L’Atlante geopolitico del Mediterraneo 2024, giunto alla sua decima edizione, sottolinea l’importanza cruciale del Mediterraneo per Europa, Africa e Asia, evidenziando il ruolo chiave dell’Italia come ponte strategico nella regione. Esamina lo sviluppo della politica estera italiana dal dopoguerra, mostrando come la stabilità del Mediterraneo sia fondamentale per gli interessi del paese. Celebrando figure storiche italiane come Fanfani, Gronchi, La Pira e Mattei, il testo sottolinea l’importanza dell’Italia nella gestione delle risorse energetiche, sicurezza marittima e flussi migratori, promuovendo una collaborazione equa e sostenibile tra le nazioni mediterranee. L’Atlante affronta anche le attuali instabilità regionali, come le tensioni in Libia, la svolta autoritaria in Tunisia e il conflitto israelo-palestinese, proponendo la soluzione a due Stati come via per una pace duratura. La stabilizzazione del Mediterraneo è vista come essenziale per la crescita delle nazioni rivierasche. L’edizione esplora le dinamiche politiche e socio-economiche attuali e future del Mediterraneo, offrendo uno strumento per comprendere e affrontare le sfide della regione, enfatizzando il ruolo cruciale dell’Italia nella politica estera e nella gestione delle sfide regionali.
Atlante geopolitico del Mediterraneo 2024, a cura di Francesco Anghelone e Andrea Ungari; prefazione Di Paolo De Nardis; introduzione di Gianluigi Rossi, ed. Istituto di Studi Politici “S. Pio V”, Roma, pp. 570.
Keywords: Mediterraneo, Piano Mattei.
L’Atlante geopolitico del Mediterraneo 2024, giunto alla
sua decime edizione, discute il ruolo cruciale del Mediterraneo nelle dinamiche
geopolitiche globali, evidenziando la sua importanza storica, culturale ed
economica per tre continenti: Europa, Africa ed Asia. In particolare sottolinea
come l’Italia, grazie alla sua posizione strategica, giochi un ruolo chiave
nella regione, agendo come ponte tra Nord e Sud, Est e Ovest. La decima
edizione dell’Atlante Geopolitico del Mediterraneo esamina, in particolare, lo
sviluppo della politica estera italiana dal dopoguerra, dimostrando come gli
interessi dell’Italia siano strettamente legati alla stabilità della regione.
Un’evoluzione storica che evoca il ruolo giocato dalla politica estera italiana
nelle relazioni internazionali, richiamando i nomi di coloro che ne hanno
definito le direttrici, oggi in parte non più così ben definite, da Amintore
Fanfani a Giovanni Gronchi a Giorgio La Pira ed Enrico Mattei, il cui nome è
oggi il punto di riferimento ideale di un importante e ambizioso progetto di
cooperazione e collaborazione regionale particolarmente caro all’Italia.
Come storico non ho potuto che apprezzare lo sforzo degli
autori – e dunque dei curatori – nel ricostruire il ruolo dell’Italia nel
Mediterraneo negli ultimi settant’anni, evidenziando l’importanza del paese in settori
come la gestione delle risorse energetiche, la sicurezza marittima e i flussi migratori.
Il testo sottolinea la necessità di superare le vecchie dinamiche coloniali per
promuovere una collaborazione equa e sostenibile tra le nazioni mediterranee.
La regione, viene rilevato nel testo, è attualmente
segnata da instabilità, come le tensioni in Libia, la svolta autoritaria in
Tunisia e il conflitto israelo-palestinese. La soluzione a due Stati è vista
come l’unica strada per la pace duratura in Medio Oriente. Stabilizzare il
Mediterraneo è essenziale per la crescita delle nazioni rivierasche.
Questa edizione dell’Atlante mira a esplorare le attuali
dinamiche politiche e socio-economiche del Mediterraneo e le prospettive
future, offrendo uno strumento essenziale per comprendere e affrontare le sfide
della regione. Il testo evidenzia l’importanza dell’Italia nel Mediterraneo,
sottolineando il suo ruolo cruciale nella politica estera e nella gestione
delle sfide regionali.
PARTE
PRIMA: APPROFONDIMENTI
“La
dimensione mediterranea della politica estera italiana fra Atlantico ed Europa
(1949-1969)” (di Bruna Bagnato).
Nel suo saggio l’Autrice
esamina le tre principali direttrici della politica estera italiana nel secondo
dopoguerra: europea, atlantica e mediterranea. Queste direttrici non sono
statiche ma si sono evolute in risposta ai cambiamenti geopolitici.
L’Italia, pur
geograficamente europea e mediterranea, ha dovuto integrare la sua
partecipazione all’alleanza atlantica (NATO) dal 1949, il che ha influenzato la
sua politica estera, spingendola ad adattarsi ai contesti della Guerra Fredda e
agli interessi occidentali. La divisione dell’Europa in blocchi orientale e
occidentale e le tensioni Est-Ovest hanno complicato la politica mediterranea italiana,
che ha dovuto affrontare le eredità coloniali e le sfide della
decolonizzazione.
La politica italiana,
influenzata dalle diverse stagioni politiche interne, ha oscillato tra
strategie mediterranee e europee. Negli anni ’50, con l’avvento del “neo-atlantismo”,
l’Italia ha cercato di coniugare l’impegno atlantico con una nuova politica
mediterranea, adottando posizioni anticoloniali per allinearsi con gli Stati
Uniti e differenziarsi dall’imperialismo anglo-francese.
Il testo, in
particolare, sottolinea come il “neo-atlantismo” abbia cercato di
dare all’Italia un ruolo più dinamico nel Mediterraneo, basato su una
cooperazione con gli Stati Uniti e una maggiore attenzione alle aspirazioni dei
paesi arabi. Tuttavia, questo approccio ha dovuto confrontarsi con le complessità
della politica europea, soprattutto con la posizione francese riguardo ai
territori d’oltremare e l’associazione dei paesi africani alla Comunità
Economica Europea (CEE).
Con la crisi di Suez
del 1956, l’Italia ha visto un’opportunità per consolidare la propria politica
mediterranea in sintonia con l’orientamento anticoloniale americano. Italia
che, negli anni ’60, ha dovuto affrontare le sfide del boom economico, della decolonizzazione e del cambiamento nelle
dinamiche della Guerra Fredda. La politica estera italiana nel Mediterraneo ha
dovuto adattarsi a un nuovo contesto internazionale, segnato dalla distensione
tra Stati Uniti e Unione Sovietica e dall’evoluzione delle relazioni
euro-arabe.
La politica
mediterranea italiana si è quindi spostata verso un approccio multilaterale,
integrando le istanze comunitarie europee e ponendo le basi per una
collaborazione più stretta con i partner europei per la stabilizzazione
politica ed economica della regione. Questo cambiamento ha rappresentato un
allontanamento dalla precedente enfasi atlantica, con una maggiore enfasi sulla
cooperazione europea nel Mediterraneo.
La politica estera italiana e il
“Mediterraneo allargato” dalla crisi del centro-sinistra a oggi (di Antonio Varsori).
Premessa storica e contesto iniziale. Dalla fine della
Seconda guerra mondiale alla metà degli anni Cinquanta, l’Italia, guidata dalla
Democrazia Cristiana (DC), ha cercato di superare le difficoltà derivanti dalla
sconfitta e dal trattato di pace, ricostruendo il proprio ruolo all’interno del
sistema occidentale e del sottosistema europeo dominato dagli Stati Uniti.
Questa fase è stata caratterizzata da una scelta “atlantica” ed
“europea” che ha incluso l’adesione al Piano Marshall e al Patto
Atlantico, oltre alla partecipazione al Consiglio d’Europa e al Piano Schuman.
La politica estera degli anni ’90.Con la crisi di “Tangentopoli” e la fine della
Guerra fredda, l’Italia ha subito un ripiegamento sui problemi interni e un
ridimensionamento del proprio ruolo nel Mediterraneo allargato. Le priorità si
sono spostate verso la partecipazione all’Unione Europea e all’adozione
dell’euro. Tuttavia, un tentativo significativo di mantenere un ruolo attivo
nella regione è stato l’invio di un contingente militare in Somalia nel 1992
per partecipare a una missione di peacekeeping
delle Nazioni Unite; una partecipazione importante sul piano delle relazioni
internazionali che, per contro, ha avuto esiti complessi e drammatici.
