I pericoli di una guerra tra Israele e Giordania
di Andrea Molle, dagli Stati Uniti.
Una guerra tra Israele e
Giordania rimane uno scenario improbabile ma potenzialmente catastrofico. Dal
trattato di pace del 1994, i due Paesi hanno mantenuto una cooperazione
diplomatica e di sicurezza, rendendo un conflitto armato poco realistico.
Tuttavia, il Medio Oriente è una regione dove le tensioni possono degenerare
rapidamente, e in caso di guerra, le conseguenze sarebbero profonde, andando
ben oltre il campo di battaglia e ridisegnando gli equilibri regionali e
globali.
Dal punto di vista
militare, Israele detiene un vantaggio schiacciante. La sua forza aerea
all’avanguardia, i sofisticati sistemi di difesa missilistica e le capacità di
guerra cibernetica lo rendono una delle potenze militari più avanzate al mondo.
L’esercito giordano, pur essendo professionale e ben addestrato, non ha la
potenza offensiva e il livello tecnologico necessari per sostenere una guerra
prolungata contro Israele. Sebbene il territorio montuoso della Giordania possa
offrire qualche vantaggio difensivo, le sue principali città e infrastrutture
sarebbero altamente vulnerabili agli attacchi aerei israeliani. D’altra parte, le
città israeliane come Tel Aviv e Gerusalemme sarebbero nel raggio d’azione dei
missili giordani, ma la difesa missilistica israeliana, come l’Iron Dome,
riuscirebbe probabilmente a neutralizzare gran parte della minaccia.
Se una guerra dovesse
scoppiare sotto un’amministrazione statunitense guidata da Donald Trump, lo
scenario geopolitico cambierebbe radicalmente. Trump ha dimostrato in passato
un sostegno incondizionato a Israele, spostando l’ambasciata americana a
Gerusalemme e riconoscendo la sovranità israeliana sulle Alture del Golan. In
caso di conflitto, Washington si schiererebbe quasi certamente con Israele,
fornendo supporto militare, bloccando iniziative diplomatiche per moderarne le
azioni e facendo pressione sulla Giordania affinché de-escalasse rapidamente.
Questa posizione potrebbe incoraggiare la leadership israeliana a proseguire le
operazioni belliche senza cercare una soluzione negoziata immediata,
prolungando così il conflitto. Allo stesso tempo, tale politica alienerebbe
ulteriormente gli alleati arabi come Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti,
mettendoli in una posizione difficile: da un lato il sostegno diplomatico alla
Giordania, dall’altro la necessità di preservare le proprie relazioni con
Israele.
Le conseguenze economiche
di un tale conflitto sarebbero devastanti. La Giordania, già dipendente dagli
aiuti esteri e dalla cooperazione economica con Israele, subirebbe danni
enormi, con la distruzione delle infrastrutture e il collasso del commercio.
Israele, pur avendo un’economia più solida, vedrebbe comunque una forte
instabilità nei mercati, un crollo del turismo e possibili interruzioni nei
settori tecnologico e della difesa. Se il conflitto si espandesse, le
ripercussioni si farebbero sentire anche sul mercato globale del petrolio,
causando un’impennata dei prezzi e nuove turbolenze economiche. Oltre agli
effetti militari ed economici, uno degli aspetti più preoccupanti di un
conflitto tra Israele e Giordania sarebbe la recrudescenza del terrorismo
internazionale.
La storia ha dimostrato
come la guerra e l’instabilità in Medio Oriente rappresentino un terreno
fertile per i gruppi jihadisti, e una guerra tra questi due Paesi potrebbe
aprire la strada a nuove offensive terroristiche. L’ISIS-K, già in espansione,
potrebbe approfittare del caos per rafforzarsi e lanciare attacchi sia in
Israele che in Giordania, utilizzando il conflitto come strumento di propaganda
e reclutamento.
Inoltre, il rischio di
attentati in Europa, negli Stati Uniti e in altri Paesi occidentali
aumenterebbe, alimentato dalla radicalizzazione generata dal conflitto.
L’eventualità di una nuova ondata di terrorismo globale costringerebbe i
governi a rivedere le loro strategie di sicurezza e a destinare ingenti risorse
alla lotta contro il jihadismo. Gli esiti possibili di un tale conflitto sono
diversi. Uno scenario relativamente contenuto potrebbe portare a un cessate il
fuoco mediato dagli Stati Uniti o da potenze regionali come l’Arabia Saudita e
l’Egitto.
Tuttavia, se la guerra si
prolungasse e altri attori esterni, come l’Iran, Hezbollah e le fazioni
palestinesi, vi prendessero parte, il rischio di una più ampia escalation
regionale diventerebbe concreto. La Giordania stessa potrebbe affrontare un
periodo di grave instabilità politica, con il regime hashemita indebolito dal
conflitto e minacciato da proteste interne o persino da un colpo di stato. Nel
peggiore dei casi, la guerra potrebbe segnare l’inizio di una nuova era di caos
nel Medio Oriente, rafforzando le organizzazioni estremiste e ridefinendo le
alleanze regionali. Alla fine, una guerra tra Israele e Giordania sarebbe
disastrosa per entrambi i Paesi e per l’intera regione.
I costi strategici,
economici e di sicurezza supererebbero di gran lunga qualsiasi possibile
vantaggio, rendendo un conflitto su vasta scala altamente improbabile.
Tuttavia, la storia ha dimostrato che errori di calcolo politici, provocazioni
esterne o cambiamenti nelle alleanze possono portare nazioni apparentemente
stabili verso la guerra. Anche se un conflitto aperto tra Israele e Giordania
resta poco plausibile, il rischio di tensioni al confine, scontri indiretti e
crisi diplomatiche non deve essere sottovalutato. L’unica vera soluzione rimane
il dialogo e l’impegno diplomatico, perché l’alternativa—a un conflitto dalle
conseguenze imprevedibili e devastanti—sarebbe una tragedia per l’intero Medio
Oriente.
L’Italia in prima linea nel Sahel: sfide e opportunità dopo il ritiro francese.
di Andrea Molle, dagli Stati Uniti.
Dopo il ritiro dell’ultima
presenza francese, l’Italia rimane l’unico paese europeo con una presenza
rilevante nel Sahel. Una situazione che apre a diverse opportunità, ma che pone
anche diverse sfide che Roma dovrà affrontare con una strategia il più
possibile integrata. L’Italia ha infatti una presenza militare significativa
nell’Africa subsahariana, con diverse missioni volte a garantire sicurezza,
contrastare il terrorismo e sostenere la stabilità della regione. Queste
missioni vedono Roma impegnata in Niger, Ciad, Gibuti, Somalia e nel Golfo di Guinea,
sia attraverso operazioni bilaterali sia nel contesto di missioni UE, NATO e
ONU. L’Italia ha una presenza militare in Niger nell’ambito della missione
“MISIN” (Missione Bilaterale di Supporto nella Repubblica del Niger),
avviata nel 2018 con l’obiettivo di supportare le autorità locali nella lotta
al terrorismo, al traffico di esseri umani e al crimine organizzato.
L’operazione si inquadra in un più ampio impegno dell’Italia nel Sahel, volto a
garantire stabilità e sicurezza nella regione, contrastando le minacce che
possono avere ripercussioni anche sull’Europa, come il flusso migratorio
irregolare.
La missione italiana in Niger
La missione italiana in
Niger prevede principalmente attività di addestramento e formazione delle forze
di sicurezza locali, con lo scopo di migliorare le loro capacità operative. I
militari italiani, appartenenti a diverse unità delle Forze Armate, forniscono
corsi su tecniche di combattimento, operazioni speciali, sorveglianza e
gestione delle frontiere. Inoltre, il supporto logistico e sanitario è una
componente essenziale dell’operazione. Il contingente italiano in Niger è
composto da alcune centinaia di unità, con la possibilità di impiegare fino a
470 militari, 130 veicoli e mezzi aerei per esigenze logistiche e di
ricognizione. L’Italia ha stabilito la sua base operativa a Niamey, la capitale
del Niger, collaborando con le autorità locali e con altri partner
internazionali, tra cui Stati Uniti e in passato la Francia. L’operazione si
inserisce anche in un contesto più ampio di cooperazione tra Italia e Niger,
che comprende iniziative di sviluppo, aiuti umanitari e investimenti per
migliorare le condizioni economiche e sociali del paese africano. Tuttavia, la
situazione politica in Niger è instabile, con il recente colpo di Stato del
2023 che ha portato alla revisione delle relazioni tra il governo nigerino e
gli stati occidentali, incluso l’Italia.
