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Gaza Underground: la guerra sotterranea e urbana tra Israele-Hamas – il nuovo libro di C. Bertolotti

Storia, strategie, tattiche, guerra cognitiva e intelligenza artificiale

Il nuovo libro di C. Bertolotti è disponibile su Amazon

Nel cuore della terra, sotto il confine tra Israele e Gaza, si è sviluppata una guerra invisibile, tanto silenziosa quanto pericolosa. Questa è la storia della guerra sotterranea combattuta da Israele contro Hamas. La lotta contro l’uso strategico dei tunnel da parte del movimento islamista rappresenta un capitolo oscuro e complesso del conflitto israelo-palestinese, un fronte di battaglia che si è esteso ben al di là della vista e della percezione pubblica.

La dimensione sotterra­nea della nuova guerra

Mentre il mondo guarda le immagini di distruzione e ascolta i racconti di chi è colpito dalla violenza in superficie, pochi comprendono la portata e la complessità della guerra svolta nel ventre della terra: la dimensione sotterra­nea della nuova guerra. Ma i tunnel di Gaza non sono semplici passaggi sotterranei; sono arterie di un vasto organismo vivente, pulsante di armi, di strategie e di intenti terroristici. Sono la manifestazione fisica di un conflitto che ha abbracciato una nuova dimensione, quella sotterranea, dove il buio e il silenzio nascondono operazioni di infiltrazione, attacchi a sorpresa e tattiche di guerriglia.

Strategie e conseguenze della guerra invisibile

GAZA UNDERGROUND: la guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas, il nuovo libro di Claudio Bertolotti, esplora questa guerra nascosta, partendo dalle origini dell’utilizzo dei tunnel nella storia del conflitto israelo-palestinese, analizzando come Hamas li abbia trasformati in uno strumento chiave della propria strategia militare. Attraverso la ricerca d’archivio, documenti ufficiali, nonché testimonianze dirette, cercheremo di capire come Israele abbia risposto a questa minaccia, sviluppando tecnologie e tattiche per rilevare, distruggere o neutralizzare queste via di attacco nascoste.

La guerra sotterranea tra Israele e Hamas a Gaza è una lotta continua di ingegno, risorse e determinazione. È una dimostrazione di come il campo di battaglia si sia evoluto, richiedendo a entrambe le parti di adattarsi a nuove realtà. L’obbiettivo posto a premessa del nuovo libro di Claudio Bertolotti consiste nell’analizzare e comprendere le sfide, le strategie e le conseguenze di questa guerra invisibile, offrendo al lettore una comprensione più profonda di uno degli aspetti più inquietanti e meno conosciuti del conflitto israelo-palestinese, aprendo la prospettiva sui futuri scenari di guerra che, per ragioni demografiche, sociali, economiche e tecnologiche, vedranno le città e le loro dimensioni sotterranee assumere un ruolo sempre più determinante.

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LIBRO SIMTERRORISM – Modeling Religious Terrorism in Populations impacted by Climate Change

DI ANDREA MOLLE
(Pubblicazione in lingua inglese)

DISPONIBILE NEL NOSTRO CATALOGO SU AMAZON (CLICK PER UN ESTRATTO)

This volume examines the combined effects of risk propensity, relative deprivation, and social learning of deviance on the collective grievance within a religious population under the assumption of civil unrest caused by extreme climatic events. We designed an agent-based model to demonstrate how greater or lesser amounts of grievance towards political authority are likely to create an ideal en-vironment for organized violence to emerge when resources are threatened by climate change.

Scholars have tried to formulate a generally accepted definition of religious terrorism for almost four decades, but its investigation is still controversial, especially in the context of the emerging study of the political and social consequences of climatic events. This particular form of terrorism is nevertheless highly diffuse and observed to be coming from smaller clubs of radicalized individuals instead of main-stream religious groups. However, we find that doctrinal explanations appear irrelevant in explaining how terrorist cells emerge and organize themselves.


#ReaCT2023, n. 4: Pubblicato il rapporto annuale sui radicalismi e i terrorismi in Europa

Come Direttore dell’Osservatorio sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo in Europa (ReaCT), sono lieto di presentare il 4° rapporto annuale sul terrorismo e il radicalismo in Europa, #ReaCT2023 (vai all’indice e scarica il volume), che intende fornire un’analisi quanto più completa dell’evoluzione della minaccia del terrorismo nel nostro continente.

Il rapporto rappresenta la combinazione unica di rivista scientifica e volume collettivo, con contributi di vari autori, ricercatori e collaboratori che hanno dedicato il loro tempo, la loro esperienza e le loro conoscenze. Vorrei esprimere la mia gratitudine a tutti loro per il prezioso contributo e i loro sforzi instancabili. Voglio, altresì, ringraziare il Ministero della Difesa italiano per aver confermato la stima e la fiducia nell’Osservatorio che dirigo concedendo il patrocinio all’evento di presentazione del rapporto, e il prestigioso Centro Alti Studi per la Difesa per la disponibilità dimostrata. Gratitudine che si estende al Ministero dell’Interno italiano che, attraverso il contributo della Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione, ha permesso di completare il nostro sforzo per la comprensione e la definizione della contemporanea minaccia rappresentata dai radicalismi ideologici e dai terrorismi violenti.

Quali risultati ci consegna la ricerca dell’Osservatorio?

Negli ultimi tre anni, dal punto di vista quantitativo, la frequenza degli attacchi terroristici è rimasta lineare. L’Europa è classificata come la terza regione maggiormente colpita dai terrorismi, seguendo la Russia e l’Eurasia, e l’America centrale e i Caraibi. I Paesi dell’Unione europea, il Regno Unito e la Svizzera sono stati afflitti nel 2022 da 50 attacchi terroristici di varia natura, una significativa flessione rispetto ai 73 del 2021. Sul piano qualitativo, guardando in particolare al mai sopito dell’islamismo violento, il rapporto evidenzia la natura in continua evoluzione del jihadismo, che ha subito molteplici trasformazioni fin dalle sue origini in Afghanistan negli anni ’80, diffondendosi e radicalizzandosi. Al Qa’ida è stata l’incarnazione del movimento globalizzato e radicalizzato fino a quando il gruppo terroristico Stato islamico è emerso nel 2014, proponendo un approccio ancora più estremo. La sconfitta dello Stato islamico in Iraq e Siria nel 2017-18 ha segnato la prima sconfitta tangibile del movimento jihadista. I movimenti jihadisti nazionali, per lo più nutriti dai soggetti globali, sono ora di nuovo di moda, e la regione del Sahel il centro del jihadismo riemergente. Da Sud a Est, il rapporto evidenzia il pericolo del terrorismo jihadista nella regione balcanica, che rimane una minaccia per la sicurezza italiana ed europea. L’Italia ha attuato e confermato varie iniziative per contrastare questa minaccia, in particolare confermando il proprio impegno a livello di missioni internazionali di mantenimento della pace.

Il rapporto approfondisce poi il tema della minaccia dell’estremismo di destra, della disinformazione, delle teorie del complotto, del suprematismo bianco e del crescente fenomeno dell’anarco-insurrezionalismo.

Alla luce del mondo in continua evoluzione e del conflitto che ora ha raggiunto l’Europa, è essenziale adattare i nostri paradigmi interpretativi della minaccia e mettere in discussione la definizione di terrorismo, l’approccio al contrasto al processo di radicalizzazione e la ricollocazione del terrorismo stesso nel nuovo scenario di conflitto.

Inoltre, in un quadro sempre più complesso e dinamico, la gestione delle crisi nel XXI secolo presenta sfide uniche a causa del contesto interconnesso e interdipendente, rendendo difficile la previsione. Il rapporto #ReaCT2023 ha dato ampio spazio anche a questo aspetto.

Infine, abbiamo voluto porre l’attenzione sulla recente pubblicazione del progetto di ricerca spagnolo sul contrasto al terrorismo internazionale all’interno delle fonti criminali multilivello e sull’analisi critica delle questioni di diritto penitenziario, giurisprudenza e pratica applicata alle sentenze per gli autori di atti terroristici. Il progetto di ricerca qui illustrato offre proposte costruttive per combinare le sfide poste da questo fenomeno criminale con la garanzia dei diritti umani fondamentali ed esplora il potenziale della giustizia riparativa.

In conclusione, il contributo di quest’anno è una testimonianza della forza e della dedizione della nostra comunità di studiosi e operatori nella lotta in corso contro i radicalismi e i terrorismi. Auspico che le idee contenute in questo rapporto contribuiscano a una migliore comprensione dell’evoluzione della minaccia dei terrorismi in Europa e servano come appello all’azione per tutti i soggetti interessati a lavorare insieme per prevenire e contrastare l’estremismo violento.



Grazie a tutti gli Autori che, con il loro encomiabile lavoro, hanno contribuito ancora una volta alla realizzazione di #ReaCT2023. Un ringraziamento speciale per il sostegno va anche alla Chapman University con sede ad Orange, California, all’Università della Svizzera Italiana – USI a Lugano e alla Piattaforma cantonale di prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo violento (Repubblica e Cantone Ticino). Infine, come sempre, a START InSight, che ha consentito la pubblicazione e la distribuzione internazionale del nostro rapporto annuale.

Claudio Bertolotti, Direttore Esecutivo dell’Osservatorio ReaCT

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Sicurezza energetica. La rinnovata centralità del Mediterraneo: il libro di C. Bertolotti

Acqua ed energia (rinnovabile) per la sicurezza nazionale e la cooperazione regionale

Il nuovo libro di Claudio Bertolotti, Direttore di START InSight, “Sicurezza energetica. La rinnovata centralità del Mediterraneo: Acqua ed energia (rinnovabile) per la sicurezza nazionale e la cooperazione regionale” (ed. STARTInSight, 2023, 161 pp., Euro/CHF 14,00) è stato pubblicato per i tipi della Collana “InSight”, disponibile su Amazon.it o richiedendolo all’editore (info@startinsight.eu).

La storia ci ricorda che quando cambia la fonte di potere dominante, cambiano anche i rapporti di forza che dominano la politica internazionale.

Il “sistema Mediterraneo” è attualmente sottoposto a un forte stress, politico, sociale, economico, commerciale ed energetico. Deve affrontare la crisi economica e il problema della dipendenza energetica, le difficoltà di approvvigionamento di materie prime e di semiconduttori, l’accesso sempre più critico alle risorse idriche e alimentari, la sicurezza delle vie di comunicazione e la protezione delle infrastrutture critiche sottomarine.

Non v’è dubbio alcuno che l’accesso all’acqua, alle risorse alimentari e all’energia, associato alle conseguenze del cambiamento climatico e alle relazioni e agli equilibri internazionali, è e sarà sempre più l’elemento in grado di condizionare il livello di stabilità o instabilità dell’intera area del mediterraneo allargato. Questo intreccio di ambizioni e legittime aspettative, a cui si aggiungono i fattori dinamizzanti delle relazioni internazionali, che spesso appaiono inconciliabili tra loro, è la sfida che la nostra generazione ha di fronte e deve affrontare.

Acqua ed energia sono i due elementi chiave che determineranno, e che già ora determinano, l’insorgere di instabilità, emergenze e sfide sempre più pressanti e urgenti.

Lo sappiamo, ma non dovremo mai stancarci di ricordarlo in ogni occasione, che tutti i Paesi dell’area mediterranea sono minacciati dalla scarsità d’acqua e si trovano ad affrontare, da un lato, l’aumento della domanda di risorse idriche e la concorrenza tra i diversi utenti: condizioni che costringono i governi a cercare alternative diverse dalla costruzione di nuove dighe e infrastrutture per i trasferimenti energetici interregionali. Dall’altro lato, gli Stati devono affrontare una situazione che sta peggiorando sotto l’effetto del cambiamento climatico e della cattiva gestione delle risorse idriche.

Relativamente al contesto energetico, l’area mediterranea è caratterizzata da un notevole aumento delle importazioni di energia convenzionale: l’80% dei Paesi del Mediterraneo occidentale sono grandi importatori di energia fossile. Una situazione che richiede soluzioni alternative per soddisfare l’aumento del fabbisogno energetico ed evitare la produzione eccessiva di gas serra, con uno sguardo rivolto verso l’alternativa delle energie rinnovabili.