L’era Berlusconi.Durante i governi
Berlusconi, l’Italia ha affrontato diverse sfide nel Mediterraneo allargato. Un
esempio è stato il controverso impegno militare in Iraq, che ha sollevato forti
opposizioni interne e divergenze con le politiche di altri paesi europei come Francia
e Germania. Berlusconi ha anche rafforzato i rapporti con la Libia di Gheddafi,
culminati in un accordo che prevedeva riparazioni per il passato coloniale
italiano e un maggiore controllo sui flussi migratori illegali.
La politica migratoria e le crisi recenti.L’immigrazione è
diventata una questione centrale nella politica mediterranea italiana. Dagli
anni Novanta, l’Italia ha visto un crescente flusso di immigrati provenienti
dai Balcani, dal Maghreb e dall’Africa subsahariana. Questo ha portato a
tensioni e accordi, come quello con la Libia per controllare l’immigrazione
clandestina. La crisi libica del 2011 e le Primavere arabe hanno ulteriormente
complicato la situazione, provocando instabilità e nuovi flussi migratorie.
Sfide contemporanee.La recente escalation
della questione palestinese e la ricerca di nuovi partner energetici dopo
l’interruzione dei rapporti con la Russia a causa della guerra in Ucraina,
insieme all’aumento dei flussi migratori da Tunisia e Libia, rappresentano le
attuali sfide per l’Italia. In questo contesto, il “Piano Mattei” e
un nuovo attivismo mediterraneo sono stati proposti come soluzioni, ma i loro
esiti rimangono incerti.
Conclusioni.Dal dopoguerra a oggi,
la politica estera italiana nel Mediterraneo allargato ha attraversato diverse
fasi, influenzate da cambiamenti interni e globali. Dalla costruzione iniziale
di un ruolo nell’ambito del sistema occidentale, passando per le crisi politiche
ed economiche degli anni ’90, fino alle sfide contemporanee legate alla
migrazione e alla sicurezza energetica, l’Italia ha costantemente cercato di
mantenere una presenza significativa nella regione, adattandosi ai mutamenti
del contesto internazionale.
“La politica estera
italiana e il Medio Oriente negli anni della Repubblica” (di Luca
Riccardi).
Dopo la Seconda Guerra
Mondiale, l’Italia attraversò un periodo di ricostruzione economica e di
riorganizzazione della propria politica estera. Questo periodo segnò il
passaggio dall’ambizione di essere una grande potenza a una media potenza
integrata nel sistema internazionale dominato dagli Stati Uniti.
Origini della politica mediorientale.Subito dopo la guerra,
l’Italia si concentrò sul mantenimento della stabilità politica nel
Mediterraneo orientale, sostenendo soluzioni accettabili sia per gli arabi che
per gli ebrei. L’obiettivo principale era la stabilità, vista come necessaria
per perseguire gli interessi economici italiani e proteggere le comunità italiane
presenti nella regione.
Neo-atlantismo e rafforzamento dei legami con gli Stati Uniti
Negli anni Cinquanta,
l’Italia sviluppò una politica chiamata “neo-atlantismo”, che mirava
a rafforzare la presenza politica ed economica nel Mediterraneo e nel Medio
Oriente. Questa politica cercava di conciliare gli interessi italiani con
quelli americani, fungendo da collegamento tra gli Stati Uniti e il mondo
arabo. Protagonisti di questa politica furono Amintore Fanfani, Giovanni
Gronchi, Giorgio La Pira ed Enrico Mattei.
Gli anni Sessanta e Settanta.Durante gli anni Sessanta e Settanta, l’Italia,
sotto la guida di Aldo Moro, cercò di stabilizzare la regione attraverso una
politica di contatti e un crescente coordinamento con i paesi della Comunità
Europea. Tuttavia, la crisi petrolifera del 1973 e le sue conseguenze
economiche influenzarono negativamente la politica italiana, rendendo il paese
dipendente dalle forniture di petrolio dai paesi arabi.
Gli anni Ottanta.Negli anni Ottanta, con
Bettino Craxi come Presidente del Consiglio e Giulio Andreotti come Ministro
degli Esteri, l’Italia mantenne una forte presenza nel Mediterraneo allargato.
Craxi e Andreotti cercarono di promuovere il coinvolgimento dell’OLP nel processo
di pace, sostenendo il diritto dei palestinesi a una patria propria, senza
compromettere l’esistenza dello Stato di Israele. L’Italia cercò di bilanciare
le relazioni tra gli Stati Uniti e il mondo arabo, mantenendo una posizione di
equidistanza.
Declino e marginalizzazione.Verso la fine della Prima Repubblica, l’Italia
iniziò a perdere rilevanza nella politica mediorientale, diventando sempre più
allineata con le politiche degli Stati Uniti. La conferenza di Madrid del 1991
segnò un’ulteriore marginalizzazione dell’Italia e dell’Europa nel processo di
pace in Medio Oriente.
In sintesi, la politica
estera italiana verso il Medio Oriente è stata caratterizzata da tentativi di
mantenere la stabilità nella regione, rafforzare i legami economici e politici
con i paesi arabi, e bilanciare le relazioni tra gli Stati Uniti e il mondo
arabo, pur affrontando periodi di crisi economica e declino politico.
PARTE SECONDA: SCHEDE PAESI
Marocco
La Storia. La storia del
Marocco è caratterizzata da un lungo periodo di colonizzazione europea iniziata
ufficialmente nel 1912 con il Trattato di Fez, che sanciva l’istituzione di un
protettorato francese e spagnolo sul paese. Durante il periodo coloniale, il
Marocco vide una vasta politica di modernizzazione, con la costruzione di
infrastrutture e nuove città ad opera dei coloni francesi. La resistenza contro
il dominio coloniale portò a frequenti rivolte, culminate nella
“Rivoluzione del re e del popolo” del 1953, che contribuì
all’indipendenza del paese, riconosciuta dalla Francia nel 1956. Mohammed V
divenne re, avviando un processo di riforme che portarono alla modernizzazione
del paese e alla creazione di una monarchia costituzionale.
Oggi. Negli ultimi
decenni, il Marocco ha affrontato numerose sfide e trasformazioni. Sotto il
regno di Mohammed VI, iniziato nel 1999, il paese ha intrapreso un percorso di
riforme economiche e politiche, tra cui la promozione dei diritti umani e la
modernizzazione delle istituzioni. Tuttavia, permangono criticità relative ai
diritti umani e alla questione del Sahara Occidentale. Il Marocco ha anche
consolidato il suo ruolo geopolitico nella regione, ristabilendo relazioni
diplomatiche con Israele nel 2020 e giocando un ruolo chiave nella gestione
delle migrazioni tra Africa ed Europa.
Algeria
La Storia. L’Algeria,
colonizzata dalla Francia dal 1830, visse un periodo di modernizzazione nel
primo dopoguerra. Tuttavia, la crescente consapevolezza nazionale portò alla
guerra di indipendenza algerina (1954-1962), un conflitto sanguinoso che
culminò con l’indipendenza del paese nel 1962. Il periodo post-indipendenza fu
caratterizzato da una forte centralizzazione del potere sotto il Fronte di
Liberazione Nazionale (FLN), che governò in modo autoritario, affrontando
periodi di instabilità politica e economica.
Oggi. L’Algeria
contemporanea è una repubblica semipresidenziale con una popolazione di circa
44,9 milioni di abitanti. Il paese continua a confrontarsi con questioni di governance, diritti umani e diversificazione
economica. Le elezioni del 2019 e del 2021 hanno portato Abdelmadjid Tebboune
alla presidenza, con il governo che cerca di bilanciare le richieste di riforme
politiche con la stabilità sociale. Le relazioni con il Marocco rimangono tese,
specialmente a causa delle dispute territoriali e delle accuse reciproche di
interferenze politiche.
Tunisia
La Storia. La Tunisia,
anch’essa colonizzata dalla Francia, ottenne l’indipendenza nel 1956 sotto la
guida di Habib Bourguiba, che instaurò un regime modernizzatore ma autoritario.
Dopo il colpo di stato del 1987, Zine El Abidine Ben Ali salì al potere,
governando fino alla Rivoluzione dei Gelsomini del 2011, che portò alla sua
destituzione e avviò un processo di transizione democratica.
Oggi. La Tunisia è considerata una delle storie di successo della Primavera Araba, con un processo democratico ancora in corso. Tuttavia, il paese affronta sfide significative, tra cui instabilità politica, disoccupazione giovanile e minacce terroristiche. Le recenti elezioni e le riforme costituzionali mirano a consolidare un modello di democrazia fortemente presidenziale e uno stato consapevole del proprio ruolo all’interno dell’area geopolitica regionale.
