La nuova Siria: tra minaccia islamista, risposta preventiva di Israele e la ‘buffer zone’ turca.
di Claudio Bertolotti.
La recente conquista di Damasco da parte del leader jihadista Ahmed al-Sharaa, già noto con il nome di battaglia Abu Mohammed al-Jolani, capo di Hayat Tahrir al-Sham (HTS), segna un punto di svolta nell’equilibrio politico-militare del Medio Oriente. La Siria, dopo tredici anni di guerra civile contro il regime di Bashar al-Assad, si ritrova ora nella fase più critica della sua storia contemporanea: l’ascesa al potere degli islamisti guidati da al-Jolani, già affiliati ad al-Qaeda, si avvia a trasformare il Paese in uno “Stato islamico” destinato a rimodellare gli assetti regionali. E, ancora una volta, la variabile jihadista si manifesta come un fattore di destabilizzazione dagli effetti potenzialmente globali.
L’occupazione israeliana del Golan: una manovra preventiva e strategica L’avanzata islamista in Siria, con il conseguente venir meno del controllo centralizzato di Damasco, crea un vuoto di potere all’interno del quale proliferano gruppi radicali e attori esterni in cerca di vantaggi geostrategici. L’azione di Israele – nello specifico il consolidamento dell’occupazione delle alture del Golan – va letta in questo quadro: non si tratta di un’ennesima incursione di natura espansionistica, bensì di una manovra difensiva e preventiva. Da un lato, Gerusalemme mira a evitare che forze jihadiste possano insediarsi lungo il proprio confine settentrionale, minacciando direttamente la sua sicurezza. Dall’altro, la presenza militare israeliana nell’area svolge anche un ruolo di protezione a favore delle forze di interposizione delle Nazioni Unite, potenzialmente esposte ad attacchi da parte di gruppi radicali in assenza di un potere centrale affidabile a Damasco.
L’attacco preventivo contro arsenali strategici e chimici La lezione appresa in Afghanistan e in Iraq – dove arsenali convenzionali e non convenzionali sono passati di mano favorendo gruppi estremisti – ha reso evidente la necessità di interventi rapidi e chirurgici. L’attacco preventivo di Israele contro i depositi di armi strategiche siriane, inclusi quelli sospettati di contenere agenti chimici, intende prevenire il rischio che tali strumenti finiscano nelle mani dei jihadisti. Non si tratta solo di un interesse israeliano: se fossero i movimenti radicali a impadronirsi di armamenti chimici, l’intera regione, e persino l’Occidente, ne subirebbero le conseguenze. Come evidenziato dalle ultime analisi dell’Institute for the Study of War (Iran Update, 11 dicembre 2024), il controllo degli arsenali siriani da parte di attori non statali apre scenari ad altissimo rischio. Israele agisce dunque con un’intelligenza strategica che mira a prevenire futuri attacchi terroristici su larga scala.
La mossa israeliana e la scelta turca: due facce della stessa medaglia La politica israeliana nel Golan non può essere letta in modo isolato: è coerente, nella logica strategica di contenimento delle minacce, con la scelta turca di occupare parti del territorio siriano al confine settentrionale. Ankara, come già dimostrato in passato, intende mantenere una “buffer zone” tra le aree sotto il proprio controllo e le regioni abitate dai curdi siriani, considerati una minaccia perché in collegamento con il PKK in Turchia. Tale azione non solo limita i movimenti delle milizie curde, ma risponde a un duplice obiettivo: arginare il potere curdo e, al contempo, impedire l’insediamento di gruppi islamisti ostili alla Turchia. L’avanzata israeliana sul Golan e la buffer zone turca formano, in modi diversi, due esempi di contenimento preventivo della minaccia jihadista.
L’ascesa degli islamisti in Siria: l’incognita dei diritti e il parallelismo con i talebani La presa del potere da parte di al-Jolani e dei suoi uomini non può essere vista con favore. Le dichiarazioni rassicuranti nei confronti delle minoranze, delle donne e della comunità cristiana suonano come pura retorica. Sappiamo bene quale sia la storia dei movimenti jihadisti: la sharia applicata in modo letterale, l’assenza di rispetto per le differenze religiose e culturali, l’eliminazione di ogni spazio di pluralismo. allo scioglimento del parlamento siriano seguirà l’imposizione di un governo di unna shurà musulmana, non eletta né rappresentativa dell’estrema eterogeneità etno-culturale e religiosa siriana. Come già osservato nel caso dell’Afghanistan dei talebani, l’instaurazione di uno Stato islamico sotto la guida di ex qaedisti “riciclati” in forza politica locale non farà altro che istituzionalizzare un regime repressivo e contrario ai principi fondamentali dei diritti umani.
La minaccia terroristica si estende all’Occidente La vittoria islamista in Siria, come fu per il ritorno dei talebani a Kabul nel 2021, agirà da catalizzatore per il terrorismo internazionale. Le cronache recenti mostrano che ogni avanzamento dell’ideologia jihadista si accompagna a un incremento degli attacchi e della propaganda violenta, spingendo individui radicalizzati o simpatizzanti a compiere gesti emulativi in Occidente. Come osservato da recenti analisi su media internazionali (si veda il 5° Rapporto sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo #ReaCT2024 e Il Giornale), il successo di Hts in Siria accresce il rischio che l’Europa diventi bersaglio di nuovi attacchi, ispirati e orchestrati da soggetti che trarranno nuovo slancio e legittimazione simbolica dalla “vittoria” di al-Jolani. La dimensione mediatica del jihad è tale per cui il controllo di un territorio – e la proclamazione di uno Stato islamico – si trasforma in un messaggio di potenza rivolto a potenziali sostenitori e reclute.
Prospettive e conclusioni La nuova Siria di al-Jolani non è meno pericolosa del regime di Assad. Anzi, l’aperta adesione ai principi fondamentalisti, la lotta per il potere che seguirà tra gruppi islamisti e jihadisti in competizione – in primis con il gruppo Stato islamico – l’influenza di gruppi radicali e l’assenza di un sistema di garanzie internazionali rendono il contesto più imprevedibile. La mossa israeliana nel Golan e la strategia turca a nord riflettono una comprensibile, anche se parziale, risposta a queste minacce. L’Occidente non può permettersi di cadere nell’illusione di un al-Jolani “pragmatico”: la natura islamista e jihadista della nuova leadership è un dato di fatto. Se a ciò si sommano i rischi legati alla disponibilità di armi strategiche e chimiche, l’interesse nazionale israeliano e turco di creare zone cuscinetto e di colpire preventivamente gli arsenali appare tragicamente sensato. In questo scenario – al pari dell’Afghanistan talebano – la Siria potrebbe fungere da polo attrattivo per un jihadismo oggi in cerca di legittimazione e vittorie simboliche, con conseguenze dirette anche per l’Europa.
La caduta di Damasco e lo sgretolamento dell’Asse della Resistenza iraniano.
di Claudio Bertolotti.
La Siria di Bashar al-Assad non esiste più.
La rapida avanzata degli insorti islamisti, guidati dall’Hayat Tahrir al-Sham (HTS), contro il governo di Bashar al-Assad segna un punto di svolta critico nel panorama mediorientale. Dopo quasi quattordici anni di guerra civile, con un conflitto alimentato da interessi internazionali e influenze regionali, l’architettura di potere costruita dalla famiglia Assad – ereditata nel 2000 da Bashar dopo la lunga presidenza del padre Hafez – è oggi in disfacimento. L’offensiva, partita circa dieci giorni fa da Idlib, ha messo in ginocchio un regime un tempo ritenuto solido, sconfiggendo unità militari e paramilitari sostenute sia dall’Iran sia dalla Russia, pilastri di quell’“Asse della Resistenza” ideato per contenere le pressioni occidentali e israeliane.