Nonostante le incertezze
geopolitiche, la missione italiana in Niger rappresenta un tassello importante
nella strategia di difesa e sicurezza dell’Italia nel Sahel, contribuendo alla
stabilizzazione di un’area cruciale per gli equilibri geopolitici ed economici
della regione e dell’Europa. Oltre al Niger, l’Italia mantiene anche una
presenza militare limitata nel vicino Ciad, focalizzandosi principalmente su
attività di collegamento, addestramento e supporto alle missioni internazionali
presenti nella regione del Sahel. Questo impegno si inserisce in un contesto
più ampio di cooperazione multilaterale finalizzata al contrasto del
terrorismo, alla stabilizzazione dell’area e al rafforzamento delle capacità
delle forze di sicurezza locali. L’attività italiana si sviluppa in sinergia
con le operazioni condotte da organizzazioni internazionali come l’Unione
Europea, le Nazioni Unite e il G5 Sahel, fornendo supporto strategico e
operativo attraverso la condivisione di intelligence, l’addestramento delle
forze armate locali e il coordinamento con altri contingenti militari presenti
nell’area. Infine, l’Italia partecipa a iniziative volte a migliorare la
sicurezza delle frontiere del paese, prevenire il traffico di armi e
contrastare la radicalizzazione, elementi chiave per la stabilità del Ciad e
dell’intero Sahel.
L’approccio italiano
L’approccio italiano si distingue per una forte attenzione alla cooperazione civile-militare, promuovendo non solo la sicurezza, ma anche lo sviluppo e la resilienza delle comunità locali. L’Italia dispone poi di una base militare a Gibuti, la Base Militare Italiana di Supporto (BMIS), operativa dal 2013. Situata in una posizione strategica nel Corno d’Africa, la BMIS funge da hub logistico e operativo, sviluppando capacità di intelligence, per le forze armate italiane impegnate in missioni nella regione dell’Africa orientale e nell’Oceano Indiano. Questa base rappresenta un’infrastruttura chiave per il supporto delle operazioni di contrasto alla pirateria marittima, contribuendo alla sicurezza delle rotte commerciali e al pattugliamento delle acque internazionali. Inoltre, fornisce supporto logistico e operativo a diverse missioni italiane ed europee nella regione, tra cui la partecipazione italiana alle operazioni EUNAVFOR Atalanta (contro la pirateria nel Golfo di Aden) e EUTM Somalia, dedicata all’addestramento delle forze armate somale.
La presenza della BMIS
consente inoltre il rapido dispiegamento di unità italiane in caso di emergenze
o crisi nell’area, rafforzando il ruolo dell’Italia nella sicurezza e
stabilizzazione del Corno d’Africa. La base ospita personale militare e
infrastrutture di supporto avanzate, permettendo la manutenzione dei mezzi, il rifornimento
e l’assistenza alle forze italiane e alle missioni alleate. Oltre agli aspetti
militari, la BMIS rappresenta anche un punto di cooperazione con le autorità
locali gibutiane, contribuendo a rafforzare le relazioni diplomatiche tra
Italia e Gibuti e a sostenere iniziative di sicurezza regionale, stabilità e
sviluppo. Naturalmente, l’Italia mantiene una presenza significativa in
Somalia, contribuendo attivamente alla sicurezza e alla stabilizzazione del
paese attraverso due principali missioni internazionali. Si tradda di EUTM
Somalia (European Union Training Mission in Somalia): una missione dell’Unione
Europea attiva dal 2010, finalizzata all’addestramento e alla formazione
dell’Esercito Nazionale Somalo (SNA) per rafforzarne le capacità operative e
consentire al governo somalo di affrontare minacce alla sicurezza interna, in
particolare quelle rappresentate dal gruppo terroristico Al-Shabaab.
Gli istruttori militari italiani: strumento politico
L’Italia svolge un ruolo di primo piano in questa missione, fornendo istruttori militari, consulenti e supporto strategico. Il personale italiano è impegnato nella formazione di ufficiali somali su aspetti tattici, strategici e logistici, nonché nella promozione dei principi del diritto internazionale umanitario. L’obiettivo è costruire un esercito somalo professionale ed efficiente, capace di garantire la sicurezza del paese in autonomia. Oltre alla formazione militare, la missione si concentra sullo sviluppo della leadership militare somala e sul rafforzamento delle istituzioni della difesa, contribuendo alla creazione di una catena di comando e controllo più efficace. La seconda operazione, denominata Operazione Atalanta, è una missione navale dell’Unione Europea (EUNAVFOR Atalanta) avviata nel 2008, con l’obiettivo di contrastare la pirateria nel Golfo di Aden e nell’Oceano Indiano, proteggere le navi mercantili e garantire la sicurezza delle rotte marittime strategiche. L’Italia partecipa attivamente all’operazione con unità navali, elicotteri e personale militare, svolgendo pattugliamenti e scorte a navi commerciali e umanitarie, in particolare quelle del Programma Alimentare Mondiale (WFP) dirette in Somalia.
I compiti della marina Militare
La Marina Militare Italiana ha avuto un ruolo di rilievo nella missione, contribuendo alla deterrenza della pirateria e al mantenimento della sicurezza nelle acque internazionali. L’Operazione Atalanta ha avuto un impatto significativo, riducendo drasticamente gli attacchi dei pirati e rafforzando la cooperazione tra le forze navali internazionali. L’Italia, oltre al contributo operativo, ha avuto spesso comandi di alto livello all’interno della missione, confermando il suo impegno nella sicurezza marittima globale. Oltre alla partecipazione a queste missioni, l’Italia mantiene forti legami storici e diplomatici con la Somalia, un paese che è stato colonia italiana fino alla metà del XX secolo. L’impegno italiano va oltre l’aspetto militare e include cooperazione allo sviluppo, supporto umanitario e iniziative per la stabilizzazione politica.
Attraverso le missioni
EUTM Somalia e Operazione Atalanta, l’Italia contribuisce in modo significativo
alla sicurezza e alla stabilità del Corno d’Africa, consolidando il proprio
ruolo come attore chiave nelle operazioni internazionali della regione. Infine,
con l’Operazione Gabinia, l’Italia si è impegnata a rafforzare la sicurezza
marittima nel Golfo di Guinea, un’area cruciale per il traffico internazionale
di petrolio e merci, ma anche una delle zone più colpite dalla pirateria
marittima. L’invio di unità navali italiane mira a contrastare gli atti di
pirateria, proteggere le navi commerciali (in particolare quelle battenti
bandiera italiana) e garantire la sicurezza delle infrastrutture marittime
essenziali per gli interessi economici globali. Tutte queste operazioni si
inseriscono in un contesto più ampio di impegno italiano nella regione, che
include cooperazione economica, militare e diplomatica con diversi paesi
dell’Africa occidentale.
L’Italia sta cercando di
sviluppare partnership strategiche che comprendano iniziative di sviluppo,
aiuti umanitari e investimenti per migliorare le condizioni economiche e
sociali dei paesi coinvolti, contribuendo così alla loro stabilità e alla
riduzione delle cause profonde di instabilità e migrazione forzata. Tra le
principali aree di intervento figurano la formazione delle forze di sicurezza
locali, il controllo delle frontiere, il contrasto ai traffici illeciti (droga,
armi, esseri umani) e la lotta al terrorismo jihadista, che rappresenta una
minaccia crescente nella regione del Sahel. In particolare, il rafforzamento
delle capacità di sicurezza e intelligence locali è cruciale per contrastare
gruppi estremisti come Al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM), Boko Haram e lo
Stato Islamico nel Grande Sahara (ISGS), che sfruttano le fragilità
istituzionali e le tensioni etniche per espandere la loro influenza.
Mosca e Pechino: una sfida?
Un ulteriore obiettivo che l’Italia dovrà perseguire con maggiore decisione in futuro riguarda la contenzione della crescente penetrazione geopolitica di Russia e Cina nella regione. Mosca ha rafforzato la propria presenza militare e politica attraverso l’azione dei gruppi paramilitari, come il Wagner Group, offrendo supporto ai regimi autoritari e alle giunte militari in cambio di risorse naturali e basi strategiche.
Pechino, invece, continua
a espandere la sua influenza economica tramite ingenti investimenti
infrastrutturali e finanziari, spesso attraverso il meccanismo del debito che
vincola i governi locali agli interessi cinesi. Di fronte a questi sviluppi,
l’Italia, in coordinamento con gli Stati Uniti e i gli altri partner NATO,
dovrà rafforzare la propria presenza politico-militare, intensificare la
cooperazione con i governi locali e promuovere modelli di sviluppo alternativi,
basati sulla sostenibilità e sull’autodeterminazione economica dei paesi
africani.
L’impegno italiano in
Africa occidentale si configura quindi sempre più come un delicato equilibrio
tra sicurezza, diplomazia, cooperazione allo sviluppo e protezione degli
interessi strategici nazionali ed europei.