Libia
La Storia. La storia moderna
della Libia è segnata dalla colonizzazione italiana e dalla dittatura di
Muammar Gheddafi, che governò dal 1969 fino alla sua deposizione nel 2011
durante la guerra civile libica. Il regime di Gheddafi era caratterizzato da
politiche autoritarie e di centralizzazione del potere, con una forte retorica
anti-occidentale.
Oggi. La Libia odierna
è divisa e instabile, con vari gruppi armati e fazioni politiche che competono
per il controllo del paese. Nonostante gli sforzi internazionali per
stabilizzare la situazione, la Libia rimane in gran parte frammentata, con un
governo di unità nazionale che lotta per affermare la propria autorità. La
situazione umanitaria e la sicurezza continuano a essere problematiche.
Egitto
La Storia. L’Egitto ha una
lunga storia di civiltà antiche e dominazioni straniere. Nel XX secolo,
l’Egitto ottenne l’indipendenza dal Regno Unito nel 1922, ma rimase sotto
un’influenza britannica significativa fino alla rivoluzione del 1952 che portò
Gamal Abdel Nasser al potere. Nasser attuò politiche di nazionalizzazione e
panarabismo. Successivamente, sotto Anwar Sadat e Hosni Mubarak, il paese si
orientò verso politiche più aperte e relazioni con l’Occidente.
Oggi. L’Egitto
contemporaneo, sotto il presidente Abdel Fattah al-Sisi, affronta sfide
economiche e politiche significative. Le riforme economiche hanno portato a una
crescita economica, ma anche a un aumento della povertà e delle disuguaglianze.
La repressione politica rimane forte, con limitazioni alle libertà civili e
politiche. L’Egitto continua a svolgere un ruolo chiave nella geopolitica del
Medio Oriente, mantenendo relazioni strategiche con vari attori internazionali.
Israele
La Storia. Israele, fondato
nel 1948, ha una storia complessa segnata da conflitti con i paesi vicini e
tensioni interne. La guerra di indipendenza del 1948-49, le guerre
arabo-israeliane e il conflitto israelo-palestinese hanno definito gran parte
della sua storia. Israele ha anche vissuto periodi di crescita economica e
tecnologica, affermandosi come una delle economie più avanzate della regione.
Oggi. Israele è una
democrazia parlamentare con una popolazione diversificata. Le questioni di
sicurezza nazionale, il conflitto con i gruppi palestinesi e le dinamiche
politiche interne sono al centro dell’attenzione. Le recenti normalizzazioni
delle relazioni con alcuni paesi arabi rappresentano sviluppi significativi, ma
permangono tensioni e sfide sul fronte interno e regionale.
Autorità Nazionale Palestinese
La Storia. L’Autorità
Nazionale Palestinese (ANP) è stata istituita nel 1994 a seguito degli Accordi
di Oslo tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP).
L’ANP è responsabile del governo dei territori palestinesi della Cisgiordania e
della Striscia di Gaza, ma ha affrontato numerose difficoltà, inclusi conflitti
interni e tensioni con Israele.
Oggi. Oggi, l’ANP è
divisa tra la Cisgiordania, controllata da Fatah, e Gaza, sotto il controllo di
Hamas. La situazione politica ed economica è instabile, con frequenti tensioni
e scontri con Israele. Gli sforzi per la riconciliazione interna e per una
soluzione del conflitto con Israele continuano, ma le prospettive di pace
rimangono incerte.
Libano
La Storia. Il Libano,
indipendente dalla Francia dal 1943, ha una storia segnata da conflitti civili
e interventi stranieri. La guerra civile libanese (1975-1990) ha devastato il
paese, seguito da un periodo di ricostruzione e di tensioni politiche e
settarie. La presenza di Hezbollah e l’influenza siriana hanno contribuito alla
complessità politica del Libano.
Oggi.Il Libano contemporaneo è afflitto da
una grave crisi economica, politica e sociale. Le proteste popolari, la
corruzione diffusa e l’esplosione del porto di Beirut nel 2020 hanno aggravato
la situazione. Il paese lotta per superare le divisioni settarie e per trovare
stabilità politica ed economica.
Siria
La Storia. La Siria,
indipendente dalla Francia nel 1946, ha una storia di instabilità politica e
colpi di stato. Il regime di Hafez al-Assad, iniziato nel 1970, ha stabilito
una dittatura che è stata portata avanti dal figlio Bashar al-Assad. La Siria
ha giocato un ruolo centrale nella politica del Medio Oriente, spesso in
conflitto con Israele e coinvolta nelle dinamiche regionali.
Oggi. La Siria è
devastata da una guerra civile iniziata nel 2011, con milioni di rifugiati e
sfollati interni. Il regime di Bashar al-Assad, con il sostegno di Russia e
Iran, ha riconquistato gran parte del territorio, ma il paese rimane diviso e
instabile. La ricostruzione e la riconciliazione sono sfide enormi, mentre la
situazione umanitaria è critica.
Giordania
La Storia. La Giordania,
creata dal mandato britannico nel 1921 e indipendente dal 1946, è stata
governata dalla dinastia hashemita. Il paese ha mantenuto una relativa
stabilità nonostante le turbolenze regionali, giocando un ruolo moderato nella
politica mediorientale e ospitando un gran numero di rifugiati palestinesi.
Oggi. La Giordania
continua ad affrontare sfide economiche e sociali, aggravate dall’afflusso di
rifugiati siriani e dalle pressioni regionali. Il re Abdullah II guida il paese
verso riforme economiche e politiche, cercando di mantenere la stabilità in un
contesto regionale difficile.
Turchia
La Storia. La Turchia
moderna, fondata da Mustafa Kemal Atatürk nel 1923, è stata costruita sui
principi della laicità e del nazionalismo. Dopo decenni di governo secolare e
militare, il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) di Recep Tayyip
Erdoğan ha trasformato il paese con un mix di islamismo e nazionalismo,
portando a una maggiore centralizzazione del potere.
Oggi. La Turchia è una
potenza regionale con ambizioni internazionali, ma affronta problemi interni
come la repressione dei diritti civili e le tensioni economiche. Le politiche
di Erdoğan, sia interne che estere, hanno suscitato controversie e criticità,
ma il paese continua a giocare un ruolo cruciale nella geopolitica del Medio
Oriente e oltre.
PARTE TERZA: DIALOGHI
MEDITERRANEI
“Italia e Tunisia: sfide e
criticità nel più ampio contesto internazionale” (di Mario Savina).
Il testo tratta delle complesse relazioni tra i due paesi nel contesto del
Mediterraneo, evidenziando i principali dossier di cooperazione e le sfide che
caratterizzano il rapporto bilaterale.
Relazioni Bilaterali e Contesto Mediterraneo.Le relazioni tra Italia e Tunisia sono
profondamente radicate nel contesto mediterraneo, caratterizzato da interessi
comuni in vari settori, tra cui migrazione, energia, economia e dialogo con
l’Unione Europea. Le turbolenze politiche ed economiche degli ultimi anni in
Tunisia hanno creato sfide significative per i governi italiani e i decisori
europei, ma Tunisi rimane un partner strategico sia per Roma che per Bruxelles.
DossierMigratorio. Il tema migratorio è centrale nei colloqui tra
Italia e Tunisia, specialmente dopo l’aumento delle partenze dalle coste
tunisine negli ultimi due anni. Nel 2023, oltre 96.000 migranti sono arrivati
in Italia dalla Tunisia, un numero triplicato rispetto all’anno precedente. La
lotta ai migranti subsahariani in Tunisia, promossa dal presidente Kaïs Saïed,
mira a distogliere l’attenzione dalla crisi socioeconomica interna. Gli accordi
tra Roma e Tunisi sul controllo dei flussi migratori si basano su una logica di
sicurezza, con l’Italia e l’UE che finanziano progetti per arginare i flussi
migratori e facilitare i rimpatri.
Sfide Politico-Economiche e Relazioni Internazionali. La Tunisia affronta
una perenne instabilità politica ed economica, con dinamiche internazionali
complesse. Il paese sta cercando di diversificare le sue relazioni estere,
coinvolgendo Russia e Cina, e considera l’adesione ai BRICS. Le relazioni con
l’Unione Europea e gli Stati Uniti sono strategiche, specialmente in un
contesto di rivalità con la Russia.
Cooperazione Energetica e Commerciale.
L’Italia guarda alla Tunisia come a un partner fondamentale nel settore
energetico, soprattutto per il gasdotto Transmed che collega l’Algeria
all’Italia attraverso la Tunisia. La cooperazione commerciale è forte, con
l’Italia che rappresenta il principale partner commerciale di Tunisi. Le
imprese italiane sono ben radicate nel paese, contribuendo significativamente
all’occupazione e all’economia locale.