I risultati tattici ottenuti dai gruppi islamisti e jihadisti, in parte sostenuti dalle forze del Syrian DDefense Forces curde, ma principalmente riconducibili a Hayat Tahrir al-Sham (HTS) guidata da Abu Mohammed al-Jolani, si sono rivelati decisivi: Aleppo, Hama e Homs – nodi strategici e simbolici del potere di Damasco – sono cadute senza una reale capacità di reazione da parte dei difensori. Il contenimento dell’opposizione armata, agevolato sin dal 2015 dall’intervento militare russo, è venuto meno. Mosca, impegnata su altri fronti e consapevole del mutato contesto strategico, sembra aver rivisto i propri interessi, lasciando indebolire la tenuta del regime. Di fronte a questa svolta, la stessa Teheran, uno dei principali sponsor del governo siriano, appare costretta a ridimensionare il proprio coinvolgimento, concentrandosi sulla preservazione di aree costiere e comunità tradizionalmente legate agli Assad.
La fuga di Assad, su cui insistono numerose fonti, non è ancora confermata ufficialmente, ma le sue smentite appaiono deboli. Damasco, un tempo simbolo dell’autorità presidenziale, è caduta. Sul piano diplomatico, il Qatar ospita una complessa trama negoziale: da un lato i ministri degli Esteri di Russia, Iran e Turchia; dall’altro, il “quartetto” occidentale (Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Germania) con i rappresentanti dell’UE e l’inviato ONU Geir Pedersen. Il risultato degli incontri è la proposta di una transizione politica a Ginevra, volta a salvaguardare le strutture statali e a coinvolgere figure del vecchio establishment non direttamente responsabili degli abusi del regime. Contemporaneamente si guarda alla pericolosa ipotesi di integrare componenti dell’opposizione armata, compresi alcuni elementi legati ad HTS, nonostante sia un “gruppo terroristico” riconosciuto da diverse potenze occidentali. Si tratta, evidentemente, di una necessaria concessione strategica: il nuovo equilibrio sul terreno costringe gli attori internazionali ad aprire canali di dialogo prima impensabili.
La posta in gioco è elevata: evitare un nuovo bagno di sangue e impedire il collasso dello Stato siriano, distinguendo nettamente l’apparato istituzionale dal regime uscente. Sullo sfondo, la riconfigurazione degli assetti regionali. L’indebolimento dell’Asse della Resistenza – costruito su un solido legame tra Damasco, Teheran, i proxy armati filo-iraniani e il supporto russo – mina l’influenza iraniana nel Levante e apre nuovi scenari di competizione. Il Libano, l’Iraq e persino le relazioni tra Israele e Iran risentiranno di queste dinamiche, così come la lotta al jihadismo internazionale.
Inoltre, l’accesso alle prigioni simbolo della repressione siriana, come Adra e Saydnaya, potrebbe rivelare le dimensioni degli abusi perpetrati negli ultimi decenni. Il rilascio e la restituzione di informazione sui prigionieri scomparsi potrebbero costituire gesti emblematici per favorire una qualche forma di riconciliazione post-conflitto.
La comunità internazionale, stretta tra il rischio di una deriva jihadista e la necessità di ristabilire un ordine politico sostenibile, si trova di fronte a un nuovo paradigma: la Siria come l’Afghanistan. Dinamiche simili, prospettive preoccupanti legate allo jihadismo internazionale che dalla Siria potrebbe minacciare la regione e l’Occidente. Ma ciò che più preoccupa è il ruolo che la Turchia, dopo aver sostenuto la caduta del regime attraverso il sostegno diretto agli islamisti dell’HTS – che ricordiamo, affondano le loro radici in al-Qa’ida e nell’ISIS – vorrà giocare coerentemente con la sua ambizione di influenza del Medioriente e del Nord Africa.
Siria: al-Jolani verso Damasco. Le preoccupazioni di Iran, Russia e Israele.
di Claudio Bertolotti.
Dall’intervista di Francesco De Leo a Radio Radicale – Spazio Transnazionale (puntata del 7.12.2024): vai all’intervista radio (AUDIO).
Abu Mohammed al-Jolani, nato con il nome Ahmed Al Sharaa, è il leader di Hayat Tahrir al-Sham (HTS), gruppo armato attivo nella guerra civile siriana e tuttora designato dagli Stati Uniti come organizzazione terroristica. Originariamente affiliato ad al-Qa’ida e noto come capo di Jabhat Al Nusra, Jolani ha esordito come jihadista radicale, inviato in Siria nel 2011 con fondi e sostegno di Abu Bakr al-Baghdadi, futuro leader dell’ISIS, per stabilire la filiale siriana del network qaedista.
Nel corso degli anni ha trasformato la propria immagine e la propria strategia. In un primo momento ha annunciato la separazione formale da Al Qaeda, per poi concentrarsi principalmente sul rovesciamento del regime di Bashar al-Assad e sul controllo di aree chiave come la provincia di Idlib. Questa “rottura” è stata ampiamente vista come mossa tattica, volta a evitare gli attacchi internazionali diretti contro le formazioni jihadiste transnazionali.
Parallelamente,
Jolani ha anche cambiato l’aspetto e la retorica pubblica: dalla mimetica è
passato a indossare giacca e camicia in stile occidentale, presentandosi come
un rivoluzionario siriano moderato, impegnato in una lotta contro il regime di
Damasco anziché a una guerra globale contro l’Occidente. Durante interviste
recenti, ha minimizzato riferimenti al jihad globale, puntando invece sulla
“liberazione” della Siria e sul ruolo di HTS come forza locale, impegnata a
garantire sicurezza e amministrazione a milioni di persone in aree sotto il suo
controllo.
Nonostante
questa strategia di rebranding e il tentativo di mostrarsi come un
interlocutore più pragmatico, Jolani rimane un personaggio estremamente controverso
e indubbiamente legato allo jihadismo insurrezionale, di cui oggi è uno dei
principali leader. Alle spalle ha un passato profondamente radicato nelle reti
jihadiste internazionali, ed è a capo di un’organizzazione che resta
considerata terroristica da Washington. Il suo percorso è quindi quello di un
leader che cerca di distanziarsi dall’estremismo transnazionale per guadagnare
legittimità locale e, possibilmente, internazionale, presentandosi come un attore
politico rivoluzionario più che come un leader jihadista.
La situazione sul campo
I gruppi islamisti stanno avanzando verso Damasco con il sostegno turco e assediano Homs, snodo strategico verso il Mediterraneo e roccaforte del regime.
Mentre
a Doha è previsto un incontro fra Russia, Turchia e Iran per negoziare una
possibile transizione politica che escluda Assad, sul campo le forze
filoiraniane sembrano ritirarsi, la Russia appare indebolita, non più
proattiva, mentre l’ONU registra una massiccia ondata di sfollati.
Il
leader ribelle al Jolani rivendica il diritto a usare ogni mezzo contro il regime,
ma promette di non perseguitare le minoranze. Vedremo.
Da parte sua, il felice e preoccupante presidente turco Recep Tayyip Erdogan annuncia apertamente Damasco come prossimo obiettivo, mentre l’Iran, la Siria e l’Iraq si dichiarano uniti nella lotta al “terrorismo”.
Nel
sud del Paese, gruppi antigovernativi si spostano verso nord, conquistando
facilmente posizioni lasciate dai lealisti, e le comunità druse di Suwayda
stanno creando una regione semi-autonoma.
Intanto,
il Libano chiude i confini per timore di un contagio del conflitto e proseguono
scontri tra forze filo-turche e milizie curde.
Preoccupazioni di Iran e Israele (e Mosca)
Certo
è che, nella situazione attuale, questo è un problema sia per l’Iran, oltre che
per la Russia, ma anche per Israele: tutti guardano con grande preoccupazione a
quanto sta accadendo. Se per Mosca è un grande problema legato alla capacità di
muovere all’interno del Mediterraneo con la propria marina, per Teheran è una
quesitone di tenuta complessiva dell’Asse della resistenza poiché la caduta
siriana potrebbe precludere il collegamento vitale con il Libano, e dunque con
Hezbollah. E forse gli accordi di Doha sono intesi a trovare una soluzione
mediata che consenta all’Iran di mantenere il controllo di una striscia di
territorio siriano funzionale proprio al collegamento con Hezbollah.
E
per Israele? Israele è molto preoccupata perché la presenza di un regime
siriano debole è la condizione migliore mentre la caduta della Siria sotto il
controllo degli islamisti potrebbe aprire un fronte di ulteriore instabilità ai
confini israeliani. Senza dimenticare che “al-Jolani” prende il suo nome dal Golan,
attualmente occupato da Israele, e la sua posizione è sempre stata apertamente
anti-occidentale e anti-israeliana.