Lo Stato Islamico Khorasan: espansione verso l’Europa?
di Antonio Giustozzi.
Articolo tratto da #ReaCT2024 -5° Rapporto sul Radicalismo e il Terrorismo in Europa (scarica il rapporto oppure ordina la tua copia).
Abstract
Nel 2023, Da’esh (ISIS) ha continuato a realizzare
attacchi isolati in Europa, generalmente con un supporto organizzativo
limitato. L’articolo rileva l’efficacia crescente delle misure antiterrorismo
europee che avrebbe probabilmente reso meno conveniente per i leader di ISIS
impiegare le rare risorse umane in tali attacchi. L’Autore, nel suo articolo,
esplora come il gruppo Stato islamico sembri prediligere la conservazione delle
proprie strutture organizzative in Europa, delegando l’azione a pochi individui
o cellule isolate. Inoltre, si discute il coinvolgimento crescente del ramo
Khorasan (IS-K) di ISIS nella pianificazione di attacchi in Europa o contro
obiettivi europei all’estero, come dimostrato da un complotto del 2020 contro
basi NATO in Germania. Nonostante i numerosi complotti identificati nel 2023,
vi è una certa discrezionalità nell’attribuzione di questi piani esclusivamente
a IS-K, suggerendo una cooperazione intra-ISIS più ampia. L’articolo rileva
che, nonostante le apparenze, Da’esh Khorasan non sta necessariamente
espandendosi, ma piuttosto assumendo nuovi compiti assegnatigli dalla
leadership centrale, pressata dalla scarsità di risorse.
Nel 2023 Da’esh ha continuato a compiere occasionalmente
attacchi isolati in Europa, di solito con un sostegno organizzativo
apparentemente limitato. Poiché l’antiterrorismo europeo è diventato sempre più
efficace, il rapporto costo-efficacia derivante dall’impegno di rare risorse
umane in attacchi isolati deve essere apparso discutibile ai leader dello Stato
Islamico e fonti di polizia in tutta Europa tendono a pensare che l’Isis
preferisca effettivamente salvaguardare qualunque struttura organizzativa abbia
ancora in Europa, lasciando il compito di sventolare la bandiera a pochi
individui o cellule isolate. In effetti, ancora all’inizio del 2022 fonti di
polizia in Europa non vedevano una minaccia imminente da parte di Da’esh, la
cui presenza era limitata a propagandisti, reclutatori e raccoglitori di fondi
online. Fonti talebane hanno confermato la detenzione di un agente dello Stato
Islamico in Afghanistan, che aveva raccolto migliaia di euro in Germania e
Spagna (Giustozzi, 2022). Fonti dell’intelligence talebana notano anche che
gran parte della propaganda online della branca del Khorasan di Da’esh viene
ora prodotta al di fuori dell’Afghanistan, compresa l’Europa. Dopo la caduta di
Kabul nell’agosto 2021, Da’esh Khorasan ha iniziato a pubblicare una parte
significativa di questa propaganda in inglese. Le ragioni potrebbero essere
molteplici, non tutte legate all’Europa. Una possibile ragione, rilevante per
la sicurezza europea, è l’intento di stimolare il reclutamento in Europa,
magari per rimpiazzare la perdita di molti operatori mediatici del Da’esh a
causa della repressione della polizia negli ultimi anni. Anche quando nel
luglio 2023 la polizia ha non solo arrestato diversi cospiratori dell’IS in
Germania e nei Paesi Bassi e li ha descritti come “in contatto con membri” del
ramo IS-K, ma ha anche osservato che erano impegnati nella raccolta di fondi e
non vi era alcuna indicazione che stavano attivamente preparando un attacco
terroristico (Stewart ASyI, 2023).
1. L’IS-K e
l’ambizione di colpire l’Europa.
Alcuni osservatori hanno tuttavia notato una tendenza
recente, riguardante il crescente coinvolgimento organizzativo del ramo
Khorasan (IS-K) nella pianificazione di attacchi in Europa, o contro obiettivi
europei in Turchia. Le autorità tedesche hanno affermato nel 2020 che la
cellula dietro un complotto volto ad attaccare le basi NATO in Germania,
sventato dalla polizia nell’aprile 2020, aveva ricevuto l’ordine di agire da un
quadro di Da’esh Khorasan in Afghanistan (Nodirbek, 2021). L’episodio, però, ha
attratto poca attenzione e le prove condivise dalle autorità tedesche restano poco
chiare. Ciò che ha davvero attirato l’attenzione di molti osservatori è stato
il rapporto dell’intelligence statunitense emerso tra le fughe di notizie di
Discord, che mostravano come a febbraio 2023 15 diversi complotti di Da’esh
Khorasan per effettuare attacchi contro interessi occidentali in Europa,
Turchia, Medio Oriente e altrove erano stato identificati dalle forze armate
statunitensi (Lamothe, Warrick, 2024). Sebbene queste cifre sembrino
impressionanti, contrastano stranamente con il fatto che nel marzo 2023 il
comando centrale degli Stati Uniti valutava che Da’esh Khorasan avrebbe avuto
la capacità di organizzare attacchi contro gli interessi occidentali in Asia o
in Europa solamente “entro 6 mesi”. La discrepanza è difficile da spiegare, a
meno che per i militari i 15 complotti sopra menzionati non fossero da prendere
troppo sul serio, o da non attribuire esclusivamente o anche principalmente a
Da’esh Khorasan. A questo riguardo, fonti turche parlano del coinvolgimento di
Centroasiatici legati a Da’esh Khorasan e di membri del ramo turco di Da’esh in
almeno alcuni di questi complotti, quali quelli contro i consolati svedese e
olandese in territorio turco. Anche lo stesso rapporto summenzionato
dell’intelligence statunitense rilevava che Da’esh Khorasan “faceva affidamento
su risorse provenienti dall’esterno dell’Afghanistan”.[1] Pur avendo ordinato gli attacchi dall’Afghanistan,
secondo quanto riferito, Da’esh Khorasan avrebbe fatto affidamento su mezzi e
personale già presenti sul posto.
L’Afghanistan e la
struttura sviluppata dell’IS.
Nel 2023 fonti all’interno di Da’esh Khorasan in
Afghanistan hanno confermato al gruppo di ricerca dell’autore di aver
coordinato operazioni in Turchia e in Europa con altri rami di Da’esh,
sottolineando tuttavia che ciò è avvenuto sotto la guida della leadership
centrale del “Califfato”. Ciò implica che Da’esh Khorasan in quanto tale non ha
determinato la strategia complessiva che presiedeva alla pianificazione di
questi attacchi. Le stesse fonti interne a Da’esh Khorasan indicano che
l’Afghanistan ospita diverse commissioni militari per i paesi vicini, come
l’Iran e l’Asia centrale, ma non hanno menzionato alcuna entità del genere
focalizzata su Europa, Turchia o Medio Oriente. Fonti contattate
dall’International Crisis Group in Siria hanno indicato nel 2023 che i
Centroasiatici che operavano in passato agli ordini di Da’esh Levante sono
stati trasferiti sotto la responsabilità di Khorasan (International Crisis
Group, 2023). Secondo le summenzionate fonti all’interno di Khorasan, almeno
inizialmente, ciò avrebbe dovuto preludere al loro trasferimento in
Afghanistan, che però è avvenuto molto più lentamente del previsto.
Il quadro che queste fonti ritraggono è quello di una
struttura di Da’esh Khorasan relativamente sviluppata in Turchia e Siria, con
più di 200 membri che lavorano nel centro finanziario dell’IS-K in Turchia, più
400-500 centroasiatici sparsi tra Siria e Turchia, ex membri della branca
siriana che o sono stati riassegnati al Khorasan o hanno cambiato casacca
spontaneamente (le fonti non sono chiare su questo punto), in attesa di essere
trasferiti nel Khorasan o comunque di sentirsi dire cosa fare. In Europa la
presenza di Da’esh Khorasan sarebbe molto più modesta, con 60 membri. Secondo
le stesse fonti, a settembre 2022 si trovavano circa 30 europei appartenenti
all’IS-K in Afghanistan e Pakistan. Di questi, 16 provenivano dalla Germania,
dieci dalla Francia e quattro dal Belgio. C’erano anche quattro americani e
qualche turco. Questi individui con passaporti di paesi europei e nordamericani
vengono descritti come evacuati dal Medio Oriente dopo il crollo del Califfato,
piuttosto che inviati incaricati di organizzare attacchi a lungo raggio in
Europa. Sebbene tutti questi numeri non possano essere verificati, sembrano
compatibili con le informazioni sopra riassunte e fornite da Europol, ICG e
altri.