SfideRegionalieSicurezza. Le relazioni tra
Italia e Tunisia sono inserite in un contesto regionale complesso, con
influenze di potenze come la Russia e la Cina. La stabilità del Nord Africa è
cruciale per la sicurezza europea, e l’Italia è impegnata nel supportare la
Tunisia attraverso accordi bilaterali e dialoghi internazionali. La
collaborazione tra i due paesi è essenziale per affrontare le sfide comuni e
promuovere la stabilità regionale.
In sintesi, il capitolo
evidenzia la necessità di un impegno costante e di una strategia integrata per
affrontare le sfide.
La Proiezione Futura dei
Rapporti Energetici tra Algeria e Italia (di Laura Ponte).
Il capitolo esplora il
futuro dei rapporti energetici tra Algeria e Italia nel contesto della guerra
in Ucraina e delle conseguenti sanzioni imposte alla Russia. Con l’obiettivo di
ridurre la dipendenza energetica dalla Russia, l’Italia ha cercato di
diversificare le sue fonti di approvvigionamento energetico, puntando in
particolare sull’Algeria, che è diventata un partner strategico fondamentale.
Contesto Storico e Relazioni Energetiche.Storicamente, le
relazioni energetiche tra i due paesi sono solide, risalenti agli anni ’50 e
’60, quando Enrico Mattei sostenne il percorso di liberazione nazionale
dell’Algeria, culminato con l’indipendenza del 1962. Questo ha portato alla
firma del primo contratto di fornitura di gas nel 1973, stabilendo una lunga
collaborazione energetica.
Sforzi Recenti e Progetti Futuri. Recentemente, gli sforzi italiani si sono
intensificati per aumentare le importazioni di gas algerino e ridurre quelle
russe. L’Italia ha firmato numerosi contratti con l’Algeria per aumentare la
capacità di esportazione di gas, sia tramite gasdotti che GNL (gas naturale
liquefatto). Nel 2022, Sonatrach ha incrementato le esportazioni di gas verso
l’Italia, con l’obiettivo di raggiungere 9 miliardi di metri cubi all’anno
entro il 2024.
Sfide Politiche e Tecniche. Nonostante le prospettive positive, esistono criticità sia politiche che tecniche. Politicamente, l’Italia ha scelto di non comprare gas dalla Russia a causa della sua inaffidabilità come partner commerciale. Tuttavia, l’Algeria è anch’essa considerata un paese “non libero” dal Freedom House, con bassi standard democratici, limitata trasparenza elettorale, corruzione e repressione delle proteste.
Possibili Rischi Geopolitici. C’è il timore che l’instabilità politica in Algeria possa influenzare i rapporti energetici, come già successo con la Spagna riguardo alla disputa del Sahara Occidentale. Inoltre, l’Algeria mantiene buone relazioni con la Russia, cooperando attivamente nel settore militare ed energetico, il che potrebbe complicare ulteriormente le dinamiche geopolitiche.
Progetti Integrativi e Energie
Rinnovabili. Per mitigare i rischi e aumentare la sostenibilità,
sarebbe utile che la cooperazione energetica tra Italia e Algeria includa anche
le energie rinnovabili. L’Algeria ha il potenziale per diventare leader nella
produzione di energia solare ed eolica, grazie al deserto del Sahara. Progetti
come il South H2 Corridor, che collegherà l’Algeria alla Germania, potrebbero
essere cruciali per trasformare l’Italia in un hub energetico, riducendo al
contempo la dipendenza dai combustibili fossili.
Conclusioni. Il futuro dei
rapporti energetici tra Algeria e Italia appare promettente ma non privo di
sfide. La diversificazione delle fonti di approvvigionamento e l’inclusione
delle energie rinnovabili sono passi fondamentali per garantire la sicurezza
energetica e la sostenibilità a lungo termine.
“Nato e Ue al cospetto
della crisi libica: dall’apice al tramonto del «crisis management»
occidentale?” (di Stefano Marcuzzi).
Il capitolo analizza la
gestione e le conseguenze della crisi libica da parte di Nato e Unione Europea,
evidenziando i fallimenti e le lezioni apprese.
Contesto della crisi. Nel marzo 2011, una coalizione di paesi sotto l’ombrello dell’ONU e guidata militarmente dalla Nato lanciò una campagna aerea contro il regime di Gheddafi in Libia per fermare la repressione violenta contro i civili. Nonostante la caduta di Gheddafi e il collasso del suo regime, la Libia è rimasta intrappolata in una crisi pluridecennale, caratterizzata da conflitti interni ed esterni, che hanno visto la partecipazione di attori regionali e globali come Russia, Turchia, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Francia e Arabia Saudita.
L’immigrazione tema di campagna elettorale negli Stati Uniti.
di Melissa de Teffé
Articolo originale pubblicato su Panoràmica Latinoamericana, plataforma informativa, de investigación y análisis, especializada en las relaciones birregionales Unión europea-América Latina y Caribe o CELAC-UE.
Entrambi il presidente Joe Biden e l’ex presidente Donald Trump hanno fatto visita al confine meridionale giovedì, per affrontare quello che oggi è considerato il problema cruciale di questa campagna presidenziale del 2024: l’immigrazione e il traffico di esseri umani.
Ad aprire le danze politiche, con mezz’ora di differenza è Trump, che da Eagle Pass, Texas, ormai simbolo di questa sfida politica, circondato da agenti federali e dal Governatore Greg Abbott, dopo un iniziale elogio per i risultati ottenuti dalle azioni di forza dei federali locali, ha proseguito citando alcune statistiche non verificabili: “milioni e milioni di persone hanno attraversato i nostri confini; potrebbero essere 15 milioni, potrebbero essere 18 milioni entro la fine del mandato presidenziale (di Biden). ….L’anno scorso quasi la metà di tutti gli arresti effettuati dall’Immigration and Customs Enforcement (ICE) riguardavano criminali imputati, più di 33.000 aggressioni, 3.000 rapine, 6.900 furti, 7.500 crimini legati ad armi, 4.300 reati sessuali, 1.600 sequestri e 1.700 omicidi: questi sono i crimini commessi dalle persone che stanno entrando nel nostro paese e provengono dalle carceri, dalle prigioni, dagli istituti mentali e dagli ospedali psichiatrici. Sono terroristi a cui è permesso entrare nel nostro paese ed è terribile. Non solo dal Sud America, ma da tutto il mondo: dal Congo, con una popolazione molto numerosa che proviene dalle carceri, Cina, Iran, paesi non amici degli Stati Uniti.”
Per appesantire le accuse contro Biden, Trump cita l’orribile assassinio di Laken Riley, una studentessa di 22 anni laureata in infermieristica, uccisa il 22 febbraio, mentre faceva jogging vicino all’Università della Georgia, perpetrato da un illegale. Prima di giungere a Eagle Pass, Texas, l’ex presidente ha fatto visita ai genitori della giovane. Dopo aver dialogato con i Riley, ha dichiarato: «Sono individui straordinari profondamente colpiti al di là di ogni immaginazione».
Ma sono molti i conservatori del resto degli Stati Uniti che hanno identificato nella morte di Riley un esempio di crimine commesso da migranti, dopo che l’assassino, un venezuelano senza documenti, entrato illegalmente, è stato accusato in relazione alla morte della ragazza. Trump ha anche definito la crisi migratoria come «L’invasione di Joe Biden» è una «violazione brutale del nostro paese».
Biden, invece, dopo aver ringraziato gli agenti di frontiera per il loro lavoro, ha promesso che avrebbe inviato più risorse a supporto della crisi frontaliera. «È passato molto tempo dall’ultimo intervento», ha detto, aggiungendo che il controllo delle frontiere ha «disperatamente»bisogno di più risorse.
Biden ha continuato lanciando un appello diretto a Trump, invitandolo a unirsi a lui nell’esortare il Congresso a ratificare il disegno di legge. Quest’ultimo era stato bloccato quando Trump aveva mobilitato i suoi sostenitori nel Congresso contro di esso. «Tu e io sappiamo che è il disegno di legge sulla sicurezza delle frontiere più difficile, efficiente ed efficace che questo paese abbia mai visto», ha detto Biden. «Quindi, anziché fare politica usando questo problema, perché non ci uniamo e lo facciamo?”
Biden ha elogiato il disegno di legge bipartisan sulla frontiera come «una vittoria per il popolo americano», definendolo un «iniziativa veramente bipartisan». Ha esortato il Senato a riesaminare il disegno di legge, chiedendo ai senatori di «mettere da parte la politica» e a Mike Johnson, R-La., presidente della Camera, di portare il disegno di legge in aula. «Dobbiamo agire», ha detto Biden, aggiungendo che i repubblicani al Congresso devono «mostrare un po’ di fermezza».