In particolare, con riferimento all’approvvigionamento e alla produzione di energia, esistono approcci contrastanti sulle modalità di accesso e sfruttamento delle energie rinnovabili. Da un lato quello razionale e pragmatico che si fonda sulla sostenibilità e tiene conto delle effettive esigenze collettive, capacità, tempi e difficoltà (tecnologiche e strutturali); dall’altro c’è l’approccio pericoloso dell’ambientalismo ideologico, basato sulla convinzione controproducente e insostenibile dell’abbandono delle tecnologie e delle risorse energetiche attuali senza progressività e su una base puramente temporale. Quest’ultimo, certamente minoritario e marginale all’interno dell’ampio panorama dell’opinione pubblica, è però in grado di ottenere un’amplificazione massmediatica delle proprie istanze, complice l’assenza di una strategia comunicativa di contro-narrazione istituzionale efficace.

Governi e decisori politici saranno pertanto chiamate ad attuare politiche realistiche, economicamente e ambientalmente sostenibili. In questo contesto, anche lo sviluppo e l’utilizzo dell’energia nucleare, terza fonte energetica mondiale e principale fonte di energia non inquinante, gioca un ruolo decisivo in termini di contenimento dell’inquinamento globale il cui contributo, unitamente e in maniera coordinata e bilanciata a quello delle fonti energetiche sostenibili, richiede importanti investimenti e una chiara visione di lungo periodo.

Il tema del volume “Sicurezza energetica. La rinnovata centralità del Mediterraneo. Acqua ed energia (rinnovabile) per la sicurezza nazionale e la cooperazione regionale” parte dalle riflessioni e dalle valutazioni della ricerca[ sviluppata nel 2022 in seno alla “5+5 Defense Initiative” dal gruppo internazionale di ricercatori designati dai Paesi aderenti all’iniziativa. Il tema affrontato è strategico e di estrema attualità data la crescita nel consumo di acqua e di energie rinnovabili che le rende un importante argomento politico ed economico e al contempo oggetto primario nelle relazioni internazionali e negli equilibri di potere, interno ed esterno, alle nazioni.

«Acqua pulita e accessibile per tutti» è l’obiettivo numero 6 nella lista degli obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals, Sdg) adottati dalle Nazioni Unite nel 2015. Di vitale importanza per la vita umana, i Paesi del Mediterraneo occidentale, le loro popolazioni, agricoltori, allevatori e industriali, attribuiscono un’importanza vitale all’acqua.

Per quanto riguarda le energie rinnovabili (solare, eolica, idraulica, geotermica), il cui potenziale è considerato inesauribile, sono però prodotte con costi ancora elevati, e spesso non sostenibili su larga scala e con le infrastrutture esistenti. In tale quadro, caratterizzato da una grande incertezza in cui le opportunità politiche e le istanze di una parte della società civile svolgono un ruolo non sempre favorevole e costruttivo, si registra un’accelerazione da parte dei Paesi maggiormente industrializzati dell’Unione europea verso una “transizione energetica” che, sotto molti aspetti, tende a imporsi come una riduzione forzata e irrazionale dell’utilizzo di fonti energetiche fossili, con danni potenzialmente gravi e irreversibili per le economie nazionali e per gli equilibri economici, sociali e politici.

Ciò nonostante, va però riconosciuto che un approccio responsabile che guardi ad un affrancamento progressivo dalle fonti fossili e combustibili, dunque una “transizione energetica” sostenibile, progressiva e che tenga conto delle capacità tecnologiche, dell’impatto economico-sociale e delle attuali fonti energetiche primarie, se da un lato presenta criticità evidenti, dall’altro lato apre alla possibilità di quella auspicata e necessaria autonomia energetica strategica, essenziale tanto ai singoli Paesi quanto e ancor di più, al «sistema europeo». Una scelta strategica, quella che l’Unione europea ha definito, essenziale per imporsi come modello di sviluppo di riferimento in un’epoca storica caratterizzata dagli effetti del cambiamento climatico e dalle crescenti difficoltà di accesso e disponibilità di combustibili fossili. Ciò potrà trovare realizzazione solo attraverso la consapevolezza della primazia di un fattore ineludibile e condizionante: la crescita e lo sviluppo della popolazione sono le variabili indipendenti che determinano un aumento del consumo di risorse energetiche e idriche e mai il contrario. Dunque la capacità di approvvigionamento e di produzione energetica dovrà tener conto di un aumento progressivo della domanda di energia, coerentemente con l’andamento demografico ed economico, così come dello sviluppo tecnologico dei Paesi che ridefiniranno le loro strategie nazionali di sicurezza energetica in questa direzione.

Ed è in questo preciso scenario teorico che va ad inserirsi la guerra russo-ucraina iniziata nel febbraio 2022, quale dimostrazione pratica della mutabilità delle relazioni internazionali, dei rapporti tra alleati e competitor, così come dell’imprevedibilità di eventi naturali o umani in grado di negare, in tutto o in parte, l’accesso alle risorse energetiche e di condizionare in maniera sfavorevole i prezzi delle fonti energetiche, con dirette ripercussioni sul piano sociale, politico ed economico. E proprio la guerra russo-ucraina, ha riportato l’attenzione dei governi sui rischi di interruzione delle forniture che comportano, per definizione, quel costo strategico che va opportunamente calcolato: esercizio non semplice, che non può essere ridotto al semplice computo di investimenti e relativi rendimenti, ma comprende anche valutazioni sulle diverse opzioni strategiche limitando, in primis, i rischi legati alla fortissima dipendenza da idrocarburi e, in secondo luogo, imponendo l’esigenza di una diversificazione del mix energetico a prezzi accessibili e di un potenziamento dell’influenza dal lato dell’offerta, in particolare attraverso la realizzazione dei gasdotti, a cui devono associarsi il principio della solidarietà tra Stati amici (in particolare tra Stati membri dell’Unione europea).

In sintesi, l’obiettivo a cui si guarda è quello di creare un mix energetico sostenibile, efficiente e diversificato, cioè che sia sostenibile dal punto di vista ambientale ed economico, che utilizzi le risorse in modo efficiente e che sia basato su diverse fonti di energia, in modo da ridurre la dipendenza da una sola fonte. Inoltre, è importante adottare un approccio integrato per affrontare le sfide e le opportunità legate ai cambiamenti climatici, cioè un approccio che consideri i diversi aspetti e le connessioni tra loro.

Sul piano politico-strategico, assume particolare rilevanza lo sviluppo di un “sistema mediterraneo dell’energia”, ovvero un sistema che colleghi in modo sicuro e a più vie le due sponde del Mediterraneo. Ciò potrebbe includere il potenziamento delle infrastrutture esistenti, come gasdotti e condotti sottomarini, e la costruzione di nuove infrastrutture, come impianti di trasformazione e stoccaggio dell’energia. L’obiettivo è quello di aumentare la sicurezza e la diversificazione delle fonti di energia per l’Europa, oltre che di sfruttare le opportunità economiche offerte dalla cooperazione energetica con i paesi della sponda Sud del Mediterraneo, con l’obiettivo primario di governare le dinamiche delle relazioni internazionali, senza esserne sopraffatti a causa di una mancata o inadeguata strategia di sicurezza nazionale.

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Svizzera: due decenni di processi per terrorismo

di Ahmed Ajil, Università di Losanna (Svizzera) – Ricercatore, Criminologo

Una panoramica dei casi di cui si è occupato il Tribunale Penale Federale svizzero dall’11 settembre

Nonostante la Svizzera non abbia subito attacchi su vasta scala come quelli che hanno colpito altre nazioni europee nell’ultimo decennio, il fenomeno della violenza politico-ideologica di matrice jihadista è tuttavia presente. Nel dicembre del 2021, i servizi di intelligence della Confederazione contavano 41 individui cosiddetti “a rischio” ritenuti cioè “una minaccia prioritaria per la sicurezza interna ed esterna della Svizzera”. Nel contesto del “monitoraggio della jihad”, (dal 2012 ad oggi) hanno anche identificato 714 persone attive in rete che simpatizzano/simpatizzavano per organizzazioni terroriste jihadiste distribuendo materiale di propaganda o intrattenendosi con altri che difendono l’ideologia di questi gruppi. Dall’11 settembre 2001, 91 individui hanno lasciato la Svizzera per unirsi a un’organizzazione terrorista in Afghanistan, Pakistan, Yemen, Somalia, Siria o Iraq. Alcuni sono tornati mentre altri, attualmente detenuti dalle forze curde in Siria, cercano attivamente di essere rimpatriati, cosa che il Consiglio Federale rifiuta di fare.

Fra i vari modi a disposizione per contrastare il fenomeno terrorista, il ricorso al diritto penale costituisce il più ovvio. Nel suo rapporto annuale del 2020, il Ministero Pubblico della Confederazione riportava 35 inchieste pendenti per terrorismo nel 2016, 34 nel 2017, 30 nel 2018, 31 nel 2019 e 26 nel 2020. In questo breve contributo, vorrei presentare alcune conclusioni da un progetto di ricerca sulla repressione del terrorismo da parte del Tribunale Penale Federale (TPF), condotta insieme al collega Kastriot Lubishtani e i cui risultati sono in parte stati pubblicati su Jusletter del 31 maggio 2021.

Il Tribunale Penale Federale (TPF), operativo dal 2004, è l’autorità giudiziaria incaricata di emettere le condanne per i reati legati al terrorismo. I pochi procedimenti penali aperti dalle autorità cantonali vengono presi in carico dal Ministero Pubblico della Confederazione (MPC) e portati a processo davanti al TPF, ad eccezione di quelli che coinvolgono minori. L’analisi delle tendenze in ambito di giudizio, ci permette di avere una visione approfondita dei casi più seri che superano tutti gli stadi del cosiddetto “imbuto penale”. A questo punto, è utile specificare che l’MPC può anche condannare autonomamente degli individui, fintanto che la sentenza non supera i sei mesi di privazione della libertà. L’MPC utilizza spesso questa opzione, ma poiché questi verdetti non sono di principio accessibili al pubblico, qui non ne teniamo conto.

Da un punto di vista giuridico, ci sono principalmente due disposizioni che vengono applicate in caso di reati di natura terroristica. Una è rappresentata dall’articolo 260ter del Codice Penale Svizzero, che criminalizza il sostegno e la partecipazione a organizzazioni criminali (una definizione che include i gruppi terroristici). L’altra, è la Legge Federale che vieta le organizzazioni Stato Islamico, al-Qa’ida e gruppi affini (in breve: legge IS/AQ), che è entrata in vigore il 1° gennaio del 2015.

Per la nostra ricerca abbiamo raccolto tutte le sentenze collegate a queste due disposizioni e in seguito selezionato unicamente quelle relative al terrorismo. L’unica forma di terrorismo con la quale il TPF si è confrontato a partire dal 2004, è quella di ispirazione jihadista. Dalla pubblicazione del nostro articolo nel maggio 2021, hanno avuto luogo due ulteriori udienze che si sono concluse con la condanna di tre individui in totale, di cui si dà conto in questo contributo.   

I numeri

Dal 2004 fino al novembre 2021, il TPF si è occupato di un totale di 17 procedimenti penali legati al terrorismo jihadista. La maggior parte di questi, ha avuto luogo dopo lo scoppio della guerra civile siriana e la conseguente espansione territoriale del gruppo Stato islamico che ha raggiunto il suo picco nel giugno del 2014. In effetti, nel periodo fra il 2004 e il 2014, sono stati condotti tre procedimenti con l’incriminazione formale di undici persone mentre altri 14 procedimenti e 21 persone sono state portate davanti al TPF fra il 2014 e il 2020. La lingua dei procedimenti è stata il tedesco in dodici dei casi trattati a Bellinzona (sede del TPF), mentre il francese è stato utilizzato in tre casi e l’italiano in due occasioni.