Questo quadro suggerisce continui scambi di membri tra Khorasan
e altri rami di Da’esh in Turchia, Europa e Siria (che tra l’altro avvengono
anche altrove), anche se la velocità e l’intensità di questi scambi sono
diminuite nel tempo. C’è sempre stata una notevole integrazione tra i rami di
Da’esh, nonostante molti all’epoca del lancio di Da’esh Khorasan ipotizzassero
che si trattasse di una mossa opportunistica, con pochi rapporti organici con
il “Califfato”. Più che di espansione delle operazioni dell’IS-K in Europa, in
conclusione, si dovrebbe parlare di cooperazione tra filiali intra-Da’esh. Tale
cooperazione sembra senza dubbio essersi ampliata nel 2022-2023, il che fa
sorgere una domanda sul perché.
L’IS sarebbe in
attesa?
A questo proposito, vale la pena notare che l’IS-K non
rivendica né pubblicizza la sua presunta “espansione”. Anche quando
sollecitate, le fonti dell’IS-K in Afghanistan si sono tenute ben lontane dal
vantarsi di tale espansione. Al contrario, tendono a minimizzarne l’importanza.
Ciò sembra strano, dato che:
1. Da’esh Khorasan ha condotto una sofisticata campagna
mediatica, il cui futuro principale è amplificare i suoi limitati risultati e
fare affermazioni ingiustificate;
2. se l’“espansione” fosse davvero tale, costerebbe a
Da’esh Khorasan una parte considerevole delle sue limitate risorse, e che
3. le chats private dell’IS-K sui social media e le
nostre interviste con i membri mostrano chiaramente che l’organizzazione fatica
a spiegare ai propri membri e simpatizzanti perché le sue attività sono state
così limitate nel 2023.
Forse Da’esh Khorasan potrebbe semplicemente stare
aspettando, prima di promuovere la sua “espansione” al di fuori del mandato
della provincia di Khorasan (Afghanistan, Khyber Pakhtunkhwa del Pakistan, Asia
Centrale, Cina, Iran) finché non riuscirà a portare a termine un attacco con
successo. Tuttavia, Da’esh Khorasan non mostra alcuna timidezza simile nel
rivendicare il suo intento di portare la jihad in Cina (dove, nonostante anni
di propaganda, non è riuscito a ottenere nulla) o in Asia Centrale, dove i suoi
successi sono stati minimi (lanciando razzi oltre il confine verso Tagikistan e
Uzbekistan). Se lo scopo primario di Da’esh Khorasan fosse quello di affermare
di aver aperto nuovi fronti in Europa, Turchia e Medio Oriente, perché non
dovrebbe adottare tattiche simili a quelle impiegate nella provincia di
Khorasan ed effettuare facili attacchi contro obiettivi soffici, per poi
produrre affermazioni ampiamente gonfiate sui danni inflitti?
La forza dell’IS
In sintesi, la spiegazione più logica è che il “Califfato”,
che è al suo punto più debole dalla sua nascita, abbia chiesto aiuto a Da’esh
Khorasan per riconquistare le vette mediatiche con qualche attacco di alto
profilo contro obiettivi europei. Una possibilità è che il “Califfato” potrebbe
ora essere così debole in Europa e dintorni da non avere più la forza di
lanciarvi una campagna sistematica di intensificazione delle operazioni.
Un’altra possibilità è che, in linea con quanto osservato all’inizio di questo
articolo, la leadership centrale di Da’esh possa aver deciso di aumentare la
propria visibilità intensificando le operazioni terroristiche, salvaguardando
allo stesso tempo quello che rimane della sua struttura in Europa e affidandosi
invece a elementi di Da’esh Khorasan, che non fanno parte della stessa
struttura e non rischiano di comprometterla se catturati.
Perché Khorasan e non altri rami di Da’esh? Come accennato
in precedenza, Da’esh Khorasan ha da anni una presenza significativa in
Turchia, con nascondigli e reti dedicate al supporto delle operazioni
finanziarie. Questo polo finanziario ora fatica a svolgere il suo compito
originario, a causa della forte pressione delle autorità turche, quindi la sua
conversione a ruoli più operativi potrebbe sembrare logica. Inoltre, come
accennato, i Centroasiatici si stavano preparando per essere trasferiti in
Afghanistan, avendo esaurito la loro utilità in Siria, dove operare
clandestinamente è molto più difficile per loro che per i nativi siriani o
anche per gli iracheni. Dato che solo poche decine riescono a compiere il
viaggio ogni mese, coloro che rimangono inattivi in Turchia e Siria possono
ben essere mobilitati per altri compiti. In breve, Da’esh Khorasan era
prontamente disponibile e ben posizionato per fornire sostegno alla leadership
centrale, i cui rami siriano e iracheno sono stati notevolmente indeboliti
negli ultimi anni. Nessun altro ramo di Da’esh si trova in una posizione
simile.
Conclusioni
In conclusione, Da’esh Khorasan probabilmente non è
realmente “in espansione”. I membri coinvolti negli attentati pianificati erano
già con Da’esh Khorasan o vi si stavano trasferendo (nel caso degli asiatici
centrali). Ciò che sembra essere cambiato è che a Da’esh Khorasan sono stati
assegnati compiti aggiuntivi da una leadership centrale, che è a corto di soldi
e risorse umane e ha bisogno di aumentare il proprio profilo mediatico per
avere la possibilità di riemergere dalla crisi. Ciò spiegherebbe anche perché i
membri di Da’esh Khorasan in Afghanistan non sono particolarmente entusiasti di
questo sviluppo, che almeno nel breve termine non fa altro che sottrarre loro delle
già scarse risorse umane.
[1] ‘Daesh’s massacre plan’, Yeni Safak,
20 July 2023.
Articolo tratto da #ReaCT2024 -5° Rapporto sul Radicalismo e il Terrorismo in Europa (scarica il rapporto oppure ordina la tua copia).
Gaza: attacco all’ospedale Kamal Adwan. Israele e il precedente di al-Shifa: nuovo standard umanitario.
di Claudio Bertolotti.
Articolo tratto dal libro di C. Bertolotti, Gaza underground. La guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas. ed. START InSight (2024).
Le Forze di difesa israeliane (IDF) nel raid all’ospedale Kamal Adwan nel nord di Gaza, utilizzato da Hamas come posto di Comando per l’organizzazione terrorista, ha eliminato 19 miliziani, tra i quali alcuni responsabili dell’attacco a Israele del 7 ottobre 2023.
Le IDF, in coordinamento con lo Shin Bet (Agenzia per la sicurezza israeliana), ha inoltre arrestato oltre 240 terroristi nell’operazione mirata a contrastare l’ultimo tentativo di Hamas di ricostituirsi nel nord di Gaza; un tentativo da parte del comando dei miliziani palestinesi che ha intenzionalmente sfruttato la struttura dell’ospedale Kamal Adwan a Jabaliya, utilizzando la nota strategia degli scudi umani, in questo casi cittadini ricoverati all’interno dell’ospedale. Un episodio che, da un lato conferma la volontà criminale di Hamas e, dall’altro, evidenzia come le forze armate israeliane stiano facendo il possibile per ridurre l’impatto della guerra sulla popolazione civile palestinese. Contrariamente a quanto il mainstream mediatico tenda a descrivere la condotta di una guerra che, seppur molto violenta, è storicamente l’evento con il più basso numero di vittime collaterali tra i non combattenti.
Operazione nell’ospedale al-Shifa: un nuovo standard umanitario?