La tanto attesa proposta di legge del Senato di 118 miliardi di dollari sulla “Sicurezza delle frontiere e aiuti in tempo di guerra», pubblicata domenica 4 febbraio, a cui si riferisce Biden è stata affondata. Insieme al finanziamento per l’Ucraina e Israele, così come all’assistenza umanitaria per le persone che fuggono da Gaza, questo disegno di legge rappresenta una riscrittura drammatica del sistema di asilo statunitense.
Dei 118$ miliardi, 60$ andrebbero all’Ucraina, 14,1$ a Israele, 4,83$ alla regione Indo-Pacifico, 10$ per aiuti umanitari per Ucraina, Israele, Gaza e pochi altri, 20$ per migliorare la sicurezza al confine americano, 2, 72$ per l’arricchimento dell’uranio. La maggior parte dei fondi destinati all’Ucraina, tuttavia, non verrà devoluta, invece, decine di miliardi di dollari affluiranno nelle casse del Pentagono per acquistare nuove armi da aziende statunitensi al fine di rimpinguare le riserve intaccate per aiutare l’Ucraina, finanziare operazioni militari e stipulare contratti per nuove armi per Kiev. Il senatore Rand Paul (R-Ky.), contrario a ulteriori finanziamenti per assistere l’Ucraina, ha scritto sui social media: «Quello che sappiamo ad oggi è: 60$ miliardi per il regime corrotto ucraino e nessuna vera sicurezza delle frontiere per il nostro paese». «Questo deve finire.» E supportando quanto scritto da Paul, prosegue il senatore Mike Lee (R-Utah) con tono sarcastico- «un fatto curioso: «... il bilancio del Corpo dei Marines degli Stati Uniti nell’anno fiscale 2023 era di 53,8 miliardi di dollari. Questo disegno di legge darebbe all’Ucraina più di 60 miliardi di dollari».
Dopo il discorso di Biden, la risposta di Trump attraverso il suo portavoce Karoline Leavitt, non si è fatta aspettare, ribattendo all’appello di Biden così: «Anziché scaricare la colpa su tutti tranne che su se stesso, Joe Biden dovrebbe assumersi la responsabilità della crisi al confine, delle morti e delle distruzioni che le sue politiche hanno causato, il come Laken Riley e utilizzare il suo potere esecutivo per chiudere il confine oggi».
Un sondaggio della NBC News di gennaio ha rilevato che il 57% degli elettori registrati ha dichiarato che Trump sarebbe più idoneo ad occuparsi della sicurezza al confine, mentre solo il 22% ha detto lo stesso riguardo a Biden. Essendo stato bocciato il progetto di legge che disciplina l’immigrazione, Biden sta valutando se usare il “Presidential Executive Order” o provvedimento presidenziale, per limitare le regole sull’asilo bypassando il Congresso. I sostenitori per una immigrazione “umana” dei migranti e democratici progressisti lo hanno esortato a non seguire questa strada, sostenendo che renderebbe più difficile per gli immigrati richiedere asilo, esponendoli a situazioni e condizioni pericolose in Messico.
La guerra in Ucraina arriva fino in Africa. Il commento di M. Cochi a RaiNews24
Mosca ha costruito nel tempo una rete di relazioni economiche e politiche con molti paesi del continente africano che non prendono posizione contro l’aggressione russa
Se l’Occidente si è apertamente schierato contro l’invasione russa, nel continente africano Mosca continua a raccogliere consensi, rafforza i legami economici e politici e costruisce una strategia di pressione anche verso l’Europa. Ne abbiamo ripercorso le tappe e le ragioni con Marco Cochi, giornalista esperto di Africa. Insieme ad Andrea Segré, docente di Politiche Agrarie Internazionali all’Università di Bologna abbiamo spiegato come il cibo – i cereali, in questo caso – possa essere utilizzato come un’arma geopolitica e cercato di capire se le istituzioni sovranazionali hanno il potere di invertire la rotta. Leila Belhadj Mohamed, che si occupa di geopolitica per Life Gate, ha analizzato il ruolo della Turchia e l’importanza, per questi temi, di Paesi come il Mali e il Sudan. Conduce Veronica Fernandes
Nrc: le 10 crisi più trascurate al mondo sono tutte africane
L’autorevole Consiglio norvegese per i rifugiati (Nrc) ha
pubblicato l’annuale
rapporto che elenca le dieci crisi di sfollamento più trascurate, sia a
livello politico che mediatico, dalla comunità internazionale. Scorrendo
l’infausta graduatoria riferita al 2021, non costituisce una novità che molti
paesi africani siano in cima alla lista.
Come dimostra la crisi più dimenticata in assoluto, quella
della Repubblica democratica del Congo
(RdC), ormai diventata un esempio da manuale di abbandono con una presenza
fissa nelle precedenti cinque edizioni del report dell’Ong di Oslo (La RdC è
stata in cima alla classifica già due volte nel 2017 e 2020, mentre si è
classificata seconda nel 2016, 2018 e 2019).
Il nord-est della RdC è afflitto da tensioni e conflitti
intercomunitari, con un drammatico aumento degli attacchi ai campi profughi dal
novembre 2021, che uniti all’insicurezza alimentare, che ha raggiunto il livello
più alto mai registrato, hanno causato lo sfollamento di oltre 5,5 milioni di
persone all’interno del paese.
Secondo lo studio, l’aiuto fornito lo scorso anno alla RdC è
stato pari a meno di un dollaro a settimana per persona bisognosa e l’appello
umanitario è stato finanziato per meno della metà, non consentendo agli
operatori sul campo di decidere a cosa e a chi dare la priorità. Al contrario,
l’appello umanitario lanciato dall’Ucraina lo scorso primo marzo è stato quasi
interamente finanziato lo stesso giorno.
Non vanno meglio le cose per gli altri paesi africani: in Burkina Faso, seconda nazione della
graduatoria, nonostante un forte aumento di persone che fuggono dalle loro
case, durante l’intero 2021 la crisi degli sfollati burkinabe ha ricevuto una
copertura mediatica sostanzialmente inferiore, rispetto alla media che la
guerra in Ucraina ha ricevuto quotidianamente durante i primi tre mesi del
conflitto.
Nella speciale classifica stilata dall’Nrc, la RdC e il
Burkina Faso, sono seguite da Camerun,
Sud Sudan, Ciad, Mali, Sudan, Nigeria, Burundi ed Etiopia. Così, per la prima volta, tutte e dieci le crisi più
neglette dalla comunità internazionale sono nel continente africano. Un triste
primato che indica il fallimento cronico dei decisori, dei donatori e dei media
nell’affrontare i conflitti e le sofferenze umane nel continente.
L’Nrc ha sviluppato la lista delle dieci crisi più trascurate
basandosi su tre criteri. In primo luogo, ha tenuto conto del numero di
iniziative politiche e diplomatiche internazionali in corso per trovare
soluzioni durature.
Per esempio, negli
ultimi quattro anni, il Camerun è sempre nei primi posti della classifica a
causa della mancanza di impegno da parte della comunità internazionale per
risolvere gli annosi problemi, che affliggono la popolazione della parte
anglofona del paese africano.
Un altro criterio su cui i ricercatori della Ong norvegese hanno
basato lo studio è la mancanza di attenzione
riservata alle crisi dai media
internazionali, che coprono
raramente questi paesi, al di là di rapporti ad hoc su nuovi focolai di
violenza o malattie. Mentre in diversi Stati africani la mancanza di libertà di
stampa aggrava la carenza di attenzione mediatica.
Per indicare un esempio, dal 2019 i media hanno citato i
quasi due milioni gli sfollati in Burkina Faso causati dagli attacchi dei
gruppi islamisti, lo stesso numero di volte dei profughi ucraini durante i
primi tre mesi del conflitto.
Infine, l’Nrc si è concentrato sulla carenza di aiuti finanziari internazionali caratterizzata da una certa stanchezza dei donatori e il
fatto che molti paesi africani sono considerati di limitato interesse
geopolitico.
Il basso livello di finanziamento limita un adeguato
soccorso
Senza tralasciare, che il basso
livello di finanziamento limita in maniera significativa la capacità delle
organizzazioni umanitarie sia di fornire un adeguato soccorso alle popolazioni
sia di svolgere un’efficace attività di advocacy
e comunicazione per queste crisi, attivando un circolo vizioso.
Le conseguenze sono ben descritte
dai numeri, che raccontano come nel 2021, nella RdC erano necessari due miliardi di dollari
per coprire i bisogni primari del paese, di cui solo il 44% è stato coperto e
nel 2022 si stima che la copertura sarà limitata al 10%.