Eliminato Yahya Sinwar: chi era il capo di Hamas e cosa accadrà?
Yahya Sinwar è stato il terzo leader palestinese maggiormente influente, e anche il più pericoloso in termini di minaccia per Israele, dopo Ismail Haniyeh, il più importante e influente sino alla sua morte avvenuta il 30 luglio 2024, e Khaled Meshaal, già capo dell’ufficio politico di Hamas dal 1996 al 2017. Conosciuto anche come Yahya Ibrahim Hasan al-Sinwar, dal 2017 è stato capo di Hamas nella Striscia di Gaza e uno dei primi architetti del braccio armato di Hamas, poi assurto a ruolo di leader del movimento dopo la scomparsa di Haniyeh: è sospettato di essere una delle menti dietro gli attacchi del 7 ottobre 2023.
Si legge che la sua morte sarebbe stata
“casuale”. Che sia stato eliminato è indubbiamente frutto di
un’operazione pianificata che aveva identificato un obiettivo mirato da
colpire; può essere un caso che fosse lui? Di certo non è stata casuale
l’operazione contro un obiettivo di elevato livello. Da qui i dubbi sulla
casualità dell’evento.
La morte di Sinwar ci conferma però due
aspetti chiave. Il primo è che con la decapitazione dei suoi vertici politici e
militari, Hamas ha perso la capacità di condurre una guerra strutturata contro
Israele (avrebbe perso 80% della propria forza), sebbene il reclutamento di
giovani reclute radicalizzate confermi ancora una certa presa ideologica in una
fascia definita di popolazione. Dall’altro lato, questo è il secondo aspetto –
molto più importante e determinante delle dinamiche della guerra – è la
conferma di una capacità di intelligence
israeliana che, al di là della disponibilità tecnologica d’avanguardia
(pensiamo all’intensivo utilizzo dell’AI nell’attività di targeting – eliminazione obiettivi di alto valore), ha dimostrato
di essere in grado di penetrare la difesa sociale creata attorno ai leader di Hamas. Questo perché per
penetrare il cerchio a protezione di Sinwar (fatto di un ristretto numero di
collaboratori di fiducia) Israele avrebbe colto una perdita di fiducia
palestinese. La morte di Sinwar, con questa lettura, sarebbe così il risultato
della combinazione tra la capacità intelligence
e le crescenti crepe nella fiducia e nel sostegno da parte della popolazione di
Gaza verso Hamas.
Questo può essere un risultato concreto nello
sforzo bellico israeliano. Sul piano politico e comunicativo, Netanyahu potrà
invece rivendicare l’eliminazione del responsabile primo (dopo L’Iran) dei
tragici eventi del 7/10.
Ora la questione è chi lo sostituirà? Se il sostituto apparterrà alla frangia ultra-radicale di Hamas, quella coerente con la visione di Sinwar, sarebbe difficile pensare a un’opzione negoziale. Al contrario, potrebbe essere più probabile una spinta esterna di Hamas, da parte degli altri gruppi islamisti e terroristi palestinesi, stanchi di una guerra le cui responsabilità potrebbero essere attribuite unicamente a Hamas, in cambio di un trattamento di favore in caso di accordo con Israele.
Chi
era Yahya Sinwar?
Nato nel 1962 nel campo profughi di
Khan Younis, Striscia di Gaza, da genitori sfollati da Ashkelon durante la
guerra arabo-israeliana del 1948, dopo aver frequentato le scuole primarie
grazie al sostegno dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e
l’occupazione (Unrwa), all’inizio degli anni Ottanta si iscrisse all’Università
islamica di Gaza, dove lo studio della lingua araba contribuì a plasmare la sua
carismatica autopresentazione. Entrò all’università in un momento in cui molti
giovani palestinesi della Striscia di Gaza guardavano all’islamismo come
strumento di soluzione al conflitto israelo-palestinese, dopo decenni di
panarabismo rivelatosi fallimentare. Nel 1982 fu arrestato per la sua
partecipazione alle prime organizzazioni islamiste anti-israeliane.
Nel 1985, ancor prima della formazione di Hamas, Sinwar contribuì all’organizzazione di “al-Majd” (in arabo “gloria”, ma anche acronimo di Munazzamat al-Jihad wa al-Da’wah, “Organizzazione per il jihad e da’wah”). Al-Majd era una rete di giovani islamisti con il compito di smascherare il crescente numero di informatori palestinesi reclutati da Israele. Quando Hamas venne fondata nel 1987, al-Majd fu inglobata nei suoi quadri di sicurezza. Nel 1988 si scoprì che la rete era in possesso di armi e Sinwar fu detenuto da Israele per diverse settimane. L’anno successivo venne condannato a quattro ergastoli per l’omicidio di palestinesi accusati di collaborazionismo con Israele.
Durante la sua lunga incarcerazione, Sinwar mantenne
una forte influenza sui suoi compagni di prigionia, usando tattiche di abuso e
manipolazione e godendo del supporto dei suoi contatti al di fuori del carcere.
Si impegnò a punire i compagni di prigionia che sospettava di essere
informatori e una volta costrinse circa 1.600 prigionieri a intraprendere uno
sciopero della fame. Trascorse anche gran parte del suo tempo libero studiando
ciò che poteva sui suoi nemici israeliani, leggendo giornali israeliani e
imparando l’ebraico.
Il rilascio di Sinwar avvenne nell’ambito dello
scambio di prigionieri di alto profilo con Gilad Shalit, il soldato israeliano
che era stato rapito da Hamas nel 2006 mentre era di stanza a un valico di
frontiera. Dopo diversi tentativi falliti di mediare la libertà di Shalit,
l’Egitto e la Germania si prodigarono per il suo rilascio nell’ottobre 2011. Il
fratello di Sinwar, Mohammed, che era stato assegnato a sorvegliare Shalit,
insistette affinché Sinwar fosse incluso nello scambio. Lo stesso giorno in cui
Shalit venne rilasciato in Israele, Sinwar fu tra i primi prigionieri
palestinesi a essere rimpatriati nella Striscia di Gaza.
Nell’aprile 2012, pochi mesi dopo il suo rilascio,
Sinwar fu eletto membro dell’ufficio politico di Hamas nella Striscia di Gaza.
Mise a frutto la sua esperienza come leader
carcerario e si guadagnò velocemente un’ottima reputazione all’interno di Hamas
per aver riunito le sue fazioni attraverso un compromesso. La retorica
infuocata di Sinwar conquistò da subito gli elementi più oltranzisti del
movimento; in tale cornice dinamica, pur prospettando l’avvio di un’era guidata
dall’ala militante, nei suoi primi anni da leader
Sinwar tenne un basso profilo e mostrò un lato pragmatico che gli consentì di
alleggerire lo stato di isolamento di Hamas. Mesi dopo la sua ascesa come leader del movimento, Hamas strinse un
accordo di riconciliazione con l’Anp e, per la prima volta dal 2007, cedette il
controllo di gran parte della Striscia di Gaza all’Autorità Palestinese, seppur
per un breve periodo. Anche le relazioni con l’Egitto tesero a migliorare,
tanto da portare Il Cairo ad allentare le restrizioni al valico di frontiera.
Al contempo, a conferma di una visione estremamente
razionale e pragmatica, il gruppo avviò una politica di dialogo e avvicinamento
all’Iran che portò in breve al reinserimento di Hamas nella rete di alleati di
Teheran e al conseguente sostegno militare e finanziario.
Sebbene alla fine del 2018, con l’avvio degli “Accordi
di Abramo” sostenuti dagli Stati Uniti e volti alla normalizzazione dei rapporti
tra Israele e gli Stati arabi, si prospettasse un periodo di calma frutto del
possibile processo di reciproco riconoscimento tra Israele e uno stato
palestinese, nel maggio 2021 ci fu un ritorno all’ostilità aperta di Hamas nei
confronti di Gerusalemme. La popolarità di Sinwar aumentò con il conflitto, e
la sua autorevolezza si rafforzò in maniera significativa.