La guerra Israele-Hamas ha dato modo alle forze
israeliane di concettualizzare e implementare uno standard innovativo di guerra urbana che non trova precedenti nella
storia militare. Nel marzo 2024, le Idf condussero un’operazione mirata nell’ospedale
al-Shifa nella Striscia di Gaza – utilizzato come base logistica e operativa da
Hamas – adottando precauzioni eccezionali per la protezione di civili nella
fase di avvicinamento, accesso e gestione della struttura. Un approccio che
vide l’impiego, unitamente a militari, di unità di medici e paramedici
israeliani deputati all’assistenza dei pazienti civili palestinesi ricoverati
nell’infrastruttura sanitaria, e squadre logistiche di supporto per il
rifornimento di cibo, acqua e forniture mediche per gli stessi.[1]
Dunque, un approccio volto a limitare i danni causati
dalla presenza di Hamas all’interno dell’infrastruttura sostenendo, al
contempo, il massimo sforzo per andare incontro alle necessità dei pazienti
ricoverati e per minimizzare le vittime civili. Primo esempio nella storia
della guerra urbana, questo metodo rappresenta l’adozione di uno standard
innovativo quanto oneroso, sia in termini di risorse impiegate sia per
l’accettazione di un maggiore rischio intrinseco per il personale militare impegnato
all’interno dell’infrastruttura. Dal punto di vista dottrinale, come su quello
storico, è il primo caso di un esercito che abbia preso tali misure per
occuparsi della popolazione civile avversaria, tenuto conto della concomitanza
delle operazioni militari offensive all’interno dello stesso edificio. Secondo
l’opinione dell’analista John Spencer, pubblicata nel suo articolo Israel has created a new standard for urban
warfare. Why will no one admit it?, Israele avrebbe adottato «più
precauzioni per prevenire danni ai civili di qualsiasi altro esercito nella
storia, andando ben oltre ciò che richiede il diritto internazionale e più di
quanto fatto dagli Stati Uniti nelle loro più recenti guerre in Iraq e
Afghanistan».[2]
Un precedente, quello di al-Shifa, che si pone come
caso studio per la gestione dello spazio urbano e la sicurezza dei civili in
aree operative che, a fronte di un evidente svantaggio tattico, consente alle
forze militari impegnate in operazioni dal potenziale forte impatto mediatico
di prevenire accuse di violazioni dello jus
in bello e delle convenzioni internazionali. Questo precedente apre
doverosamente a una riflessione su tali applicazioni tattiche e sui limiti
auto-imposti a tutela della popolazione civile, non solamente per ragioni
prettamente umanitarie ma anche, e forse prevalentemente, in un’ottica
difensiva sul piano della cognitive
warfare e della propaganda avversaria che, da un lato e come abbiamo visto,
utilizza infrastrutture civili per scopi militari e, dall’altro, strumentalizza
a proprio favore le eventuali vittime civili in conseguenza dello scontro
militare all’interno di quei siti (il law-fare).
La teoria occidentale predominante nella gestione
delle operazioni militari, così come abbiamo descritto in apertura di questo
capitolo, si basa sul concetto di “guerra di manovra”, tesa a cercare di
frantumare moralmente e fisicamente un nemico con forza e velocità sorprendenti
e schiaccianti, colpendo i centri di gravità, politici e militari, affinché il
nemico sia distrutto o si arrenda rapidamente. Questo è stato il caso nelle
invasioni di Panama nel 1989, dell’Afghanistan nel 2001, dell’Iraq nel 2003 e
del tentativo della Russia di prendere in tempi rapidi l’Ucraina nel 2022. In
tutti questi casi, non è stato dato nessun preavviso o tempo sufficiente ai
civili per evacuare le città, con ciò provocando la morte di un significativo
numero di non combattenti. Israele ha abbandonato questo consolidato “approccio
da manuale”, e lo ha fatto nell’ottica primaria di prevenire danni ai civili.
Le Idf hanno annunciato con anticipo quasi ogni azione affinché i non
combattenti potessero trasferirsi, così rinunciando quasi sempre all’elemento
sorpresa. Ciò ha permesso a Hamas di riposizionare in aree sicure i propri
vertici militari e i leader politici
(e con essi anche gli ostaggi israeliani) attraverso il tessuto urbano,
nascondendoli tra i civili durante le evacuazioni o sfruttando i tunnel
sotterranei.[3]
I
combattenti di Hamas, a differenza delle Idf, non indossano uniformi, e questo
è un vantaggio tattico che ha consentito loro di colpire nascosti tra i civili
e, con i civili, lasciare il campo di battaglia. La conseguenza è che Hamas è
riuscito nella sua duplice strategia, da un lato, di generare sofferenza alla
popolazione palestinese e, dall’altro, di creare una narrazione distruttiva
attraverso le immagini, funzionale a ottenere una pressione internazionale su
Israele affinché interrompesse le sue operazioni.
[1] Spenser J., Israel Has Created a
New Standard for Urban Warfare. Why Will No One Admit It?, Opinion,
Newsweek, 25 marzo 2024, in
https://www.newsweek.com/israel-has-created-new-standard-urban-warfare-why-will-no-one-admit-it-opinion-1883286.
[2]
Ibidem.
[3] Ibidem.
Articolo tratto dal libro di C. Bertolotti, Gaza underground. La guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas. ed. START InSight (2024).
Tensioni settarie in Siria e scontro USA-Turchia.
a cura di Claudio Bertolotti.
Il conflitto in Siria ha esacerbato le tensioni tra Stati Uniti e Turchia, entrambi membri della NATO con interessi strategici divergenti. La recente proposta di sanzioni da parte dei senatori statunitensi Chris Van Hollen e Lindsey Graham, in risposta a una possibile operazione turca contro le Forze Democratiche Siriane (SDF) nel nord della Siria, evidenzia l’approfondirsi di questo divario.
Quale la proposta di Sanzioni Statunitensi?
I senatori Van Hollen e Graham hanno presentato il “Countering Türkiye’s Aggression Act 2024”, mirato a impedire operazioni turche contro le SDF, considerate dagli Stati Uniti partner chiave nella lotta contro l’ISIS. La proposta include l’istituzione di una zona demilitarizzata lungo il confine siriano per facilitare un cessate il fuoco. Van Hollen ha sottolineato che gli attacchi delle forze sostenute dalla Turchia contro i partner curdi siriani compromettono la sicurezza regionale e ha avvertito che, in assenza di un accordo, potrebbero essere imposte sanzioni simili a quelle del 2019 legate all’acquisto turco dei sistemi russi S-400.
E quale la posizione della Turchia?
Preoccupazioni di Sicurezza da parte di Ankara: la Turchia considera le Unità di Protezione Popolare (YPG), componente principale delle SDF, come un’estensione del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), classificato come organizzazione terroristica. Ankara teme che il sostegno statunitense alle milizie curde possa portare alla formazione di uno stato curdo indipendente lungo i suoi confini, scenario inaccettabile per la sicurezza nazionale turca. In risposta alle sue preoccupazioni, la Turchia ha intensificato la presenza militare nel nord della Siria, mirando a prevenire l’espansione dell’influenza curda e a stabilire una zona cuscinetto lungo il confine.
Proposta delle SDF: una zona demilitarizzata: il comandante delle SDF, Mazloum Abdi, ha suggerito l’istituzione di una zona demilitarizzata controllata dagli Stati Uniti a Kobani, area di preparazione per un’operazione da parte dell’Esercito Nazionale Siriano (SNA) sostenuto dalla Turchia. Abdi ha indicato che, in caso di cessate il fuoco, i combattenti non siriani potrebbero essere rimossi dal paese.
Implicazioni Geopolitiche
- Relazioni USA-Turchia: Il sostegno continuo degli Stati Uniti alle milizie curde, nonostante le obiezioni turche, ha creato una frattura significativa tra i due alleati della NATO, complicando ulteriormente le dinamiche regionali.
- Stabilità Regionale: La possibilità di sanzioni statunitensi contro la Turchia e le operazioni militari turche nel nord della Siria sollevano preoccupazioni riguardo alla stabilità della regione e al futuro delle relazioni tra gli attori coinvolti.
In sintesi, le divergenze tra Stati Uniti e Turchia riguardo al sostegno alle milizie curde in Siria hanno intensificato le tensioni, con potenziali implicazioni per la sicurezza regionale e le relazioni bilaterali.
La Crescita delle tensioni settarie in Siria.
La Siria si trova a un bivio che rischia di portare a un conflitto etno-settario su larga scala. La situazione è aggravata dagli omicidi e rapimenti perpetrati da individui affiliati a Hayat Tahrir al Sham (HTS) contro membri della comunità alawita e altri accusati di legami con il regime di Assad. Queste azioni, condotte al di fuori di processi giudiziari formali, rischiano di intensificare le tensioni tra la maggioranza sunnita e la minoranza alawita.
Strategie di Mediazione e Riconciliazione
Il governo transitorio guidato da Ahmed al Shara ha tentato di placare le paure
degli alawiti, ma le misure concrete per proteggere le minoranze restano
limitate. Un programma di amnistia per gli ex membri del regime è stato
istituito, ma la sua trasparenza è messa in discussione, alimentando ulteriori
sospetti di vendette settarie.
L’Influenza Iraniana e il Rischio di Escalation
L’Iran continua a esercitare una forte influenza retorica, incitando alla
ribellione giovanile in Siria e provocando divisioni settarie simili a quelle
osservate in Iraq. Queste dichiarazioni hanno incontrato la ferma opposizione
del ministro degli Esteri siriano, Asaad Hassan al Shaibani, il quale ha
avvertito Teheran del rischio di destabilizzazione.
Nomina Controversia e Scontri Interni
La nomina di Anas Hasan Khattab, ex membro di al-Qaeda, come capo
dell’intelligence siriana da parte del governo provvisorio HTS riflette la
tendenza a favorire alleati leali e rischia di compromettere ulteriormente la
stabilità interna. Contestualmente, scontri tra forze pro-Assad e milizie HTS
hanno causato vittime, alimentando il ciclo di violenza.