In risposta alla tragica crisi in Ucraina,
abbiamo assistito a un’imponente dimostrazione di umanità e solidarietà,
sostenuta dalla rapidità di azione da parte della politica. I paesi
donatori, le aziende private e le opinioni pubbliche hanno tutti contribuito
generosamente, mentre i media hanno seguito ininterrottamente lo scoppio della
guerra prodotta dall’aggressione militare della Russia. Allo stesso tempo, la
situazione si sta deteriorando per milioni di persone afflitte da crisi, che si
stanno profilando all’ombra del conflitto in corso in Ucraina.
I livelli di malnutrizione sono in
aumento nella maggior parte dei dieci paesi presenti nell’elenco delle crisi
trascurate, aggravate dall’aumento dei prezzi del grano e del carburante
causati dalla guerra in Ucraina. Le organizzazioni umanitarie hanno
lanciato costantemente l’allarme dall’inizio del 2022, ma la comunità
internazionale stenta a intraprendere l’azione necessaria.
Inoltre, i finanziamenti per queste
crisi trascurate sono in pericolo. Diversi paesi donatori stanno ora
decidendo di ridurre gli aiuti all’Africa e di reindirizzare i finanziamenti
verso la risposta dell’Ucraina e l’accoglienza dei rifugiati in Europa.
Una situazione perfettamente
descritta dal segretario generale dell’Nrc, Jan Egeland, che alla
presentazione del report ha affermato che «la guerra in Ucraina ha dimostrato
l’immenso divario tra ciò che è possibile fare quando la comunità
internazionale si unisce e la realtà quotidiana di milioni di persone che
soffrono in silenzio nel continente africano, che il mondo ha scelto di
ignorare».
Ucraina: aumentano i bombardamenti con artiglieria e missili ma rallenta l’avanzata terrestre.
Le forze militari russe intensificano i bombardamenti sul fronte meridionale, su Odessa e Mariupol, e sui fronti settentrionale e orientale, in particolare Kiev e Kharkiv.
Le limitate azioni tattiche russe a nord-ovest di Kiev potrebbero indicare le fasi preparatorie di un’offensiva su larga scala in tempi brevi o, in alternativa, una mossa volta a far credere ormai prossimo un attacco al fine di accelerare il processo negoziale a favore di Mosca.
Claudio Bertolotti
Le forze russe stanno affrontando crescenti difficoltà nel rimpiazzare le perdite in combattimento – stimate in circa 7.000 caduti, compresa la possibile morte del comandante della 150a divisione di fanteria meccanizzata vicino a Mariupol, oltre a mezzi da combattimento ed equipaggiamenti. Potrebbero non essere sufficienti gli sforzi russi per rischierare forze dall’Armenia, dall’Ossezia del Sud, dalla Georgia e dalle unità di riserva nel distretto militare orientale, nonché i richiami di riservisti e di leva e il dubbio trasferimento di combattenti siriani in Russia e Bielorussia.
L’intervento del Direttore Claudio Bertolotti ad Agorà Extra, Rai 3 del 17 marzo 2022.
Le conseguenze della pandemia da COVID-19 (e dei disastri naturali) sulla sicurezza del Mediterraneo occidentale: presentato il documento “5+5” ai ministri della Difesa
Il 15 dicembre 2021, sotto la presidenza della Libia, è stato presentato ai dieci ministri della Difesa dei paesi aderenti alla “5+5 Defense initiative“, l’annuale documento sviluppato dal gruppo di ricerca internazionale composto dai dieci ricercatori delle due sponde del Mediterraneo occidentale.
La “5+5 Defense Initiative” è un forum di collaborazione nel settore della difesa e della sicurezza nato a fine 2004, che vede coinvolte dieci Nazioni del Mediterraneo occidentale: Algeria, Francia, Italia, Libia, Malta, Mauritania, Marocco, Portogallo, Spagna e Tunisia. L’obiettivo della ” 5+5 Defense Initiative” è di migliorare, tramite la realizzazione di attività pratiche e attraverso lo scambio di idee e di esperienze, la reciproca comprensione e la fiducia nell’affrontare i problemi della sicurezza nell’area di interesse.
La “5+5 Defense Initiative” è un forum di collaborazione nel settore della difesa e della sicurezza nato a fine 2004, che vede coinvolte dieci Nazioni del Mediterraneo occidentale: Algeria, Francia, Italia, Libia, Malta, Mauritania, Marocco, Portogallo, Spagna e Tunisia. L’obiettivo della ” 5+5 Defense Initiative” è di migliorare, tramite la realizzazione di attività pratiche e attraverso lo scambio di idee e di esperienze, la reciproca comprensione e la fiducia nell’affrontare i problemi della sicurezza nell’area di interesse.
Il Direttore di START InSight, Claudio Bertolotti, è il Ricercatore Senior e rappresentante unico per l’Italia presso il gruppo di ricerca internazionale della “5+5 Defense Initiative”, che comprende un ricercatore per ogni paese. La missione del gruppo è fornire ai ministri della Difesa della “5+5” uno strumento di pensiero, analisi e previsione, che permetta loro di approfondire qualsiasi argomento relativo al Mediterraneo occidentale, con l’obiettivo di rafforzare l’azione comune dei partner e facilitare lo sviluppo di una nuova concezione della sicurezza regionale.
L’attività di ricerca è stata sostenuta e sviluppata attraverso il coordinamento del CEMRES – Centre Euro-Magrébin des Etudes et des Recherches Stratégiques – di Tunisi che é, per gli esperti e ricercatori provenienti da Europa e Maghreb, uno spazio per lo scambio di esperienze e lavori sulle soluzioni ai problemi di sicurezza comune per aumentare il clima di fiducia producendo una attività di ricerca oggettiva che evidenzia le vere cause di insicurezza, i problemi e le sfide strategiche del Mediterraneo occidentale.
In linea con il tema di ricerca 2021 – The repercussions of natural disasters, epidemics and pandemics on the security of 5 + 5 Countries (means of cooperation and mutual support) – disastri naturali, epidemie e pandemie sono indicate quali sfide chiave a cui i governi (e le società) sono chiamati a rispondere con soluzioni che promuovano risultati efficaci e sostenibili, in grado di costruire una capacità di resilienza, nel rispetto dei diritti umani e della promozione del benessere economico, sociale e culturale in tempi e a costi complessivi ragionevoli.
Terrorismo: Bertolotti (Ispi), ‘oggi è post-Isis ed è in ascesa’ (ADNKRONOS)
Blinken a Roma, via al vertice anti Isis: il commento di C. Bertolotti
L’esperto: “Più pericoloso, Mediterraneo allargato è area calda”
“Oggi il terrorismo è post-Isis, molto più pericoloso”, perché “meno facile da monitorare, e dunque da contrastare”, un “fenomeno sociale sempre in ascesa, le cui capacità crescono”, in un periodo storico in cui “l’area calda” è il “Mediterraneo allargato”. Parte da queste premesse Claudio Bertolotti, esperto di Medio Oriente e Nord Africa, radicalizzazione e terrorismo dell’Ispi, nonché direttore di Start InSight, nel giorno della ministeriale plenaria della Coalizione globale anti-Isis co-presieduta a Roma dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio e dal segretario di Stato Usa, Antony Blinken.
“Lo Stato islamico – evidenzia Bertolotti in un’intervista all’Adnkronos – ha rinunciato alla propria natura territoriale ben prima che la coalizione anti-terrorismo ne decretasse la sconfitta militare”. “Nel 2014 – osserva – l’allora autoproclamato ‘califfo’, Abu Bakr-al Baghdadi annunciò da Mosul la costituzione dello ‘Stato islamico’, una realtà anazionale, globale”. Secondo vari studiosi l’Isis era nato come reazione alle operazioni americane avviate in Iraq nel 2003 e a una politica considerata filo-sciita con le popolazioni sunnite che si sentivano marginalizzate. Secondo Bertolotti, che è anche direttore esecutivo dell’Osservatorio sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo (ReaCT), “chiamarlo ancora Isis o Daesh dimostra che si sta per avviare questa nuova fase della guerra al terrore con una chiave di lettura superata”, dunque “non adeguata”.
E oggi “l’area calda” è quella del “Mediterraneo allargato”, con un “legame stretto tra criminalità organizzata e organizzazioni terroristiche”. Bertolotti parla di “traffico di droga, armi” e del “ricco business dell’immigrazione irregolare che di fatto alimentano un’economia parallela, spesso superiore all’economia degli Stati che attraversano”. Il pensiero va alle “aree dell’Africa sub-sahariana”, a quelle “periferiche dei Paesi del Nord Africa”, alla “Libia, in particolare”.
‘Ideologia Stato islamico non intaccata, si consolida dall’Afghanistan all’Africa’
E’
indispensabile, sottolinea, “contrastare questi traffici illeciti” per
“contribuire a indebolire la criminalità che li gestisce e le
organizzazioni terroristiche che hanno il controllo di alcune aree e vie
di comunicazione” e che “grazie ai proventi illeciti riescono ad
acquisire sempre più consenso da parte delle popolazioni locali”.
Persone che a queste organizzazioni e a questi gruppi “si affidano per
la propria sopravvivenza”.
In questi anni,
prosegue nella sua analisi, “la coalizione anti-terrorismo ha abbattuto
lo Stato islamico nella sua natura territoriale”, ma “non ne ha
minimamente intaccato l’ideologia, la sua capacità di penetrazione
sociale” e, in particolare, “la spinta all’emulazione”. Questo “porta,
da un lato singoli soggetti ad agire spesso in maniera improvvisata, in
nome del gruppo”, dice, con il pensiero rivolto all’Europa, e
“dall’altro a costituire forme opposizione armata strutturata laddove
gli Stati sono più deboli o assenti”, e si parla quindi di “fenomeno
insurrezionale” e “guerriglia”. Dall’Afghanistan al Sahel.
Non solo. “Lo Stato islamico – prosegue – non è stato cacciato dall’Iraq e dalla Siria, dove è nato e ha radici molto profonde nelle realtà sunnite periferiche e rurali, spesso marginalizzate dai governi nazionali”. Di qui l’allarme: “Oggi si sta consolidando sempre più in Paesi in crisi e aree di crisi, dall’Afghanistan all’Iraq, all’Africa”. Alla ministeriale della Coalizione anti-Isis, “con il sostegno degli Stati Uniti”, l’Italia – ha detto Di Maio – ha proposto la creazione di un “gruppo di lavoro specifico” per l’Africa e ha assicurato che “farà la propria parte” per la stabilità del continente e del Sahel, definito una “preoccupazione”.
‘Azione militare da sola non basta, cambiare approcci del passato’
Secondo Bertolotti, ad oggi “non abbiamo fatto abbastanza in termini di contrasto al terrorismo, inteso come impegno sociale, politico ed economico” per affrontare “le ragioni primarie del malcontento che porta all’adesione al terrorismo”. E, rileva, “difficilmente si potrà fare di più adottando i medesimi approcci utilizzati finora dove a un preponderante impegno in termini militari non corrisponde un pari impegno nella ricostruzione e nell’assistenza”.
Perché,
ripete, “se è vero che la lotta al terrorismo passa anche attraverso
un’azione militare incisiva, questa da sola non basta” e “l’aiuto alla
popolazione e alle istituzioni locali necessita di sostegno concreto
all’economia locale, di progetti infrastrutturali, di accesso al libero
mercato”. Il sostegno “militare deve essere un contorno efficace a tutto
questo, deve agevolare lo sviluppo economico e sociale, garantito dalla
sicurezza”, prosegue Bertolotti, che ricorda “l’infelice ritirata
statunitense del 2012 che aprì le porte al consolidamento di al-Qaeda”
nel Paese arabo “e alla successiva espansione dello Stato islamico a
livello regionale e poi globale”.
Per l’esperto, “si sta ripetendo quanto in parte già fatto in passato“. Dall’Iraq all’Afghanistan, dall’Afghanistan all’Iraq, “dove – afferma – lo Stato islamico si è rafforzato proprio dopo, e in conseguenza, del disimpegno militare della Coalizione”. Eppure, rileva, “il ritiro dall’Afghanistan”, cominciato a inizio maggio, è partito “con le stesse dinamiche e difficoltà con cui si lasciò l’Iraq”, dove l’Italia – come ha annunciato oggi Di Maio – manterrà un “significativo contingente militare” a supporto della popolazione e delle istituzioni locali. In Iraq, ricorda Bertolotti, “lo Stato islamico conquistò città intere, disarmò reparti interi dell’esercito nazionale e si impossessò dei carri armati e delle armi che gli Stati Uniti avevano lasciato alle forze armate nazionali”, mentre in Afghanistan oggi “i Talebani stanno facendo esattamente la stessa cosa”. “In pochi mesi – conclude – potrebbero decretare il collasso delle forze armate afghane e la caduta dello stesso governo di Kabul”.
Audizione su fenomeni di estremismo violento di matrice jihadista. Commissione parlamentare – Affari Costituzionali
COMMISSIONE PARLAMENTARE 1 – AFFARI COSTITUZIONALI: AUDIZIONE DI CLAUDIO BERTOLOTTI, DIRETTORE DI START INSIGHT
Alle ore 14 del 28 aprile 2021 la Commissione Affari costituzionali, nell’ambito dell’esame congiunto della proposta di legge recante “Misure per la prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo violento di matrice jihadista”, e della proposta di legge recante “Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sui fenomeni di estremismo violento o terroristico e di radicalizzazione di matrice jihadista”, ha svolto, in videoconferenza, l’audizione di Claudio Bertolotti, Direttore di START InSight e delll’Osservatorio sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo (ReaCT).
TRASCRIZIONE DELL’INTERVENTO
Presidente, Signore/i Onorevoli buon pomeriggio e grazie per questo invito
Seguo da tempo il dibattito su una legge per la prevenzione e il contrasto del terrorismo ideologico, e posso dire di aver ben analizzato e sostenuto la necessità dei testi di legge oggi in discussione:
Sulla base della mia esperienza, confermo, come già fatto in altre sedi, l’opportunità di proseguire nella direzione intrapresa dal Parlamento in tema di prevenzione e contrasto ritenendo quelle fatte, proposte coerenti con quello che è l’attuale quadro relativo al fenomeno della radicalizzazione, della manifestazione violenta di matrice jihadista e del terrorismo di matrice ideologica in senso più ampio.
E lo faccio focalizzando il mio contributo di pensiero sui numeri del terrorismo europeo:
Dei quasi 500 attacchi terroristici, compresi quelli falliti e sventati, registrati nell’Unione Europea il 63% sono attribuiti a gruppi separatisti ed etno-nazionalisti, il 16% a movimenti della sinistra radicale (in aumento, in particolare in Italia, paese più colpito), il 2,8% a gruppi di estrema destra (in diminuzione nel 2019; in aumento nel 2020), il 18% sono azioni di matrice jihadista. Sebbene gli atti riconducibili al jihadismo siano una parte marginale, sono però causa di tutte le morti per terrorismo nel 2019 e di 16 uccisioni nel 2020.
L’onda lunga del terrorismo in Europa, emerso con il fenomeno “Stato islamico” a partire dal 2014, ha fatto registrare 147 azioni in nome del jihad dal 2014 ad oggi: 189 i terroristi che vi hanno preso parte (59 morti in azione), 407 le vittime decedute e 2.421 i feriti (database START InSight).
Nel 2020 gli eventi sono stati 25, contro i 19 dell’anno precedente e con un raddoppio di azioni di tipo “emulativo”, ossia ispirate da altri precedenti attacchi nei giorni precedenti: sono il 48% del totale le azioni emulative nel 2020 (erano il 21% l’anno precedente). E ciò evidenzia il rischio di “reazioni a catena” che possono conseguire dalla condotta di singole azioni terroristiche.
Due gli aspetti rilevanti emersi dall’analisi dell’ultimo quadriennio:
1. Cresce il numero di terroristi recidivi – soggetti già condannati per terrorismo che compiono azioni violente a fine pena detentiva e, in alcuni casi, in carcere: dal 3% del totale dei terroristi nel 2018, al 7% (2) nel 2019, al 27% (6) nel 2020. Ciò conferma la pericolosità sociale di soggetti che, a fronte di una condanna detentiva, non abbandonano l’intento violento ma lo posticipano; un’evidenza che suggerisce l’aumento della probabilità di azioni terroristiche nei prossimi anni, in concomitanza con la fine della pena dei molti terroristi attualmente detenuti.
2. A fronte di una partecipazione al terrorismo di soggetti nati e cresciuti in Europa (prime e seconde generazioni e comunque immigrati regolari) del periodo 2014-2018, è stato verificato l’aumento del numero di immigrati irregolari tra i terroristi con ciò suggerendo un rischio potenziale di collegamento tra il terrorismo e l’aumento dei migranti irregolari. Nel 2020 il 20% dei terroristi sono immigrati irregolari. In Francia è aumentato il ruolo degli irregolari nella condotta di azioni terroristiche: se fino al 2017 nessuno degli attacchi era stato condotto da immigrati irregolari, nel 2020 il 40% dei terroristi è un irregolare.