Questi procedimenti sono relativamente complessi, ciò che si riflette tanto nella durata dell’iter pre-processuale che nei costi. Fra l’avvio dei procedimenti penali contro un/a sospettato/a e la sua effettiva incriminazione sono trascorsi, in media, 882 giorni, vale a dire quasi due anni e mezzo. I costi diretti generati dall’inchiesta, dalla difesa e dalle udienze sono arrivati a ragginugere gli 800.000 CHF per un singolo caso.

Nel contesto dei 17 procedimenti, davanti al TPF sono apparsi 32 individui in totale. Ciò significa che in diversi casi – precisamente in sette – erano coinvolte più persone. Nello specifico, quattro procedimenti hanno coinvolto due persone, mentre i restanti tre procedimenti hanno coinvolto rispettivamente tre persone, quattro persone e infine sette persone. In ognuno dei restanti dieci procedimenti, è stata incriminata un’unica persona.  

La stragrande maggioranza dei casi di terrorismo approdati al TPF ha portato a condanne. In totale, sono stati condannati 30 individui mentre due persone sono state assolte da tutte le accuse. Fino al 20 novembre 2021, si registravano 21 sentenze definitive ed esecutive. Su 30 persone, sei alla fine non sono state condannate per reati legati al terrorismo. Di conseguenza, ad oggi, sono state emesse 24 condanne per reati legati al terrorismo, di cui quindici definitive e nove pendenti.     

Chi sono i terroristi svizzeri?

30 imputati erano uomini, mentre una donna è comparsa come co-imputata e una seconda come imputata principale. Dodici degli accusati erano cittadini svizzeri, sette dei quali con la doppia cittadinanza. Fra questi, una cittadino svizzero-turco si è visto revocare la cittadinanza, per decisione confermata dal Tribunale Amministrativo Federale nel 2021. Nove imputati avevano un permesso di soggiorno. Dieci erano richiedenti l’asilo; di questi, sette con una richiesta pendente e tre ammessi provvisoriamente. Una imputata non aveva mai vissuto in Svizzera ma si trovava nel paese al momento del suo arresto.

L’ampia maggioranza, più precisamente 26 persone, non avevano precedenti penali, fatto che solleva dei dubbi sulla pertinenza del cosiddetto “crime-terror nexus” per ciò che riguarda il contesto svizzero. Gli altri sei individui erano stati condannati per vari reati: tre per infrazioni al codice della strada, uno per infrazioni alla legge sulle armi, e un altro per violazione degli obblighi di mantenimento. Infine, un imputato era stato condannato in diverse occasioni per ingresso illegale, minacce e coercizione.

Al momento della sentenza, 19 imputati erano disoccupati e dipendevano dall’assistenza sociale; cinque imputati non avevano un reddito imponibile ed erano indebitati; tre imputati avevano un lavoro e un salario mensile. Infine, le condizioni economiche dei restanti cinque imputati sono sconosciute. Queste osservazioni dimostrano la validità dell’ipotesi della “biographical availability” secondo la quale una mancanza di “struttura” e occupazione potrebbe facilitare il coinvolgimento in attività ad alto rischio o illegali.

Su 30 condannati (21 sentenze   definitive e nove pendenti), in 25 casi sono state comminate delle pene detentive, oltre a ulteriori pene pecuniarie in quattro di questi casi. Nove delle pene detentive erano sospese ; altre sei erano sospese parzialmente. Ciò significa che sono state comminate dieci pene detentive senza la condizionale. In cinque casi, il TPF ha comminato unicamente pene pecuniarie, di cui due sospese. .

La sentenza più mite è stata una pena pecuniaria sospesa di 100 CHF al giorno per 25 giorni. La condanna più severa è stata una sentenza di custodia di 70 mesi, abbinata a un divieto di ingresso nel paese della durata di quindici anni.

Cosa sono le “attività terroristiche” nel contesto svizzero?

Riguardo la natura dei crimini, si può notare che dal 2001 su suolo svizzero non sono stati commessi -né quindi portati davanti al TPF- atti di violenza terroristica (le inchieste sugli attacchi di Morges e Lugano avvenuti nel 2020 sono ancora aperte).

Se ci focalizziamo sulle 24 condanne per reati legati al terrorismo (sei condanne erano infine non legate al terrorismo), si nota che gli atti perseguiti in relazione al terrorismo di matrice jihadista erano principalmente legati ad attività sulle piattaforme Internet. Due procedimenti che hanno coinvolto un totale di quattro persone concernevano la gestione di siti internet contenenti materiale di propaganda come immagini e video, oltre a commenti che glorificavano i leaders delle principali organizzazioni terroristiche come Osama Bin Laden. Tre persone sono state recentemente condannate in relazione alla produzione di un’intervista filmata con un ribelle jihadista nel conflitto siriano, Abdullah al-Muhaysini. Per sette delle persone condannate, le accuse erano limitate esclusivamente ad attività sui social media come Facebook, YouTube e app di messaggistica come WhatsApp e Telegram, che consistevano nella spedizione e/o condivisione di video, immagini e commenti, e in un caso, la traduzione di comunicazioni mediatiche di un gruppo jihadista.  

In alcuni casi, l’attività ha avuto luogo principalmente nell’ambito digitale, ma gli individui sono stati condannati in qualità di membri di una rete. Nel caso della condanna di tre uomini, il caso è stato aperto per sospetti riguardo un potenziale attacco, ma alla fine, sono stati solo condannati per le loro attività sui social network. In un caso, l’unico imputato è stato condannato per avere mantenuto contatti con persone all’estero, affiliate a organizzazioni terroristiche, ma anche per aver incoraggiato un’altra persona in Libano a portare avanti un attacco contro Hizbullah oppure l’esercito americano.

Gli atti più “fisici” sono consistiti in tentativi di recarsi in aree di conflitto o attività legate ai combattimenti all’estero. Quattro persone sono state incriminate per aver cercato di raggiungere il territorio siro-iracheno per unirsi allo Stato Islamico, uno per aver aderito a un gruppo armato in Siria e aver reclutato altri, e un altro per proselitismo in Svizzera e aver fornito sostegno logistico a foreign fighter in Turchia.

In conclusione, risulta che sui 24 individui condannati dal TPF per reati legati al terrorismo, 18 erano coinvolti esclusivamente o in prevalenza, in attività digitali, mentre 6 si sono mobilitati fisicamente per fornire sostegno a gruppi terroristici. È importante notare che nonostante questi ultimi fossero “fisicamente” più coinvolti di altri, le loro attività contemporanee sui social media e sulle app di messaggistica hanno avuto una rilevanza essenziale per la loro condanna.

La rete si allarga gradualmente

 Dal punto di vista giuridico, gli individui sono stati condannati principalmente per il loro supporto a organizzazioni criminali o gruppi affiliati allo Stato Islamico e al-Qa’ida. Solo tre persone sono state condannate per la partecipazione a un gruppo terroristico. Ciò può essere spiegato in due modi: da un lato, è difficile dimostrare l’appartenenza e la partecipazione a reti e gruppi vagamente organizzati come quelli che caratterizzano il fenomeno jihadista dopo l’11 settembre. D’altro lato, dall’analisi dei casi in questione emerge chiaramente che, paragonata alla definizione piuttosto ristretta di “appartenenza” , la nozione di “sostegno” è molto ampia e in pratica è arrivata a indicare una qualsiasi attività che si ritiene mettere in buona luce un’organizzazione terroristica. Per esempio, un individuo è stato in parte condannato per aver postato su Facebook un’immagine di un ospedale funzionante in un’area controllata dallo Stato islamico, per mostrare che le infrastrutture non erano state tutte danneggiate durante il regno del gruppo terroristico. In un altro caso, un individuo è stato condannato per aver mandato tre immagini di propaganda via Whatsapp a un’altra persona. Non sorprende quindi che la maggior parte dei casi abbia portato a condanne per la nozione piuttosto approssimativa del termine “sostegno”.   

L’evoluzione del dispositivo anti-terrorismo della Svizzera fa parte di una tendenza più generalizzata, che ha preso piede dopo gli attacchi dell’11 settembre, che mira ad anticipare l’applicabilità del quadro giuridico penale a un contesto pre-delittuoso (“pre-criminal“), allargando in questo modo la rete penale in cui ricadono le azioni ritenute attività legate al terrorismo.

Ciò è comprensibile da una prospettiva politica, ma presenta un certo numero di sfide da una prospettiva giuridica ed etica. Di fatto, la svolta preventiva delle leggi anti-terrorismo della Svizzera e il modo un cui vengono applicate porta le autorità ad indagare e condannare azioni sempre più slegate dagli atti violenti veri e propri che si vogliono prevenire. In una sfera pre-delittuosa (“pre-criminal“) sempre più ampia, è impossibile coprire la totalità gli atti perseguibili ed è più probabile che si manifesti una disparità di trattamento. Questi sono aspetti di cui tenere conto, quando si pensa a come rafforzare ed espandere in futuro gli sforzi anti-terrorismo in Svizzera.  


Terrorismo in Europa: minaccia lineare in evoluzione e partecipazione individuale

di Claudio Bertolotti

Dall’Africa all’Afghanistan: l’Europa guarda preoccupata all’esaltazione jihadista

Lo Stato islamico non ha più la forza di inviare terroristi sul suolo europeo perché si è vista azzerare la propria effettiva capacità operativa in conseguenza della perdita di territorio, di una rilevante consistenza finanziaria e di reclute. Tuttavia, la minaccia rimane significativa anche attraverso la presenza e l’azione di attori isolati, spesso improvvisati e spinti dall’emulazione e senza un legame diretto con l’organizzazione.

Mentre il gruppo dello Stato Islamico continua a imporsi su un piano ideologico come la principale minaccia jihadista, è però improbabile che sia in grado di riproporre il travolgente richiamo che ebbe il “califfato” nel periodo 2014-2017, poiché ha perso il vantaggio della novità, e di conseguenza l’appeal, che ne rappresentava il punto di forza, in particolare nei confronti dei più giovani. Inoltre, sia dal punto di vista legislativo che da quello operativo, l’Europa ha saputo ridurre in maniera rilevante le proprie vulnerabilità, sebbene vi siano maggiori risultati più in termini di contrasto al terrorismo che di prevenzione. Permangono, nel complesso segnali di incertezza legate agli effetti emulativi e alla “chiamata alla guerra” connessa a eventi sul piano internazionale in grado di indurre singoli soggetti ad agire in nome del jihad: l’evento più importante nel 2021, che ha dato e continuerà a dare un impulso agli effetti del jihad transnazionale è la vittoria dei talebani in Afghanistan che, da un lato tende ad alimentare la variegata propaganda jihadista attraverso il messaggio della “vittoria come risultato della lotta continua” e, dall’altro lato, da vita a una forma di competizione dei “jihad” tra gruppi impegnati in forme di lotta e resistenza esclusivamente locali e chi, come lo Stato islamico, recepisce e propone il jihad esclusivamente come strumento di lotta a oltranza a livello globale.

In tale quadro complessivo e in continua evoluzione, dobbiamo prestare attenzione alla crescente forza estremista in alcune parti dell’Africa, in particolare le aree dell’Africa sub-sahariana, il Sahel, il Corno d’Africa e, ancora, il Ruanda e il Mozambico, al fine di contrastare l’emergere in questo continente di nuovi “califfati” o “willayat” che potrebbero minacciare direttamente l’Europa.

Nella prolifica propaganda jihadista, lo Stato Islamico si vanta della propria diffusione nel continente africano e pone in evidenza come l’obiettivo di contrastare la presenza e la diffusione del cristianesimo porterà il gruppo a espandersi in altre aree del continente. Se altrove, come nel Maghreb, nel Mashreq e in Afghanistan l’attività dello Stato islamico è incentrata sulla lotta settaria intra-musulmana, in Africa la sua presenza si impone come parte di un conflitto tra musulmani e cristiani, rafforzata da una propaganda che insiste sulla necessità di fermare la conversione dei musulmani al cristianesimo attuata attraverso i “missionari” e “il pretesto” degli aiuti umanitari. In tale quadro si inseriscono le violenze, i rapimenti e le uccisioni di religiosi missionari, attacchi contro le Ong e le missioni internazionali, dal Burkina Faso al Congo e, ancora, gli attacchi agli abitanti dei villaggi cristiani in particolare in occasione delle festività di Natale e Capodanno.