Conflitto tra Turchia e SDF
Nel nord della Siria, la Turchia sostiene la formazione di un esercito siriano
unificato che esclude le Forze Democratiche Siriane (SDF). Gli scontri tra
l’esercito nazionale siriano (SNA) e l’SDF continuano, con Ankara che cerca di
consolidare la propria influenza a Manbij e oltre.
Prospettive
La complessità della situazione siriana, con l’intreccio di tensioni settarie,
rivalità geopolitiche e interessi stranieri, suggerisce che senza un intervento
diplomatico efficace, il paese rischia di scivolare ulteriormente nel
conflitto.
La nuova Siria: tra minaccia islamista, risposta preventiva di Israele e la ‘buffer zone’ turca.
di Claudio Bertolotti.
La recente conquista di Damasco da parte del leader jihadista Ahmed al-Sharaa, già noto con il nome di battaglia Abu Mohammed al-Jolani, capo di Hayat Tahrir al-Sham (HTS), segna un punto di svolta nell’equilibrio politico-militare del Medio Oriente. La Siria, dopo tredici anni di guerra civile contro il regime di Bashar al-Assad, si ritrova ora nella fase più critica della sua storia contemporanea: l’ascesa al potere degli islamisti guidati da al-Jolani, già affiliati ad al-Qaeda, si avvia a trasformare il Paese in uno “Stato islamico” destinato a rimodellare gli assetti regionali. E, ancora una volta, la variabile jihadista si manifesta come un fattore di destabilizzazione dagli effetti potenzialmente globali.
L’occupazione israeliana del Golan: una manovra preventiva e strategica
L’avanzata islamista in Siria, con il conseguente venir meno del controllo centralizzato di Damasco, crea un vuoto di potere all’interno del quale proliferano gruppi radicali e attori esterni in cerca di vantaggi geostrategici. L’azione di Israele – nello specifico il consolidamento dell’occupazione delle alture del Golan – va letta in questo quadro: non si tratta di un’ennesima incursione di natura espansionistica, bensì di una manovra difensiva e preventiva. Da un lato, Gerusalemme mira a evitare che forze jihadiste possano insediarsi lungo il proprio confine settentrionale, minacciando direttamente la sua sicurezza. Dall’altro, la presenza militare israeliana nell’area svolge anche un ruolo di protezione a favore delle forze di interposizione delle Nazioni Unite, potenzialmente esposte ad attacchi da parte di gruppi radicali in assenza di un potere centrale affidabile a Damasco.
L’attacco preventivo contro arsenali strategici e chimici
La lezione appresa in Afghanistan e in Iraq – dove arsenali convenzionali e non convenzionali sono passati di mano favorendo gruppi estremisti – ha reso evidente la necessità di interventi rapidi e chirurgici. L’attacco preventivo di Israele contro i depositi di armi strategiche siriane, inclusi quelli sospettati di contenere agenti chimici, intende prevenire il rischio che tali strumenti finiscano nelle mani dei jihadisti. Non si tratta solo di un interesse israeliano: se fossero i movimenti radicali a impadronirsi di armamenti chimici, l’intera regione, e persino l’Occidente, ne subirebbero le conseguenze. Come evidenziato dalle ultime analisi dell’Institute for the Study of War (Iran Update, 11 dicembre 2024), il controllo degli arsenali siriani da parte di attori non statali apre scenari ad altissimo rischio. Israele agisce dunque con un’intelligenza strategica che mira a prevenire futuri attacchi terroristici su larga scala.
La mossa israeliana e la scelta turca: due facce della stessa medaglia
La politica israeliana nel Golan non può essere letta in modo isolato: è coerente, nella logica strategica di contenimento delle minacce, con la scelta turca di occupare parti del territorio siriano al confine settentrionale. Ankara, come già dimostrato in passato, intende mantenere una “buffer zone” tra le aree sotto il proprio controllo e le regioni abitate dai curdi siriani, considerati una minaccia perché in collegamento con il PKK in Turchia. Tale azione non solo limita i movimenti delle milizie curde, ma risponde a un duplice obiettivo: arginare il potere curdo e, al contempo, impedire l’insediamento di gruppi islamisti ostili alla Turchia. L’avanzata israeliana sul Golan e la buffer zone turca formano, in modi diversi, due esempi di contenimento preventivo della minaccia jihadista.
L’ascesa degli islamisti in Siria: l’incognita dei diritti e il parallelismo con i talebani
La presa del potere da parte di al-Jolani e dei suoi uomini non può essere vista con favore. Le dichiarazioni rassicuranti nei confronti delle minoranze, delle donne e della comunità cristiana suonano come pura retorica. Sappiamo bene quale sia la storia dei movimenti jihadisti: la sharia applicata in modo letterale, l’assenza di rispetto per le differenze religiose e culturali, l’eliminazione di ogni spazio di pluralismo. allo scioglimento del parlamento siriano seguirà l’imposizione di un governo di unna shurà musulmana, non eletta né rappresentativa dell’estrema eterogeneità etno-culturale e religiosa siriana. Come già osservato nel caso dell’Afghanistan dei talebani, l’instaurazione di uno Stato islamico sotto la guida di ex qaedisti “riciclati” in forza politica locale non farà altro che istituzionalizzare un regime repressivo e contrario ai principi fondamentali dei diritti umani.
La minaccia terroristica si estende all’Occidente
La vittoria islamista in Siria, come fu per il ritorno dei talebani a Kabul nel 2021, agirà da catalizzatore per il terrorismo internazionale. Le cronache recenti mostrano che ogni avanzamento dell’ideologia jihadista si accompagna a un incremento degli attacchi e della propaganda violenta, spingendo individui radicalizzati o simpatizzanti a compiere gesti emulativi in Occidente. Come osservato da recenti analisi su media internazionali (si veda il 5° Rapporto sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo #ReaCT2024 e Il Giornale), il successo di Hts in Siria accresce il rischio che l’Europa diventi bersaglio di nuovi attacchi, ispirati e orchestrati da soggetti che trarranno nuovo slancio e legittimazione simbolica dalla “vittoria” di al-Jolani. La dimensione mediatica del jihad è tale per cui il controllo di un territorio – e la proclamazione di uno Stato islamico – si trasforma in un messaggio di potenza rivolto a potenziali sostenitori e reclute.
Prospettive e conclusioni
La nuova Siria di al-Jolani non è meno pericolosa del regime di Assad. Anzi, l’aperta adesione ai principi fondamentalisti, la lotta per il potere che seguirà tra gruppi islamisti e jihadisti in competizione – in primis con il gruppo Stato islamico – l’influenza di gruppi radicali e l’assenza di un sistema di garanzie internazionali rendono il contesto più imprevedibile. La mossa israeliana nel Golan e la strategia turca a nord riflettono una comprensibile, anche se parziale, risposta a queste minacce. L’Occidente non può permettersi di cadere nell’illusione di un al-Jolani “pragmatico”: la natura islamista e jihadista della nuova leadership è un dato di fatto. Se a ciò si sommano i rischi legati alla disponibilità di armi strategiche e chimiche, l’interesse nazionale israeliano e turco di creare zone cuscinetto e di colpire preventivamente gli arsenali appare tragicamente sensato. In questo scenario – al pari dell’Afghanistan talebano – la Siria potrebbe fungere da polo attrattivo per un jihadismo oggi in cerca di legittimazione e vittorie simboliche, con conseguenze dirette anche per l’Europa.
La caduta di Damasco e lo sgretolamento dell’Asse della Resistenza iraniano.
di Claudio Bertolotti.
La Siria di Bashar al-Assad non esiste più.
La rapida avanzata degli insorti islamisti, guidati dall’Hayat Tahrir al-Sham (HTS), contro il governo di Bashar al-Assad segna un punto di svolta critico nel panorama mediorientale. Dopo quasi quattordici anni di guerra civile, con un conflitto alimentato da interessi internazionali e influenze regionali, l’architettura di potere costruita dalla famiglia Assad – ereditata nel 2000 da Bashar dopo la lunga presidenza del padre Hafez – è oggi in disfacimento. L’offensiva, partita circa dieci giorni fa da Idlib, ha messo in ginocchio un regime un tempo ritenuto solido, sconfiggendo unità militari e paramilitari sostenute sia dall’Iran sia dalla Russia, pilastri di quell’“Asse della Resistenza” ideato per contenere le pressioni occidentali e israeliane.