L’operazione battezzata “alluvione Al-Aqsa” del 7 ottobre 2023, mostra i segni distintivi
delle tattiche di Sinwar, e la presa di ostaggi rimanda all’importanza da lui
data agli scambi di prigionieri. Sinwar, le cui immagini diffuse dalle Idf a
febbraio 2024 confermano che si sia nascosto nella rete dei tunnel sotterranei
di Gaza utilizzando la propria famiglia come “scudo umano”, è stato classificato
come obiettivo primario di Israele e definito, secondo un portavoce militare
israeliano, come “un morto che cammina”. È morto, a seguito di un’operazione israeliana
a Rafah, il 17 ottobre 2024.
Mentre la morsa israeliana si sta stringendo attorno
ai leader superstiti di Hamas, gli sopravvive, alla guida dell’ala militare le brigate Izz ad-Din al-Qassam, Marwan Issa.
Azione di Israele in Libano via mare: perché? Il commento di C. Bertolotti a RaiNews 24
di Claudio Bertolotti.
Azione di Israele in Libano via mare: perché? Il commento di C. Bertolotti a RaiNews 24 – Focus (puntata dell’8 ottobre 2024)
In primo luogo va detto che la capacità difensiva di
Hezbollah si fonda su un sostegno militare e finanziario dell’Iran che sta
facendo del Libano il fronte di scontro diretto con Israele, non volendo
Teheran essere direttamente coinvolta. Un sostegno militare che garantisce a
Hezbollah una capacità militare offensiva – messa in atto dal 7 ottobre di un
anno fa a danno di Israele, in violazione della risoluzione 1701 del CdS
dell’ONU – e una difensiva. E proprio la capacità difensiva, la resistenza di
Hezbollah sul fronte terrestre a sud, ha suggerito alle forze israeliane di
optare per l’apertura di un secondo fronte, non presidiato da postazioni
organizzate, bunker e tunnel, lungo la costa. Questo offre un doppio vantaggio:
il primo è la dispersione delle forze di Hezbollah, così costretto a dividersi
e a diluirsi su due settori; il secondo è una minore esposizione delle forze
israeliane alla difesa organizzata così come lo è a sud, riuscendo così a
prendere le posizioni tenute da Hezbollah con minori rischi.
Le forze armate libanesi non sono coinvolte nel conflitto,
che è uno scontro tra Israele e Hezbollah, e non contro il Libano. Come
confermano la posizione del governo libanese e delle forze armate nazionali (il
generale Joseph Aoun, ha fatto visita al presidente del parlamento Nabih Berri),
che di fatto risponderanno solo nel caso in cui i soldati libanesi fossero
oggetto del fuoco israeliano, di fatto dando carta bianca a Israele per contenere
o eliminare Hezbollah. A ciò si contrappone però il rischio di un collasso
dello stato libanese, poiché l’indebolimento di Hezbollah o la sua scomparse
determinerebbe il riaccendersi di competizioni tra gruppi di potere su base
settaria. Insomma il rischio di una nuova guerra civile.
L’attacco di Israele a Hezbollah: tra politica e strategia militare
di Claudio Bertolotti.
Sul piano politico-strategico Israele persegue l’obiettivo di distruggere l’asse della resistenza, che è la prima minaccia che incombe su Israele (forse non più). Una scelta che determinerà, in primis, una ridefinizione degli equilibri in Medioriente, con una progressiva erosione della minaccia attraverso l’indebolimento o la disarticolazione irreversibile dei suoi attori di prossimità (Hamas, Hezbollah, Ansar-Allah yemeniti, milizie sciite irachene, Siria). Aspetto prioritario rimane il proseguimento del processo di normalizzazione dei rapporti con i paesi arabi avviato con gli “Accordi di Abramo”, sponsorizzato dagli Stati Uniti che, sebbene rallentato dal conflitto in atto, rimane la priorità condivisa da Washington, Gerusalemme e Riad.
Sul piano strategico-militare l’azione contro Hezbollah ha un intento preventivo a un’eventuale minaccia simultanea da parte del cd. “Asse della Resistenza” guidato da Teheran che metterebbe in crisi il sistema contraereo Iron Dome israeliano in conseguenza della saturazione della capacità di risposta (più attacchi rispetto alla capacità di reazione israeliana). Questo coerentemente con la visione israeliana che percepisce la minaccia iraniana come esistenziale e adotta un approccio preventivo.
Scelte, quella politica e quella militare, che concretizzano l’approccio teorico e di prontezza operativa definito nei documenti di “Strategia per la sicurezza nazionale” e la “Dottrina strategica militare”.
Con la serie di azioni a danno di Hezbollah, Israele è
riuscito a scardinare non tanto la sostanza di un’alleanza, ma la sua illusione
di potenza e deterrenza. L’Iran ormai è nudo, è debole, e i suoi alleati
pregiati, da Hamas e Hezbollah sono stati drasticamente ridimensionati sia sul
piano politico (uccisioni targeting) sia militare. Hamas è ormai ridotto ai
minimi termini militarmente parlando, Hezbollah è privo di capacita di comando,
controllo e comunicazione, e questo dimostra come la retorica iraniana sia
ormai stata smentita dai fatti.
E la preoccupazione di Teheran aumenta con l’avvicinarsi
delle elezioni statunitensi. Oggi gli Stati Uniti sostengono senza sé e senza
ma Gerusalemme. E se è comprensibile una certa ritrosia dell’amministrazione
democratica a un’intensificazione dello scontro regionale (a cui Washington non
farebbe comunque mancare il proprio appoggio), un’eventuale vittoria
repubblicana di fatto rafforzerebbe la linea politica israeliana già
consolidata.
Nasrallah morto nei raid israeliani. Intervista a C. Bertolotti
SkyTG24 del 28 settembre 2024. L’intervista al Direttore di START InSight a partire dal minuto 11.21
Cognitive warfare: manipolare i numeri per condizionare l’opinione pubblica globale. Come Hamas ha ingannato i media occidentali.
L’articolo analizza l’emergere della “guerra cognitiva” come strategia moderna che sfrutta tecnologie avanzate e tecniche psicologiche per manipolare la percezione pubblica, superando la tradizionale disinformazione. In questo contesto, Hamas ha adottato tali tattiche per influenzare l’opinione pubblica globale durante il conflitto con Israele. Utilizzando simboli, narrazioni emotive, e campagne mediatiche, Hamas ha manipolato le informazioni per ottenere supporto internazionale. L’articolo esamina anche la manipolazione dei dati sulle vittime del conflitto da parte di Hamas, evidenziando incongruenze statistiche che suggeriscono la falsificazione deliberata per confondere e condizionare la percezione globale degli eventi.
La guerra cognitiva e le sue potenzialità a favore del terrorismo di Hamas.
Nell’era digitale, la guerra non è più confinata ai campi di battaglia fisici. Al centro del conflitto contemporaneo emerge il concetto di “guerra cognitiva”, una strategia sofisticata che mira a influenzare, modellare e talvolta controllare la percezione e il comportamento umano. La guerra cognitiva si distingue per l’uso di tecnologie avanzate e tecniche psicologiche per infiltrarsi nelle menti degli individui. Questo approccio va oltre la semplice disinformazione o propaganda; «include l’uso di intelligenza artificiale, algoritmi di apprendimento automatico per influenzare il pensiero e le decisioni delle persone senza il loro consenso esplicito» (Farwell, J. 2020). Questo tipo di guerra si avvale della vulnerabilità delle società moderne all’overload informativo, utilizzando le stesse piattaforme che facilitano la comunicazione globale e l’accesso all’informazione per diffondere contenuti mirati a destabilizzare.
L’articolo che segue analizza come l’attore
para-statale Hamas abbia adottato strategie di guerra cognitiva per avanzare i suoi
obiettivi geopolitici, economici e sociali. Attraverso il caso studio della
guerra Israele-Hamas in corso e analisi teoriche, esploriamo come queste
tattiche vengano impiegate in uno scenario di conflitto ibrido, caratterizzato
dalla manipolazione.
Questa articolo, frutto di attività di ricerca e
tratto dal volume “Gaza Underground: la
guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas”, non solo mette in luce le
capacità distruttive della guerra cognitiva, ma promuove anche un dibattito
critico sulle norme internazionali e le politiche necessarie per regolamentare
l’uso delle tecnologie cognitive in contesti bellici.
La guerra cognitiva rappresenta una frontiera critica
e inquietante del conflitto moderno. La nostra comprensione di questo fenomeno
è essenziale per la salvaguardia delle democrazie e per il mantenimento della
pace e della stabilità globale.