Infine, una considerazione sulla minaccia emergente del terrorismo associato a gruppi di estrema destra e cospirazionisti:
La violenza ideologica associata alla destra radicale è un fenomeno che sta fermentando da tempo e che negli ultimi anni si è manifestato in maniera concreta, come dimostrano i fatti di Capitol Hill negli Stati Uniti e gli eventi secondari associati al movimento QANon che si sono imposti in molti paesi europei, compresa l’Italia. Ad oggi gli attacchi terroristici associati all’estrema destra rappresentano meno del 3% del totale ma con un aumento progressivo registrato negli ultimi due anni.
QAnon desta serie preoccupazioni tra gli analisti per la velocità con la quale si diffonde. Inoltre, come evidenziato dal Prof. Andrea Molle nelle sue analisi sul fenomeno, esso ha già mostrato negli Stati Uniti il potenziale per azioni di stampo terroristico. Si consiglia pertanto un monitoraggio dei social media associati a tale movimento in Italia e di stabilire una rete di collaborazioni con istituzioni pubbliche e private che già si occupano di questo fenomeno in Europa come negli Stati Uniti.
Insieme agli analisti dell’Osservatorio che dirigo, rimango a vostra disposizione.
fonte sito web della Camera dei Deputati – Parlamento Italiano
Pressioni migratorie dall’Africa nel lungo periodo: un aumento progressivo
La migrazione, regolare e irregolare, dai paesi subsahariani al Maghreb è un fenomeno storico che si è evoluto nel tempo. La migrazione irregolare è aggravata da conflitti armati, povertà e cambiamento climatico e le prospettive di cambiare questa dinamica nel prossimo futuro non sono molto ottimistiche. Inoltre, nel 2048 l’Africa avrà una popolazione più giovane e forte dell’Europa: questo significa che in trent’anni il continente africano avrà una popolazione in età lavorativa di molto superiore a quella europea.
La “sfida migratoria” del secolo
La “sfida migratoria” del secolo si manifesta nei numeri di un fenomeno strutturale di lungo periodo basato sull’aumento costante della popolazione mondiale che, secondo le previsioni, nel periodo 2021-2100 passerà dagli attuali 7 miliardi di individui ad oltre 10 miliardi.
Tra le conseguenze di tale evoluzione in termini quantitativi si impone l’andamento dei flussi migratori che ad oggi è di 4,4 milioni di migranti/anno, per un totale di circa 250 milioni di migranti; un aumento che, come dimostrato dai trend più recenti, ci consegna la fotografia di un fenomeno caratterizzato da un incremento pressoché costante di migranti pari al 2% per anno.
Come evidenziato da un recente studio dell’ISPI (Villa, et. al., 2018), dal 1990 al 2018 la popolazione dell’area africana subsahariana è raddoppiata, passando da 500 milioni di persone a 1 miliardo – di cui il 60% è rappresentata da giovani di età compresa tra zero e 24 anni – e i migranti internazionali provenienti dall’area sono aumentati del 67%: da 15 a 25 milioni. Ciò significa che l’aumento dei migranti dall’Africa subsahariana segue l’andamento demografico dei paesi di origine; se nel 1990 la popolazione emigrante dell’area subsahariana era il 3% del totale, il dato attuale si attesta al 2,5%: una flessione nel complesso non significativa.
Dati significativi, quelli riportati, relativi a una parte dei flussi migratori africani, sia interni che esterni, a cui contribuisce, come fattore di limitazione e contenimento, il ruolo delle barriere naturali.
L’Africa sub-sahariana a est e ad ovest non ha sbocchi poiché chiusa tra i due oceani, e dunque guarda al nord come alternativa. Un alternativa che ha però limiti oggettivi rappresentati dal deserto del Sahara e dal Mare Mediterraneo che di fatto limitano quei flussi migratori che altrimenti sarebbero incontenibili.
Problema futuro: crescita dell’Africa e decrescita dell’Europa
I Paesi del continente europeo e di quello africano costituiscono due macro realtà che hanno caratteristiche divergenti e problematicità reciproche.
Se in entrambi i continenti vi è un sostanziale equilibrio di genere, con un rapporto bilanciato tra uomini e donne, si impone però un forte disequilibrio sull’età delle due popolazioni di riferimento: quella europea è una popolazione che sta progressivamente invecchiando, mentre quella africana è composta da una crescente fascia generazionale giovane. Questo è il risultato di un differente rapporto tra tasso di fecondità e tasso di mortalità. Il primo, il tasso di fecondità è l’elemento determinante: è basso in Europa (1,69 figli per donna) mentre è alto in Africa, quasi il doppio (4,4 figli per donna), con una crescita nella sola Nigeria di 8milioni/anno; il tasso di “stabilità” è pari a 2. Nel 2050 una persona su quattro nascerà in Africa. Si evince da questo dato come la popolazione giovane in Europa si stia progressivamente riducendo a fronte di un aumento di quella anziana.
Parallelamente influisce sullo sbilanciamento generazionale anche il tasso di mortalità infantile (sotto i 5 anni), ossia il rapporto tra il numero delle morti durante un periodo di tempo e la quantità della popolazione media dello stesso periodo; il tasso di mortalità è alto in Africa (75 su 1000) e molto basso in Europa (5 su 1000).
Un quadro più generale ci mostra una situazione in cui metà della popolazione africana ha meno di 15 anni ed è valutato che nel 2048 l’Africa avrà una popolazione più giovane e forte dell’Europa, il che significa che in trent’anni il continente africano avrà una popolazione in età lavorativa significativamente superiore a quella europea.
Attacco in Svezia: terrorismo o violenza criminale? Intervento di C. Bertolotti a Radio24
Svezia, 3 marzo 2021, accoltellate otto persone. “Si indaga per terrorismo”
E’ successo a Vetlanda , una cittadina di circa 13mila abitanti nel sud del Paese. Un giovane di 20 anni, di nazionalità afghana, è stato fermato dalla polizia che lo ha ferito alle gambe. Il giovane era noto alla polizia per reati minori. Si indaga per terrorismo.
La Svezia è un paese con un alto indice di violenza criminale ed è al tempo stesso tra i paesi con il più alto indice di radicalizzazione jihadista, dopo la Finlandia e la Danimarca. Un’ondata di violenza di gruppo legata alla droga in Svezia ha portato a un aumento del 60% di attacchi dinamitardi rispetto a due anni fa, passati da 160 a 260 . Negli ultimi due anni la Svezia è stata colpita da un’ondata di sparatorie e attentati che la polizia ha collegato a conflitti tra bande nelle principali città.
Il caso dell’accoltellatore afghano si inserisce statisticamente tra gli eventi di terrorismo registrati in Europa negli ultimi anni, sebbene da un punto di vista ideologico non sia ancora possibile attribuire all’attacco una chiara matrice jihadista.
L’onda lunga del terrorismo in Europa, emerso con il fenomeno “Stato islamico” a partire dal 2014, ha fatto registrare 146 azioni in nome del jihad dal 2014 al 2020: 188 i terroristi che vi hanno preso parte (59 morti in azione), 406 le vittime decedute e 2.421 i feriti (database START InSight e Rapporto #ReaCT2021). Nel 2020 gli eventi sono stati 25, contro i 19 dell’anno precedente e con un raddoppio di azioni di tipo “emulativo”.
È la tecnica utilizzata in questo come in altri più recenti episodi a renderlo atto di terrorismo, non più (o non solo) l’ideologia jihadista.
In Svezia sono stati registrati 8 attacchi terroristici dal 2004 a oggi, una piccola parte rispetto ai 173 avvenuti in tutta Europa nello stesso periodo. L’80% sono stati portati a compimento da singoli attaccanti, tutti maschi, in linea con il fenomeno europeo nel suo complesso. La tecnica utilizzata ha visto l’utilizzo prevalente di armi da fuoco ed esplosivi, in linea con la natura della violenza svedese associata alla criminalità e alle gang.
Prevalentemente di media e bassa intensità, dunque con un numero limitato di morti e feriti. Tutti portati a termine da immigrati, prevalentemente regolari, di questi tre condotti da irregolari. Un trend quello degli immigrati irregolari autori di atti di terrorismo che sta percentualmente aumentando negli ultimi anni, come evidenziato nell’ultimo rapporto dell’Osservatorio sul radicalismo e il contrasto al terrorismo in Europa e testimoniato dal caso francese dove la minaccia di questo tipo è passata dal 16% al 25% nel 2020.
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