I risultati tattici ottenuti dai gruppi islamisti e jihadisti, in parte sostenuti dalle forze del Syrian DDefense Forces curde, ma principalmente riconducibili a Hayat Tahrir al-Sham (HTS) guidata da Abu Mohammed al-Jolani, si sono rivelati decisivi: Aleppo, Hama e Homs – nodi strategici e simbolici del potere di Damasco – sono cadute senza una reale capacità di reazione da parte dei difensori. Il contenimento dell’opposizione armata, agevolato sin dal 2015 dall’intervento militare russo, è venuto meno. Mosca, impegnata su altri fronti e consapevole del mutato contesto strategico, sembra aver rivisto i propri interessi, lasciando indebolire la tenuta del regime. Di fronte a questa svolta, la stessa Teheran, uno dei principali sponsor del governo siriano, appare costretta a ridimensionare il proprio coinvolgimento, concentrandosi sulla preservazione di aree costiere e comunità tradizionalmente legate agli Assad.
La fuga di Assad, su cui insistono numerose fonti, non è ancora confermata ufficialmente, ma le sue smentite appaiono deboli. Damasco, un tempo simbolo dell’autorità presidenziale, è caduta. Sul piano diplomatico, il Qatar ospita una complessa trama negoziale: da un lato i ministri degli Esteri di Russia, Iran e Turchia; dall’altro, il “quartetto” occidentale (Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Germania) con i rappresentanti dell’UE e l’inviato ONU Geir Pedersen. Il risultato degli incontri è la proposta di una transizione politica a Ginevra, volta a salvaguardare le strutture statali e a coinvolgere figure del vecchio establishment non direttamente responsabili degli abusi del regime. Contemporaneamente si guarda alla pericolosa ipotesi di integrare componenti dell’opposizione armata, compresi alcuni elementi legati ad HTS, nonostante sia un “gruppo terroristico” riconosciuto da diverse potenze occidentali. Si tratta, evidentemente, di una necessaria concessione strategica: il nuovo equilibrio sul terreno costringe gli attori internazionali ad aprire canali di dialogo prima impensabili.
La posta in gioco è elevata: evitare un nuovo bagno di sangue e impedire il collasso dello Stato siriano, distinguendo nettamente l’apparato istituzionale dal regime uscente. Sullo sfondo, la riconfigurazione degli assetti regionali. L’indebolimento dell’Asse della Resistenza – costruito su un solido legame tra Damasco, Teheran, i proxy armati filo-iraniani e il supporto russo – mina l’influenza iraniana nel Levante e apre nuovi scenari di competizione. Il Libano, l’Iraq e persino le relazioni tra Israele e Iran risentiranno di queste dinamiche, così come la lotta al jihadismo internazionale.
Inoltre, l’accesso alle prigioni simbolo della repressione siriana, come Adra e Saydnaya, potrebbe rivelare le dimensioni degli abusi perpetrati negli ultimi decenni. Il rilascio e la restituzione di informazione sui prigionieri scomparsi potrebbero costituire gesti emblematici per favorire una qualche forma di riconciliazione post-conflitto.
La comunità internazionale, stretta tra il rischio di una deriva jihadista e la necessità di ristabilire un ordine politico sostenibile, si trova di fronte a un nuovo paradigma: la Siria come l’Afghanistan. Dinamiche simili, prospettive preoccupanti legate allo jihadismo internazionale che dalla Siria potrebbe minacciare la regione e l’Occidente. Ma ciò che più preoccupa è il ruolo che la Turchia, dopo aver sostenuto la caduta del regime attraverso il sostegno diretto agli islamisti dell’HTS – che ricordiamo, affondano le loro radici in al-Qa’ida e nell’ISIS – vorrà giocare coerentemente con la sua ambizione di influenza del Medioriente e del Nord Africa.
Siria: al-Jolani verso Damasco. Le preoccupazioni di Iran, Russia e Israele.
di Claudio Bertolotti.
Dall’intervista di Francesco De Leo a Radio Radicale – Spazio Transnazionale (puntata del 7.12.2024): vai all’intervista radio (AUDIO).
Abu Mohammed al-Jolani, nato con il nome Ahmed Al Sharaa, è il leader di Hayat Tahrir al-Sham (HTS), gruppo armato attivo nella guerra civile siriana e tuttora designato dagli Stati Uniti come organizzazione terroristica. Originariamente affiliato ad al-Qa’ida e noto come capo di Jabhat Al Nusra, Jolani ha esordito come jihadista radicale, inviato in Siria nel 2011 con fondi e sostegno di Abu Bakr al-Baghdadi, futuro leader dell’ISIS, per stabilire la filiale siriana del network qaedista.
Nel corso degli anni ha trasformato la propria immagine e la propria strategia. In un primo momento ha annunciato la separazione formale da Al Qaeda, per poi concentrarsi principalmente sul rovesciamento del regime di Bashar al-Assad e sul controllo di aree chiave come la provincia di Idlib. Questa “rottura” è stata ampiamente vista come mossa tattica, volta a evitare gli attacchi internazionali diretti contro le formazioni jihadiste transnazionali.
Parallelamente,
Jolani ha anche cambiato l’aspetto e la retorica pubblica: dalla mimetica è
passato a indossare giacca e camicia in stile occidentale, presentandosi come
un rivoluzionario siriano moderato, impegnato in una lotta contro il regime di
Damasco anziché a una guerra globale contro l’Occidente. Durante interviste
recenti, ha minimizzato riferimenti al jihad globale, puntando invece sulla
“liberazione” della Siria e sul ruolo di HTS come forza locale, impegnata a
garantire sicurezza e amministrazione a milioni di persone in aree sotto il suo
controllo.
Nonostante
questa strategia di rebranding e il tentativo di mostrarsi come un
interlocutore più pragmatico, Jolani rimane un personaggio estremamente controverso
e indubbiamente legato allo jihadismo insurrezionale, di cui oggi è uno dei
principali leader. Alle spalle ha un passato profondamente radicato nelle reti
jihadiste internazionali, ed è a capo di un’organizzazione che resta
considerata terroristica da Washington. Il suo percorso è quindi quello di un
leader che cerca di distanziarsi dall’estremismo transnazionale per guadagnare
legittimità locale e, possibilmente, internazionale, presentandosi come un attore
politico rivoluzionario più che come un leader jihadista.
La situazione sul campo
I gruppi islamisti stanno avanzando verso Damasco con il sostegno turco e assediano Homs, snodo strategico verso il Mediterraneo e roccaforte del regime.
Mentre
a Doha è previsto un incontro fra Russia, Turchia e Iran per negoziare una
possibile transizione politica che escluda Assad, sul campo le forze
filoiraniane sembrano ritirarsi, la Russia appare indebolita, non più
proattiva, mentre l’ONU registra una massiccia ondata di sfollati.
Il
leader ribelle al Jolani rivendica il diritto a usare ogni mezzo contro il regime,
ma promette di non perseguitare le minoranze. Vedremo.
Da parte sua, il felice e preoccupante presidente turco Recep Tayyip Erdogan annuncia apertamente Damasco come prossimo obiettivo, mentre l’Iran, la Siria e l’Iraq si dichiarano uniti nella lotta al “terrorismo”.
Nel
sud del Paese, gruppi antigovernativi si spostano verso nord, conquistando
facilmente posizioni lasciate dai lealisti, e le comunità druse di Suwayda
stanno creando una regione semi-autonoma.
Intanto,
il Libano chiude i confini per timore di un contagio del conflitto e proseguono
scontri tra forze filo-turche e milizie curde.
Preoccupazioni di Iran e Israele (e Mosca)
Certo
è che, nella situazione attuale, questo è un problema sia per l’Iran, oltre che
per la Russia, ma anche per Israele: tutti guardano con grande preoccupazione a
quanto sta accadendo. Se per Mosca è un grande problema legato alla capacità di
muovere all’interno del Mediterraneo con la propria marina, per Teheran è una
quesitone di tenuta complessiva dell’Asse della resistenza poiché la caduta
siriana potrebbe precludere il collegamento vitale con il Libano, e dunque con
Hezbollah. E forse gli accordi di Doha sono intesi a trovare una soluzione
mediata che consenta all’Iran di mantenere il controllo di una striscia di
territorio siriano funzionale proprio al collegamento con Hezbollah.
E
per Israele? Israele è molto preoccupata perché la presenza di un regime
siriano debole è la condizione migliore mentre la caduta della Siria sotto il
controllo degli islamisti potrebbe aprire un fronte di ulteriore instabilità ai
confini israeliani. Senza dimenticare che “al-Jolani” prende il suo nome dal Golan,
attualmente occupato da Israele, e la sua posizione è sempre stata apertamente
anti-occidentale e anti-israeliana.
Eliminato Yahya Sinwar: chi era il capo di Hamas e cosa accadrà?
di Claudio Bertolotti.