L’influenza delle
opinioni pubbliche amiche e avversarie
Nel corso del conflitto con Israele, Hamas ha adottato
varie strategie di cognitive warfare
– la guerra cognitiva – per influenzare l’opinione pubblica, sia
arabo-musulmana che occidentale, al fine di ottenere sostegno per la propria
causa.
Un elemento chiave è stato l’uso di simboli e
narrazioni. Hamas ha adottato simboli e narrazioni tesi a suscitare empatia o
sostegno per la propria causa, cercando di creare un legame emotivo tra il
pubblico e la sua lotta. Una scelta che ha contribuito a plasmare le opinioni
delle persone attraverso un’identificazione emotiva con la causa di Hamas.
Le attività online
hanno rappresentato un’altra tattica importante. Hamas ha saputo ben sfruttare
le piattaforme in rete per diffondere messaggi, coinvolgere l’opinione pubblica
e coordinare attività di propaganda. Una presenza virtuale che ha garantito al
gruppo di raggiungere un vasto pubblico in tutto il mondo.
La messa in scena di eventi mediatici è un’altra
strategia impiegata da Hamas, che ha saputo organizzare con cinica maestria
eventi o situazioni mirate a generare un’ampia e favorevole copertura mediatica
o a suscitare emozioni di sdegno – verso Israele – e di solidarietà – verso i
palestinesi. Questi eventi sono stati progettati per influenzare l’opinione
pubblica attraverso una narrazione a supporto della causa di Hamas, volutamente
sovrapposta e confusa con la cosiddetta “causa palestinese”. Un target, quello di Hamas, che è solo
secondariamente interno poiché l’obiettivo primario è il coinvolgimento
dell’opinione pubblica internazionale. Hamas ha così tentato di ottenere
sostegno a livello globale coinvolgendo organizzazioni internazionali, governi
o gruppi di pressione: una strategia che ha mirato ad ampliare il sostegno
internazionale alla sua causa, influenzando così la percezione globale del
conflitto. In sintesi, attraverso l’uso coordinato di queste strategie, Hamas
ha cercato di modellare la percezione del pubblico a livello locale e
internazionale, puntando ad ottenere il più ampio sostegno possibile contro Israele
(Bachmann, 2024)
Una delle principali strategie è stata proprio la
propaganda mediatica, basata sull’utilizzo dei media per diffondere un’interpretazione favorevole della causa di
Hamas. Attraverso interviste, comunicati stampa e altri mezzi, i funzionari di
Hamas hanno cercato di plasmare la percezione del pubblico a loro favore. Nel
corso del conflitto Hamas ha così sfruttato i media per diffondere immagini e storie progettate per suscitare
empatia e sostenere la propria narrativa, inclusa la presentazione di immagini
di vittime civili o situazioni drammatiche, spesso senza contestualizzazione o
con informazioni frammentate.
Inoltre, aspetto maggiormente rilevante – e in parte
già accennato – Hamas ha adottato la disinformazione come “tecnica di combattimento”,
diffondendo deliberatamente informazioni false o fuorvianti per confondere e
manipolare la percezione degli eventi. Un approccio che ha creato un ambiente
caratterizzato da una verità sfocata, mettendo in dubbio la credibilità delle
fonti di informazione e complicando la comprensione dei fatti da parte del
pubblico.
Un esempio: il cosiddetto Ministero della Salute di
Gaza, di fatto controllato e gestito da Hamas, ha dichiarato, al 1 marzo 2024,
un numero di morti superiore a 30.000, principalmente donne e bambini. È
credibile? No, non lo è.
Abraham Wyner, professore di statistica e
data
science
presso la Wharton School dell’Università della Pennsylvania e condirettore
della facoltà di Sports Analytics and Business Initiative, ha condotto uno
studio sulla questione utilizzando i dati forniti da Hamas dal 26 ottobre al 10
novembre 2023, pubblicato in forma sintetica nell’articolo How the Gaza Ministry of Health Fakes Casualty Numbers. The evidence is in their own poorly
fabricated figures (Wyner, 2024), le cui conclusioni si riportano qui in
forma sintetica.
Il conteggio delle vittime civili a Gaza ha catturato
l’attenzione internazionale sin dall’inizio della guerra. La principale fonte
di dati a cui i media e la politica a
livello globale hanno fatto riferimento è stata il Ministero della Salute di
Gaza controllato da Hamas, il quale ha sostenuto – alla data del 1° marzo 2024
– un dato di oltre 30.000 morti, la maggioranza dei quali costituita da bambini
e donne. La stessa amministrazione statunitense, guidata dal presidente Joe
Biden, ha dato credibilità ai dati di Hamas. Durante un’audizione alla
commissione dei servizi armati della Camera alla fine di febbraio, il
Segretario alla Difesa Lloyd Austin ha affermato che il numero di donne e
bambini palestinesi uccisi dal 7 ottobre fosse “oltre 25.000”; affermazione a
cui è seguita la pronta precisazione del Pentagono in cui si evidenziava che il
Segretario avesse citato «una stima del Ministero della Salute di Gaza
controllato da Hamas». Lo stesso presidente Biden aveva precedentemente
menzionato quella cifra, sottolineando che «troppi, degli oltre 27.000
palestinesi uccisi in questo conflitto [fossero]
civili innocenti e bambini». Affermazione, anche in questo caso, a cui è
seguita la nota stampa della Casa Bianca riportante il fatto che il presidente
avesse fatto «riferimento a dati pubblicamente disponibili sul numero totale di
vittime» (Wyner, 2024).
Il problema con questi dati è evidente: i numeri non
sono veritieri. Una considerazione che partendo dall’analisi di dati e
informazioni disponibili, suggerisce come le vittime non possano essere in
prevalenza donne e bambini ma, al contrario, combattenti di Hamas.Se i
numeri di Hamas sono in qualche modo alterati o fraudolenti, questo è
verificabile attraverso l’analisi degli stessi dati, i quali, anche se
limitati, sono comunque sufficienti. Vediamo come Wyner ha potuto verificarne
l’attendibilità.
Dal 26 ottobre al 10 novembre 2023, il Ministero della
Salute di Gaza ha pubblicato giornalmente cifre sulle vittime, includendo sia
il numero totale sia quello specifico di donne e bambini. Il primo elemento su
cui Wyner (2024) ha posto l’attenzione è il numero “totale” di morti riportato
che, come illustrato nel grafico in Figura
10, mostra un aumento costante nel tempo, quasi lineare.
Questa costanza nell’andamento delle morti mostra
elementi incoerenti che suggeriscono un elevato grado di non genuinità. In
altri termini, non sarebbero veritieri. Ci si aspetterebbe una certa variazione
giorno per giorno, ma la media del conteggio giornaliero delle vittime durante
il periodo in esame è di circa duecentosettanta, più o meno il quindici
percento: una variazione sorprendentemente minima perché ci si aspetterebbero
giorni con almeno il doppio della media (o più) e altri con la metà (o meno).
Ciò che emerge è la probabilità che il ministero di Gaza abbia diffuso numeri
giornalieri falsati, che variano troppo poco rispetto al normale andamento
statistico e ciò sarebbe conseguenza del fatto che, da parte di chi avrebbe
prodotto quei dati, vi sarebbe una mancanza di comprensione del comportamento
dei numeri che si verificano naturalmente. Pur a fronte dell’assenza di dati di
controllo verificati, i dettagli dei conteggi giornalieri rendono i numeri
quantomeno sospetti (Wyner, 2024).
Entrando più nel dettaglio, rileva Wyner, dovremmo
osservare variazioni nel numero di vittime bambini che seguono la variazione
nel numero di donne. Questo perché la fluttuazione giornaliera nei conteggi
delle morti è causata dalla variazione nel numero di attacchi su edifici residenziali
e contro i tunnel, il che dovrebbe risultare in una considerevole variabilità
nei totali ma con una variabilità inferiore nella percentuale di morti tra i
gruppi (uomini, donne, bambini): è un principio statistico basilare sulla
variabilità casuale. Di conseguenza, nei giorni con molte vittime donne
dovrebbero esserci grandi numeri di bambini vittime, e nei giorni in cui si
riporta un basso dato di donne uccise, dovrebbero essere riportati solo pochi
bambini. Questa relazione può essere misurata e quantificata dal coefficiente
di determinazione (R-quadrato) che indica quanto siano correlati i conteggi
giornalieri delle vittime donne con i conteggi giornalieri delle vittime
bambini. Se i numeri fossero reali, ci si aspetterebbe un R-quadrato sostanzialmente
maggiore di 0, tendendo più vicino a 1,0. Ma il coefficiente di determinazione
R-quadrato, indicato dal grafico in Figura
11, è 0,017, il che indica che sul piano statistico e sostanziale non
differisce da 0 (Wyner, 2024).
Questa assenza di correlazione costituisce il secondo
indizio circostanziale che confermerebbe la non autenticità dei numeri forniti
dal Ministero della Salute di Gaza.
Un’analisi approfondita richiede di considerare un
fattore aggiuntivo significativo: considerata la dinamica del conflitto, ci si
aspetterebbe un numero giornaliero di vittime di sesso femminile strettamente
legato al numero di vittime di sesso maschile, escludendo donne e minori.
Questa ipotesi si basa sul presupposto che le variazioni nella frequenza e
nell’intensità dei bombardamenti e degli attacchi influenzino uniformemente i
conteggi giornalieri di entrambi i sessi. Contrariamente a tale aspettativa,
l’analisi dei dati non rivela una correlazione diretta tra i due; anzi, emerge
una marcata correlazione inversa (come illustrato nel grafico in Figura 12). Questo risultato appare
incoerente con le previsioni e suggerisce ancora una volta che i dati riportati
potrebbero non riflettere la realtà, offrendo un terzo indizio a supporto della
possibile mancata autenticità delle cifre comunicate.
Wyner ha poi identificato ulteriori incongruenze nei
dati analizzati: ad esempio, le cifre relative alle vittime maschili del 29
ottobre sembrano contraddire quelle del giorno precedente, suggerendo il
paradosso che ventisei uomini siano tornati in vita o, piuttosto, la
discrepanza potrebbe derivare da errori di attribuzione o di registrazione.
Inoltre, ci sono giornate in cui il numero di uomini segnalati come vittime è
insolitamente basso, quasi nullo; se si trattasse di semplici errori di
registrazione, ci si aspetterebbe che, in queste occasioni, il numero di
vittime femminili fosse normale, almeno in media. Tuttavia, rileva Winer, si è
osservato che nei tre giorni in cui il conteggio degli uomini è vicino allo
zero, il che suggerisce un errore, il numero di vittime femminili è
insolitamente alto. Curiosamente, i tre picchi giornalieri più elevati di
vittime femminili coincidono proprio con queste anomalie, come evidenziato dal
grafico in Figura 13) (Wyner, 2024).
Cosa dovrebbero indurci a pensare queste osservazioni?
Anche se le evidenze non sono conclusive, sembra fortemente indicativo che i
numeri siano stati generati attraverso un metodo poco o per nulla legato alla
realtà effettiva. Sembra che ci sia stata una decisione arbitraria da parte del
Ministero della Salute di Hamas nel fissare un numero totale di vittime
giornaliero. Questo si deduce dall’eccessiva regolarità con cui i totali
giornalieri aumentano, il che rende poco credibile la loro autenticità.
Successivamente, sembra che abbiano attribuito casualmente circa il settanta
percento di queste cifre totali alle donne e ai bambini, variando questa
distribuzione di giorno in giorno. Infine, il numero delle vittime maschili è
stato adattato per raggiungere il totale prefissato. Questo spiegherebbe il
perché di dati così incoerenti e delle evidenti anomalie osservate.[1]
Vi sono anche altre evidenti “bandiere rosse”. Il
Ministero della Salute di Gaza ha costantemente sostenuto che circa il settanta
percento delle vittime siano donne o bambini, un dato molto più alto rispetto
ai numeri riportati nei conflitti precedenti con Israele. Inoltre, se il
settanta percento delle vittime sono donne e bambini e il venticinque percento
della popolazione è composto da uomini adulti, ciò suggerisce che i numeri
riportati siano almeno grossolanamente inaccurati e molto probabilmente
falsificati. Infine, il 15 febbraio, Hamas ha ammesso di aver perso 6.000
propri combattenti, un dato che corrisponde a più del venti percento del totale
delle vittime riportate, il che pone in evidenza ulteriori incongruenze. Detto
in altri termini: se Hamas riporta che il settanta percento delle vittime sono
donne e bambini, ma anche che il venti percento sono combattenti, lo scenario
descritto è alquanto improbabile da riscontrare in occasione di un confronto
armato in territorio urbano, a meno che Israele non abbia in qualche modo
volutamente evitato di uccidere uomini non combattenti, oppure che Hamas voglia
lasciar intendere che quasi tutti gli uomini di Gaza siano combattenti di
Hamas.
Ci sono numeri migliori a disposizione per chi vuole
verificare la veridicità dei dati forniti da Hamas? Alcuni osservatori
obiettivi hanno riconosciuto che i numeri di Hamas in precedenti conflitti con
Israele fossero relativamente accurati. Tuttavia, la guerra Israele-Hamas
iniziata nel 2023 si è imposta come un qualcosa di completamente diverso dagli
eventi che l’hanno preceduta, per scala e per portata; gli osservatori
internazionali che in passato hanno potuto monitorare gli scontri tra Israele e
Hamas, sono stati completamente assenti nell’ultimo conflitto, quindi non è
possibile fare affidamento sul passato come elemento di riferimento. La “nebbia
della guerra” (fog of war) è
particolarmente densa a Gaza, e ciò rende impossibile determinare rapidamente i
totali delle morti civili con un adeguato grado di precisione. Inoltre, da un
lato, i conteggi ufficiali delle morti palestinesi non distinguono tra soldati
e bambini, dall’altro, Hamas incolpa Israele per tutte le morti, anche quelle
causate dal lancio fallito di razzi da parte palestinese, esplosioni
accidentali, omicidi deliberati o scontri intestini. A conferma di ciò, vi è un
documento ufficiale di Hamas (in Figura
14), recuperato dalle forze israeliane a Gaza, che si riferisce
apertamente alle vittime civili causate dal fallimento di lanci di razzi da
parte del gruppo Jihad islamico palestinese e che confermerebbe la volontà di
attribuirne la responsabilità a Israele.
Un gruppo di ricercatori della Johns Hopkins Bloomberg
School of Public Health ha confrontato i rapporti di Hamas con i dati sui
lavoratori dell’Unrwa, sostenendo che, poiché i tassi di mortalità erano
approssimativamente simili, i numeri di Hamas non sarebbero stati aumentati
artificiosamente. Tuttavia, tale argomentazione si basa su un’assunzione non
verificata, ossia che i lavoratori dell’Unrwa non siano in modo sproporzionato
più inclini a essere uccisi rispetto alla popolazione generale; un’ipotesi che
potrebbe essere confutata – evidenzia Wyner – dalla possibile affiliazione a
Hamas di una frazione dei lavoratori dell’Unrwa, alcuni dei quali hanno
partecipato attivamente al massacro del 7 ottobre (Wyner, 2024).
La verità sulla guerra Israele-Hamas è ancora
sconosciuta e probabilmente rimarrà tale; ma è altresì probabile che il numero
totale delle vittime civili sia enormemente esagerato. Israele stima che almeno
12.000 combattenti palestinesi siano stati uccisi: se anche solo questo numero
fosse ragionevolmente accurato, il rapporto tra vittime non combattenti e
combattenti sarebbe notevolmente basso, il che indica uno sforzo notevole per
evitare perdite umane inutili mentre si combatte un nemico che si nasconde tra
la popolazione civile (Wyner, 2024).
Bibliografia
Farwell J. (2020), Information
Warfare: Forging Communication Strategies for Twenty-first Century Operational
Environments, Doi:10.56686/9781732003095.
Bachmann S.D. (2024), Hamas-Israel: Tik Tok and the relevance of
the cognitive warfare domain, Defense Horizon Journal.
Bertolotti C. (2024), Gaza Underground: la guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas. Storia, strategie, tattiche, guerra cognitiva e intelligenza artificiale, ed. START InSight, Lugano, pp. 325.
Wyner A. (2024), How the Gaza Ministry of Health Fakes Casualty Numbers. The evidence is in their own poorly fabricated figures, The Tablet, 7 marzo 2024, in https://www.tabletmag.com/sections/news/articles/how-gaza-health-ministry-fakes-casualty-numbers.
Hamas è organizzata in una serie di organi direttivi che gestiscono diverse funzioni politiche, militari e sociali. L’autorità principale, che si occupa dell’agenda politica e strategica del movimento, è rappresentata dal consiglio della shura di Hamas, il vertice della leadership organizzativa, che opera in esilio. Tuttavia, le attività quotidiane del gruppo sono gestite dal bureau politico, mentre le operazioni militari sono sotto la responsabilità delle brigate Izz ad-Din al-Qassam, il braccio militare del gruppo, che gode di un’ampia autonomia operativa. I comitati locali gestiscono le questioni di base nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania.
Se fino ad oggi Hamas è stato caratterizzato da una dualità che ha visto contrapporsi l’anima politica esterna alla Striscia di Gaza a quella politico-militare a Gaza in un rapporto di sempre più accesa competizione, la nomina di Yahya Sinwar alla guida del movimento potrebbe aver di fatto archiviato l’opzione di un gruppo pragmatico – al netto delle posizioni radicali e violente – per lasciar posto in via esclusiva all’anima movimentista radicale, razionalmente violenta di orientamento jihadista votata alla causa massimalista: la distruzione di Israele, come premessa a qualunque opzione politica.
Chi è il nuovo capo di Hamas?
Fino
al momento della sua morte, Ismail Haniyeh ha ricoperto il ruolo di capo
politico mentre Yahya Sinwar ha gestito le questioni ordinarie a Gaza.
Conosciuto anche come Yahya Ibrahim Hasan al-Sinwar, dal 2017 è il capo di Hamas nella
Striscia di Gaza e uno dei primi architetti del braccio armato di Hamas: è
sospettato di essere una delle menti dietro gli attacchi del 7 ottobre 2023.[1]
Nato nel 1962 nel campo profughi di Khan Younis, Striscia di Gaza, da
genitori sfollati da Ashkelon durante la guerra arabo-israeliana del 1948, dopo
aver frequentato le scuole primarie grazie al sostegno dell’Agenzia delle
Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione (Unrwa), all’inizio degli anni
Ottanta si iscrisse all’Università islamica di Gaza, dove lo studio della
lingua araba contribuì a plasmare la sua carismatica autopresentazione. Entrò
all’università in un momento in cui molti giovani palestinesi della Striscia di
Gaza guardavano all’islamismo come strumento di soluzione al conflitto
israelo-palestinese, dopo decenni di panarabismo rivelatosi fallimentare. Nel
1982 fu arrestato per la sua partecipazione alle prime organizzazioni islamiste
anti-israeliane.
Nel 1985, ancor prima della formazione di Hamas, Sinwar contribuì all’organizzazione di “al-Majd” (in arabo “gloria”, ma anche acronimo di Munazzamat al-Jihad wa al-Da’wah, “Organizzazione per il jihad e da’wah”). Al-Majd era una rete di giovani islamisti con il compito di smascherare il crescente numero di informatori palestinesi reclutati da Israele. Quando Hamas venne fondata nel 1987, al-Majd fu inglobata nei suoi quadri di sicurezza. Nel 1988 si scoprì che la rete era in possesso di armi e Sinwar fu detenuto da Israele per diverse settimane. L’anno successivo venne condannato a quattro ergastoli per l’omicidio di palestinesi accusati di collaborazionismo con Israele.
Durante la sua lunga incarcerazione, Sinwar mantenne
una forte influenza sui suoi compagni di prigionia, usando tattiche di abuso e
manipolazione e godendo del supporto dei suoi contatti al di fuori del carcere.
Si impegnò a punire i compagni di prigionia che sospettava di essere
informatori e una volta costrinse circa 1.600 prigionieri a intraprendere uno
sciopero della fame. Trascorse anche gran parte del suo tempo libero studiando
ciò che poteva sui suoi nemici israeliani, leggendo giornali israeliani e
imparando l’ebraico.
Il rilascio di Sinwar avvenne nell’ambito dello scambio di prigionieri di alto profilo con Gilad Shalit, il soldato israeliano che era stato rapito da Hamas nel 2006 mentre era di stanza a un valico di frontiera. Dopo diversi tentativi falliti di mediare la libertà di Shalit, l’Egitto e la Germania si prodigarono per il suo rilascio nell’ottobre 2011. Il fratello di Sinwar, Mohammed, che era stato assegnato a sorvegliare Shalit, insistette affinché Sinwar fosse incluso nello scambio. Lo stesso giorno in cui Shalit venne rilasciato in Israele, Sinwar fu tra i primi prigionieri palestinesi a essere rimpatriati nella Striscia di Gaza.
Nell’aprile 2012, pochi mesi dopo il suo rilascio,
Sinwar fu eletto membro dell’ufficio politico di Hamas nella Striscia di Gaza.
Mise a frutto la sua esperienza come leader
carcerario e si guadagnò velocemente un’ottima reputazione all’interno di Hamas
per aver riunito le sue fazioni attraverso un compromesso. La retorica
infuocata di Sinwar conquistò da subito gli elementi più oltranzisti del
movimento; in tale cornice dinamica, pur prospettando l’avvio di un’era guidata
dall’ala militante, nei suoi primi anni da leader
Sinwar tenne un basso profilo e mostrò un lato pragmatico che gli consentì di
alleggerire lo stato di isolamento di Hamas. Mesi dopo la sua ascesa come leader del movimento, Hamas strinse un
accordo di riconciliazione con l’Anp e, per la prima volta dal 2007, cedette il
controllo di gran parte della Striscia di Gaza all’Autorità Palestinese, seppur
per un breve periodo. Anche le relazioni con l’Egitto tesero a migliorare,
tanto da portare Il Cairo ad allentare le restrizioni al valico di frontiera.
Al contempo, a conferma di una visione estremamente
razionale e pragmatica, il gruppo avviò una politica di dialogo e avvicinamento
all’Iran che portò in breve al reinserimento di Hamas nella rete di alleati di
Teheran e al conseguente sostegno militare e finanziario.
Sebbene alla fine del 2018, con l’avvio degli “Accordi di Abramo” sostenuti dagli Stati Uniti e volti alla normalizzazione dei rapporti tra Israele e gli Stati arabi, si prospettasse un periodo di calma frutto del possibile processo di reciproco riconoscimento tra Israele e uno stato palestinese, nel maggio 2021 ci fu un ritorno all’ostilità aperta di Hamas nei confronti di Gerusalemme. La popolarità di Sinwar aumentò con il conflitto, e la sua autorevolezza si rafforzò in maniera significativa.
L’operazione battezzata “alluvione Al-Aqsa” del 7 ottobre 2023, mostra i segni distintivi
delle tattiche di Sinwar, e la presa di ostaggi rimanda all’importanza da lui
data agli scambi di prigionieri. Sinwar, le cui immagini diffuse dalle Idf a
febbraio 2024 confermano che si sia nascosto nella rete dei tunnel sotterranei
di Gaza utilizzando la propria famiglia come “scudo umano”, è stato
classificato come obiettivo primario di Israele e definito, secondo un
portavoce militare israeliano, come “un morto che cammina”.
Hamas è strutturata su una serie di organi direttivi che svolgono varie funzioni politiche, militari e sociali. L’autorità in capo, responsabile dell’agenda politica e strategica del movimento, appartiene al consiglio della shura di Hamas, l’organo di leadership al vertice della catena organizzativa di comando,[1] che opera in esilio. Tuttavia, le operazioni quotidiane del gruppo rientrano nell’ambito del bureau politico, così come le operazioni militari fanno capo più specificamente al braccio militare del gruppo, le brigate Izz ad-Din al-Qassam, organo che gode di un alto grado di autonomia operativa.[2] I comitati locali gestiscono le questioni di base a Gaza e in Cisgiordania.
Quali sono i leader più importanti di Hamas a cui Israele dà la caccia? Tre i soggetti chiave del movimento: Khaled Meshaal, ex capo politico del movimento e ora capo ufficio politico estero, Yahya Sinwar, capo dell’ala militare di Hamas e Ismail Haniyeh, capo dell’ufficio politico del gruppo a Gaza, ucciso da Israele il 30 luglio 2024 in Iran, nella sua residenza di Teheran, a seguito di un probabile raid aereo con droni.
Storia, pregresso e ruolo politico di Ismail
Haniyeh
Ismail Haniyeh[3], conosciuto anche come Isma’il Haniyyah e Ismail Haniya, assurse al ruolo di primo ministro dell’Anp in seguito alla vittoria elettorale di Hamas del 2006; dopo i violenti scontri tra fazioni con la rivale Fatah, che portarono alla dissoluzione del governo e all’istituzione di un’amministrazione autonoma guidata da Hamas nella Striscia di Gaza, Haniyeh assunse il ruolo di leader del governo de facto nella Striscia (2007-14) e, nel 2017, fu scelto per sostituire Khaled Meshaal come capo dell’ufficio politico.
Figlio di genitori arabi palestinesi sfollati dal loro villaggio vicino ad Ashqelon (in quello che oggi è Israele) nel 1948, Haniyeh nacque nel 1962 nel campo profughi di Al-Shati’, Striscia di Gaza, dove trascorse i primi anni della sua vita. Come per la maggior parte dei minori rifugiati, Haniyeh fu educato nelle scuole gestite dall’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (Unrwa). Nel 1981 si iscrisse all’Università islamica di Gaza, dove studiò letteratura araba e iniziò l’attivismo politico studentesco, guidando un’associazione islamista affiliata ai Fratelli Musulmani. Quando Hamas si formò, nel 1988 Haniyeh era tra i suoi membri fondatori più giovani, avendo sviluppato stretti legami con il leader spirituale del gruppo, lo sceicco Ahmed Yassin. Haniyeh fu arrestato dalle autorità israeliane nel 1988 e imprigionato per sei mesi per la sua partecipazione alla Prima intifada. Arrestato di nuovo nel 1989, rimase in prigione fino a quando Israele lo deportò nel sud del Libano nel 1992 insieme a circa quattrocento altri islamisti. Tornò poi a Gaza nel 1993, in seguito agli accordi di Oslo, e fu nominato decano dell’Università islamica.
Il ruolo di leadership di Haniyeh in Hamas si radicò nel 1997, quando fu nominato segretario personale di Yassin, divenendone uno stretto confidente. I due furono bersaglio di un primo fallito tentativo di assassinio da parte di Israele nel 2003; una seconda operazione mirata israeliana portò alla morte di Yassin pochi mesi dopo. Nel 2006 Hamas partecipò alle elezioni legislative palestinesi, con Haniyeh in testa alla lista. Il gruppo ottenne la maggioranza dei seggi in parlamento e Haniyeh divenne primo ministro dell’Anp. La comunità internazionale reagì alla leadership di Hamas congelando gli aiuti all’Autorità Palestinese, con ciò mettendo a dura prova l’organo di governo. Nel giugno 2007, dopo mesi di tensione e un violento conflitto armato tra le fazioni, il presidente Mahmoud Abbas del partito Fatah destituì Haniyeh e ne sciolse il governo. La conseguenza fu l’istituzione di un governo autonomo guidato da Hamas nella Striscia di Gaza, con Haniyeh a capo della compagine governativa. Poco dopo, Israele attuò un pacchetto di sanzioni e restrizioni alla Striscia di Gaza, con il supporto e la collaborazione dell’Egitto.
Nel gennaio 2008 un attacco con decine di razzi venne lanciato dalla Striscia di Gaza verso Israele; come pronta risposta Israele intensificò il suo blocco. Ciononostante, Hamas mantenne il controllo della Striscia di Gaza e il suo governo oscillò tra occasionali successi politici e battute d’arresto. Per quanto riguarda l’ottenimento di concessioni da Israele, Hamas ottenne il rilascio di oltre mille prigionieri palestinesi detenuti da Israele in cambio del soldato israeliano rapito Gilad Shalit. Un altro successo presentato all’opinione pubblica palestinese fu la performance di Hamas nella guerra contro Israele nell’estate del 2014 sebbene, a causa del blocco, le condizioni di vita all’interno della Striscia stessero progressivamente peggiorando. Nel frattempo, ci furono una serie di tentativi di riconciliazione tra Hamas nella Striscia di Gaza e l’Autorità Palestinese guidata da Fatah in Cisgiordania. In uno di questi tentativi, nel 2014, il governo di Hamas si dimise formalmente per far posto a un governo di unità nazionale con Fatah. Così facendo, Haniyeh rinunciò al suo incarico di primo ministro pur mantenendo quello di capo politico locale, fino a quando non venne sostituito da Yahya Sinwar nel 2017. Dopo pochi mesi, Haniyeh venne eletto capo dell’ufficio politico di Hamas, in sostituzione di Khaled Meshaal.
Nel dicembre 2019 Haniyeh lasciò la Striscia
di Gaza, trasferendosi all’estero, tra Turchia e Qatar, facilitando la sua capacità di rappresentare Hamas
all’estero. Tra le sue visite più importanti si citano il funerale di
Qassem Soleimani, un alto comandante del Corpo delle guardie rivoluzionarie
islamiche iraniane (Irgc) ucciso da un attacco di droni statunitensi nel gennaio 2020, l’insediamento del presidente
iraniano Ebrahim Raisi nell’agosto 2021 e il suo funerale il 23 maggio 2024.
Nello stesso anno, mentre le truppe statunitensi si ritiravano
dall’Afghanistan, Haniyeh chiamò il capo dell’ufficio politico e negoziatore
dei talebani, Abdul Ghani Baradar, per congratularsi con lui per il successo
nell’aver posto termine all’occupazione statunitense nel Paese. Nell’ottobre
2022 Haniyeh incontrò il presidente siriano Bashar al-Assad; quello fu il primo
incontro tra i leader di Hamas e
della Siria dalla rottura all’inizio della guerra civile nel 2011. In un raid israeliano a Gaza, il 10
aprile 2024, morirono tre dei suoi figli; un altro era morto in un precedente
attacco israeliano il 17 ottobre 2023.
Mahmoud Zahar: il
possibile sostituto di Ismail Haniyeh
La decisione di nominare il nuovo capo politico di Hamas spetta al consiglio della shura del movimento. Molto dipenderà dai nuovi equilibri politici determinati dal peso della rinforzata leadership militare che guida le brigate di HamasIzz ad-Din al-Qassam nella Striscia di Gaza.
Mahmoud Zahar è considerato uno dei leader più importanti di Hamas e membro della leadership politica del movimento: è uno dei principali candidati a sostituire Ismail Haniyeh. Frequentò la scuola a Gaza e l’università al Cairo, per poi lavorare come medico a Gaza e Khan Younis, fino a quando le autorità israeliane lo licenziarono in relazione al suo ruolo politico. Detenuto nelle carceri israeliane nel 1988, nel 1992 fu tra i deportati da Israele nella terra di nessuno, in Libano, dove vi trascorse un anno. Con la vittoria di Hamas alle elezioni del 2006, Zahar entrò a far parte del Ministero degli Affari Esteri nel nuovo governo del primo ministro Ismail Haniyeh.[4] Israele tentò di eliminarlo nel 2003, quando un aereo bombardò la sua casa nella città di Gaza. Sopravvisse all’attacco, nel quale però morì il figlio maggiore, Khaled. Il suo secondo figlio, Hossam, che era un membro delle brigate Izz ad-Din al-Qassam, venne ucciso in un successivo attacco aereo a Gaza nel 2008.
[1] Berti B. (2013), Armed Political
Organizations: From Conflict to Integration, Johns Hopkins University Press.
[2] Hroub K. (2010), Hamas: A
Beginner’s Guide, London: Pluto Press.
[3] C. Bertolotti (2024),
Gaza Underground: la guerra sotterranea e
urbana tra Israele e Hamas: Storia, strategie, tattiche, guerra cognitiva e
intelligenza artificiale, START InSight ed., Lugano, pp. 40-44.
[4] C. Bertolotti (2024),
Gaza Underground: la guerra sotterranea e
urbana tra Israele e Hamas: Storia, strategie, tattiche, guerra cognitiva e
intelligenza artificiale, START InSight ed., Lugano, p. 40-44.
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