Scendono i numeri, ma permane la minaccia del terrorismo

Analizzando gli ultimi tre anni, l’incidenza degli attacchi terroristici mostra una tendenza stabile dal punto di vista quantitativo. Tra il 2017 e il 2020, nell’Unione Europea, nel Regno Unito e in Svizzera, sono stati riportati 457 attacchi, inclusi quelli falliti e sventati, rispetto ai 895 registrati nel periodo 2014-2017.

Nel 2020, si sono verificati 119 attacchi, dei quali 62 nel Regno Unito e 2 in Svizzera. Secondo il rapporto Europol (TeSat 2020), il 43% di questi atti è attribuibile a movimenti della sinistra radicale (che sono passati da 26 a 25), il 24% a gruppi separatisti ed etno-nazionalisti, il 7% a formazioni di estrema destra (che hanno visto un aumento percentuale ma una diminuzione in termini assoluti rispetto al 2019), mentre il 26% sono azioni riconducibili al jihadismo. Sebbene gli attacchi jihadisti rappresentino una parte relativamente piccola del totale delle azioni violente, si confermano i più pericolosi per numero di vittime e impatto, con un calo da 16 vittime nel 2020 a 13 nel 2021, sottolineando la persistente minaccia del terrorismo jihadista in termini di conseguenze dirette.

Dal 2014 al 2021, si sono verificati 165 attacchi terroristici in Europa legati al jihad, in seguito ai principali eventi attribuiti al gruppo Stato Islamico. Di questi, 34 sono stati rivendicati ufficialmente dallo Stato Islamico. In tali attacchi, hanno preso parte 219 terroristi, di cui 63 sono morti durante l’azione. Il bilancio delle vittime è stato di 434 morti e 2.473 feriti, secondo i dati del database START InSight.

Nel 2021 si sono verificati 18 eventi, registrando una leggera diminuzione rispetto ai 25 attacchi dell’anno precedente. Tuttavia, si è osservato un aumento delle azioni di tipo “emulativo”, ovvero atti ispirati da attacchi recenti: la percentuale di tali azioni è passata dal 48% nel 2020 al 56% nel 2021 (rispetto al 21% nel 2019). Il 2021 ha inoltre confermato la predominanza di attacchi individuali, spesso non pianificati e destinati al fallimento, che hanno progressivamente sostituito le azioni strutturate e coordinate, tipiche del contesto urbano europeo tra il 2015 e il 2017.

L’anagrafica dei terroristi “europei”

L’adesione all’azione terroristica continua a confermarsi come scelta esclusivamente maschile: su 207 attentatori il 97% sono maschi (7 le donne); contrariamente al 2020, quando 3 donne presero parte ad attacchi terroristici, il 2021 non ha registrato la partecipazione diretta di attentatrici.

I 207 terroristi (uomini e donne) hanno un’età mediana di 26 anni: un dato che varia nel corso del tempo (dai 24 nel 2016, ai 30 nel 2019). I dati anagrafici di 169 soggetti di cui si hanno informazioni complete hanno consentito di definire un quadro molto interessante da cui si evince che il 10% è di età inferiore ai 19 anni, il 36% ha un’età compresa tra i 19 e i 26, il 39% tra i 27 e i 35 e, infine, il 15% è di età superiore ai 35 anni.

L’88% degli attacchi, per i quali disponiamo di informazioni dettagliate, sono stati eseguiti da persone appartenenti a seconde e terze generazioni di immigrati, nonché da immigrati di prima generazione, sia con status regolare che irregolare.

Secondo l’analisi condotta su 154 dei 207 terroristi presenti nel database START InSight, il 45% sono immigrati regolari, mentre il 24% appartiene a discendenti di immigrati di seconda o terza generazione. Gli immigrati irregolari costituiscono il 19% del totale, un dato in crescita che è salito al 25% nel 2020 e ha raggiunto il 50% nel 2021. Inoltre, è rilevante la presenza di un 8% di cittadini europei convertiti all’Islam. Complessivamente, il 77% dei terroristi risiedono regolarmente in Europa, mentre gli immigrati irregolari rappresentano circa 1 su 6 dei terroristi. In un 4% dei casi, tra gli attaccanti sono stati identificati bambini o minori (7 in totale).

La mappa etno-nazionale del terrorismo in Europa

Il fenomeno della radicalizzazione jihadista in Europa colpisce in modo più marcato alcuni gruppi nazionali ed etnici. Esiste una correlazione tra le principali comunità di immigrati e la provenienza dei terroristi, come indicato dalle nazionalità dei terroristi o delle loro famiglie di origine, che rispecchiano la composizione delle comunità straniere in Europa. In particolare, prevale l’origine maghrebina: i gruppi etno-nazionali più coinvolti nella radicalizzazione jihadista sono quelli di origine marocchina (in Francia, Belgio, Spagna e Italia) e algerina (in Francia).

Stabili i recidivi e i soggetti già noti all’intelligence

Significativo è il ruolo dei recidivi, ossia individui già condannati per terrorismo che compiono nuove azioni violente al termine della loro pena detentiva e, in alcuni casi, anche durante la detenzione. La loro incidenza è aumentata dal 3% del totale dei terroristi nel 2018 (1 caso) al 7% nel 2019 (2 casi), raggiungendo il 27% nel 2020 (6 casi), con un singolo caso registrato nel 2021. Questo andamento evidenzia la pericolosità sociale di tali soggetti, i quali, nonostante una condanna, tendono a rimandare la realizzazione di atti terroristici, suggerendo un aumento della probabilità di nuovi atti terroristici nei prossimi anni, man mano che termineranno le pene detentive della maggior parte dei terroristi attualmente in carcere.

Oltre ai recidivi, START InSight ha evidenziato una tendenza rilevante riguardo alle azioni terroristiche perpetrate da individui già conosciuti dalle forze dell’ordine o dai servizi di intelligence europei: questi soggetti hanno rappresentato il 44% e il 54% del totale degli attacchi rispettivamente nel 2021 e nel 2020, rispetto al 10% nel 2019 e al 17% nel 2018.

Nel 2021, la partecipazione ad azioni terroristiche da parte di individui con precedenti detentivi (anche per reati non legati al terrorismo) ha mantenuto una certa stabilità, con un 23% di coinvolgimento, un dato leggermente in calo rispetto al 2020 (33%), ma in linea con i livelli del 2019 (23%), del 2018 (28%) e del 2017 (12%). Questo trend continua a supportare l’idea che le carceri possano essere ambienti propizi alla radicalizzazione e all’adesione al terrorismo.

Si riduce la capacità offensiva del terrorismo?

Per avere una visione accurata del fenomeno terroristico, è fondamentale analizzarlo su tre livelli distinti: strategico, operativo e tattico. La strategia riguarda l’utilizzo delle operazioni belliche per raggiungere gli obiettivi della guerra; la tattica si riferisce all’impiego delle forze in campo per vincere le battaglie; mentre il livello operativo si colloca a metà strada tra questi due aspetti. Questa sintesi, pur essendo semplice, mette in evidenza un elemento cruciale: l’impiego delle risorse umane.

Il successo a livello strategico è marginale

Il 16% delle azioni ha ottenuto un successo a livello strategico, ossia ha avuto conseguenze strutturali: blocco del traffico aereo/ferroviario nazionale e/o internazionale, mobilitazione delle forze armate, interventi legislativi di ampia portata. Un dato molto elevato considerando il limitato sforzo organizzativo e finanziario da parte dei gruppi, o dei singoli attaccanti. L’andamento nel corso degli anni è stato discontinuo, ma ha messo in evidenza una progressiva riduzione di capacità ed efficacia: 75% di successo strategico nel 2014, 42% nel 2015, 17% nel 2016, 28% nel 2017, 4% nel 2018, 5% nel 2019, 12% nel 2020 e 6% nel 2021. Nel computo dei risultati strategici, gli attacchi hanno ottenuto l’attenzione dei media internazionali nell’79% dei casi, il 95% a livello nazionale, mentre le azioni organizzate e strutturate dei commando e dei team-raid hanno ottenuto la totale attenzione mediatica. Un evidente, quanto ricercato, successo mediatico che può aver influito sensibilmente sulla campagna di reclutamento di aspiranti martiri o combattenti del jihad, la cui entità numerica rimane elevata in corrispondenza della maggiore intensità di azioni terroristiche (2016-2017). Ma se è vero che l’amplificazione massmediatica ha effetti positivi sull’azione di reclutamento, è anche vero che tale attenzione tende a ridursi col tempo a causa di due ragioni principali: la prima è la prevalenza di azioni a bassa intensità in rapporto a quelle ad alta – in diminuzione – e quelle a bassa e media intensità – in sensibile aumento dal 2017 al 2021. La seconda è l’assuefazione di un’opinione pubblica emotivamente sempre meno toccata dalla violenza del terrorismo, in particolare dagli eventi a “bassa” e “media intensità”.

Il 16% degli attacchi terroristici ha avuto un impatto strategico significativo, provocando conseguenze di ampia portata come il blocco dei trasporti aerei o ferroviari a livello nazionale e internazionale, la mobilitazione delle forze armate o l’introduzione di importanti interventi legislativi. Questo risultato è notevole, soprattutto considerando il limitato sforzo organizzativo e finanziario impiegato dai gruppi o dagli individui coinvolti. Tuttavia, nel tempo, si è registrata una riduzione nella capacità e nell’efficacia strategica di tali attacchi: il successo strategico è passato dal 75% nel 2014 al 42% nel 2015, al 17% nel 2016, al 28% nel 2017, scendendo ulteriormente al 4% nel 2018, al 5% nel 2019, al 12% nel 2020 e al 6% nel 2021

Per quanto riguarda l’impatto mediatico, il 79% degli attacchi ha catturato l’attenzione della stampa internazionale, mentre il 95% ha ricevuto copertura dai media nazionali. Le azioni più organizzate e strutturate, come quelle effettuate da commando o team-raid, hanno ottenuto la massima visibilità mediatica. Questo ampio risalto sui media ha probabilmente influito in modo significativo sulla campagna di reclutamento di nuovi combattenti o aspiranti martiri per il jihad, con un picco di adesioni nei periodi di maggiore intensità degli attacchi, in particolare tra il 2016 e il 2017.

Tuttavia, nonostante la visibilità mediatica abbia favorito il reclutamento, questa attenzione tende a diminuire nel tempo per due motivi principali. In primo luogo, c’è stato un aumento significativo delle azioni a bassa e media intensità dal 2017 al 2021, mentre quelle ad alta intensità sono in calo. In secondo luogo, il pubblico sta diventando sempre più assuefatto alla violenza terroristica, risultando meno emotivamente coinvolto, soprattutto in risposta agli eventi di “bassa” e “media intensità”.

Il livello tattico preoccupa, ma non è la priorità del terrorismo

Partendo dal presupposto che il fine delle azioni sia di provocare la morte del nemico (nel 35% dei casi gli obiettivi sono le forze di sicurezza), tale obiettivo viene raggiunto nel periodo 2004-2021 in media nel 50% dei casi. È però opportuno tenere in considerazione che l’ampio periodo di tempo tende a influire in maniera significativa sul margine di errore; l’evoluzione dell’ultimo periodo preso in esame, 2014-2021, mostrerebbe infatti una tendenza al peggioramento negli effetti ricercati dai terroristi con una prevalenza di attacchi a bassa intensità e un aumento di azioni dall’esito fallimentare, almeno fino al 2019. I risultati degli ultimi sei anni, in particolare, mostrerebbero come il successo a livello tattico sia stato ottenuto, nel 2016, nel 31% dei casi a fronte di un 6% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2017 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 40% e di fallimento del 20%. Un andamento complessivo che, passando dal 33% di successo a livello tattico e un raddoppio degli attacchi fallimentari (42%) nel 2018 e consegnandoci un dato ulteriormente al ribasso del 25% di successo nel 2019, può essere letto come il duplice effetto della progressiva diminuzione della capacità operativa dei terroristi e dell’accresciuta reattività delle forze di sicurezza europee. Ma se l’analisi suggerisce una capacità tecnica che si è effettivamente ridotta, è altresì vero che l’improvvisazione e l’imprevedibilità del nuovo terrorismo individuale ed emulativo ha fatto registrare un nuovo aumento delle azioni di successo, passate dal 32% nel 2020 e al 44% nel 2021.

Negli ultimi sei anni, i dati indicano che nel 2016 il successo tattico è stato ottenuto nel 31% dei casi, mentre il tasso di fallimento si attestava al 6%. Nel 2017, il tasso di successo è aumentato al 40%, accompagnato però da un incremento dei fallimenti, che ha raggiunto il 20%. Nel 2018, si è osservato un 33% di successo tattico, ma con un raddoppio degli attacchi falliti al 42%, seguito da un ulteriore calo del successo al 25% nel 2019. Queste tendenze possono essere interpretate come il risultato di una riduzione della capacità operativa dei terroristi, combinata con una maggiore efficacia delle forze di sicurezza europee.

Nonostante l’analisi indichi una diminuzione della capacità tecnica dei terroristi, è evidente che l’improvvisazione e l’imprevedibilità del nuovo terrorismo individuale ed emulativo hanno determinato un incremento delle azioni riuscite, passando dal 32% nel 2020 al 44% nel 2021.

Il vero successo è a livello operativo: il “blocco funzionale

Anche quando un attacco terroristico risulta fallimentare, riesce comunque a conseguire effetti significativi, come l’impegno straordinario delle forze armate e di polizia, distogliendole dalle normali attività di routine o impedendo loro di intervenire per il bene della collettività. Inoltre, può causare l’interruzione o il sovraccarico dei servizi sanitari, limitare, rallentare, deviare o fermare la mobilità urbana, aerea e navale, e ostacolare il normale svolgimento delle attività quotidiane, commerciali e professionali, con conseguenti danni alle comunità colpite. Questi attacchi riducono inoltre il vantaggio tecnologico e il potenziale operativo, così come la capacità di resilienza delle società colpite. Infine, indipendentemente dalla presenza di vittime, gli attacchi terroristici infliggono danni diretti e indiretti e, coerentemente, la restrizione delle libertà dei cittadini rappresenta un risultato tangibile che il terrorismo consegue attraverso le proprie azioni.

In altre parole, il terrorismo ottiene successo anche senza causare vittime, poiché riesce a imporre costi economici e sociali alla collettività e a influenzarne i comportamenti nel tempo. Questo avviene attraverso le misure di sicurezza o le restrizioni imposte dalle autorità politiche e di pubblica sicurezza per proteggere la popolazione. Questo effetto viene definito come “blocco funzionale”.

Nonostante la capacità operativa del terrorismo sia in costante diminuzione, il “blocco funzionale” rimane il risultato più significativo ottenuto dai terroristi, a prescindere dal successo tattico, ovvero dall’uccisione di almeno un bersaglio.

Nonostante un successo tattico rilevato nel 34% degli attacchi dal 2004 a oggi, il terrorismo ha dimostrato una notevole efficacia nel raggiungere il “blocco funzionale”, ottenuto in media nell’82% dei casi. Questo dato è salito al 92% nel 2020 e all’89% nel 2021. Considerando le risorse limitate impiegate dai terroristi, questi risultati evidenziano un impressionante rapporto costo-beneficio a favore delle loro operazioni.


Understanding radicalisation, terrorism and de-radicalisation. Historical, socio-political and educational perspectives from Algeria, Azerbaijan and Italy (Recensione)

di Andrea Carteny, Elena Tosti Di Stefano

Negli ultimi decenni, i temi della radicalizzazione e del terrorismo sono saliti alla ribalta delle relazioni internazionali, divenendo oggetto di molteplici concettualizzazioni e prospettive di studio. Alla luce dei legami esistenti e plurimi tra fenomeni terroristici, ideologie radicali, tensioni e conflitti globali, regionali o locali, emerge con particolare evidenza la necessità di porre l’attenzione su aspetti ad essi collegati, segnatamente l’etnia, la religione, le composite eredità storiche, come anche il fattore migratorio. Tali considerazioni risultano ancor più rilevanti se alla dimensione di contrasto prevalentemente militare si affiancano – e talvolta vanno a sostituirsi – strategie di prevenzione, dissuasione e di integrazione, che coinvolgono lo spazio educativo, così come quello economico e di resilienza sociale.

È da questa premessa che muove il volume Understanding radicalisation, terrorism and de-radicalisation. Historical, socio-political and educational perspectives from Algeria, Azerbaijan and Italy, pubblicato nel 2021 all’interno della collana Laboratorio sull’Intelligence dell’Università della Calabria, edita da Rubbettino. La collettanea ricomprende i risultati di un’intensa e proficua attività di ricerca biennale realizzata nell’ambito del progetto PRaNet – Prevention of Radicalisation Network (2019-2021).

Tale progetto ha dato corpo a un consorzio di università con capofila le Università di Bergamo e due istituti universitari di Paesi appartenenti all’Organizzazione della Conferenza Islamica, quali Algeria e Azerbaigian, con l’obiettivo di approfondire la conoscenza e la comprensione dei fenomeni legati alla radicalizzazione, nonché di sviluppare politiche di inclusione sociale e di de-radicalizzazione ai fini dell’integrazione. Le attività di questa rete internazionale si sono sviluppate all’interno del programma pluriennale “Strategia per la promozione all’estero della formazione superiore Italiana 2017/2020”, sostenuto congiuntamente dal MIUR e dal MAECI. Queste prevedono, oltre a progetti di ricerca, scambi di studenti, docenti, ricercatori e tirocinanti attraverso programmi di formazione ad hoc, quali il Master MaRTe presso l’Università di Bergamo in “Prevenzione e contrasto alla radicalizzazione, al terrorismo e per le politiche di integrazione e sicurezza internazionale”, così come attività professionalizzanti presso l’Université Mohamed Lamine Debaghine (Sétif 2) in Algeria e l’ADA University fi Baku in Azerbaigian.

Il volume si avvale della consolidata esperienza nel settore di Michele Brunelli, docente di Storia e istituzioni delle società islamiche presso l’Università di Bergamo e direttore del Master MaRTe, che ha coordinato progetti internazionali per la deradicalizzazione e la prevenzione dell’estremismo violento in Algeria, Azerbaigian e Burkina Faso, e curato, sempre nello scorso anno e per la medesima collana, il volume Prevenzione e contrasto al terrorismo di matrice confessionale e alla radicalizzazione.

La qualità  scientifica del volume deriva non solo dall’affrontare, attraverso una serie di differenti prospettive, le principali categorie-chiave per la comprensione del terrorismo (definizione, causalità, conseguenze e risposta), ma anche dall’analizzare i fattori storico-culturali e socio-economici relativi ai fenomeni della radicalizzazione, del terrorismo, dell’anti-terrorismo e della de-radicalizzazione, a partire dalle esperienze maturate in differenti contesti confessionali: l’Italia, come società tradizionalmente cristiana; l’Algeria, Paese di cultura islamica sunnita; e l’Azerbaigian, contraddistinto un contesto religioso sciita, ma da una società tendenzialmente laica.

Come si evince dal titolo, le tre concettualizzazioni attorno a cui ruota lo studio sono quelle di radicalizzazione, terrorismo e de-radicalizzazione, che sono oggetto rispettivamente delle tre sezioni del volume.

La prima sezione esplora, tra teoria e pratica, dapprima l’articolato rapporto tra la radicalizzazione e la questione delle minoranze e dei cleavage identitari. L’analisi, in questa prospettiva, dell’area caucasica è ad opera di Lala Jumayeva, ricercatrice in Affari internazionali presso l’Università ADA di Baku ed esperta di conflict resolution. Segue il contributo di Naouel Abdellatif Mami, docente di scienze psicopedagogiche presso l’Université Sétif 2 ed esperta di IT nell’educazione e di AI nelle scienze umane, che affronta il tema dell’identità e della libertà di espressione come fattori di estremismo nel contesto algerino. Šeila Muhić, ricercatrice dell’Università di Bergamo e specializzata nel campo dei diritti umani, analizza il fenomeno migratorio in Italia come potenziale terreno fertile per la radicalizzazione. Un’ulteriore e variegata prospettiva è offerta dai contributi che compongono il secondo capitolo della sezione, dedicati al tema della radicalizzazione femminile, delle donne vittime o attrici del terrorismo. Anar Valiyev, anch’egli docente all’Università ADA ed esperto di storia e istituzioni nello spazio post-sovietico, illustra il caso dell’ISIS in relazione alle donne e ai bambini vittime della radicalizzazione in Azerbaigian, con riferimento particolare agli ambienti della minoranza salafita sunnita. A seguire, Naouel Abdellatif Mami opera una disamina della condizione delle donne nella storia algerina, concentrandosi sul “decennio nero” (1991-2002), ma anche sul ruolo di quest’ultime nell’elaborazione di approcci alla resilienza. L’ultimo studio del secondo capitolo, realizzato da Emilija Davidovic – esperta di diritti umani nello scenario post-jugoslavo – concerne il coinvolgimento delle donne nella violenza estremista in un contesto europeo (balcanico o occidentale). Il terzo capitolo offre poi un’ampia panoramica del fenomeno della radicalizzazione politico-religiosa dell’Azerbaigian post-sovietico, che colpisce in particolare le comunità religiose ed etniche minoritarie (sunnite e alloglotte).

Il volume prosegue affrontando, nella seconda sezione, il tema stesso del terrorismo e le sue molteplici e diverse concettualizzazioni. Ilas Touazi, ricercatore presso l’Università Sétif 2 ed esperto di terrorismo/anti-terrorismo, propone una prima analisi sulla minaccia jihadista in Algeria attraverso il fenomeno della transnazionalizzazione del terrorismo locale all’interno delle reti jihadiste regionali e internazionali. Il professor Michele Brunelli è autore del contributo sull’evoluzione dei crimini terroristici di matrice politico-ideologica, prima che di ispirazione politico-religiosa, nello scenario europeo e in particolare in Italia. Il volume continua con il contributo di Aydan Ismayilova, laureata al Master MaRTe dell’Università di Bergamo ed esperta di jihadismo, che approfondisce i fenomeni terroristici nell’area caucasica, ponendo l’attenzione sui movimenti terroristici armeni e sugli estremisti religiosi. Ulteriori spunti di riflessione e di analisi emergono nel quinto capitolo, che include contributi riguardanti le infrastrutture critiche quali principali obiettivi degli attacchi terroristici nelle tre aree geografiche considerate, servendosi di un approccio analitico alle potenziali minacce. Inara Yagubova (project manager presso l’ADA University di Baku) illustra le minacce terroristiche – e gli strumenti di protezione – in relazione alle infrastrutture energetiche in Azerbaigian, mentre Nabil Benmoussa (docente di economia presso l’Université Sétif 2), prende in esame le implicazioni economiche del terrorismo e delle relative politiche di contrasto nel caso algerino. Allo scenario europeo è dedicato il contributo di Fabio Indeo, analista della NATO Defense College Foundation ed esperto di geopolitica energetica dell’Asia centrale, il quale approfondisce le vulnerabilità e le strategie di protezione delle infrastrutture critiche europee, anche a fronte delle nuove fide poste dal cybercrime. A seguire, il Comandante Mario Leone Piccinni, Ufficiale della Guardia di Finanza ed esperto di criminalità informatica, esplora il complesso tema del finanziamento al terrorismo, delineando i sistemi di finanziamento locali e internazionali delle organizzazioni terroristiche.

La terza e ultima sezione riguarda le politiche e le strategie di deradicalizzazione. Al suo interno, il settimo capitolo illustra la risposta antiterroristica, con un iniziale contributo di Stefano Bonino, criminologo esperto di terrorismo e di crimine organizzato, che discute le strategie antiterroristiche algerine – dalle più repressive alle misure più versate sul dialogo. Per quanto riguarda gli altri due Paesi in oggetto, le attività di antiterrorismo e radicalismo nel contesto azerbaigiano sono esaminate da Anar Valiyev, mentre il caso italiano è analizzato da Stefano Bonino e Andrea Beccaro, quest’ultimo docente di Studi strategici e di Studi sulla guerra rispettivamente all’Università di Torino e all’Università Statale di Milano. Il capitolo successivo attribuisce un ruolo chiave all’educazione, alla prevenzione e alla risposta al terrorismo e al radicalismo, così come evidenziano Valiyev nel trattare il caso azerbaigiano e Benmoussa nell’illustrare le recenti riforme educative in Algeria, concepite come parte della risposta a tali fenomeni. Le iniziative di coinvolgimento della società civile vengono poi affrontate, a livello europeo, da Šeila Muhić. Il nono e ultimo capitolo chiude il volume con uno studio di Karim Regouli, ricercatore presso l’Université Sétif 2, riguardante il delicato e complesso processo di riconciliazione in Algeria dopo la decennale lacerazione dovuta al terrorismo.

Per l’ampiezza degli argomenti trattati, per la molteplicità delle prospettive e per l’originalità dei casi di studio comparati, il volume si configura come un contributo essenziale nel fornire chiavi di lettura finalizzate all’analisi e all’approfondimento dei fenomeni della radicalizzazione e del terrorismo, rappresentando, inoltre, un valido riferimento nel delineare politiche efficaci di contrasto a tali fenomeni. Nell’ambito degli studi più recenti, il volume si colloca fra i più rilevanti che indagano il legame tra radicalizzazione, estremismo e terrorismo e le relative politiche di contrasto, tra i quali conviene menzionare Communities and Counterterrorism (Routledge, 2019), a cura di Basia Spalek e Douglas Weeks, e Countering Violent Extremism. The international deradicalisation agenda (Bloomsbury Publishing, 2021) di Tahir Abbas, nonché importanti contributi come “Contrasto al terrorismo internazionale, con particolare riferimento al fenomeno dei foreign fighters” edito dalla SIOI nel 2019.

Understanding radicalisation, terrorism and de-radicalisation. Historical, socio-political and educational perspectives from Algeria, Azerbaijan and Italy appare dunque come un punto di riferimento per gli studiosi e gli esperti, come pure per le istituzioni impegnate in quest’ambito. Va sottolineato, ancora una volta, l’approccio multidisciplinare – storico, politico-istituzionale, economico, sociale, operativo e socio-educativo – che contribuisce a inserire le tematiche in oggetto in un framework più ampio e articolato. In tal senso, la scelta metodologica appare funzionale non solo nei riguardi del terrorismo confessionale, ma anche all’analisi del fenomeno terroristico nelle sue diverse espressioni storico-politiche.


I nuovi orizzonti della radicalizzazione. Dal Rapporto #ReaCT2022

di Chiara Sulmoni

La pandemia dell’estremismo

 A livello globale, (da tempo) il terrorismo tende a fare meno vittime, anche se geograficamente è più diffuso e, particolarmente in Siria e nell’Africa sub-sahariana, la minaccia è cresciuta. A rilevarlo è il Global Peace Index (GPI) 2021, che misura l’impatto di una serie di indicatori sulla  “pacificità” delle nazioni. Lo stesso documento parla anche di un contesto internazionale in cui, se da un lato “i conflitti e le crisi emerse nella scorsa decade hanno iniziato a ridursi di intensità”, dall’altro il COVID19 ha portato nuove tensioni; fra il gennaio del 2020 e l’aprile del 2021, sono stati registrati oltre 5’000 eventi violenti legati alla pandemia (GPI 2021). L’impatto economico, sociale e anche psicologico delle diverse misure messe in atto per contenere la diffusione del virus ha contribuito a creare le condizioni per l’avanzata degli estremismi e l’adesione di un numero sempre maggiore di sostenitori e militanti alle varie cause, incluse le teorie complottiste, di natura politica, identitaria, anti-tecnologica, no-vax, che possono trovare eco in movimenti di protesta anti-governativi e azioni dimostrative come, ad esempio, le decine di attacchi vandalici nei confronti delle antenne 5G sospettate di propagare il COVID19; le operazioni di disturbo presso i centri di vaccinazione; le minacce a scienziati e politici ma anche, come riportato in Italia, a negozianti e ristoratori che richiedevano di esibire il Green Pass. Sempre più spesso, sulla rete e nelle piazze convivono e si sovrappongono orientamenti diversi che convergono temporaneamente su cause e battaglie comuni e/o con lo scopo di accrescere la propria visibilità e base di sostenitori.

   Secondo l’esperto di terrorismo Ali Soufan può darsi che in futuro forze dell’ordine, analisti e ricercatori guarderanno al 2020 come a uno spartiacque per ciò che concerne il reclutamento da parte di attori non-statali. Va tuttavia sottolineato che l’aumento sensibile e progressivo di proteste, disordini civili e instabilità politica è un tratto che il GPI “cattura” fin dal 2011; un trend particolarmente pronunciato negli Stati Uniti, dove le dimensioni del problema sono emerse con chiarezza il 6 gennaio 2021, quando una folla variegata di sostenitori del Presidente uscente Donald Trump, convinta di poter ribaltare l’esito del voto, si è sentita legittimata dalla narrativa delle ‘elezioni rubate’  – cavalcata da una parte della politica e dei media – ad assaltare il Campidoglio. L’insurrezione contro il passaggio di poteri fra le due amministrazioni americane, che ha lasciato sul terreno 5 morti e un centinaio di feriti ha generato una maggiore, per quanto tardiva, consapevolezza dei rischi collegati a una deriva estremista interna che è invece oggi diventata una questione prioritaria per la sicurezza nazionale. Gli oltre 700 individui arrestati e perseguiti dalla giustizia – fra i quali spicca un 12% dal background militare, secondo i dati del Program on Extremism della George Washington University – rappresentano un coacervo di esponenti, sostenitori e simpatizzanti di varie ideologie e sigle collegate ai mondi del suprematismo bianco, del neo-nazismo, delle milizie armate e dell’universo cospirazionista (movimento QAnon in testa), identificati e incriminati anche grazie alle loro attività e interazioni pienamente visibili sulle piattaforme social. Una fetta consistente di questi cittadini non è risultata poi ufficialmente affiliata ad alcuna organizzazione; in questo contesto, c’è chi parla ormai di radicalizzazione di massa.

New normal della radicalizzazione, profili e rischi che cambiano

   A venti anni quindi dagli attentati dell’11 settembre che hanno aperto un lungo capitolo di lotta al terrorismo a livello nazionale e internazionale e sotto varie forme – dagli interventi militari al rafforzamento delle misure di polizia e intelligence, dalle modifiche legislative allo studio interdisciplinare della materia, alle iniziative di prevenzione e de-radicalizzazione – la minaccia non solo non è svanita, ma è oggi più diffusa, frammentata e complessa da affrontare. L’ecosistema dell’estremismo violento è caratterizzato da una forte competizione, ma anche da un’esposizione crescente alle strategie, tattiche e “vittorie percepite” di gruppi ideologicamente lontani fra loro – gli analisti non hanno mancato di sottolineare, ad esempio, l’attenzione prestata dagli ambienti dell’estrema destra al “successo” dei Talebani, il cui ritorno al potere dopo una lunga battaglia insurrezionale non motiva unicamente i combattenti di al-Qaeda e/o della nebulosa jihadista, ma anche quelle formazioni che fanno della “società tradizionale” il loro baluardo, si oppongono ai valori liberali in Occidente e/o aspirano a un conflitto civile. La vicinanza e talvolta la coabitazione di temi – ad esempio, jihadisti vis-à-vis Accelerazionisti -, narrative e simbologia non comporta un annacquamento dei principi o delle convinzioni ideologiche ma piuttosto, si legge in una ricerca sull’argomento (ICSR, gennaio 2022), “una maggiore attenzione ai risultati più che alla dottrina” (practice). Con riferimento alla sfera salafita-jihadista, nel Rapporto ReaCT2022 anche Michael Krona sottolinea come “le comunità di sostenitori online stiano espandendo l’universo terroristico formando nuove entità che promuovono interpretazioni ideologiche più ampie, senza rimanere legate a una singola organizzazione”. Oggi la produzione di propaganda e narrativa estremista – ma anche l’incitamento all’azione – non sono più una prerogativa esclusiva dei media legati ai movimenti terroristici, ma un’operazione a cui concorre in maniera significativa anche una larga base di adepti e militanti che si muovono in autonomia, sia per ciò che concerne la creazione di nuovi contenuti – che possono scostarsi rispetto agli argomenti affrontati dai canali ufficiali del gruppo – che la loro disseminazione; un gran numero di incriminazioni e di condanne per reati legati al terrorismo (non solo di matrice jihadista) riguardano infatti attività di raccolta, assemblamento e condivisione di materiale utile anche per pianificare attacchi. A causa di questa frammentazione, la battaglia dei tech giants per “ripulire la rete” è tutt’altro che facile, vista anche l’abilità dei “fomentatori” nel dissimulare contenuti di post e account, ingannare algoritmi, migrare di piattaforma in piattaforma (anche quelle destinate ai ragazzi come TikTok) e muoversi nelle aree grigie e attraverso app criptate.

  La Gran Bretagna è uno dei paesi europei più colpiti da terrorismo e radicalizzazione e per questa ragione, fornisce dati e anticipa spunti di discussione e riflessione molto importanti. Recentemente Dean Haydon, il coordinatore nazionale senior della polizia anti-terrorismo, ha delineato i nuovi profili che stanno cambiando l’equazione nel paese: in sintesi, l’evoluzione del fenomeno ha portato oggi ad imbattersi con maggiore frequenza in individui di origini o di nazionalità britanniche, sempre più giovani e attratti dalle ideologie dell’estrema destra, che si auto-radicalizzano online e agiscono di propria iniziativa. Ma dalle segnalazioni per sospetta radicalizzazione nell’ambito del programma Prevent 2020/21, che interviene quando si manifestano quelli che potrebbero essere i primi segnali di estremismo, è anche emerso che il 51% dei casi è rappresentato dall’adesione a quelle che vengono definite “mixed, unstable or unclear ideologies” (MUU). Se si prende in considerazione anche un’altissima incidenza – una prevalenza – di situazioni che sembrano caratterizzate da problemi di salute mentale, dipendenze e/o altre difficoltà – che rendono soprattutto i giovanissimi vulnerabili alla propaganda in rete – si profila una realtà in cui è la violenza, intesa come canale di sfogo dei disagi personali e – spiegano gli esperti – mezzo per “(ri)acquisire una propria rilevanza”, a prevalere sulla motivazione ideologica. Facendo riferimento anche a un numero considerevole di persone affette da autismo che sono entrate nel circuito di Prevent, il Revisore Indipendente delle leggi sul terrorismo Jonathan Hall ha dichiarato che “è come se fosse emerso un problema sociale e se lo fossero ritrovato fra le mani gli esperti di controterrorismo”. In questo quadro, la radicalizzazione assume le connotazioni di un problema di salute pubblica che va studiato e affrontato da una prospettiva più ampia rispetto a quella adottata fino ad ora, quando un forte accento è stato posto sul ruolo dell’ideologia e di conseguenza, nell’ambito del contrasto, sulla contro-narrativa. Emblematico delle varie sfumature con le quali si trova confrontato chi deve determinare quali nuove forme di violenza rappresentino una minaccia terroristica è l’attacco che ha avuto luogo nel mese di agosto del 2021 a Plymouth, quando un 22enne che aveva familiarità con gli ambienti incel ha sparato a 7 persone per poi togliersi la vita. Noti da tempo negli Stati Uniti ma venuti in superficie solo recentemente in Europa, gli incel sono i cosiddetti celibi involontari, individui che non riescono a stabilire una relazione con l’altro sesso; chi studia il fenomeno spiega che dentro questa bolla che viene denominata anche ‘cultura’ incel – dotata di un proprio gergo specifico – possono manifestarsi risentimento e discorsi d’odio che spronano a commettere violenza contro le donne e che, più in generale, oscillano fra posizioni misogine, razziste, anti-semite e cospirazioniste. Fra il mese di marzo e il mese di novembre del 2021 le visite di utenti britannici – che includono ragazzi a partire dai 13 anni – ai tre principali forum online legati all’ideologia incel sono sestuplicate (dati rilevati da The Times con il Centre for Countering Digital Hate). Le statistiche del 2021 hanno registrato un numero record di arresti di bambini e ragazzi per reati di terrorismo.