Tratto dal libro Gaza Underground. La guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas
Yahya Sinwar è stato il terzo leader palestinese maggiormente influente, e anche il più pericoloso in termini di minaccia per Israele, dopo Ismail Haniyeh, il più importante e influente sino alla sua morte avvenuta il 30 luglio 2024, e Khaled Meshaal, già capo dell’ufficio politico di Hamas dal 1996 al 2017. Conosciuto anche come Yahya Ibrahim Hasan al-Sinwar, dal 2017 è stato capo di Hamas nella Striscia di Gaza e uno dei primi architetti del braccio armato di Hamas, poi assurto a ruolo di leader del movimento dopo la scomparsa di Haniyeh: è sospettato di essere una delle menti dietro gli attacchi del 7 ottobre 2023.
Si legge che la sua morte sarebbe stata
“casuale”. Che sia stato eliminato è indubbiamente frutto di
un’operazione pianificata che aveva identificato un obiettivo mirato da
colpire; può essere un caso che fosse lui? Di certo non è stata casuale
l’operazione contro un obiettivo di elevato livello. Da qui i dubbi sulla
casualità dell’evento.
La morte di Sinwar ci conferma però due
aspetti chiave. Il primo è che con la decapitazione dei suoi vertici politici e
militari, Hamas ha perso la capacità di condurre una guerra strutturata contro
Israele (avrebbe perso 80% della propria forza), sebbene il reclutamento di
giovani reclute radicalizzate confermi ancora una certa presa ideologica in una
fascia definita di popolazione. Dall’altro lato, questo è il secondo aspetto –
molto più importante e determinante delle dinamiche della guerra – è la
conferma di una capacità di intelligence
israeliana che, al di là della disponibilità tecnologica d’avanguardia
(pensiamo all’intensivo utilizzo dell’AI nell’attività di targeting – eliminazione obiettivi di alto valore), ha dimostrato
di essere in grado di penetrare la difesa sociale creata attorno ai leader di Hamas. Questo perché per
penetrare il cerchio a protezione di Sinwar (fatto di un ristretto numero di
collaboratori di fiducia) Israele avrebbe colto una perdita di fiducia
palestinese. La morte di Sinwar, con questa lettura, sarebbe così il risultato
della combinazione tra la capacità intelligence
e le crescenti crepe nella fiducia e nel sostegno da parte della popolazione di
Gaza verso Hamas.
Questo può essere un risultato concreto nello
sforzo bellico israeliano. Sul piano politico e comunicativo, Netanyahu potrà
invece rivendicare l’eliminazione del responsabile primo (dopo L’Iran) dei
tragici eventi del 7/10.
Ora la questione è chi lo sostituirà? Se il sostituto apparterrà alla frangia ultra-radicale di Hamas, quella coerente con la visione di Sinwar, sarebbe difficile pensare a un’opzione negoziale. Al contrario, potrebbe essere più probabile una spinta esterna di Hamas, da parte degli altri gruppi islamisti e terroristi palestinesi, stanchi di una guerra le cui responsabilità potrebbero essere attribuite unicamente a Hamas, in cambio di un trattamento di favore in caso di accordo con Israele.
Chi
era Yahya Sinwar?
Nato nel 1962 nel campo profughi di
Khan Younis, Striscia di Gaza, da genitori sfollati da Ashkelon durante la
guerra arabo-israeliana del 1948, dopo aver frequentato le scuole primarie
grazie al sostegno dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e
l’occupazione (Unrwa), all’inizio degli anni Ottanta si iscrisse all’Università
islamica di Gaza, dove lo studio della lingua araba contribuì a plasmare la sua
carismatica autopresentazione. Entrò all’università in un momento in cui molti
giovani palestinesi della Striscia di Gaza guardavano all’islamismo come
strumento di soluzione al conflitto israelo-palestinese, dopo decenni di
panarabismo rivelatosi fallimentare. Nel 1982 fu arrestato per la sua
partecipazione alle prime organizzazioni islamiste anti-israeliane.
Nel 1985, ancor prima della formazione di Hamas, Sinwar contribuì all’organizzazione di “al-Majd” (in arabo “gloria”, ma anche acronimo di Munazzamat al-Jihad wa al-Da’wah, “Organizzazione per il jihad e da’wah”). Al-Majd era una rete di giovani islamisti con il compito di smascherare il crescente numero di informatori palestinesi reclutati da Israele. Quando Hamas venne fondata nel 1987, al-Majd fu inglobata nei suoi quadri di sicurezza. Nel 1988 si scoprì che la rete era in possesso di armi e Sinwar fu detenuto da Israele per diverse settimane. L’anno successivo venne condannato a quattro ergastoli per l’omicidio di palestinesi accusati di collaborazionismo con Israele.
Durante la sua lunga incarcerazione, Sinwar mantenne
una forte influenza sui suoi compagni di prigionia, usando tattiche di abuso e
manipolazione e godendo del supporto dei suoi contatti al di fuori del carcere.
Si impegnò a punire i compagni di prigionia che sospettava di essere
informatori e una volta costrinse circa 1.600 prigionieri a intraprendere uno
sciopero della fame. Trascorse anche gran parte del suo tempo libero studiando
ciò che poteva sui suoi nemici israeliani, leggendo giornali israeliani e
imparando l’ebraico.
Il rilascio di Sinwar avvenne nell’ambito dello
scambio di prigionieri di alto profilo con Gilad Shalit, il soldato israeliano
che era stato rapito da Hamas nel 2006 mentre era di stanza a un valico di
frontiera. Dopo diversi tentativi falliti di mediare la libertà di Shalit,
l’Egitto e la Germania si prodigarono per il suo rilascio nell’ottobre 2011. Il
fratello di Sinwar, Mohammed, che era stato assegnato a sorvegliare Shalit,
insistette affinché Sinwar fosse incluso nello scambio. Lo stesso giorno in cui
Shalit venne rilasciato in Israele, Sinwar fu tra i primi prigionieri
palestinesi a essere rimpatriati nella Striscia di Gaza.
Nell’aprile 2012, pochi mesi dopo il suo rilascio,
Sinwar fu eletto membro dell’ufficio politico di Hamas nella Striscia di Gaza.
Mise a frutto la sua esperienza come leader
carcerario e si guadagnò velocemente un’ottima reputazione all’interno di Hamas
per aver riunito le sue fazioni attraverso un compromesso. La retorica
infuocata di Sinwar conquistò da subito gli elementi più oltranzisti del
movimento; in tale cornice dinamica, pur prospettando l’avvio di un’era guidata
dall’ala militante, nei suoi primi anni da leader
Sinwar tenne un basso profilo e mostrò un lato pragmatico che gli consentì di
alleggerire lo stato di isolamento di Hamas. Mesi dopo la sua ascesa come leader del movimento, Hamas strinse un
accordo di riconciliazione con l’Anp e, per la prima volta dal 2007, cedette il
controllo di gran parte della Striscia di Gaza all’Autorità Palestinese, seppur
per un breve periodo. Anche le relazioni con l’Egitto tesero a migliorare,
tanto da portare Il Cairo ad allentare le restrizioni al valico di frontiera.
Al contempo, a conferma di una visione estremamente
razionale e pragmatica, il gruppo avviò una politica di dialogo e avvicinamento
all’Iran che portò in breve al reinserimento di Hamas nella rete di alleati di
Teheran e al conseguente sostegno militare e finanziario.
Sebbene alla fine del 2018, con l’avvio degli “Accordi
di Abramo” sostenuti dagli Stati Uniti e volti alla normalizzazione dei rapporti
tra Israele e gli Stati arabi, si prospettasse un periodo di calma frutto del
possibile processo di reciproco riconoscimento tra Israele e uno stato
palestinese, nel maggio 2021 ci fu un ritorno all’ostilità aperta di Hamas nei
confronti di Gerusalemme. La popolarità di Sinwar aumentò con il conflitto, e
la sua autorevolezza si rafforzò in maniera significativa.
L’operazione battezzata “alluvione Al-Aqsa” del 7 ottobre 2023, mostra i segni distintivi
delle tattiche di Sinwar, e la presa di ostaggi rimanda all’importanza da lui
data agli scambi di prigionieri. Sinwar, le cui immagini diffuse dalle Idf a
febbraio 2024 confermano che si sia nascosto nella rete dei tunnel sotterranei
di Gaza utilizzando la propria famiglia come “scudo umano”, è stato classificato
come obiettivo primario di Israele e definito, secondo un portavoce militare
israeliano, come “un morto che cammina”. È morto, a seguito di un’operazione israeliana
a Rafah, il 17 ottobre 2024.
Mentre la morsa israeliana si sta stringendo attorno
ai leader superstiti di Hamas, gli sopravvive, alla guida dell’ala militare le brigate Izz ad-Din al-Qassam, Marwan Issa.
Vai al libro Gaza Underground. La guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas