una delle
principali fonti di queste minacce, utilizzando il cyberspazio per attività di
spionaggio e interferenza sulle infrastrutture strategiche.
Un ulteriore rischio è rappresentato
dallo spionaggio industriale, che colpisce i
settori d’eccellenza del sistema produttivo italiano e il know-how nazionale.
In un contesto di competizione globale, settori come l’automotive,
l’aerospazio, la difesa e l’energia risultano particolarmente esposti a tali
pratiche. Le tecnologie avanzate e le innovazioni di punta diventano obiettivi
di attacchi mirati, con conseguenze strategiche per la competitività del Paese.
Anche il sistema
sanitario nazionale è vulnerabile. Gli attacchi informatici contro questo
settore possono compromettere la fornitura di servizi essenziali, mettere a
rischio i dati personali di pazienti e operatori, e generare perdite economiche
significative per le strutture sanitarie. Queste azioni possono avere un
impatto devastante sulla salute pubblica, aggravando ulteriormente situazioni
di emergenza.
La disinformazione
e propaganda costituiscono un’altra minaccia emergente, con la capacità
di manipolare l’opinione pubblica attraverso la diffusione di notizie false o
distorte. Social media e media tradizionali sono spesso usati per creare
confusione e incertezza, influenzando le decisioni politiche e ostacolando la
gestione di crisi. In un contesto già fragile, segnato dagli effetti della
pandemia e della crisi energetica, tali dinamiche possono amplificare le
divisioni sociali, minando la stabilità e la coesione nazionale.
La crisi
energetica, inoltre, si configura come una minaccia significativa. La
dipendenza dalle risorse esterne e l’aumento dei prezzi delle materie prime
hanno un impatto diretto sull’economia italiana e sulla competitività delle
imprese, rendendo più complessa la gestione delle emergenze e il processo
decisionale delle autorità (Bertolotti, 2023).
Il ruolo della Russia.
La Russia si posiziona come uno degli attori principali nello scenario delle minacce emergenti per l’Italia. Grazie a una vasta capacità nel campo degli attacchi informatici, Mosca utilizza tecnologie avanzate per condurre azioni di hacking, impiegare malware sofisticati e sfruttare tecniche di phishing e ingegneria sociale. Questi strumenti, spesso supportati da gruppi APT (Advanced Persistent Threat) collegati al governo russo, permettono di interferire con sistemi protetti e ottenere informazioni strategiche.
In ambito geopolitico, la Russia ha sviluppato un approccio integrato alla comunicazione strategica e alla diplomazia digitale. Come descritto dal presidente Vladimir Putin nel 2012, il soft power viene utilizzato per perseguire obiettivi di politica estera senza ricorrere direttamente a strumenti militari. Organizzazioni come il “Russian World” e il “Gorchakov Fund of Public Diplomacy”, insieme all’Agenzia Rossotrudnichestvo, sono attori chiave di questa strategia, operando attraverso la diffusione di informazioni mirate e narrative alternative sui social network.
Durante la pandemia da Covid-19, la
Russia ha intensificato il proprio impegno propagandistico attraverso l’invio
di aiuti umanitari a vari Paesi, tra cui l’Italia. Tali iniziative, veicolate
attraverso una comunicazione mirata sui social media, sono state utilizzate per
consolidare la propria influenza a livello internazionale. Questo approccio ha
permesso al Cremlino di guadagnare consenso in regioni strategiche come i
Balcani, il Medio Oriente e l’America Latina, oltre che all’interno dell’Unione
Europea.
La combinazione di disinformazione,
propaganda e capacità cyber rende la Russia un attore centrale nelle dinamiche
delle minacce emergenti, con impatti significativi sulla sicurezza e sulla
stabilità globale. Per l’Italia, affrontare queste sfide richiede strategie
coordinate e mirate, capaci di tutelare le infrastrutture critiche, proteggere
la coesione sociale e rafforzare la resilienza nazionale.
Invitare la spia in casa: l’Operazione “Dalla Russia con amore”. Un’analisi delle dinamiche e implicazioni.
Durante le fasi iniziali
della pandemia di Covid-19, il 7° Reggimento di difesa chimica, biologica,
radiologica e nucleare “Cremona” (CBRN) dell’Esercito Italiano fu coinvolto,
tra marzo e maggio 2020, in attività di sanificazione e decontaminazione.
Questo impegno includeva il supporto ai centri di accoglienza per persone
provenienti dall’estero e la sanificazione di oltre 180 strutture in Lombardia.
A queste operazioni partecipò un contingente russo inviato nell’ambito
dell’operazione “Dalla Russia con amore”, che portò alla formazione
di 9 task force miste italo-russe (Senato della Repubblica, Doc. CLXIV n. 31,
p. 85). L’intervento, inizialmente concentrato nella provincia di Bergamo,
evidenziò vulnerabilità legate alla raccolta di informazioni da parte di attori
esterni, con il rischio che l’aiuto offerto fosse usato come pretesto per
penetrare il perimetro di sicurezza nazionale.
La missione russa vide il coinvolgimento di 104 operatori, tra cui i due epidemiologi di spicco Natalia Y. Pshenichnaya e Aleksandr V. Semenov. La presenza russa, tuttavia, fu oggetto di limitazioni: il contributo iniziale previsto di 400 operatori fu ridotto a 100 per decisione dell’allora ministro della Difesa, Lorenzo Guerini. Inoltre, il generale Luciano Portolano, comandante del Comando Operativo di Vertice Interforze, respinse richieste di estendere le operazioni russe a siti strategici come basi militari e uffici governativi, tra cui la base di Ghedi (Brescia), utilizzata dalla NATO, limitandole ad ospedali e case di cura. Durante queste attività, i russi tentarono più volte di raccogliere campioni di virus e offrirono incentivi economici a ricercatori italiani per ottenere dati scientifici. Un esempio significativo fu l’offerta di 250mila euro a un dirigente dell’ospedale Spallanzani di Roma, che favorì il vaccino russo “Sputnik” a scapito del progetto italiano “Reithera” (Jacoboni, 2022).
Il Contesto e le Controversie.
L’accordo tra il presidente russo Vladimir Putin e il presidente del consiglio italiano Giuseppe Conte fu raggiunto telefonicamente il 21 marzo 2020. Tuttavia, l’intervento russo, percepito come una forma di “assegno in bianco” da parte dell’Italia, fu attuato in modo non coordinato, senza consultare adeguatamente il governo italiano. Il contributo russo includeva esperti militari, specialisti in minacce biologiche e chimiche, e unità tecniche per lo studio di agenti patogeni, ma mancavano dispositivi per il rilevamento specifico del Covid-19.
Le aree selezionate dai russi
per la sanificazione sollevarono preoccupazioni: molti dei siti erano vicini a
infrastrutture sensibili come basi NATO contenenti arsenali nucleari. Questi
fattori portarono il governo italiano a interrompere prematuramente
l’operazione, considerandola un potenziale rischio per la sicurezza nazionale.
Ruolo degli epidemiologi russi
Un elemento di rilievo fu la
presenza non autorizzata dei due epidemiologi russi, Pshenichnaya e Semenov,
entrambi operativi presso la Rospotrebnadzor, l’ente russo responsabile della
gestione della pandemia. I due avevano precedentemente lavorato a Wuhan e
dichiararono che l’obiettivo della loro missione era acquisire esperienza sulle
modalità di gestione del Covid-19 adottate in altri Paesi. Tuttavia, due mesi
dopo la loro partenza dall’Italia, pubblicarono un report critico sulla
gestione italiana della pandemia (Santarelli, 2022), alimentando dubbi sul reale
scopo della loro presenza (Bertolotti, 2023).
Considerazioni finali
L’operazione “Dalla
Russia con amore” solleva interrogativi sulla gestione di aiuti
internazionali in contesti di emergenza e sui rischi connessi alla sicurezza
nazionale. Mentre l’intervento russo fu ufficialmente presentato come un
contributo umanitario, molteplici azioni suggeriscono che potesse servire anche
come strumento per raccogliere informazioni strategiche e consolidare
l’influenza geopolitica di Mosca. Queste dinamiche sottolineano l’importanza di
un coordinamento rigoroso e di un’attenta valutazione dei rischi legati alla
cooperazione internazionale in situazioni di crisi.
Analisi dell’operazione russa in Italia: una strategia di guerra ibrida
L’intervento militare russo in Italia durante la
pandemia di Covid-19 rappresenta un esempio pratico dell’applicazione della
cosiddetta “guerra ibrida,” utilizzata da Mosca per ottenere un
vantaggio strategico temporaneo nel contesto dell’emergenza sanitaria globale
(Santarelli, 2022). A differenza della Cina, che si limitò a fornire consulenza
tramite videoconferenze, l’Italia accolse e offrì ampia libertà di azione ai
militari russi. Questo permise loro di raccogliere preziose informazioni sulla
gestione e diffusione del virus, informazioni che furono sfruttate per una
campagna di propaganda sia interna che internazionale, inclusa la promozione
del vaccino russo “Sputnik V.”
L’operazione russa sembrava perseguire tre obiettivi
principali. Primo, l’acquisizione di informazioni strategiche attraverso
attività di spionaggio, con l’obiettivo di sviluppare una strategia di gestione
della pandemia basata sulle conoscenze acquisite in Italia. Secondo, la
propaganda interna ed esterna, finalizzata a esaltare i progressi della Russia
e a promuovere l’adozione del vaccino “Sputnik” da parte di altri
Paesi, inclusa l’Italia. Terzo, una campagna di “guerra informativa”
volta a screditare la gestione italiana della crisi sanitaria, attraverso il
contributo e le dichiarazioni di autorevoli epidemiologi russi.
Implicazioni per la Sicurezza Nazionale
L’operazione “Dalla Russia con amore”
evidenzia la necessità di valutare attentamente le implicazioni per la
sicurezza nazionale in situazioni di emergenza. Questo caso offre un esempio
concreto di come attori esterni possano sfruttare contesti critici per
infiltrare le loro reti di intelligence, raccogliere dati strategici o
penetrare sistemi di sicurezza nazionale. In nome di una presunta assistenza
umanitaria, tali operazioni possono minare la stabilità interna e rafforzare
l’influenza geopolitica di Paesi terzi.
L’esperienza italiana dimostra l’importanza di
mantenere un controllo rigoroso e di definire limiti chiari nelle
collaborazioni internazionali in situazioni emergenziali, al fine di prevenire
rischi per l’integrità e la sicurezza dello Stato (Bertolotti, 2023).
Bibliografia
Bertolotti, C. (2023). Le minacce emergenti per l’Italia e il ruolo
della Russia (cyber, sanitaria, disinformazione, spionaggio), in “La Russia
nel contesto post-bipolare (RUSPOL). I rapporti con l’Europa tra competizione e
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della Repubblica (2020), XVIII Legislatura, Doc. CLXIV n. 31, “Relazione sullo stato della spesa,
sull’efficacia nell’allocazione delle risorse e sul grado di efficienza
dell’azione amministrativa svolta dal ministero della Difesa, corredata del
rapporto sull’attività di analisi e revisione delle procedure di spesa e
dell’allocazione delle relative risorse in bilancio”, p. 85.
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Diplomacy: From Soft Power to Strategic Communication. Journal of Political Marketing, 20(1), 50-59.
L’inimmaginabile: Lutnick, Trump e la sfida delle tariffe per rifondare l’America
di Melissa de Teffé dagli Stati Uniti esperta di politica USA accreditata presso il Dipartimento di Stato per START InSight
THE BLITZKRIEG – LA GUERRA LAMPO È di questi giorni un sondaggio della NBC che rileva la percentuale di gradimento e non del presidente Trump. Sicuramente ha registrato il più alto consenso mai raggiunto durante i suoi due mandati, con una media del 47% di americani che approva il suo operato e il 44% che ritiene che il Paese stia procedendo nella giusta direzione. Un record personale per Trump.
Ma nonostante questi dati incoraggianti, la maggioranza degli americani continua a non sostenerlo, rendendo il suo indice di gradimento complessivamente negativo. Trump aveva iniziato la sua presidenza con un bilancio positivo, ma nelle ultime settimane la percentuale di consensi è tornata lentamente a ridursi e, e anche con l’attuale picco di popolarità, Trump rimane comunque il presidente meno apprezzato della storia moderna americana, rispetto a qualsiasi altro presidente nello stesso periodo iniziale. Mentre i consensi per il presidente Trump sono in calo, il Partito Democratico tenta di affrontare una crisi di popolarità ancora più grave: solo il 27% degli elettori registrati ha attualmente un’opinione positiva dei Democratici, a fronte del 55% che esprime giudizi negativi. È il livello più basso mai raggiunto dal partito, dove il 38% degli intervistati dichiara addirittura una visione “estremamente negativa”.
Guardando i numeri al Congresso: i repubblicani detengono attualmente una maggioranza di 53-47 al Senato, mentre alla Camera detengono una maggioranza di 218-213, piccoli margini che hanno obbligato Trump a ritirare e quindi dover ripensare alla nomina ad ambasciatore presso le Nazioni Unite, di Alice Stefanick, deputata per lo Stato di New York. Ecco perché i primi cento giorni sono cruciali, non solo per poter usufruire del minimo risicato di maggioranza (qualsiasi Executive Order presidenziale deve essere approvato dal Congresso), ma anche per dimostrare che quanto promesso in campagna elettorale è vero e quindi aumentare il consenso del pubblico.
I NUMERI Tralasciando le teatralità, parliamo di economia che è alla base di quasi tutte le decisioni politiche ad oggi prese per il paese. Gli Stati Uniti sono il Paese più ricco al mondo, con un bilancio annuale di 6.500 miliardi di dollari ed entrate per 4.500 miliardi, il che genera una perdita annuale di circa 2.000 miliardi. Con un PIL di 29.000 miliardi di dollari e un debito complessivo di 36.000 miliardi, gli USA possono però contare su un valore patrimoniale stimato tra i 500 e i 1.000 trilioni di dollari, un patrimonio che li rende estremamente solidi dal punto di vista economico.
“Secondo questa visione, non sarebbe
necessario ridurre nemmeno di un centesimo i fondi destinati ai cittadini che
hanno realmente diritto ai benefici sociali, come la previdenza (Social
Security), Medicaid o Medicare. La vera sfida sarebbe invece quella di
eliminare le inefficienze, smettendo di inviare denaro pubblico a chi
approfitta del sistema assistenziale, ad esempio persone che ricevono assegni
di invalidità per decenni pur svolgendo altre attività lavorative. In sintesi,
gli Stati Uniti dovrebbero semplicemente iniziare a monetizzare e sfruttare in
modo efficace i propri immensi asset per ristabilire la responsabilità fiscale”, racconta Lutnick, il neoeletto
Segretario del Dipartimento per il commercio.
HOWARD LUTNICK Ma chi è Lutnick? Howard Lutnick è un imprenditore di origini ebraiche noto principalmente come presidente e amministratore delegato della Cantor Fitzgerald, nota per essere una delle principali società di servizi finanziari a livello globale, oggi con oltre 12.500 dipendenti distribuiti in più di 60 uffici in 20 paesi. Riconosciuta come uno dei 24 operatori primari autorizzati a negoziare titoli di Stato con la Federal Reserve Bank di New York, occupava gli ultimi cinque piani di una delle Torri Gemelle quando, l’11 settembre 2001, fu tragicamente colpita dagli attentati terroristici, in cui morirono 658 dipendenti, inclusi il fratello Gary, e il suo migliore amico, Doug. Cantor Fitzgerald guadagnava circa un milione di dollari al giorno, ed era stata costruita sulla filosofia di assumere persone attraverso il passaparola dei dipendenti stessi, creando così un ambiente di lavoro coeso e motivato. Dopo la tragedia, il chairman Lutnick decise di aiutare economicamente tutte le famiglie delle vittime, donando il 25% degli utili aziendali. Nonostante l’impatto devastante, Lutnick è riuscito a ricostruire la società, principalmente grazie alla totale assenza di debiti. Questa sua esperienza di gestione delle crisi e il suo approccio pragmatico lo hanno reso una figura nota al pubblico, anche fuori dal settore finanziario.
Nel 2023 Trump, che lui chiama
simpaticamente DJT, gli chiede di affiancarlo per risanare il debito pubblico
americano. Lutnick, fino a quel momento non coinvolto nella politica, accetta,
decidendo di impegnarsi personalmente e finanziariamente. Lutnick affronta
l’incarico con sistematicità, studia, legge, s’informa su ogni dettaglio che
spieghi il funzionamento della Casa Bianca, le politiche commerciali in essere
e delinea così le strategie finanziarie necessarie per equilibrare il bilancio
federale.
PRIMA IDEA – DOGE Da imprenditore, decide di focalizzarsi su come risanare il bilancio federale, in particolare su una revisione approfondita della spesa pubblica, che è pari a circa quattro trilioni di dollari l’anno. Lutnick è certo che non essendoci mai stata verifica, almeno il 25% di queste spese potrebbero essere ridotte semplicemente eliminando errori o frodi, per un risparmio stimato di circa un trilione di dollari annuo. Inoltre, Lutnick ritiene possibile generare un ulteriore trilione di dollari attraverso nuove entrate, come i dazi doganali. È lui che decide di coinvolgere Elon Musk nel progetto, ed è lui che inventa l’acronimo DOGE (Department of Government Efficiency). Musk, la cui rapidità di azione e i cui tagli drastici una volta acquisito Twitter sono noti, accetta con entusiasmo, suggerendo una riduzione fino all’80% della forza lavoro governativa, paragonando la situazione del governo federale alla sua esperienza. Lutnick presenta DOGE come una fornitura gratuita di strumenti e tecnologie innovative al governo, senza dover passare per le tradizionali procedure burocratiche.
SECONDA IDEA – I DAZI DOGANALI Storicamente, fino al 1913 gli Stati Uniti non avevano imposte sul reddito e questa tassazione viene introdotta per finanziare lo sforzo bellico per la Prima Guerra Mondiale. In seguito dopo la Grande Depressione e la Seconda Guerra Mondiale, Truman con il Piano Marshall (1948), decide consapevolmente di abbassare i propri dazi doganali per favorire la ripresa economica degli altri Paesi devastati dal conflitto, accettando che questi ultimi imponessero tariffe elevate sui prodotti statunitensi. Tuttavia, secondo Lutnick, “ci siamo dimenticati che questa era una strategia temporanea e l’abbiamo mantenuta anche quando non era più necessaria”. Esemplare è il caso del Kuwait, (qui tutti ricordano ancora la storia di Red Adair, eroe americano, il ‘pompiere’ dei pozzi petroliferi), che dopo essere stato liberato grazie all’aiuto militare con una spesa di cento miliardi di dollari, è il paese che, da allora, ha imposto le tariffe in assoluto più alte.
In questo contesto, Donald Trump emerge come l’unico politico americano ad aver compreso profondamente la necessità di cambiare rotta e inserisce sempre grazie a Lutnick un aspetto umano, perché il nonno di quest’ultimo lavorava nell’industria automobilistica, in stabilimenti situati nel Midwest. “Grazie a questi lavori, intere generazioni di operai come loro potevano godere di una vita stabile e dignitosa”. – “In tanti ricordano gli accordo NAFTA creati da Clinton, che permisero alle grandi aziende americane di trasferire le loro fabbriche in Messico, causando una devastante perdita di lavoro e dignità per intere generazioni di operai soprattutto nell’industria automobilistica del Midwest. È per difendere proprio queste persone, che Trump sostiene con convinzione la politica di reintrodurre tariffe adeguate, proteggendo così i lavoratori americani e favorendo il ritorno della produzione negli Stati Uniti”. Secondo Lutnick, il concetto di commercio internazionale realmente “libero ed equo” non esiste, poiché ogni Paese protegge il proprio mercato con tariffe doganali, come ad esempio l’India, che applica una tariffa media del 50%, mentre gli Stati Uniti restano fermi ad appena il 4%. Anche la Cina è un esempio significativo: pur essendo una grande economia con un PIL di circa 10 trilioni di dollari, consuma principalmente i propri prodotti e applica alte tariffe ai beni importati, limitando fortemente l’accesso ai mercati esteri.
TARIFFE Rispondendo alla preoccupazione che le tariffe possano causare inflazione, Lutnick precisa che quest’ultima deriva principalmente dall’aumento della quantità di moneta in circolazione, e non dalle tariffe in sé. La critica comune degli economisti secondo cui le tariffe porterebbero all’inflazione e alla recessione è, per Lutnick, basata su un contesto teorico di scambi liberi ed equi, che in realtà non esiste. Pur riconoscendo che alcuni prodotti importati possono diventare più costosi a causa delle tariffe, Lutnick afferma che ciò equivale semplicemente a una tassa sui consumi e non genera inflazione generalizzata. L’obiettivo centrale delle politiche tariffarie di Trump è infatti riportare la produzione negli Stati Uniti – reshoring – creando posti di lavoro più qualificati e meglio retribuiti. Già nelle prime settimane della nuova amministrazione Trump, aziende come TSMC hanno investito circa 2 trilioni di dollari in nuovi impianti produttivi sul territorio per evitare le nuove tariffe.
Ad oggi ecco l’elenco delle
principali aziende che hanno annunciato importanti investimenti in nuovi
stabilimenti produttivi negli Stati Uniti, con i relativi importi:
Apple: Ha annunciato nel febbraio 2025 un
investimento complessivo di oltre 500 miliardi di dollari nei prossimi
quattro anni, in settori come l’intelligenza artificiale e l’ingegneria dei
semiconduttori.
Hyundai Motor Group: Nel marzo 2025 ha comunicato
investimenti pari a circa 21 miliardi di dollari, inclusa la costruzione
di una nuova acciaieria da 5,8 miliardi in Louisiana.
TSMC (Taiwan Semiconductor): Sta investendo circa 100
miliardi di dollari per espandere la capacità produttiva negli Stati Uniti,
concentrandosi sulla produzione di semiconduttori.
Eli Lilly and Company: Ha deciso di raddoppiare gli
investimenti negli stabilimenti americani, portandoli a 1,7 miliardi di
dollari, con nuovi impianti in North Carolina e Indiana.
Meta Platforms: Ha annunciato un investimento di 10
miliardi di dollari per la costruzione del suo più grande data center,
situato in Louisiana.
Samsung Electronics: Ha confermato la realizzazione di
una fabbrica di semiconduttori in Texas, con un investimento pari a 17
miliardi di dollari, prevista operativa dalla seconda metà del 2024.
Intel: Ha pianificato investimenti
iniziali di circa 20 miliardi di dollari per la realizzazione di nuove
fabbriche di semiconduttori in Ohio, con possibilità di espansione fino a 100
miliardi.
Micron Technology: Ha annunciato la costruzione di un
nuovo stabilimento produttivo di semiconduttori nello stato di New York con un
investimento iniziale di 20 miliardi di dollari, potenzialmente
espandibile a 100 miliardi in due decenni.
Texas Instruments: Ha avviato investimenti che
potrebbero raggiungere i 30 miliardi di dollari per nuovi impianti
produttivi di semiconduttori in Texas.
Wolfspeed: Nel settembre 2022, ha annunciato
un investimento di circa 1,3 miliardi di dollari per realizzare la più
grande fabbrica al mondo di semiconduttori al carburo di silicio, situata in
North Carolina.
Infine, Lutnick riconosce che esiste una gamma limitata di
prodotti altamente tecnologici e specializzati, come alcune attrezzature per
semiconduttori prodotte da ASML, che non potranno essere prodotte facilmente
negli Stati Uniti per almeno altri cinque o sei anni. Per queste specifiche
categorie, suggerisce quindi di adottare soluzioni più mirate e flessibili,
riconoscendo la necessità di un approccio tariffario più equilibrato per tali
settori strategici.
Gli Stati Uniti sono la principale economia consumatrice
globale, con un PIL di 29 trilioni di dollari, di cui ben 20 trilioni
rappresentano acquisti effettuati dagli americani stessi. Questo rende
l’America il principale cliente mondiale, essenziale per l’economia globale. Di
conseguenza, gli altri paesi, che dipendono dal mercato statunitense,
dovrebbero pagare tariffe per accedervi. Introducendo tariffe sui prodotti
esteri, l’America potrebbe generare nuove entrate che permetterebbero al
governo federale di ridurre le tasse interne per i cittadini americani. Questa
nuova entrata esterna viene chiamata ironicamente da Lutnick “External
Revenue Service”, (il fisco americano si chiama Internal Revenue
Service), un’idea che ha presentato personalmente a Trump e che è stata
accolta con entusiasmo. Lutnick vede in questo meccanismo un ritorno alla
prosperità economica americana precedente al 1913, quando il paese prosperava
attraverso tariffe, senza tasse sul reddito. Infine, abbassando le tasse
interne, il costo effettivo del lavoro diminuirebbe, poiché i lavoratori
sarebbero più motivati se gli stipendi fossero esentasse. Questa strategia
potrebbe migliorare significativamente la competitività economica degli Stati
Uniti e la qualità della vita dei suoi lavoratori.
Ma l’altra grande novità che con
probabilità verrà istituita è l’introduzione di un nuovo sistema software per
gestire le tariffe doganali: Lutnick vuole creare un sistema tecnologico
avanzato basato sull’intelligenza artificiale (AI), progettato per automatizzare
e semplificare radicalmente il processo di riscossione dei dazi doganali negli
Stati Uniti. Il sistema funzionerà in questo modo:
Identificazione automatica del
prodotto: Utilizzando tecnologie avanzate come il
riconoscimento fotografico e l’intelligenza artificiale, il software sarà in
grado di identificare rapidamente ogni prodotto importato, semplicemente
analizzando un’immagine della merce.
Calcolo automatico delle tariffe:
Una volta identificato il prodotto, il sistema consulterà
automaticamente un database aggiornato per determinare la tariffa doganale
appropriata da applicare, secondo la categoria merceologica e le regole
commerciali vigenti.
Misurazione precisa del peso:
Il sistema includerà bilance estremamente accurate, in grado di misurare
il peso del prodotto con grande precisione (fino a 13 cifre decimali, come
avviene per l’oro). Questo metodo assicurerà che non vi siano errori nel
calcolo del peso e, di conseguenza, nelle tariffe applicate.
Eliminazione delle verifiche manuali:
Grazie all’accuratezza dell’identificazione automatizzata e alla
precisione delle bilance, non sarà più necessario aprire fisicamente i pacchi
per verificare il contenuto, riducendo enormemente i tempi e aumentando
l’efficienza.
Collaborazione con aziende
tecnologiche: Lutnick ha già
ottenuto l’impegno gratuito da parte delle principali aziende tecnologiche
americane (tra cui Google, Amazon, Microsoft ed Elon Musk con le sue società)
per sviluppare questo software. Queste aziende contribuiranno volontariamente,
riconoscendo il vantaggio strategico di sviluppare tecnologie che, se adottate
dagli Stati Uniti, potranno essere successivamente esportate in tutto il mondo.
In sintesi, questo sistema mira a
rivoluzionare la gestione delle tariffe doganali, rendendo il processo più
rapido, accurato e sicuro, aumentando contemporaneamente gli introiti per gli
Stati Uniti, eliminando inefficienze e riducendo drasticamente le possibilità
di frodi ed errori amministrativi.
L’annuncio di tariffe del 25% sulle auto importate ha provocato reazioni negative nei mercati finanziari globali, con gli analisti che prevedono un aumento dei prezzi e una possibile stagnazione della produzione. Inoltre, la volatilità dei mercati riflette l’incertezza generata da queste misure protezionistiche, con gli investitori che mettono in dubbio la sostenibilità di tali politiche nel lungo termine. Secondo un articolo del Wall Street Journal, l’imposizione di nuovi dazi su acciaio e alluminio ha significativamente perturbato le catene di approvvigionamento manifatturiere, aumentando i costi sia per i prodotti importati che per quelli domestici. I dirigenti del settore manifatturiero hanno espresso preoccupazione, evidenziando che gli Stati Uniti non dispongono di una capacità produttiva sufficiente per materiali come fili di acciaio, viti e altri elementi di fissaggio. WSJ
Concludendo, se l’espansione delle guerre commerciali ha portato a un aumento delle misure protezionistiche a livello globale, rallentando la crescita economica e indebolendo la cooperazione internazionale, tuttavia non l’ha annullata. Chissà che questa strategia non rimanga solo un esercizio solitario, ma venga adottata anche da altri paesi nel tentativo di trovare soluzioni al debito pubblico, risollevando le rispettive economie..?
La telefonata Trump-Zelensky sulla pace in Ucraina: leggiamo tra le righe
di Claudio Bertolotti.
Dall’intervista a “Effetto Notte” – Radio24, ospite di Roberta Giordano (puntata del 19 marzo 2025).
La dichiarazione al termine della conversazione telefonica è stata concordata e allineata, una copia l’una dell’altra. Dalla convergenza sulla riconosciuta importanza degli incontri negoziali di Gedda alla decisione di accettare un cessate il fuoco incondizionato, il che equivale a cedere alla Russia. Quello di un’Ucraina provata dei territori conquistati da Mosca è lo scenario che prospettiamo da almeno due anni ma di cui si è preferito non parlare prediligendo una narrazione ideale e non realistica volta alla liberazione dell’Ucraina tout court. Purtroppo.
C’è una differenza sottile però nelle dichiarazioni di
Washington e Kiev: Zelensky
ha ribadito la necessità di rinforzare la difesa contraerea. Trump ha
concordato su questa necessità, evidenziando
però che farà il possibile per trovare in Europa la risposta a tale necessità.
Dunque passando la palla agli europei, o quantomeno richiamando l’UE a un ruolo
che, a parole, pretende ma che nella pratica ha giocato Washington fo dal
principio. Forse non in termini economici, ma certamente in termini di
forniture materiali di armi ed equipaggiamenti. Inoltre, Zelensky non l’ha
fatto, Trump si, è stata ventilata l’ipotesi di un passaggio di proprietà del
settore energetico ucraino a favore di aziende statunitensi. Interessante, poiché
questo potrebbe essere un limite all’eventuale aggressiva pretesa futura da
parte di Mosca.