I nuovi orizzonti della radicalizzazione non si registrano unicamente nel mondo anglosassone; con riferimento alla matrice jihadista, il Rapporto 2020 del Servizio delle Attività Informative della Svizzera aveva già attirato l’attenzione sugli individui “la cui radicalizzazione e propensione alla violenza vanno ricercate in crisi personali o problemi psichici piuttosto che in un’opera di convincimento ideologico. In generalela frequenza di atti di violenza che presentano un nesso marginale con l’ideologia o i gruppi jihadisti rimarrà costante o potrebbe addirittura aumentare. Nello stesso anno, nella Confederazione si sono verificati i primi due attacchi, a Morges e a Lugano, di questa matrice; gli autori -un uomo e una donna- rientrano nella casistica appena menzionata.

Ripensare la radicalizzazione in funzione della prevenzione

   Negli ultimi 15 anni, l’attenzione delle politiche di sicurezza e delle iniziative di contrasto al terrorismo si è focalizzata in particolar modo sulla propaganda e il reclutamento da parte di al-Qaeda, Stato Islamico e gruppi affini; lo jihadismo rimane tutt’ora la forma di terrorismo che fa più vittime e la stessa Europol (Te-Sat) segnala che – possibilmente anche per ragioni legate alla pressione esercitata dalla pandemia sul lavoro delle forze di sicurezza? – nel 2020 il numero di attacchi portati a termine ha superato quello degli attacchi sventati/falliti ed è raddoppiato rispetto all’anno precedente. Tuttavia, come emerge anche dalle prospettive prese in considerazione nei paragrafi precedenti, un nuovo rischio oggi si irradia da una realtà post-organizzata, in cui i soggetti agiscono in maniera indipendente ispirandosi solo vagamente allo Stato Islamico e dove radicalizzati e (potenziali) terroristi – pur compiendo azioni solitarie – si ‘esaltano’ e incoraggiano dentro comunità / ecosistemi di gruppo. Al di fuori dell’ambiente accademico, questo aspetto della (ri)socializzazione – della ricerca di un senso di condivisione e accoglienza dentro una comunità reale o virtuale – non sempre viene colto. Eppure, è centrale per poter comprendere appieno i processi di radicalizzazione, che annoverano tra i fattori scatenanti più significativi, proprio l’esclusione sociale. Simili dinamiche di appartenenza e di identificazione con un movimento o con una causa, in contrapposizione con altri/e, attraversano oggi anche la società più in generale che vive una situazione di forte polarizzazione, tribalismo e crescente ‘incapsulamento sociale’, tutti elementi che favoriscono l’incubazione dell’estremismo. Vista da questa prospettiva, la battaglia contro le teorie cospiratorie, che sono parte integrante delle narrative di numerose sigle più o meno violente, soprattutto della destra, e contro le fake news che ne pongono le basi, acquisisce un significato che è anche strategico e richiama nel contempo la politica e i media a una nuova consapevolezza. A causa delle numerose sfaccettature dei problemi sociali collegati alla violenza con i quali ci confrontiamo in questo momento storico, è opportuno “ripensare la radicalizzazione” attribuendo più peso alla prospettiva sociologica e psicologica anche in funzione della prevenzione, che non consiste solo nella repressione attraverso interventi di natura securitaria -di polizia- nelle fasi che precedono il crimine ma in una presenza e pianificazione di attività sul territorio a favore della collettività, volte a rafforzare le reti di sostegno per le situazioni di disagio sociale e personale, che si manifestano e si riscontrano a livello locale. Come già messo in rilievo nel Rapporto ReaCT2021, ciò implica una collaborazione fra attori diversi (ONG, istituzioni pubbliche e private, società civile, famiglie) e un dialogo costante fra ricercatori, operatori sul campo, forze dell’ordine e legislatori. Di fronte alla “creatività” e alla capacità di adattamento del terrorismo, nonché al new normal della radicalizzazione che definisce l’epoca attuale, è importante aggiornare gli approcci e gli strumenti a nostra disposizione.


#ReaCT2022: il 3° Rapporto sul terrorismo e il radicalismo in Europa. Online il 24 febbraio

Disponibile dal 24 febbraio, in italiano e inglese, su osservatorioreact.it e su startinsight.eu (link diretto): presentazione, in collaborazione con Formiche.net, giovedì 24 febbraio 2022 sul canale web di Formiche.

È disponibile dal 24 febbraio in formato digitale e cartaceo #ReaCT2022 – La Rivista, il 3° Rapporto sul terrorismo e il radicalismo in Europa, che offre al lettore uno studio sulla sua evoluzione, le sue tendenze ed effetti, attraverso un approccio quantitativo, qualitativo e comparativo. Curato dall’Osservatorio ReaCT, il documento è composto da 15 contributi d’analisi su jihadismo e altre forme di estremismo violento che caratterizzano il panorama attuale e che durante la pandemia hanno acquisito ulteriore forza e visibilità, proponendo nel contempo casi studio, prospettive e riflessioni volte a portare un contributo concreto e a intavolare un dialogo continuativo con tutte quelle realtà -accademiche e istituzionali- che si occupano della questione e delle sue problematiche pratiche. #ReaCT2022 vuole essere uno strumento utile messo a disposizione di operatori per la sicurezza, sociali ed istituzionali, di giornalisti, studenti e del più ampio pubblico.

I numeri del terrorismo jihadista. Come ogni anno, il Rapporto si apre con la fotografia aggiornata del terrorismo di matrice jihadista in Europa, grazie alle informazioni raccolte nel database di START InSight, curato da Claudio Bertolotti, direttore esecutivo di ReaCT. Se la violenza di matrice jihadista può essere considerata marginale in termini assoluti, rispetto cioè al totale delle azioni portate avanti da gruppi e militanti di varie ideologie, essa continua ad essere rilevante sia per le conseguenze, che per il numero di vittime. La minaccia rimane dunque significativa ed è rappresentata oggi in particolar modo dagli attacchi da parte di individui che agiscono in modo autonomo, indipendente, spesso senza un legame diretto con l’organizzazione terroristica ma mobilitati da narrative jihadiste globali.

Nel 2021 gli eventi jihadisti sono stati 18, in lieve flessione rispetto ai 25 attacchi dell’anno precedente ma con un aumento di azioni di tipo “emulativo”, ossia ispirate da altri attacchi nei giorni precedenti: dal 48% del totale di azioni emulative nel 2020 al 56% nel 2021 (erano il 21% nel 2019). Il 2021 ha inoltre confermato la predominanza delle azioni individuali, non organizzate, in genere improvvisate e fallimentari che hanno progressivamente sostituito le azioni strutturate e coordinate caratterizzanti il “campo di battaglia” urbano europeo negli anni 2015-2017. Il terrorismo si conferma inoltre un fenomeno prevalentemente maschile: su 207 attentatori (dal 2014), il 97% sono uomini mentre l’età media è di 26 anni. Di rilievo negli ultimi anni è stato anche il ruolo di recidivi, attentatori già noti alle forze dell’ordine o con precedenti detentivi. Infine, va ricordato che anche quando fallimentare, un attacco terroristico ottiene un risultato favorevole che consiste nell’imporre costi economici e sociali alla collettività e nel condizionarne i comportamenti nel tempo. La limitazione della libertà dei cittadini è un risultato misurabile, che il terrorismo ottiene attraverso le proprie azioni: questo è il “blocco funzionale”, ottenuto nell’82% dei casi: un risultato che conferma il vantaggioso rapporto costo-beneficio a favore del terrorismo.

Estremismi violenti, radicalizzazione e casi studio. I contenuti del Rapporto. I contenuti complessivi del Rapporto 2022 spaziano dalla presentazione dei numeri e profili dei terroristi jihadisti in Europa, alla discussione sul Nuovo Terrorismo Insurrezionale (NIT), che trae ulteriore vigore e motivazione anche dal ritorno dei Talebani in Afghanistan; dall’esame del contesto sub-sahariano, dove operano organizzazioni jihadiste caratterizzate da una retorica globalista ma che restano profondamente connesse a dinamiche locali, all’impegno europeo nella prevenzione del radicalismo violento nei Balcani Occidentali; dai processi per terrorismo di cui si è occupato il Tribunale Penale Federale in Svizzera dal 2001 ad oggi, alle dinamiche delle comunità jihadiste online; dai nuovi orizzonti della radicalizzazione, che si sono allargati ulteriormente durante la pandemia e richiedono che si presti maggiore  attenzione alle dinamiche di gruppo e ai problemi sociali collegati alla violenza; ai focus sull’estrema destra, l’anti-semitismo di ritorno, il cospirazionismo, il movimento NoVax; fino ai casi studio sul reinserimento sociale dei minori radicalizzati e la deradicalizzazione nel contesto neo-nazista, che mettono in evidenza anche l’approccio e il  lavoro portato avanti dalle autorità italiane. Infine, il documento include considerazioni riguardo l’aggiornamento dei Terrorism Risk Assessment Instruments (TRA-I), che sono sviluppati con lo scopo di poter meglio valutare la minaccia rappresentata dai processi di radicalizzazione e dalle attività ad essi affini; riflessioni sugli scenari delle guerre future; la recensione del volume “Understanding radicalisation, terrorism and de-radicalisation. Historical, socio-political and educational perspectives from Algeria, Azerbaijan and Italy”.

ReaCT nasce su iniziativa di una ‘squadra’ composta da esperti e professionisti della società svizzera di ricerca e produzione editoriale START InSight di Lugano, del Centro di ricerca ITSTIME dell’Università Cattolica di Milano, del Centro di Ricerca CEMAS dell’Università La Sapienza e della SIOI sempre a Roma. A ReaCT hanno anche aderito come partner Europa Atlantica e il Gruppo Italiano Studio Terrorismo (GRIST).

L’Osservatorio ReaCT è composto da una Direzione, un Comitato Scientifico di indirizzo ed editoriale, un Comitato Parlamentare e un Gruppo di lavoro permanente.

Tutte le informazioni sul sito www.osservatorioreact.it info@startinsight.eu


“La Deterrenza nel XXI secolo”: il nuovo libro di N. Petrelli

Disponibile in formato Kindle e stampa su Amazon

Dall’Introduzione di N. Petrelli al suo libro “La Deterrenza nel XXI secolo” ed. START InSight

Nel corso degli ultimi anni la nozione di deterrenza, da tempo quasi completamente scomparsa dal vocabolario della politica internazionale, è riemersa in numerosi documenti strategici di paesi Europei (inclusa l’Italia essendo il concetto menzionato nel Libro Bianco della Difesa 2015), e non. Il concetto è stato altresì impiegato da esperti e giornalisti per spiegare la logica alla base della prassi strategica di importanti attori internazionali, in primis la Russia di Putin

Tale “rinascita” potrebbe ingenerare l’impressione di un ritorno al passato, a pratiche strategiche caratteristiche di quella che è nota come “la prima età nucleare” nel quadro di quell’assetto geopolitico straordinariamente stabile che è stato la Guerra Fredda. Non è così. La deterrenza del XXI secolo è sia concetto, che fenomeno profondamente differente da quello che è stato in quelli che potremmo definire i suoi “anni d’oro” i 50 e 60 del XX secolo. L’obiettivo di questa ricerca è quello di far comprendere tale diversità ed il ruolo che la deterrenza potrebbe svolgere negli affari internazionali negli anni a venire attraverso uno studio dell’evoluzione storica della sua teoria e della pratica. Come evidenziato da uno dei più importanti studiosi contemporanei di deterrenza, Alex Wilner, innovazioni nella pratica della deterrenza hanno generalmente fatto seguito a significativi sviluppi teorici.

Con il termine ‘teoria della deterrenza’ ci si riferisce in genere ad un corpus di studi accademici che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, è arrivato a dominare la letteratura sugli studi di sicurezza negli Stati Uniti ed in Europa occidentale. Circa quella che potrebbe essere chiamata la storiografia o l’evoluzione della teoria della deterrenza, esistono due scuole di pensiero. Da una parte coloro che, sviluppando un’idea originariamente coniata da Robert Jervis, vedono la teoria della deterrenza evolversi attraverso distinte “ondate”. Ognuna di queste sarebbe caratterizzata da un particolare framework analitico, interpretazione del processo della deterrenza, e focus sui mezzi della stessa influenzati (principalmente ma non solo) dai problemi strategici più salienti del momento. Dall’altra, una seconda scuola di pensiero sostiene al contrario che tale periodizzazione sottovaluti i significativi elementi di continuità esistenti tra le varie fasi di sviluppo della teoria, e che la letteratura sulla deterrenza possa in gran parte, sino circa ai primi anni 2000, essere classificata come una singola teoria, con circoscritte sub-variazioni. Secondo tale approccio significative discontinuità nella teoria della deterrenza si sono manifestate solo nel momento in cui il focus analitico si è spostato dallo studio della deterrenza fra stati a quello delle relazioni di deterrenza tra attori statali e non-statali.

L’approccio adottato in questa ricerca sintetizza i punti di vista delle due scuole. Infatti, nel fornire una periodizzazione dell’evoluzione della teoria della deterrenza basata sulla nozione di “ondate” successive, parte dall’assunto che, sebbene diverse sotto molti profili differenti, esse possano essere considerate tutte esplorazioni di un’unica teoria. In ciò la ricerca si ispira all’autorevole opinione secondo cui esiste una sola teoria generale della deterrenza, intesa come un insieme coerente di ipotesi logicamente connesse circa il fenomeno, la cui valenza e applicabilità sono eterne e universali. Tale teoria generale espone la natura della deterrenza come concetto, funzione, e processo e spiega gli elementi che influenzano e guidano specifiche strategie di deterrenza.

Nel mettere insieme le parti costitutive della teoria della deterrenza sparse nella letteratura lo scopo di questo elaborato è euristico, il lavoro è in altre parole finalizzato ad illuminare sia eventuali cambiamenti nell’ontologia del fenomeno della deterrenza, così come evidenziati da modifiche analitiche ed epistemologiche nella teoria, sia evoluzioni concettuali intervenute nel tempo.

La comprensione di tali cambiamenti è a sua volta essenziale per la formazione di coloro che hanno compiti e responsabilità inerenti lo sviluppo della politica estera e di sicurezza a livello nazionale. Sotto questo punto di vista, parafrasando Colin Gray, la teoria generale può essere paragonata a un passepartout in grado di arricchire concettualmente coloro che sviluppano e attuano la politica estera e di sicurezza, aprendo una porta su una componente essenziale delle interazioni nell’attuale sistema internazionale.

Il Concetto di Deterrenza: Aree di Consenso e Criteri Analitici

Il primo passo per sviluppare un framework adeguato ad analizzare l’evoluzione della teoria della deterrenza è ricapitolare i principali elementi di consenso all’interno della stessa circa l’oggetto di riferimento al fine di identificare le dimensioni fondamentali di variazione del concetto. Esse verranno quindi impiegate per delineare una serie di criteri tra essi correlati che aiutino a cogliere le principali differenze tra le varie “ondate” della teoria dalla fine degli anni 40 ad oggi.

Esiste un consenso piuttosto ampio circa la definizione di deterrenza come: la manipolazione, da parte di un attore, del calcolo costi/benefici di un avversario/competitore circa una determinata azione. Riducendo i benefici o aumentando i costi potenziali (o entrambi), è possibile far desistere un avversario/competitore dall’intraprendere un’azione considerata dannosa. Concettualmente, la deterrenza è una forma di influenza coercitiva basata principalmente su incentivi negativi; in termini colloquiali potrebbe essere definita come l’arte del ricatto e della generazione della paura. La deterrenza può considerarsi una forma di influenza in quanto non tenta di controllare l’avversario/competitore, ad esempio cercando di eliminare la sua capacità di agire o di stabilire su di esso una qualche forma di controllo fisico. La deterrenza, al contrario, lascia al “bersaglio”, l’attore che ne è fatto oggetto, la possibilità di esercitare una scelta, mirando ad influenzarla. In secondo luogo, la deterrenza può considerarsi coercitiva in quanto utilizza prevalentemente minacce, incentivi negativi. La necessità della deterrenza sorge infatti quando un attore si aspetta che il corso d’azione intrapreso da un avversario/competitore possa condurre ad un esito dannoso. Per tale ragione tende ad incentrare il proprio tentativo di influenza sulla minaccia, pur associandola nella maggioranza dei casi a determinati messaggi o incentivi positivi. L’essenza della deterrenza è quindi la generazione nel bersaglio della convinzione che il proprio corso d’azione porterà a un risultato negativo per i propri interessi o obiettivi. Da ultimo è importante notare che, per quanto radicato in un calcolo razionale, il concetto di deterrenza consta anche di una componente emotiva. Chiunque scelga di sviluppare una strategia di deterrenza non può fondarla solo su elementi tangibili e misurabili da parte del “bersaglio”, poiché il suo calcolo non sarà basato esclusivamente su una valutazione di input noti. Al contrario le strategie di deterrenza presuppongono l’introduzione di un elemento imponderabile al fine di generare incertezza, dubbio, in chi è fatto oggetto di minacce, circa come la forza potrebbe essere utilizzata contro di lui e circa l’impatto che potrebbe avere sui suoi interessi. Tale componente della deterrenza ed il suo funzionamento sono stati magistralmente sintetizzati da Schelling nell’espressione: “la minaccia che lascia qualcosa al caso”.

La letteratura distingue tra “situazione di deterrenza”, in cui un attore è dissuaso dal compiere determinate azioni senza che nessuno abbia deliberatamente tentato di inviare un messaggio di dissuasione, e “strategia di deterrenza”, quando tale comportamento fa seguito a un segnale deliberatamente elaborato e inviato. Idealmente, nel momento in cui un attore opta per una “strategia di deterrenza”, si procede a sviluppare un programma di deterrenza guidato da un particolare obiettivo politico e fondato su ipotesi di intelligence relative alle intenzioni e capacità dell’avversario e su una stima della correlazione di forze o “net assessment”. Teoricamente, nella prima fase di questo programma, i pianificatori della deterrenza delineano la percezione di minaccia dell’avversario/competitore e identificano i “valori” strategici che possono essere effettivamente minacciati e messi a rischio; in una fase successiva, cercano modi e mezzi per sfruttare queste paure nel modo più efficace, al fine di modellare il calcolo strategico dell’avversario. In questa ultima fase, i pianificatori comunicano minacce inequivocabili che segnalano intenzioni e capacità credibili. Ogni strategia di deterrenza consiste in altre parole in tre elementi: capacità; minaccia; comunicazione.

La deterrenza dipende quindi in primo luogo dalla presenza di effettive capacità di mettere in atto la minaccia che si intende comunicare. Tali capacità, di qualsiasi tipo esse siano, devono necessariamente trovarsi in una condizione di “prontezza operativa”, ovvero devono poter essere rapidamente impiegate e devono, almeno in una certa misura, essere visibili al soggetto verso cui si indirizza la minaccia deterrente. Per esempio, durante la crisi di Kargil tra India e Pakistan del 1999, il Pakistan attivò le proprie capacità nucleari con il solo scopo di mandare un messaggio a Nuova Delhi. Islamabad era infatti consapevole che gli USA avrebbero monitorato attentamente ogni attività relativa all’arsenale nucleare e sfruttò la circostanza per cercare di “deterrere” l’India. La componente capacitiva della deterrenza ne costituisce la fondamentale base materiale, ovvero l’elemento in grado di condizionare la componente razionale del calcolo strategico dell’avversario.

In secondo luogo, la deterrenza dipende da una percezione di credibilità della minaccia formulata che, come la letteratura ha evidenziato, può divergere, in maniera anche significativa, dalla realtà oggettiva. Essa è infatti in primo luogo influenzata dalla situazione specifica in cui viene comunicata: la minaccia di un attacco nucleare in risposta a una “provocazione” grave è certamente più credibile di una minaccia analoga in risposta a un’aggressione “minore”. Esiste tuttavia anche un’altra componente della credibilità, che è inerente al soggetto che formula la minaccia, non alla situazione. In circostanze identiche, la minaccia di un attore può essere credibile laddove quella di un altro non lo sarebbe. In parte, come pocanzi asserito, ciò deriva dalle capacità di attuare la minaccia nonché da quella di difendersi dalla risposta dell’altro. Ma c’è di più; è stato infatti chiaramente dimostrato che la credibilità è legata alla “reputazione”, alla percezione di risolutezza rispetto al prezzo da pagare per impedire una determinata azione da parte di un avversario. Ciò spiega in parte come mai tanti — tra cui l’allora Segretario della Difesa Chuck Hagel — abbiano criticato l’amministrazione di Barack Obama quando, dopo aver tracciato linee rosse circa l’uso di armi chimiche in Siria, decise poi di non intervenire per sanzionare il comportamento di Bashar al-Assad. Parimenti, il fatto che dopo la guerra  del 2006 tra Israele ed Hezbollah, non vi siano più stati conflitti tra i due attori suggerisce quanto la strategia israeliana abbia avuto dei meriti, come in parte ha poi ammesso lo stesso leader di Hezbollah anni dopo. Hassan Nasrallah infatti, in una intervista concessa qualche tempo dopo la fine della guerra, ha infatti dichiarato che la sua organizzazione non si aspettava una tale reazione da parte di Israele. Reazione che ha certamente contribuito ad evitare scontri diretti da ormai molti anni a questa parte. Il dato è interessante se si pensa che, da un punto di vista di strategia militare e operativo, Israele uscì perdente da quella guerra il cui valore, assumendo che la nostra interpretazione sia corretta, può dunque essere compreso solo nel medio-lungo termine.

La deterrenza consiste in una richiesta nei confronti di un altro attore di astenersi dal fare qualcosa, ed è una relazione iterativa che richiede significative capacità di comunicazione. L’attore che intende esercitare deterrenza deve far sì che l’avversario che intende scoraggiare da un certo corso d’azione comprenda chiaramente i contorni della minaccia. Fare in modo che un avversario/competitore comprenda il messaggio deterrente attraverso “il frastuono e il rumore” della politica internazionale richiede significativi sforzi pubblici e privati ​​di comunicazione. E’ utile precisare che con l’espressione “chiarezza di comunicazione” si intende chiarezza rispetto all’evento o azione che si vuole evitare, le cosiddette “linee rosse”, ma non necessariamente si implica chiarezza rispetto alla minaccia. La politica statunitense e, per estensione quella della NATO, durante la Guerra fredda è un ottimo esempio: qualunque tentativo di invadere la Germania dell’Ovest da parte Sovietica avrebbe portato ad una immediata e spropositata reazione. Le minacce di deterrenza possono però anche essere (e spesso sono deliberatamente) ambigue per numerose ragioni, inclusa la convinzione che una minaccia troppo specifica possa rivelarsi controproducente in alcune circostanze o rispetto ad alcune categorie di attori.

Da questa descrizione del consenso accademico e professionale circa la natura della deterrenza discende il nostro argomento generale secondo cui è possibile identificare quattro dimensioni fondamentali di variazione del concetto: Attori; Capacità; Meccanismo; Processo.

La prima dimensione si riferisce al numero di attori il cui calcolo la strategia di deterrenza adottata intende influenzare. Come nella teoria dei giochi, il numero degli attori coinvolti nella relazione di deterrenza incide in maniera significativa sulle dinamiche di interazione tra gli stessi. La seconda dimensione riguarda il tipo di capacità impiegate nel tentativo di far desistere uno o più avversari/competitori da una determinata azione, capacità che possono variare tra “cinetiche” e “non-cinetiche”. Il terzo criterio di variazione riguarda il “meccanismo” di funzionamento della deterrenza, dunque fondamentalmente il tipo di minaccia che si formula nei confronti di un avversario o competitore. L’ultima dimensione di variazione concerne invece la prevalenza della componente fisica o psicologica nel processo attraverso cui il meccanismo dispiega il suo effetto.

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