Di fatto l’Ucraina ha incassato il colpo piegandosi alla
volontà statunitense, non potendo fare altrimenti e non essendoci una reale
alternativa.
Dunque l’opzione che si prospetta all’orizzonte è quella di un’Ucraina ridimensionata, territorialmente, in termini di risorse naturali, e privata di un eventuale possibilità di inclusione all’interno dell’Alleanza atlantica, ma non dell’Unione europea: un’opzione che, però, sarebbe molto vantaggiosa per la Russia che, nell’Europa, non intravede un baluardo invalicabile.
Il dilemma della difesa europea: perché PESCO e altre iniziative non riescono mai a dare risultati
di Andrea Molle, dagli Stati Uniti.
L’Unione Europea ha sempre
aspirato a rafforzare la sua sicurezza collettiva e l’autonomia strategica.
Negli ultimi anni, iniziative come la Cooperazione Strutturata Permanente
(PESCO), il Fondo europeo per la difesa (EDF) e la Revisione annuale coordinata
sulla difesa (CARD) sono state lanciate per potenziare le capacità di difesa
europee. Tuttavia, queste iniziative, pur essendo simbolicamente significative,
non sono riuscite a dare all’Europa un framework per la sicurezza coerente ed
efficace. Con l’aumento delle tensioni geopolitiche, in particolare con una
Russia sempre più aggressiva e l’instabilità in corso in Medio Oriente e Nord
Africa, è giunto il momento per l’Europa di riconoscere i difetti fondamentali
nel suo attuale approccio alla difesa e considerare soluzioni più radicali.
Ad oggi, la Cooperazione
Strutturata Permanente (PESCO) continua a essere il quadro di riferimento dell’Unione
Europea per approfondire la collaborazione in ambito difensivo tra i suoi Stati
membri. Dalla sua creazione nel 2017, PESCO si è estesa includendo oggi 26
paesi che lavorano collettivamente su 68 progetti volti a migliorare le
capacità militari e l’interoperabilità. Nel novembre 2024, il Consiglio
dell’Unione Europea ha approvato le conclusioni della revisione strategica di
PESCO, riaffermando il suo ruolo centrale nel promuovere la cooperazione nell’ambito
della difesa. La revisione ha messo in luce la necessità di adattare PESCO al
mutato panorama geopolitico e ha evidenziato l’importanza di affrontare le
sfide esistenti per potenziarne l’efficacia.
Nonostante questi sforzi,
PESCO continua comunque ad avere limiti significativi. Molti progetti hanno
subito ritardi a causa di una pianificazione finanziaria e opertativa insufficiente,
portando a discussioni sul rilancio o l’abbandono di iniziative poco
performanti. Inoltre, gli interessi nazionali divergenti e le diverse
interpretazioni dell’autonomia strategica tra gli Stati membri hanno ostacolato
il raggiungimento di un livello accettabile di coesione. Ad esempio, la Polonia
ha espresso preoccupazioni sul fatto che PESCO potrebbe minare la NATO o
indebolire la cooperazione in materia di sicurezza con gli Stati Uniti,
entrambi vitali per la sicurezza del fianco orientale della NATO.
Per aumentare l’efficacia
di PESCO, l’UE ha lanciato diversi progetti aperti alla partecipazione di terzi
rispetto all’Unione. In particolare, Canada, Norvegia e Stati Uniti sono
coinvolti nel progetto “Mobilità Militare” dal dicembre 2021, con il
Regno Unito che si è unito nel novembre 2022. Il Canada è stato anche invitato
a partecipare, a partire da febbraio 2023, al progetto di creazione di una rete
di hub logistici in Europa e supporto alle operazioni. Questa inclusione mira a
sfruttare competenze e risorse esterne per rafforzare le iniziative PESCO.
Nell’agosto 2024, la Svizzera ha ottenuto l’approvazione per partecipare a due
progetti PESCO: “Mobilità Militare” e “Cyber Ranges
Federation”. Questa apertura è volta a potenziare le capacità di difesa
nazionale della Svizzera, pur rispettando i suoi obblighi di neutralità.
Guardando al futuro, la
revisione strategica in corso di PESCO, prevista per concludersi entro la fine
del 2025, offre un’opportunità per rimodellare il quadro per affrontare meglio
le sfide di sicurezza contemporanee. La revisione mira a rivitalizzare PESCO
affinando i suoi obiettivi, migliorando la gestione dei progetti e garantendo
che gli sforzi collaborativi portino a concreti avanzamenti militari. In
sintesi, sebbene PESCO abbia fatto progressi nel promuovere la cooperazione in
ambito difensivo all’interno dell’UE, continua a fare i conti con inefficienze
burocratiche, priorità nazionali divergenti e livelli variabili di impegno tra
gli Stati membri. La valutazione dei risultati della revisione strategica e dell’inclusione
di partecipanti terzi saranno cruciali per determinare l’efficacia futura di
PESCO nel rafforzare la postura difensiva dell’Europa.
Allo stesso modo, il
Fondo europeo per la difesa (EDF), istituito nel 2017, è uno strumento
fondamentale per rafforzare la ricerca e l’innovazione nel settore della difesa
dell’Unione Europea. Per il periodo 2021-2027, l’EDF ha ricevuto un budget di
circa 8 miliardi di euro, di cui 2,7 miliardi destinati alla ricerca difensiva
collaborativa e 5,3 miliardi destinati a progetti di sviluppo delle capacità.
Riconoscendo la necessità di potenziare le capacità di difesa, la Commissione
Europea ha proposto un sostanziale aumento dei fondi per la difesa. Nel marzo
2025, la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha annunciato
piani per un fondo di difesa da 150 miliardi di euro, volto a incoraggiare gli
Stati membri a investire in capacità militari con il supporto di prestiti
sostenuti dall’UE. Questa iniziativa sottolinea l’impegno dell’UE nel
rafforzare la propria postura difensiva in risposta alle sfide geopolitiche in
evoluzione.
La Revisione Annuale
Coordinata sulla Difesa (CARD) è un altro meccanismo cruciale progettato per
armonizzare la pianificazione e gli investimenti della difesa tra gli Stati
membri dell’UE. CARD fornisce una panoramica completa del panorama della difesa
dell’UE, identificando opportunità di collaborazione e facilitando la
cooperazione. Tuttavia, il rapporto CARD del 2024 indica che, nonostante i
progressi nella spesa per la difesa e nella cooperazione, resta ampio spazio
per miglioramenti. Gli Stati membri sono incoraggiati a prendere azioni
decisive per mantenere gli investimenti e migliorare l’efficienza delle loro
forze armate.
In aggiunta all’EDF e al
CARD, numerose altre iniziative e agenzie difensive europee contribuiscono al
potenziamento delle capacità di difesa dell’Unione Europea. Istituita nel 2004,
l’Agenzia Europea per la Difesa (EDA) supporta gli Stati membri dell’UE nel
migliorare le loro capacità di difesa attraverso la cooperazione europea.
Agendo come facilitatore per progetti difensivi collaborativi, l’EDA funge da
centro per la cooperazione nella difesa europea, coprendo una vasta gamma di
attività legate alla difesa.
La Politica Comune di
Sicurezza e Difesa (CSDP) è il quadro dell’UE per la difesa e la gestione delle
crisi, formando una componente principale della Politica Estera e di Sicurezza
Comune (CFSP) dell’UE. La CSDP consente all’UE di intraprendere missioni
operative al di fuori dei suoi confini, utilizzando sia risorse civili che
militari per garantire il mantenimento della pace, la prevenzione dei conflitti
e il rafforzamento della sicurezza internazionale. L’UE sta anche esplorando lo
sviluppo di una nuova rete satellitare per ridurre la dipendenza
dall’intelligence militare degli Stati Uniti. Questa iniziativa mira a
migliorare la capacità dell’UE di rilevare minacce e coordinare azioni
militari, fornendo aggiornamenti più frequenti e maggiore autonomia nella raccolta
di informazioni. Queste iniziative e agenzie contribuiscono collettivamente a
un quadro difensivo europeo più integrato e robusto, affrontando le sfide di
sicurezza sia attuali che emergenti.
A complicare le sfide
affrontate da queste iniziative c’è comunque la continua dipendenza dell’UE
dalla NATO come suo principale garante della sicurezza. Mentre i leader europei
parlano spesso di “autonomia strategica”, la realtà è che l’Europa
rimane dipendente dal potere militare americano. La guerra in Ucraina ha
sottolineato il ruolo insostituibile della NATO nella sicurezza europea, con
gli Stati Uniti che forniscono la maggior parte degli aiuti militari e del
coordinamento strategico. Questa dipendenza dalla NATO crea un paradosso:
mentre l’UE desidera una maggiore indipendenza difensiva, non è disposta o in
grado di sviluppare le capacità necessarie per rendere quell’indipendenza
significativa. I tentativi di stabilire un’identità difensiva europea
credibile, come l’Iniziativa di Intervento Europea (EI2) guidata dalla Francia,
hanno fatto pochi progressi a causa delle priorità concorrenti degli Stati
membri.
Per affrontare queste
carenze, l’Europa deve riconsiderare la sua strategia di difesa con soluzioni
audaci e pragmatiche. In primo luogo, è necessaria un’autentica volontà di
spesa per la difesa. L’UE dovrebbe stabilire obiettivi vincolanti di
investimento in difesa, simili all’aumento della richiesta di PIL della NATO.
ReArm Europe è un passo nella giusta direzione, ma un bilancio militare comune
europeo, finanziato attraverso meccanismi a livello UE, potrebbe aiutare a
superare la frammentazione nell’acquisto di armamenti e nello sviluppo delle
capacità.
In secondo luogo,
dobbiamo capire che la creazione di un esercito europeo pienamente integrato è
stata a lungo considerata politicamente irrealizzabile a causa delle
preoccupazioni sulla sovranità nazionale e della complessità nell’allineare
strutture militari diversificate. Tuttavia, gli sviluppi recenti indicano un
cambiamento verso capacità difensive europee più coese. Nel marzo 2022, l’UE ha
introdotto lo strumento dello Strategic Compass, delineando la creazione di una
Capacità di Dispiegamento Rapido (RDC) entro il 2025. Questa forza modulare
mira a mobilitare fino a 5.000 persone, incorporando i battaglioni modificati
dell’UE e forze aggiuntive degli Stati membri.
Il presidente francese
Emmanuel Macron è da sempre un sostenitore vocale del rafforzamento dei
meccanismi di difesa dell’UE. Nell’aprile 2024, ha proposto l’istituzione di
una Forza di Reazione Rapida Europea entro il 2025, sottolineando la necessità
di un'”Iniziativa di Difesa Europea” per sviluppare concetti
strategici e capacità, in particolare nella difesa aerea e nelle operazioni a
lungo raggio. Nonostante queste iniziative, permangono numerosi problemi.
Nazioni come la Germania affrontano difficoltà nel reclutare e preparare le
loro forze armate, soprattutto tra le giovani generazioni che potrebbero dare
priorità all’equilibrio tra vita lavorativa e impegni militari. Nazioni come
l’Italia non si fidano della Francia, riconoscendo che molto spesso le priorità
strategiche e gli interessi nazionali di Parigi divergono da quelli di Roma.
Infine, potenziare la
sicurezza dell’Europa richiede un approccio globale che integri i quadri
militari istituzionali e la preparazione civile. Sebbene l’idea di un diritto
di autodifesa a livello dell’UE simile al Secondo Emendamento degli Stati Uniti
sia culturalmente e giuridicamente complessa, l’Europa ha avviato iniziative
per rafforzare la resilienza e la preparazione civile.
In conclusione,
l’ambiente di sicurezza dell’Europa sta peggiorando, e le attuali iniziative di
difesa sono inadeguate per affrontare le sfide future. PESCO, l’EDF e il CARD
non sono riusciti a offrire un cammino credibile verso l’autonomia strategica.
Se l’Europa è seria nel difendersi, deve adottare soluzioni più ambiziose, tra
cui un aumento della spesa per la difesa, l’integrazione operativa e un quadro
giuridico che dia potere agli Stati e ai cittadini in materia di sicurezza. Senza
tali misure, la difesa europea rimarrà un mosaico frammentato e inefficace,
lasciando il continente vulnerabile in un mondo sempre più ostile.
AMERICA FIRST- Il piano economico dell’amministrazione Trump 2025
di Melissa de Teffé dagli Stati Uniti giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense, accreditata per START InSight presso il Dipartimento di Stato (US)
Qualche giorno
fa a New York, il ministro del Tesoro statunitense Scott Bessent ha illustrato
le principali politiche economiche del governo Trump davanti a esperti di
economia e finanza. L’obiettivo centrale è quello di superare la grave crisi
finanziaria che ancora colpisce il Paese, nonostante la sua grande ricchezza.
“America First”, ha spiegato Bessent, non riguarda solo politica interna o internazionale, economia o sicurezza nazionale. È piuttosto un piano completo che punta a migliorare la vita di ogni americano attraverso tre priorità fondamentali, coordinate dal Dipartimento del Commercio e del Tesoro. La base di questo piano è una nuova politica fiscale.
Politica
interna
La parola chiave è deregolamentazione,
cioè ridurre le regole inutili nel settore finanziario per accelerare la
ripresa economica. Secondo l’amministrazione Trump, le regole attuali sono
eccessive e non sempre efficaci. Un recente decreto presidenziale obbliga le
principali autorità finanziarie (Federal Reserve, FDIC e OCC) a far revisionare
le proprie regole dall’Ufficio di Gestione e Bilancio, per garantire più
controllo e responsabilità.
Secondo
Bessent, la crisi bancaria del 2023, in particolare il fallimento della Silicon
Valley Bank, è nata proprio a causa della scarsa supervisione. Chi doveva
controllare non ha compreso in tempo i rischi che la banca stava assumendo, e
non è intervenuto con decisione per risolverli.
L’agenda del
governo prevede quindi una revisione completa delle priorità nella supervisione
bancaria. La cultura delle banche deve cambiare: meno attenzione alla
burocrazia formale e più concentrazione sui rischi reali. Questo cambiamento
sarà promosso dal Financial Stability Oversight Council (FSOC) e dal Working
Group on Financial Markets, creando un migliore dialogo tra le banche, i
regolatori e il Tesoro.
Secondo
Bessent, le grandi banche americane oggi soffrono di troppe regole inefficienti
e poco chiare. La sua proposta è di semplificare e aggiornare queste norme. Ad
esempio, il regolamento sul rapporto di leva finanziaria rischia di limitare
inutilmente anche l’utilizzo degli investimenti più sicuri, come i titoli di
stato americani.
Bessent si è focalizzato sul successo delle piccole banche, che ad oggi sono solo 4.000, ma svolgono un ruolo significativo nell’economia degli Stati Uniti, nonostante detengano solo il 15% degli asset e depositi d’industria. Queste banche rappresentano il 40% dei prestiti alle piccole imprese, il 70% dei prestiti agricoli e il 40% dei prestiti immobiliari commerciali. Sfortunatamente, sono state sovraccaricate, dice Bessent, da requisiti di reporting improduttivi, regolamentazioni assai gravose, che hanno poco a che fare con la riduzione del rischio finanziario materiale. Dice Bessent: “è necessario migliorare l’efficienza e l’efficacia nel nostro settore finanziario, concentrandoci su attività domestiche sottoscritte, riducendo l’indebitamento del settore pubblico e facendo leva sul settore privato. Ciò comporterà una rivitalizzazione intelligente delle nostre istituzioni finanziarie regolate”.
Queste politiche economiche hanno suscitato molte critiche da diversi settori. La proposta di ridurre il deficit federale al 3% del PIL è stata accolta con preoccupazione, poiché per raggiungere questo obiettivo, sarebbero necessarie ingenti riduzioni dei programmi sociali, come Medicaid, e un aumento delle tasse sui beni importati, penalizzando le famiglie a basso e medio reddito. Inoltre il sostegno alla deregolamentazione del settore finanziario, mirato a stimolare la crescita economica, ha suscitato preoccupazioni circa l’instabilità finanziaria, simile a quella che ha preceduto la crisi del 2008. La riduzione della supervisione potrebbe aumentare i rischi legati agli eccessi del settore bancario e a un rischio sistemico maggiore, per non parlare della proposta di coordinare la politica monetaria con misure fiscali per influenzare i tassi di interesse a lungo termine. La paura è che questa politica destabilizzi i mercati finanziari.
La proposta di ridurre il deficit federale al 3% del PIL è stata accolta con preoccupazione, poiché per raggiungere questo obiettivo, sarebbero necessarie ingenti riduzioni dei programmi sociali, come Medicaid, e un aumento delle tasse sui beni importati, penalizzando le famiglie a basso/medio reddito.
Politica commerciale
Sul fronte internazionale, l’agenda economica del presidente Trump si basa su tre fattori principali: Annullare le tariffe, creando un equilibrio nel commercio internazionale tra importazioni ed esportazioni.
Riportare la produzione manifatturiera negli Stati Uniti, riducendo così la dipendenza economica da paesi esteri come Cina, Canada e Messico. Sebbene questo processo richiederà tempo, l’obiettivo è ridurre gradualmente la delocalizzazione produttiva avvenuta negli ultimi decenni.
Rivedere gli accordi commerciali e militari, integrando politica militare, economica e politica estera, anziché trattarle come ambiti separati. Secondo l’amministrazione Trump, la spesa militare, infatti, non garantisce una crescita economica sana e sostenibile. Diversi economisti sostengono questa visione, tra cui James K. Galbraith, che considera la spesa militare improduttiva rispetto agli investimenti civili; Norman Angell, che già nel 1909 spiegava nel suo saggio “La grande illusione” che il potere militare non genera benessere economico duraturo; e John Maynard Keynes, che nella sua “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” evidenziava come le spese pubbliche produttive siano preferibili rispetto alla costruzione di armamenti per sostenere una crescita economica stabile.
Secondo l’amministrazione Trump, la spesa militare non garantisce una crescita economica sana e sostenibile. In quest’ottica, gli Stati Uniti non intendono più sovvenzionare altri paesi Nato, concentrando invece le risorse verso lo sviluppo produttivo interno e nuove relazioni commerciali.
In quest’ottica, gli Stati Uniti non intendono più sovvenzionare altri paesi Nato, concentrando invece le risorse verso lo sviluppo produttivo interno e nuove relazioni commerciali. Non possiamo dare torto al ministro del Tesoro quando afferma “ gli Stati Uniti sono anche consumatori di prima e ultima istanza. Questo sistema non è sostenibile”. E come stoccata alla Cina, dice: “ L’accesso a beni a basso costo non è l’essenza del sogno americano. Il sogno americano riguarda la mobilità sociale, la sicurezza economica e l’opportunità di raggiungere la prosperità. Le relazioni economiche internazionali che non funzionano per il popolo americano devono essere riesaminate. Questo è ciò che le tariffe sono progettate per affrontare: livellare il campo di gioco affinché il sistema commerciale internazionale premi l’ingegnosità, la sicurezza, lo stato di diritto e la stabilità, invece di sopprimere i salari, manipolare le valute, rubare proprietà intellettuali e introdurre regolamenti draconiani. Gli Stati Uniti risponderanno a pratiche dannose, incluse leggi ingiuste, politiche governative che minano la concorrenza globale e manipolazione delle valute”.
Ancora una volta Trump e Bessent hanno definito impropriamente queste multe come “tariffe”. L’Unione Europea ha sanzionato Google per pratiche anticoncorrenziali relative al suo servizio di shopping online, accusandola di privilegiare i propri prodotti rispetto a quelli della concorrenza, limitando così la libertà di scelta dei consumatori.
L’accesso a beni a basso costo non è l’essenza del sogno americano. Il sogno americano riguarda la mobilità sociale, la sicurezza economica e l’opportunità di raggiungere la prosperità.
Scott Bessent, segretario al Tesoro statunitense
In realtà, si tratta di sanzioni
applicate sulla base di precise normative europee a tutela della privacy e
della libera concorrenza. L’Europa, attraverso regolamenti come il Digital
Markets Act (DMA) e il Digital Services Act (DSA), ha tracciato una
netta linea di difesa—una sorta di “linea Maginot”—che limita il
potere delle grandi piattaforme digitali, impedendo loro di prevalere sugli
interessi dei singoli cittadini. Il DMA, in particolare, identifica grandi
aziende tecnologiche come Alphabet (Google), Amazon, Apple, ByteDance, Meta e
Microsoft, definendole “gatekeeper” e imponendo loro obblighi
specifici per garantire un mercato equo e competitivo.
Parlando poi di sicurezza militare Bessent afferma: “La sicurezza economica è la sicurezza nazionale. Questo è evidente nelle azioni di sanzione del Tesoro degli Stati Uniti. Nel suo discorso dello scorso settembre, il presidente Trump ha espresso il suo parere che l’uso eccessivo delle sanzioni potrebbe influenzare la supremazia del dollaro. Sono d’accordo e aggiungo che, come l’uso eccessivo di antibiotici, l’obiettivo diventa immune e muta. Le sanzioni che non sono monitorate con attenzione creano semplicemente nuovi mercati che devono essere sanzionati a loro volta, e il ciclo continua. Un fattore importante che ha permesso alla macchina da guerra russa di continuare è stata la debolezza delle sanzioni sull’energia russa da parte dell’amministrazione Biden, causata dalle preoccupazioni per l’aumento dei prezzi dell’energia negli Stati Uniti durante una stagione elettorale. Questa amministrazione ha mantenuto in atto le sanzioni potenziate e non esiterà ad andare fino in fondo se ciò fornirà leva nelle negoziazioni di pace. La guida del presidente Trump sulle sanzioni è chiara: saranno utilizzate in modo esplicito e aggressivo per un impatto massimo e saranno monitorate con attenzione per garantire che raggiungano obiettivi specifici.”
Sebbene il piano economico “America First” abbia il merito di riportare l’attenzione sulla centralità dell’economia domestica, alcuni suoi aspetti andrebbero rivisti con cautela per evitare conseguenze indesiderate sul piano economico e sociale, sia nazionale che internazionale
In conclusione,
il piano economico “America First” proposto dall’amministrazione
Trump presenta alcune idee interessanti, come la volontà di riportare la
manifattura negli Stati Uniti e di semplificare alcune regolamentazioni
finanziarie considerate troppo burocratiche. Tuttavia, molte delle soluzioni
proposte, in particolare la forte deregolamentazione e la riduzione drastica
del deficit federale, sollevano preoccupazioni concrete. Da un lato, c’è il
rischio che l’allentamento delle regole bancarie possa portare nuovamente a
crisi finanziarie, come già avvenuto nel 2008 e nel 2023. Dall’altro, la
riduzione dei programmi sociali per contenere il deficit potrebbe aggravare le
disuguaglianze economiche e sociali negli Stati Uniti.
Sul fronte
internazionale, il desiderio di riportare la manifattura negli USA e rivedere i
rapporti commerciali e militari evidenzia una presa di coscienza della
vulnerabilità economica del paese, e rappresenta un tentativo ambizioso e
positivo di ridare impulso alla produzione nazionale. Tuttavia, questa
strategia richiederà tempo, investimenti mirati e relazioni diplomatiche
attente.
Infine, la
posizione di Trump e Bessent rispetto alle sanzioni europee verso le grandi
aziende tecnologiche appare semplicistica e rischia di creare inutili tensioni.
Non riconoscere la differenza tra “tariffe” e sanzioni antitrust
indica una possibile incomprensione delle normative europee, che sono volte a
tutelare la concorrenza e i diritti dei cittadini.
In sintesi,
sebbene il piano economico “America First” abbia il merito di
riportare l’attenzione sulla centralità dell’economia domestica, alcuni suoi
aspetti andrebbero rivisti con cautela per evitare conseguenze indesiderate sul
piano economico e sociale, sia nazionale che internazionale.
Un arsenale nucleare per l’Italia: quanto costerebbe?
di Andrea Molle e Claudio Bertolotti.
Quanto costerebbe
all’Italia dotarsi di un proprio arsenale nucleare?
L’idea che l’Italia possa
dotarsi di un’arma nucleare è un tema complesso, con implicazioni economiche,
politiche e strategiche. In uno scenario ipotetico, Roma potrebbe scegliere tra
due modelli: una triade nucleare completa, come quella di Stati Uniti, Russia e
Cina, oppure una forza nucleare più limitata, simile alla “Force de
Frappe” francese. Ma quanto costerebbe ciascuna opzione?
Una deterrenza nucleare
basata su tre componenti – missili balistici terrestri, sottomarini nucleari
con missili balistici e bombardieri strategici – richiederebbe enormi
investimenti in ricerca, produzione e infrastrutture. Per la componente
terrestre, lo sviluppo dei missili balistici intercontinentali potrebbe costare
tra i 10 e i 20 miliardi di euro, mentre la loro produzione richiederebbe un
investimento di circa 50-100 milioni per ogni missile. Le infrastrutture, tra
cui silos e basi mobili, avrebbero un costo aggiuntivo tra i 5 e i 10 miliardi,
mentre la manutenzione e gli aggiornamenti per un periodo di trent’anni
potrebbero richiedere tra i 30 e i 50 miliardi. Nel complesso, questa
componente costerebbe tra i 50 e gli 80 miliardi di euro. Questo senza contare
il problema politico di dove allestire le basi di lancio.
La componente sottomarina
prevedrebbe la costruzione di quattro o meglio sei sottomarini nucleari con
missili balistici, con un costo stimato tra i 3 e i 5 miliardi per unità.
Sappiamo che la Marina sta già considerando lo sviluppo di unità a propulsione
nucleare, ma lo sviluppo e la produzione dei missili SLBM comporterebbe una
spesa tra i 5 e i 10 miliardi, mentre le infrastrutture e la manutenzione
richiederebbero un ulteriore investimento tra i 15 e i 20 miliardi.
Complessivamente, questa parte del programma costerebbe tra i 50 e i 70
miliardi di euro.
Per la componente aerea,
lo sviluppo di un nuovo bombardiere stealth richiederebbe un investimento tra i
20 e i 40 miliardi di euro, mentre l’acquisto di bombardieri esistenti
costerebbe tra 1 e 2 miliardi per unità. Le infrastrutture e gli aggiornamenti
aggiungerebbero altri 5-10 miliardi. Il costo totale di questa componente
sarebbe tra i 30 e i 50 miliardi di euro.
Infine, lo sviluppo e la
produzione delle testate nucleari richiederebbe tra i 10 e i 20 miliardi di
euro. La costruzione di impianti per l’arricchimento dell’uranio e la
produzione di plutonio costerebbe tra i 10 e i 15 miliardi, mentre la creazione
di sistemi di comando, controllo e comunicazione necessiterebbe di ulteriori 15-20
miliardi. Il costo totale di questa parte del programma sarebbe compreso tra i
35 e i 55 miliardi di euro.
Nel complesso, il costo
stimato per una triade nucleare completa si aggirerebbe tra i 165 e i 255
miliardi di euro, con un periodo di realizzazione tra i 20 e i 30 anni.
Un modello più realistico
per l’Italia potrebbe essere quello della Francia, che basa la sua deterrenza
nucleare su sottomarini con missili balistici e una componente aerea con
missili da crociera lanciabili da caccia. La costruzione di quattro sottomarini
nucleari lanciamissili avrebbe un costo di circa 3-5 miliardi per unità. Lo
sviluppo dei missili balistici per sottomarini richiederebbe tra i 5 e i 10
miliardi, mentre le infrastrutture e la manutenzione costerebbero tra i 10 e i
15 miliardi. Nel complesso, questa componente costerebbe tra i 40 e i 60
miliardi di euro.
Per la componente aerea,
l’Italia potrebbe affidarsi agli F-35, già in dotazione e capaci di trasportare
missili da crociera con testate nucleari. Lo sviluppo di tali missili
comporterebbe una spesa tra i 5 e i 10 miliardi, portando il costo totale della
componente aerea tra i 10 e i 20 miliardi di euro.
Infine, lo sviluppo e la
produzione delle testate nucleari costerebbe tra i 10 e i 15 miliardi, mentre
la costruzione di impianti per l’arricchimento e la produzione di plutonio
avrebbe un costo di circa 10 miliardi. I sistemi di comando e controllo
aggiungerebbero un ulteriore investimento di circa 10 miliardi. Il costo totale
di questa parte del programma sarebbe compreso tra i 30 e i 35 miliardi di
euro.
Nel complesso, il costo
stimato per una forza nucleare ridotta si aggirerebbe tra gli 80 e i 115
miliardi di euro, con un periodo di realizzazione tra i 15 e i 20 anni.
L’Italia, come firmataria
del Trattato di Non Proliferazione Nucleare (TNP) e membro della NATO, non ha
avuto bisogno fino ad ora di un arsenale nucleare nazionale grazie alla
protezione dell’ombrello nucleare statunitense. Tuttavia, in un contesto
geopolitico in rapido mutamento, il dibattito su un’eventuale autonomia
strategica non è da escludere. Se si optasse per una triade nucleare completa,
il costo sarebbe esorbitante e difficilmente sostenibile. Un modello alla
francese, più agile e meno oneroso, potrebbe essere una scelta più realistica,
ma comunque con un prezzo elevato, sia in termini economici che diplomatici.
Alla luce di questi numeri, è evidente che la questione non è solo
“possiamo permettercelo?”, ma anche “ne vale davvero la
pena?”.
Quale confronto con lo stato dell’arte di Stati
Uniti, Russia e Francia in termini di dissuasione?
L’ipotesi di una
“capacità nucleare” italiana si scontra inevitabilmente con il
confronto con le citate grandi potenze nucleari globali – Stati Uniti, Russia e
Francia – le cui dottrine strategiche sono il risultato di decenni di sviluppo,
test e consolidamento. Come abbiamo detto, l’Italia, pur non possedendo armi nucleari
proprie, beneficia del citato ombrello nucleare e della dissuasione estesa
garantita dagli Stati Uniti. Tuttavia, immaginare uno scenario in cui l’Italia
si doti di una capacità nucleare autonoma solleva interrogativi strategici,
tecnologici e politici di grande rilevanza.
Le capacità nucleari di
Stati Uniti e Russia si basano su una strategia di dissuasione strategica, ma
con alcune differenze dottrinali. Entrambi i Paesi adottano il principio della destruction mutuelle assurée (MAD),
ovvero la distruzione reciproca assicurata, ma lo declinano in modi diversi.
Negli Stati Uniti, la
strategia nucleare si fonda su un modello di dissuasione flessibile, concepito
per rispondere a minacce su diversi livelli. Questo approccio si articola sulla
cosiddetta “triade nucleare”, che include missili balistici
intercontinentali (ICBM), sottomarini nucleari lanciamissili (SSBN) e
bombardieri strategici in grado di trasportare armi nucleari. La dottrina
americana prevede anche una dissuasione estesa, fornendo protezione nucleare
agli alleati, inclusa l’Italia. Inoltre, l’introduzione di testate a bassa
potenza rende più credibile la deterrenza contro attori regionali, mentre la
capacità di attacco preventivo, sebbene non dichiarata esplicitamente, rimane
un’opzione praticabile nel quadro della sicurezza nazionale.
La Russia, invece, adotta
un modello più aggressivo, noto come “Escalate to De-Escalate”, in
cui il ricorso limitato alle armi nucleari potrebbe essere impiegato per porre
fine a un conflitto prima che esso si intensifichi. La strategia russa si
avvale anch’essa di una triade nucleare, con una particolare enfasi sugli ICBM
mobili e su nuove armi ipersoniche e strategiche, sviluppate per mantenere un
vantaggio rispetto agli Stati Uniti. La dottrina russa prevede esplicitamente
l’uso nucleare in risposta a una minaccia esistenziale, rendendo il confine tra
guerra convenzionale e guerra nucleare più sfumato rispetto alla posizione
statunitense.
Anche la Francia, con la
sua Force de Frappe, si è dotata di un arsenale nucleare autonomo, incentrato
su una componente sottomarina e su una flotta di caccia-bombardieri capaci di
colpire obiettivi strategici con missili a testata nucleare. La Francia ha
sempre rifiutato di integrare completamente il suo deterrente nucleare nella
NATO, mantenendo un principio di autonomia decisionale in materia di impiego
delle sue forze strategiche. Questo modello potrebbe rappresentare il
riferimento più realistico per un’ipotetica capacità nucleare italiana, in
quanto orientato alla difesa nazionale piuttosto che a una proiezione di forza
su scala globale.
L’Italia, nel contesto
della NATO, ha una dottrina di sicurezza che esclude lo sviluppo di un proprio
arsenale nucleare, affidandosi piuttosto alla protezione statunitense e alle
dinamiche della dissuasione collettiva. L’acquisizione di una capacità nucleare
autonoma implicherebbe non solo enormi investimenti economici, ma anche un
cambiamento radicale nella politica estera e di sicurezza del Paese, con
inevitabili ripercussioni sulle relazioni con gli altri membri dell’Alleanza
Atlantica e dell’Unione Europea.
A differenza degli Stati
Uniti e della Russia, che operano sotto una logica di deterrenza su scala
globale, e della Francia, che ha scelto un deterrente nazionale indipendente,
l’Italia dovrebbe valutare attentamente se una strategia di dissuasione
nucleare autonoma sarebbe coerente con i suoi interessi strategici. L’attuale
assetto garantisce comunque un livello di sicurezza elevato, senza i costi e le
implicazioni geopolitiche di un programma nucleare indipendente. In un contesto
internazionale in continua evoluzione, il confronto con i modelli esistenti
dimostra che la dissuasione non è solo una questione di tecnologia e arsenali,
ma anche di strategia politica e di posizionamento nel sistema internazionale.
Il messaggio di Macron e la ridefinizione dell’identità europea
Il recente discorso del Presidente francese
Emmanuel Macron in cui si esorta l’Europa al riarmo non è solo un campanello
d’allarme, ma un momento decisivo per la sicurezza del continente e il suo
ruolo nella geopolitica globale. Dichiarando che l’Europa non può più
“vivere dei dividendi della pace”, Macron ha riconosciuto una realtà
che molti leader europei hanno a lungo preferito ignorare. Il mondo è cambiato
e l’assunto post-Guerra Fredda secondo cui la sicurezza europea poteva essere
delegata agli Stati Uniti non è più sostenibile. È giunto il momento di una
maggiore autonomia strategica.
Al centro del messaggio di Macron vi è la crescente minaccia rappresentata dalla Russia. La guerra in corso in Ucraina, insieme agli sforzi più ampi di destabilizzazione della Russia in Europa, sottolineano l’urgenza della situazione. Gli Stati Uniti sono stati un alleato cruciale, ma il loro panorama politico sta cambiando e le future amministrazioni potrebbero non essere altrettanto impegnate nella sicurezza europea come in passato. La proposta di Macron di estendere la deterrenza nucleare francese agli alleati europei rappresenta un cambiamento strategico fondamentale — uno di quei momenti che ridefiniscono il quadro della sicurezza europea. Non un regalo, e certamente non la condivisione del controllo operativo, ma una vera e propria offerta per l’acquisto della leadership della Difesa Europea.
Questo cambiamento è particolarmente
interessante data la postura storica della Francia sulla difesa. Fin dalla
presidenza di Charles de Gaulle, la Francia ha perseguito una strategia di
difesa indipendente, enfatizzando la sovranità nazionale piuttosto che
l’affidamento alla NATO. Nel 1966, de Gaulle ritirò la Francia dal comando
militare integrato della NATO, affermando che la Francia avrebbe dovuto
controllare la propria politica militare piuttosto che essere subordinata alla
leadership degli Stati Uniti. Sebbene la Francia sia rientrata nella struttura
di comando della NATO nel 2009 sotto la presidenza di Nicolas Sarkozy, la sua
deterrenza nucleare è sempre rimasta strettamente sotto controllo nazionale. La
disponibilità di Macron a discutere l’estensione dell’ombrello nucleare
francese segna una significativa deviazione da questa posizione tradizionale,
segnalando una nuova era nella difesa europea, ma allo stesso tempo un ritorno
al paradigma gollista.
Le implicazioni di questo cambiamento si
estendono oltre la Francia. L’Unione Europea sta già esplorando massicci
investimenti nella difesa, potenzialmente mobilitando centinaia di miliardi di
euro. Questa mossa segnala l’intenzione di ridurre la dipendenza dalla NATO, o
perlomeno di stabilire un pilastro europeo più forte all’interno dell’alleanza.
Se riuscisse, questa trasformazione potrebbe alterare l’equilibrio del potere
globale, rendendo l’Europa un attore più indipendente sulla scena mondiale.
L’Italia si trova a un bivio in questo nuovo
paradigma e il tempo per una decisione stringe. Il Presidente del Consiglio
Giorgia Meloni ha sottolineato l’importanza dell’unità occidentale, avvertendo
che la divisione sarebbe “fatale per tutti”. L’Italia, storicamente
cauta nelle spese per la difesa, potrebbe ora essere costretta ad aumentare
significativamente il proprio budget militare. Inoltre, mentre si evolvono le
discussioni sulla deterrenza nucleare europea, l’Italia potrebbe essere costretta
a riconsiderare le proprie politiche strategiche. Dovrebbe allinearsi più
strettamente alla visione francese, mantenere la sua tradizionale dipendenza
dall’ombrello nucleare statunitense o Roma opterà piuttosto per creare una
propria “Forza di Deterrenza”?
In ogni caso, il discorso di Macron non
riguardava solo la spesa militare; riguardava la ridefinizione dell’identità
europea. L’era della compiacenza europea in materia di difesa è finita. La
domanda ora è se i leader europei, in particolare in Italia, siano disposti a
cogliere l’occasione e assumersi le responsabilità che accompagnano la vera
autonomia strategica. Se non agiranno, il costo potrebbe non essere solo la
sicurezza dell’Europa, ma il suo posto stesso nell’ordine mondiale.
Il commento di C. Bertolotti a Officina geopolitica di START inSight.
La scelta di Trump di spingere verso una conclusione del conflitto, anche a discapito dell’Ucraina, è razionale e coerente con la sua promessa elettorale, cioè quello per cui è stato eletto. Ed è, soprattutto, “una leva con cui fare forza nei confronti di Zelensky affinché il presidente possa rispondere al proprio elettorato, al quale aveva promesso di porre termine alla guerra russo-ucraina. È quindi una scelta di politica interna rispetto a un costo che viene imposto ai contribuenti statunitensi”. “Detto questo quello dell’amministrazione Trump è un passo certamente importante e significativo in quello che sarà lo sviluppo della guerra, perché andando a ridurre o a congelare gli aiuti l’Ucraina di fatto passerà da un livello di sufficienza minima (garantito dall’amministrazione Biden) al non avere più le risorse per condurre una guerra. Oltretutto, verrebbe a mancare anche la spinta morale, cioè l’assenza di un sostegno statunitense farebbe venir meno la volontà dei soldati stessi di combattere e degli stati maggiori di gestire la condotta sul campo di battaglia”.
Nulla da eccepire sul piano razionale: se la precedente amministrazione Biden non ha voluto porre l’Ucraina nelle condizioni di vincere la guerra, perché dovrebbe farlo l’amministrazione Trump? È semplicemente la chiusura di un dossier che Washington non reputa più conveniente sostenere.
È un game over?
“È sicuramente l’avvio di un processo di conclusione di una guerra che
sarà sfavorevole all’Ucraina, in termini di cessione di territori a favore
della Russia, ma lo sarà ancora di più a livello strategico, proiettato nel
lungo periodo”, commenta Bertolotti. “La Russia utilizzerebbe – così come ha
già fatto con la Crimea – la base territoriale conquistata come punto di
partenza per la successiva possibile fase offensiva. Non avverrà domani né
dopodomani, ma nei prossimi 5-10 anni, indipendentemente da quella che sarà la
leadership russa”.
Negli ultimi giorni si sono fatte sempre più insistenti le
richieste, da parte di stretti collaboratori di Trump, di un passo indietro
di Zelensky, la cui presenza viene
descritta come ormai “insostenibile”. Ipotesi, quella delle dimissioni di
Zelensky che si pone come plausibile: “È un’opportunità per lui di uscire
a testa alta, come l’uomo che non si è piegato alla volontà di Trump e che piuttosto
lascia la guida del Paese. Se arriviamo alla scadenza naturale del suo mandato,
e quindi all’ipotesi di nuove elezioni, produrrà una narrazione interna di
volontà di concludere la guerra a qualunque costo, che quindi poterà la sigla
di un’intesa commerciale con gli Stati Uniti a cui seguirà un sostegno
statunitense all’accordo negoziale con la Russia. Soltanto a quel punto
Zelensky potrebbe riproporsi come voce politica, e quindi come competitor al
successivo appuntamento elettorale, come colui che non ha firmato e non avrebbe
firmato, fiero della sua postura europea e occidentale e non filorussa”.
L’Europa al bivio: può difendersi senza il supporto degli Stati Uniti?
di Andrea Molle, dagli Stati Uniti.
Con l’intensificarsi
delle tensioni geopolitiche e la possibilità di un ritiro parziale o completo
degli Stati Uniti dalla NATO, l’Europa si trova di fronte a una domanda
urgente: può difendersi senza il sostegno americano? La risposta, sebbene non
impossibile, comporta costi enormi e un lungo e incerto cammino verso l’indipendenza
militare.
Per decenni, l’Europa ha
beneficiato della protezione degli Stati Uniti, che hanno rappresentato la
spina dorsale della sua strategia di difesa. Washington fornisce non solo la
deterrenza nucleare, ma anche le capacità logistiche, tecnologiche e di
intelligence che i paesi europei faticano a replicare autonomamente. Un’uscita
degli Stati Uniti dalla NATO lascerebbe l’Europa con un vuoto di sicurezza che
richiederebbe un aumento drammatico della spesa militare e una coesione
politica—entrambi aspetti tutt’altro che garantiti.
I numeri sono
preoccupanti. Oggi, i bilanci di difesa combinati dell’Unione Europea e del
Regno Unito ammontano a circa 380 miliardi di dollari all’anno. Tuttavia, gli
esperti stimano che, per compensare la perdita delle capacità statunitensi,
l’Europa dovrebbe investire un ulteriore 300-400 miliardi di dollari in
espansione militare. Per sostenere questo, i paesi europei dovrebbero aumentare
la loro spesa annuale per la difesa al 3-4% del PIL, rispetto all’attuale 1,5-2%.
Per l’Italia, la sfida è
particolarmente difficile. Destinando attualmente circa l’1,5% del PIL alla
difesa, circa 30 miliardi di euro all’anno, Roma dovrebbe probabilmente
raddoppiare la sua spesa a 60 miliardi di euro annui per mantenere una postura
di sicurezza credibile. Non è una piccola impresa per un paese con un rapporto
debito/PIL superiore al 140%, dove la spesa per la difesa storicamente è stata
subordinata ad altre priorità sociali ed economiche.
Tuttavia, l’Italia è un
attore cruciale della NATO, data la sua posizione strategica nel Mediterraneo. Ma
senza il supporto degli Stati Uniti, il Paese si troverebbe ad affrontare gravi
lacune nel potere navale, nella superiorità aerea e nelle capacità di
intelligence. L’Italia dovrebbe espandere ulteriormente la sua flotta,
richiedendo investimenti di almeno 20-30 miliardi di euro in portaerei,
sottomarini e cacciatorpediniere aggiuntivi per tutelare la sicurezza del
Mediterraneo. Roma dipende fortemente dagli F-35 e dai sistemi missilistici
costruiti dagli Stati Uniti, e uno scenario post-NATO comporterebbe la
necessità di una costosa spinta per la produzione domestica o una maggiore
dipendenza dalla Francia e dalla Germania. Inoltre, l’Italia ospita attualmente
armi nucleari statunitensi sotto il programma di condivisione della NATO. Se questo
programma dovesse essere terminato, Roma sarebbe costretta a prendere la difficile
decisione se investire in una propria deterrenza nucleare—un’opzione
economicamente e politicamente complessa—o fare affidamento sull’arsenale
francese per la protezione. Affidarsi all’arsenale nucleare della Francia
sarebbe un’opzione quasi inaccettabile per l’Italia, poiché i due paesi non
condividono molti interessi strategici, e tale dipendenza potrebbe subordinare
Roma a Parigi, minando l’autonomia dell’Italia nelle questioni di difesa e
limitando la sua capacità di agire in modo indipendente sulla scena
internazionale. Questo complicherebbe ulteriormente la politica estera
dell’Italia, poiché dovrebbe allinearsi più strettamente con le priorità
francesi, che potrebbero non coincidere sempre con le proprie.
Oltre agli ostacoli
finanziari e tecnologici, la questione del personale è di primaria importanza.
Le forze armate europee si sono ridotte significativamente dalla fine della
Guerra Fredda, con molti paesi che si sono orientati verso eserciti più piccoli
e professionisti piuttosto che la coscrizione di massa. L’Italia, come gran
parte d’Europa, dovrebbe espandere rapidamente le proprie Forze Armate per
soddisfare le esigenze di una difesa autosufficiente. Ciò significa non solo
reclutare più soldati, ma anche formare e mantenere personale qualificato in
settori chiave come la guerra cibernetica, l’intelligence e la logistica. Senza
la forza lavoro per operare e mantenere una infrastruttura militare ampliata,
anche i sistemi d’arma più avanzati sarebbero di scarsa utilità. La leva
militare, da tempo abbandonata, potrebbe dover essere riconsiderata—un passo
politicamente sensibile ma forse necessario se l’Europa vuole sostenere una
prontezza militare a lungo termine.
Inoltre, costruire un
sistema di difesa europeo autonomo richiederebbe decenni. A breve termine, i
primi cinque anni richiederebbero un’accelerazione dei bilanci e una
riorganizzazione delle alleanze, sebbene l’Europa rimarrebbe altamente
vulnerabile. A medio termine, entro cinque-dieci anni, potrebbe emergere
un’alternativa funzionale ma più debole alla NATO, con operazioni congiunte
ampliate e un rapido approvvigionamento di nuovi beni di difesa. A lungo
termine, entro dieci-venti anni, potrebbe essere operativo un corpo di difesa
europeo completamente indipendente, sebbene rimarrebbero sfide legate alla
frammentazione, alle inefficienze e alle difficoltà economiche.
Oltre ai vincoli
finanziari, le nazioni europee—compresa l’Italia—faticano con le divisioni
politiche sulle questioni militari. La Germania ha solo recentemente iniziato a
invertire decenni di sotto-investimento nella difesa, mentre l’Italia ha a
lungo dovuto affrontare lo scetticismo pubblico sull’espansione militare. Senza
una forte volontà politica e una leadership decisiva, il cammino dell’Europa
verso l’autonomia difensiva sarà lento e frammentato. Il peso economico è
un’altra grande preoccupazione. Mentre Francia e Germania potrebbero assorbire
costi di difesa più alti, paesi come Italia, Spagna e Grecia potrebbero
trovarlo quasi impossibile senza sacrifici significativi in altri settori, come
infrastrutture, programmi sociali e investimenti energetici.
Un’altra possibilità è
ovviamente che Roma garantisca il continuo supporto militare e strategico
americano. Tuttavia, un allineamento con Washington allontanerebbe alcuni dei
partner europei dell’Italia che potrebbero preferire un quadro di difesa più
autonomo, potenzialmente mettendo a rischio l’unità europea. Inoltre,
rafforzerebbe la dipendenza dell’Italia dagli Stati Uniti per la sicurezza,
lasciandola vulnerabile alle priorità mutevoli della politica estera americana,
limitando al contempo la sua influenza all’interno dell’Unione Europea su
questioni di difesa e sicurezza. Indipendentemente dall’opzione scelta, questo
segnerebbe un cambiamento radicale nella strategia militare, comportando
aumenti della spesa per la difesa, espansione navale e una possibile
rivalutazione del suo ruolo nella deterrenza nucleare.
In conclusione, la frammentazione politica e le limitazioni economiche potrebbero rendere difficile sostituire le capacità della NATO. L’Europa deve ora decidere: prenderà in mano la propria difesa o rimarrà vulnerabile in un mondo sempre più volatile? Una cosa è certa: senza il supporto degli Stati Uniti, il costo della sicurezza esploderà, e per paesi come l’Italia, la posta in gioco non è mai stata così alta.
Foto in copertina: www.difesa.it
Ucraina: l’imposizione di Trump e l’opposizione di Macron.
di Claudio Bertolotti.
L’analisi del quarto anno di guerra.
Tre anni di guerra conclusi, un nuovo anno di guerra appena iniziato. Questo lo stato delle cose della guerra russo-ucraina, iniziata con l’invasione di Mosca il 24 febbraio 2022. Quali gli elementi di analisi per definire in maniera quanto più concreto lo scenario che si sta definendo?
Il commento di C. Bertolotti per Officina Geopolitica di START inSight.
Occorre guardare a quanto è successo negli ultimi tre anni, con particolare attenzione alle responsabilità dell’amministrazione di Joe Biden.
In primis dobbiamo tenere conto della condotta della guerra: cambio degli obiettivi primari (caduta del governo) e perseguimento dell’obiettivo secondario (occupazione porzione territoriale). La Russia ha sempre mantenuto il vantaggio tattico.
Secondo aspetto: la scelta dell’amministrazione Biden di non
concedere all’Ucraina gli strumenti per vincere la guerra, ma solo di potersi
ben difendere.
Terzo: il ruolo dell’Europa. Secondario e marginale.
Quarto: la volontà di Trump di concludere la guerra per ragioni
politiche interne (coerenza con il mandato elettorale).
Scenario più probabile? Ucraina monca. Russia indebolita economicamente, ma vittoriosa sul piano comunicativo (interno ed esterno): in più Mosca ha archiviato due successi consecutivi (Crimea, Donbass). Il primo funzionale al perseguimento del secondo. E questo, il Donbass, funzionale alla possibile ulteriore pretesa territoriale in futuro.
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