La
diffusione di informazioni false, fuorvianti o manipolate – riassunta
nell’acronimo MDHM (misinformation, disinformation, malinformation e hate
speech) – rappresenta una delle sfide più critiche dell’era digitale, con
conseguenze profonde sulla coesione sociale, la stabilità politica e la
sicurezza globale. Questo studio analizza le caratteristiche distintive di
ciascun fenomeno e il loro impatto interconnesso, evidenziando come alimentino
l’erosione della fiducia nelle istituzioni, la polarizzazione sociale e
l’instabilità politica.
L’intelligenza
artificiale emerge come una risorsa cruciale per contrastare il MDHM, offrendo
strumenti avanzati per il rilevamento di contenuti manipolati e il monitoraggio
delle reti di disinformazione. Tuttavia, la stessa tecnologia alimenta nuove
minacce, come la creazione di deepfake e la generazione di contenuti
automatizzati che amplificano la portata e la sofisticazione della
disinformazione. Questo paradosso evidenzia la necessità di un uso etico e
strategico delle tecnologie emergenti.
Il lavoro propone un approccio multidimensionale per affrontare il MDHM, articolato su tre direttrici principali: l’educazione critica, con programmi scolastici e campagne pubbliche per rafforzare l’alfabetizzazione mediatica; la regolamentazione delle piattaforme digitali, mirata a bilanciare la rimozione dei contenuti dannosi con la tutela della libertà di espressione; la collaborazione globale, per garantire una risposta coordinata a una minaccia transnazionale.
In
conclusione, l’articolo sottolinea l’importanza di un impegno concertato tra
governi, aziende tecnologiche e società civile per mitigare gli effetti
destabilizzanti del MDHM e preservare la democrazia, la sicurezza e la fiducia
nelle informazioni.
Definizioni
e Distinzioni
La
diffusione di informazioni false, fuorvianti o manipolate costituisce una delle
sfide più complesse e pericolose dell’era digitale, con ripercussioni
significative sull’equilibrio sociale, politico e culturale. I fenomeni noti
come misinformation,disinformation, malinformatione hate speech,
sintetizzati nell’acronimo MDHM, rappresentano
manifestazioni distinte ma strettamente interconnesse di questa problematica.
Una comprensione approfondita delle loro specificità è imprescindibile per
sviluppare strategie efficaci volte a contenere e contrastare le minacce che
tali fenomeni pongono alla coesione sociale e alla stabilità delle istituzioni.
Misinformation:
Informazioni false diffuse senza l’intenzione di causare danno. Ad esempio, la
condivisione involontaria di notizie non verificate sui social media.
Disinformation:
Informazioni deliberatamente create per ingannare, danneggiare o manipolare
individui, gruppi sociali, organizzazioni o nazioni. Un esempio è la diffusione
intenzionale di notizie false per influenzare l’opinione pubblica o
destabilizzare istituzioni.
Malinformation:
informazioni basate su fatti reali, ma utilizzate fuori contesto per fuorviare,
causare danno o manipolare. Ad esempio, la divulgazione di dati personali con
l’intento di danneggiare la reputazione di qualcuno.
Hate
Speech: espressioni che incitano all’odio contro individui o gruppi
basati su caratteristiche come razza, religione, etnia, genere o orientamento
sessuale. Questo tipo di discorso può fomentare violenza e discriminazione.
Impatto sulla Società
La diffusione di misinformation, disinformation,
malinformation
e hate
speech rappresenta una sfida cruciale per la stabilità delle società
moderne. Questi fenomeni, potenziati dalla rapidità e dalla portata globale dei
media digitali, hanno conseguenze significative che si manifestano in vari
ambiti sociali, politici e culturali. Tra i principali effetti troviamo
l’erosione della fiducia nelle istituzioni, la polarizzazione sociale e
l’acuirsi delle minacce alla sicurezza.
Erosione della
Fiducia
L’informazione falsa o manipolata rappresenta un
attacco diretto alla credibilità delle istituzioni pubbliche, dei media e persino della comunità
scientifica. Quando le persone vengono sommerse da un flusso costante di
notizie contraddittorie o palesemente mendaci, il risultato inevitabile è una
crisi di fiducia generalizzata. Nessuna fonte viene risparmiata dal dubbio,
nemmeno i giornalisti più autorevoli o gli organismi governativi più
trasparenti. Questo processo mina le fondamenta della società e alimenta un
clima di incertezza che, a lungo andare, può trasformarsi in alienazione.
Un esempio emblematico si osserva nel contesto del
processo democratico, dove la disinformazione colpisce con particolare
intensità. Le campagne di manipolazione delle informazioni, mirate a diffondere
falsità sulle procedure di voto o sui candidati, hanno un effetto devastante
sull’integrità elettorale. Ciò non solo alimenta il sospetto e la sfiducia
nelle istituzioni democratiche, ma crea anche un senso di disillusione tra i cittadini,
allontanandoli ulteriormente dalla partecipazione attiva.
Le conseguenze diventano ancora più evidenti nella
gestione delle crisi globali. Durante la pandemia da COVID-19, l’ondata di
teorie del complotto e la diffusione di cure non verificate hanno rappresentato
un ostacolo significativo per gli sforzi della salute pubblica. La
disinformazione ha alimentato paure infondate e diffidenza verso i vaccini,
rallentando la risposta globale alla crisi e aumentando la diffusione del
virus.
Ma questa erosione della fiducia non si ferma al
singolo individuo. Le sue ripercussioni si estendono a tutta la società,
frammentandola. I legami sociali, già indeboliti da divisioni preesistenti,
diventano ancora più vulnerabili alla manipolazione. E così, si crea un terreno
fertile per ulteriori conflitti e instabilità, in cui le istituzioni si trovano
sempre più isolate, mentre cresce il rischio di una società incapace di reagire
a sfide collettive.
Polarizzazione
Sociale
Le campagne di disinformazione trovano terreno fertile
nelle divisioni già esistenti all’interno della società, sfruttandole con
l’obiettivo di amplificarle e renderle insormontabili. Questi fenomeni,
alimentati da strategie mirate e potenziati dalle piattaforme digitali,
intensificano il conflitto sociale e compromettono la possibilità di dialogo,
lasciando spazio a una polarizzazione sempre più marcata.
L’amplificazione delle divisioni è forse il risultato
più visibile della disinformazione. La manipolazione delle informazioni viene
utilizzata per radicalizzare le opinioni politiche, culturali o religiose,
costruendo una narrazione di contrapposizione tra un “noi” e un
“loro”. Nei contesti di tensioni etniche, per esempio, la
malinformation, diffusa con l’intento di distorcere eventi storici o di
strumentalizzare questioni politiche attuali, accentua le differenze percepite
tra gruppi sociali. Questi contrasti, spesso già esistenti, vengono esasperati
fino a cristallizzarsi in conflitti identitari difficili da sanare.
A ciò si aggiunge l’effetto delle cosiddette
“bolle informative”, create dagli algoritmi delle piattaforme
digitali. Questi sistemi, progettati per massimizzare l’engagement degli
utenti, propongono contenuti che rafforzano le loro opinioni preesistenti,
limitandone l’esposizione a prospettive alternative. Questo fenomeno, noto come
“filtro bolla”, non solo solidifica pregiudizi, ma isola gli individui
all’interno di una realtà mediatica che si nutre di conferme continue,
impedendo la comprensione di punti di vista differenti.
La polarizzazione, alimentata dal MDHM, non si ferma
però al piano ideologico. In molti casi, la radicalizzazione delle opinioni si
traduce in azioni concrete: proteste, scontri tra gruppi e, nei casi più
estremi, conflitti armati. Guerre civili e crisi sociali sono spesso il culmine
di una spirale di divisione che parte dalle narrative divisive diffuse
attraverso disinformazione e hate speech.
In definitiva, la polarizzazione generata dal MDHM non
danneggia solo il dialogo sociale, ma mina anche le fondamenta della coesione
collettiva. In un tale contesto, risulta impossibile trovare soluzioni
condivise a problemi comuni. Ciò che rimane è un clima di conflittualità
permanente, dove il “noi contro loro” sostituisce qualsiasi tentativo
di collaborazione, rendendo la società più fragile e vulnerabile.
Minaccia alla
Sicurezza
Nei contesti di conflitto, il MDHM si rivela un’arma
potente e pericolosa, capace di destabilizzare società e istituzioni con
implicazioni devastanti per la sicurezza collettiva e individuale. La
disinformazione, insieme al discorso d’odio, alimenta un ciclo di violenza e
instabilità politica, minacciando la pace e compromettendo i diritti umani. Gli
esempi concreti di come queste dinamiche si manifestano non solo illustrano la
gravità del problema, ma evidenziano anche l’urgenza di risposte efficaci.
La propaganda
e la destabilizzazione costituiscono uno degli utilizzi più insidiosi
della disinformazione. Stati e gruppi non statali sfruttano queste pratiche
come strumenti di guerra ibrida, mirati a indebolire il morale delle
popolazioni avversarie e a fomentare divisioni interne. In scenari geopolitici
recenti, la diffusione di informazioni false ha generato confusione e panico,
rallentando la capacità di risposta delle istituzioni. Questa strategia,
pianificata e sistematica, non si limita a disorientare l’opinione pubblica ma
colpisce direttamente il cuore della coesione sociale.
Il discorso
d’odio, amplificato dalle piattaforme digitali, è spesso un precursore
di violenze di massa. Ne è tragico esempio il genocidio dei Rohingya in
Myanmar, preceduto da una campagna di odio online che ha progressivamente deumanizzato
questa minoranza etnica, preparandone il terreno per persecuzioni e massacri.
Questi episodi dimostrano come lo hate
speech, una volta radicato, possa tradursi in azioni violente e
sistematiche, con conseguenze irreparabili per le comunità coinvolte.
Anche sul piano individuale, gli effetti del MDHM sono
profondamente distruttivi. Fenomeni come il doxxing – la divulgazione pubblica di informazioni personali con
intenti malevoli – mettono a rischio diretto la sicurezza fisica e psicologica
delle vittime. Questo tipo di attacco non solo espone le persone a minacce e
aggressioni, ma amplifica un senso di vulnerabilità che si estende ben oltre il
singolo episodio, minando la fiducia nel sistema stesso.
L’impatto cumulativo di queste dinamiche mina la stabilità
sociale nel suo complesso, creando fratture profonde che richiedono risposte
immediate e coordinate. Affrontare il MDHM non è solo una questione di difesa
contro la disinformazione, ma un passo essenziale per preservare la pace,
proteggere i diritti umani e garantire la sicurezza globale in un’epoca sempre
più interconnessa e vulnerabile.
Strategie di Mitigazione
La
lotta contro il fenomeno MDHM richiede una risposta articolata e coordinata,
capace di affrontare le diverse sfaccettature del problema. Dato l’impatto
complesso e devastante che questi fenomeni hanno sulla società, le strategie di
mitigazione devono essere sviluppate con un approccio multidimensionale,
combinando educazione, collaborazione tra i diversi attori e un quadro
normativo adeguato.
Educazione e
Consapevolezza
La prima e più efficace linea di difesa contro il
fenomeno MDHM risiede nell’educazione e nella promozione di una diffusa
alfabetizzazione mediatica. In un contesto globale in cui le informazioni
circolano con una rapidità senza precedenti e spesso senza un adeguato
controllo, la capacità dei cittadini di identificare e analizzare criticamente
i contenuti che consumano diventa una competenza indispensabile. Solo
attraverso una maggiore consapevolezza sarà possibile arginare gli effetti
negativi della disinformazione e costruire una società più resiliente.
Il pensiero critico
rappresenta la base di questa strategia. I cittadini devono essere messi nelle
condizioni di distinguere le informazioni affidabili dai contenuti falsi o
manipolati. Questo processo richiede l’adozione di strumenti educativi che
insegnino come verificare le fonti, identificare segnali di manipolazione e
analizzare il contesto delle notizie. È un impegno che va oltre la semplice
formazione: si tratta di creare una cultura della verifica e del dubbio
costruttivo, elementi essenziali per contrastare la manipolazione informativa.
Un ruolo cruciale in questa battaglia è giocato dalla formazione scolastica. Le scuole
devono diventare il luogo privilegiato per l’insegnamento dell’alfabetizzazione
mediatica, preparando le nuove generazioni a navigare consapevolmente nel
complesso panorama digitale. L’integrazione di questi insegnamenti nei
programmi educativi non può più essere considerata un’opzione, ma una
necessità. Attraverso laboratori pratici, analisi di casi reali e simulazioni,
i giovani possono sviluppare le competenze necessarie per riconoscere contenuti
manipolati e comprendere le implicazioni della diffusione di informazioni
false.
Tuttavia, l’educazione non deve limitarsi ai giovani.
Anche gli adulti, spesso più esposti e vulnerabili alla disinformazione, devono
essere coinvolti attraverso campagne di
sensibilizzazione pubblica. Queste iniziative, veicolate sia attraverso
i media tradizionali che digitali, devono illustrare le tecniche più comuni
utilizzate per diffondere contenuti falsi, sottolineando le conseguenze
negative di tali fenomeni per la società. Un cittadino informato, consapevole
dei rischi e capace di riconoscerli, diventa un elemento di forza nella lotta
contro la disinformazione.
Investire nell’educazione e nella sensibilizzazione
non è solo una misura preventiva, ma un pilastro fondamentale per contrastare
il MDHM. Una popolazione dotata di strumenti critici è meno suscettibile alle
manipolazioni, contribuendo così a rafforzare la coesione sociale e la
stabilità delle istituzioni democratiche. Questo percorso, pur richiedendo un
impegno costante e coordinato, rappresenta una delle risposte più efficaci a
una delle minacce più insidiose del nostro tempo.
Collaborazione
Intersettoriale
La complessità del fenomeno MDHM è tale che nessun
singolo attore può affrontarlo efficacemente da solo. È una sfida globale che
richiede una risposta collettiva e coordinata, in cui governi, organizzazioni
non governative, aziende tecnologiche e società civile collaborano per
sviluppare strategie condivise. Solo attraverso un impegno sinergico è
possibile arginare gli effetti destabilizzanti di questa minaccia.
Le istituzioni
governative devono assumere un ruolo guida. I governi sono chiamati a
creare regolamentazioni efficaci e ambienti sicuri per lo scambio di
informazioni, garantendo che queste misure bilancino due aspetti fondamentali:
la lotta contro i contenuti dannosi e la protezione della libertà di
espressione. Un eccesso di controllo rischierebbe infatti di scivolare nella
censura, minando i principi democratici che si intendono tutelare. L’approccio
deve essere trasparente, mirato e in grado di adattarsi all’evoluzione delle
tecnologie e delle dinamiche di disinformazione.
Le aziende
tecnologiche, in particolare i social
media, giocano un ruolo centrale in questa sfida. Hanno una responsabilità
significativa nel contrastare la diffusione del MDHM, essendo i principali
veicoli attraverso cui queste dinamiche si propagano. Devono investire nello
sviluppo di algoritmi avanzati, capaci di identificare e rimuovere i contenuti
dannosi in modo tempestivo ed efficace. Tuttavia, l’efficacia degli interventi
non può venire a scapito della libertà degli utenti di esprimersi. La
trasparenza nei criteri di moderazione, nella gestione dei dati e nei meccanismi
di segnalazione è fondamentale per mantenere la fiducia degli utenti e
prevenire abusi.
Accanto a questi attori, le organizzazioni non governative (ONG) e la società civile svolgono
un ruolo di intermediazione. Le ONG possono fungere da ponte tra istituzioni e
cittadini, offrendo informazioni verificate e affidabili, monitorando i
fenomeni di disinformazione e promuovendo iniziative di sensibilizzazione.
Queste organizzazioni hanno anche la capacità di operare a livello locale,
comprendendo meglio le dinamiche specifiche di determinate comunità e adattando
le strategie di contrasto alle loro esigenze.
Infine, è imprescindibile favorire partnership pubbliche e private. La
collaborazione tra settori pubblico e privato è essenziale per condividere
risorse, conoscenze e strumenti tecnologici utili a combattere il MDHM. In
particolare, le aziende possono offrire soluzioni innovative, mentre i governi
possono fornire il quadro normativo e il supporto necessario per implementarle.
Questa sinergia permette di affrontare la disinformazione con un approccio più
ampio e integrato, combinando competenze tecniche, capacità di monitoraggio e
intervento.
La risposta al MDHM non può dunque essere frammentata
né limitata a un singolo settore. Solo attraverso una collaborazione
trasversale e globale sarà possibile mitigare le conseguenze di questi
fenomeni, proteggendo le istituzioni, i cittadini e la società nel suo insieme.
Ruolo delle Tecnologie
Avanzate e Artificial Intelligence (AI) nel Contesto del MDHM
Le
tecnologie emergenti, in particolare l’intelligenza artificiale (IA), svolgono
un ruolo cruciale nel contesto di misinformation,
disinformation, malinformation e hate speech.
L’AI rappresenta un’arma a doppio taglio: da un lato, offre strumenti potenti
per individuare e contrastare la diffusione di contenuti dannosi; dall’altro,
alimenta nuove minacce, rendendo più sofisticati e difficili da rilevare gli
strumenti di disinformazione.
Rilevamento
Automatico
L’intelligenza artificiale ha rivoluzionato il modo in
cui affrontiamo il fenomeno della disinformazione, introducendo sistemi
avanzati di rilevamento capaci di identificare rapidamente contenuti falsi o
dannosi. In un panorama digitale in cui il volume di dati generato
quotidianamente è immenso, il monitoraggio umano non è più sufficiente. Gli
strumenti basati sull’AI si rivelano quindi essenziali per gestire questa
complessità, offrendo risposte tempestive e precise.
Tra le innovazioni più rilevanti troviamo gli algoritmi di machine learning, che rappresentano il cuore dei sistemi di
rilevamento automatico. Questi algoritmi, attraverso tecniche di apprendimento
automatico, analizzano enormi quantità di dati alla ricerca di schemi che
possano indicare la presenza di contenuti manipolati o falsi. Addestrati su
dataset contenenti esempi di disinformazione già identificati, questi sistemi
sono in grado di riconoscere caratteristiche comuni, come l’uso di titoli
sensazionalistici, un linguaggio emotivamente carico o la presenza di immagini
alterate. L’efficacia di tali strumenti risiede nella loro capacità di
adattarsi a nuovi modelli di manipolazione, migliorando costantemente le
proprie performance.
Un altro ambito cruciale è quello della verifica delle fonti. Strumenti basati
su AI possono confrontare le informazioni che circolano online con fonti
affidabili, identificando discrepanze e facilitando il lavoro dei fact-checker. In questo modo, la
tecnologia accelera i tempi di verifica, permettendo di contrastare in maniera
più efficiente la diffusione di contenuti falsi prima che raggiungano un
pubblico vasto.
L’AI è anche fondamentale per contrastare una delle
minacce più sofisticate: i deepfake, di cui più oltre
tratteremo. Grazie a tecniche avanzate, è possibile analizzare video e immagini
manipolati, individuando anomalie nei movimenti facciali, nella
sincronizzazione delle labbra o nella qualità complessiva del contenuto visivo.
Aziende come Adobe e Microsoft stanno sviluppando strumenti dedicati alla
verifica dell’autenticità dei contenuti visivi, offrendo una risposta concreta
a una tecnologia che può facilmente essere sfruttata per scopi malevoli.
Il monitoraggio
del linguaggio d’odio è un altro fronte in cui l’AI dimostra il suo
valore. Attraverso algoritmi di elaborazione del linguaggio naturale (NLP), è
possibile analizzare i testi in tempo reale per identificare espressioni di hate speech. Questi sistemi non solo
categorizzano i contenuti, ma assegnano priorità agli interventi, garantendo
una risposta rapida ed efficace ai casi più gravi. In un contesto in cui il
discorso d’odio può rapidamente degenerare in violenza reale, la capacità di
intervenire tempestivamente è cruciale.
Infine, l’intelligenza artificiale è in grado di rilevare
e analizzare reti di disinformazione. Attraverso l’analisi delle
interazioni social, l’AI può individuare schemi che suggeriscono campagne
coordinate, come la diffusione simultanea di messaggi simili da account
collegati. Questa funzione è particolarmente utile per smascherare operazioni
orchestrate, sia a livello politico che sociale, che mirano a destabilizzare la
fiducia pubblica o a manipolare l’opinione delle persone.
In definitiva, l’intelligenza artificiale rappresenta
uno strumento indispensabile per affrontare il fenomeno della disinformazione e
dell’hate speech. Tuttavia, come ogni
tecnologia, richiede un uso etico e responsabile. Solo attraverso
un’implementazione trasparente e mirata sarà possibile sfruttare appieno il
potenziale dell’AI per proteggere l’integrità delle informazioni e la coesione
sociale.
Generazione di
Contenuti
L’intelligenza artificiale, se da un lato rappresenta
una risorsa preziosa per contrastare la disinformazione, dall’altro
contribuisce a rendere il fenomeno MDHM ancora più pericoloso, fornendo
strumenti per la creazione di contenuti falsi e manipolati con livelli di
sofisticazione senza precedenti. È proprio questa ambivalenza che rende l’IA
una tecnologia tanto potente quanto insidiosa.
Un esempio emblematico è rappresentato dai citati deepfake,
prodotti grazie a tecnologie basate su reti generative avversarie (GAN). Questi
strumenti permettono di creare video e immagini estremamente realistici, in cui
persone possono essere mostrate mentre affermano o compiono azioni mai
avvenute. I deepfake compromettono
gravemente la fiducia nelle informazioni visive, un tempo considerate una prova
tangibile della realtà. Ma non si fermano qui: la loro diffusione può essere
utilizzata per campagne di diffamazione, per manipolare l’opinione pubblica o
per destabilizzare contesti politici già fragili. La capacità di creare realtà
alternative visive rappresenta una minaccia diretta alla credibilità delle
fonti visive e alla coesione sociale.
Parallelamente, i testi generati automaticamente da modelli di linguaggio avanzati,
come GPT, hanno aperto nuove frontiere nella disinformazione. Questi sistemi
sono in grado di produrre articoli, commenti e post sui social media che
appaiono del tutto autentici, rendendo estremamente difficile distinguere i
contenuti generati da una macchina da quelli scritti da una persona reale. Non
a caso, tali strumenti vengono già sfruttati per alimentare botnet, reti automatizzate che
diffondono narrazioni polarizzanti o completamente false, spesso con l’obiettivo
di manipolare opinioni e alimentare conflitti sociali.
Un ulteriore aspetto cruciale è rappresentato dalla scalabilità della disinformazione.
L’automazione garantita dall’AI consente la creazione e la diffusione di
contenuti falsi su larga scala, amplificandone in modo esponenziale l’impatto.
Ad esempio, un singolo attore malevolo, sfruttando questi strumenti, può
generare migliaia di varianti di un messaggio falso, complicando ulteriormente
il compito dei sistemi di rilevamento. In pochi istanti, contenuti manipolati
possono essere diffusi a livello globale, raggiungendo milioni di persone prima
che si possa intervenire.
Infine, l’AI offre strumenti per la mimetizzazione dei contenuti, che
rendono i messaggi manipolati ancora più difficili da individuare. Algoritmi
avanzati consentono di apportare modifiche minime ma strategiche a testi o
immagini, eludendo così i sistemi di monitoraggio tradizionali. Questa capacità
di adattamento rappresenta una sfida continua per gli sviluppatori di strumenti
di contrasto, che devono aggiornarsi costantemente per stare al passo con le
nuove tecniche di manipolazione.
In definitiva, l’intelligenza artificiale, nella sua
capacità di generare contenuti altamente sofisticati, rappresenta un’arma a
doppio taglio nel panorama del MDHM. Se non regolamentata e utilizzata in modo
etico, rischia di accelerare la diffusione della disinformazione, minando
ulteriormente la fiducia pubblica nelle informazioni e destabilizzando la
società. È indispensabile affrontare questa minaccia con consapevolezza e
strumenti adeguati, combinando innovazione tecnologica e principi etici per
limitare gli effetti di questa pericolosa evoluzione.
Sfide e Opportunità
L’impiego
dell’intelligenza artificiale nella lotta contro il fenomeno del MDHM
rappresenta una delle frontiere più promettenti ma anche più complesse dell’era
digitale. Sebbene l’IA offra opportunità straordinarie per contrastare la
diffusione di informazioni dannose, essa pone anche sfide significative,
evidenziando la necessità di un approccio etico e strategico.
Le
Opportunità Offerte dall’IA
Tra
i vantaggi più rilevanti, spicca la capacità
dell’AI di analizzare dati in tempo reale. Grazie a questa caratteristica,
è possibile anticipare le campagne di disinformazione, identificandone i
segnali prima che si diffondano su larga scala. Questo permette di ridurre
l’impatto di tali fenomeni, intervenendo tempestivamente per arginare i danni.
Un
altro aspetto fondamentale è l’impiego di strumenti avanzati per certificare l’autenticità dei contenuti.
Tecnologie sviluppate da organizzazioni leader nel settore consentono di
verificare l’origine e l’integrità dei dati digitali, restituendo fiducia agli
utenti. In un contesto in cui la manipolazione visiva e testuale è sempre più
sofisticata, queste soluzioni rappresentano un baluardo essenziale contro il
caos informativo.
L’AI
contribuisce inoltre a snellire le attività di fact-checking.
L’automazione delle verifiche consente di ridurre il carico di lavoro umano,
velocizzando la risposta alla diffusione di contenuti falsi. Questo non solo
migliora l’efficienza, ma permette anche di concentrare le risorse umane su
casi particolarmente complessi o delicati.
Le
Sfide dell’AI nella Lotta al MDHM
Tuttavia,
le stesse tecnologie che offrono queste opportunità possono essere sfruttate
per scopi malevoli. Gli strumenti utilizzati per combattere la disinformazione
possono essere manipolati per aumentare la
sofisticazione degli attacchi, creando contenuti ancora più
difficili da rilevare. È un paradosso che sottolinea l’importanza di un
controllo rigoroso e di un uso responsabile di queste tecnologie.
La
difficoltà nel distinguere tra contenuti autentici e manipolati
rappresenta un’altra sfida cruciale. Man mano che le tecniche di
disinformazione evolvono, anche gli algoritmi devono essere costantemente
aggiornati per mantenere la loro efficacia. Questo richiede non solo
investimenti tecnologici, ma anche una collaborazione continua tra esperti di
diversi settori.
Infine,
è impossibile ignorare i bias insiti nei modelli di AI,
che possono portare a errori significativi. Algoritmi mal progettati o
addestrati su dataset non rappresentativi rischiano di rimuovere contenuti
legittimi o, al contrario, di non individuare alcune forme di disinformazione.
Questi errori non solo compromettono l’efficacia delle operazioni, ma possono
minare la fiducia nel sistema stesso.
Conclusione
L’intelligenza
artificiale è una risorsa strategica nella lotta contro misinformation, disinformation,
malinformation e hate speech, ma rappresenta anche una sfida complessa. La sua
ambivalenza come strumento di difesa e al contempo di attacco richiede un uso
consapevole e responsabile. Mentre da un lato offre soluzioni innovative per
rilevare e contrastare contenuti manipolati, dall’altro consente la creazione
di disinformazione sempre più sofisticata, amplificando il rischio per la
stabilità sociale e istituzionale.
Il
MDHM non è un fenomeno isolato o temporaneo, ma una minaccia sistemica che mina
le fondamenta della coesione sociale e della sicurezza globale. La sua
proliferazione alimenta un circolo vizioso in cui l’erosione della fiducia, la
polarizzazione sociale e le minacce alla sicurezza si rafforzano
reciprocamente. Quando la disinformazione contamina il flusso informativo, la
fiducia nelle istituzioni, nei media e persino nella scienza si sgretola.
Questo fenomeno non solo genera alienazione e incertezza, ma riduce la capacità
dei cittadini di partecipare attivamente alla vita democratica.
La
polarizzazione sociale, amplificata dalla manipolazione delle informazioni, è
un effetto diretto di questa dinamica. Narrativi divisivi e contenuti
polarizzanti, spinti da algoritmi che privilegiano l’engagement a scapito
dell’accuratezza, frammentano il tessuto sociale e rendono impossibile il
dialogo. In un clima di contrapposizione “noi contro loro”, le
divisioni politiche, culturali ed etniche si trasformano in barriere
insormontabili.
A
livello di sicurezza, il MDHM rappresenta una minaccia globale. Le campagne di
disinformazione orchestrate da stati o gruppi non statali destabilizzano intere
regioni, fomentano violenze e alimentano conflitti armati. L’uso del hate
speech come strumento di deumanizzazione ha dimostrato il suo potenziale
distruttivo in numerosi contesti, contribuendo a un clima di vulnerabilità
collettiva e individuale.
Affrontare
questa sfida richiede un approccio integrato che combini educazione, regolamentazione
e cooperazione globale.
Promuovere
l’educazione critica: l’alfabetizzazione mediatica deve essere
una priorità. Educare i cittadini a riconoscere e contrastare la
disinformazione è il primo passo per costruire una società resiliente.
Programmi educativi e campagne di sensibilizzazione devono dotare le persone
degli strumenti necessari per navigare nel complesso panorama informativo.
Rafforzare
la regolamentazione delle piattaforme digitali: le aziende
tecnologiche non possono più essere semplici spettatori. È indispensabile che
adottino standard chiari e trasparenti per la gestione dei contenuti dannosi,
garantendo al contempo il rispetto della libertà di espressione. Una
supervisione indipendente può assicurare l’equilibrio tra sicurezza e diritti
fondamentali.
Incentivare
la collaborazione globale: la natura transnazionale del MDHM
richiede una risposta coordinata. Governi, aziende private e organizzazioni
internazionali devono lavorare insieme per condividere risorse, sviluppare
tecnologie innovative e contrastare le campagne di disinformazione su scala
globale.
Solo
attraverso un’azione concertata sarà possibile mitigare gli effetti devastanti
del MDHM e costruire una società più resiliente e informata. Il futuro della
democrazia, della coesione sociale e della sicurezza dipende dalla capacità
collettiva di affrontare questa minaccia con determinazione, lungimiranza e
responsabilità.
Gaza Underground: la guerra sotterranea e urbana tra Israele-Hamas – il nuovo libro di C. Bertolotti
Storia, strategie, tattiche, guerra cognitiva e intelligenza artificiale
Nel cuore della terra, sotto il confine tra Israele e Gaza, si è sviluppata una guerra invisibile, tanto silenziosa quanto pericolosa. Questa è la storia della guerra sotterranea combattuta da Israele contro Hamas. La lotta contro l’uso strategico dei tunnel da parte del movimento islamista rappresenta un capitolo oscuro e complesso del conflitto israelo-palestinese, un fronte di battaglia che si è esteso ben al di là della vista e della percezione pubblica.
La dimensione sotterranea della nuova guerra
Mentre il mondo guarda le immagini di distruzione e ascolta i racconti di chi è colpito dalla violenza in superficie, pochi comprendono la portata e la complessità della guerra svolta nel ventre della terra: la dimensione sotterranea della nuova guerra. Ma i tunnel di Gaza non sono semplici passaggi sotterranei; sono arterie di un vasto organismo vivente, pulsante di armi, di strategie e di intenti terroristici. Sono la manifestazione fisica di un conflitto che ha abbracciato una nuova dimensione, quella sotterranea, dove il buio e il silenzio nascondono operazioni di infiltrazione, attacchi a sorpresa e tattiche di guerriglia.
Strategie e conseguenze della guerra invisibile
GAZA UNDERGROUND: la guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas, il nuovo libro di Claudio Bertolotti, esplora questa guerra nascosta, partendo dalle origini dell’utilizzo dei tunnel nella storia del conflitto israelo-palestinese, analizzando come Hamas li abbia trasformati in uno strumento chiave della propria strategia militare. Attraverso la ricerca d’archivio, documenti ufficiali, nonché testimonianze dirette, cercheremo di capire come Israele abbia risposto a questa minaccia, sviluppando tecnologie e tattiche per rilevare, distruggere o neutralizzare queste via di attacco nascoste.
La guerra sotterranea tra Israele e Hamas a Gaza è una lotta continua di ingegno, risorse e determinazione. È una dimostrazione di come il campo di battaglia si sia evoluto, richiedendo a entrambe le parti di adattarsi a nuove realtà. L’obbiettivo posto a premessa del nuovo libro di Claudio Bertolotti consiste nell’analizzare e comprendere le sfide, le strategie e le conseguenze di questa guerra invisibile, offrendo al lettore una comprensione più profonda di uno degli aspetti più inquietanti e meno conosciuti del conflitto israelo-palestinese, aprendo la prospettiva sui futuri scenari di guerra che, per ragioni demografiche, sociali, economiche e tecnologiche, vedranno le città e le loro dimensioni sotterranee assumere un ruolo sempre più determinante.
Polveriera Mediterraneo. Dall’Afghanistan all’Algeria, le nuove sfide per l’ordine mondiale. Presentazione del libro.
A Torino, il 14 settembre 2023 alle ore 17.30 avrà luogo il convegno di presentazione del libro, curato da Michela Mercuri e Alberto Gasparetto dal titolo: “Polveriera Mediterraneo. Dall’Afghanistan all’Algeria, le nuove sfide per l’ordine mondiale“
L’evento, ospitato dalla Regione Piemonte presso la Sala Conferenze del Palazzo della Regione Piemonte – Via Nizza, 330 Torino (Piano Terra), intende affrontare e analizzare in maniera quanto più approfondita – attraverso il contributo di importanti attori istituzionali ed esperti del settore pubblico e privato – le minacce, le criticità, ma anche le opportunità di un’area mediterranea che rimane instabile, sul piano politico, sociale, energetico, economico e delle relazioni internazionali.
Intervengono la curatrice Michela Mercuri (Professore Università di Padova), il co-autore Claudio Bertolotti (Direttore START InSight), Arturo Varvelli (Direttore ECFR), Stefano Mannino (Gen. C.A., C.te Scuola di Applicazione dell’Esercito). Apre i lavori l’assessore regionale Maurizio Marrone. Modera Valentina Ciappina (Direttore Torino Crime) .
Il contenuto del libro: dalla guerra d’Ucraina alla crisi del Mediterraneo
La guerra in Ucraina non ha zittito le armi in Nord Africa e nel Medio Oriente, un’area segnata da conflitti irrisolti, guerre per procura e rivolte che si estendono fino ai confini dell’Asia centrale. Il Mediterraneo è una polveriera pronta a esplodere. Le recenti proteste in Iran, la crisi che sta vivendo l’Afghanistan dopo il ritiro delle truppe americane, le ambizioni egemoniche turche, l’instabilità libica, il revanscismo jihadista in Nord Africa e la futura traiettoria di paesi “in bilico” come l’Algeria, l’Arabia Saudita e la Siria rappresentano alcune delle maggiori incognite per il futuro. Gli effetti di queste “bombe a orologeria” potrebbero riverberarsi sugli Stati vicini e sull’intero sistema internazionale, con esiti che potrebbero essere devastanti. Gli autori affrontano questi temi descrivendo realtà differenti ma interconnesse, riunendo i pezzi di quel grande puzzle che è la “polveriera Mediterraneo”.
Indice del volume e degli autori
Vittorio Emanuele Parsi, Prefazione Alberto Gasparetto,Michela Mercuri, Introduzione Claudio Bertolotti, La lezione afghana. Dalla “guerra più lunga” al nuovo terrorismo insurrezionale Giuseppe Acconcia, “Donna, vita, libertà”. I movimenti sociali in Iran e il revival nazionalista degli ayatollah Jessica Pulsone, Dall’identità religiosa all’identità nazionale: la rivoluzione nazionalista della “nuova” Arabia Saudita Mauro Primavera, La presidenza di Bashar al-Assad tra riformismo, ideologia e geopolitica Alberto Gasparetto, Il populismo nella politica estera dell’AK Parti. Fra autoritarismo, islamismo e nazionalismo Sara Senno, Il revival islamista nel panorama delle post-primavere arabe in Nord Africa Michela Mercuri, Lo stallo libico tra nazionalismo e tribalismo. Un’analisi alla luce dell’attuale crisi politica Caterina Roggero, La nuova Algeria nella rivista El Djeich (2020-2022)
#ReaCT2023, n. 4: Pubblicato il rapporto annuale sui radicalismi e i terrorismi in Europa
Il rapporto rappresenta la combinazione unica di rivista scientifica e volume collettivo, con contributi di vari autori, ricercatori e collaboratori che hanno dedicato il loro tempo, la loro esperienza e le loro conoscenze. Vorrei esprimere la mia gratitudine a tutti loro per il prezioso contributo e i loro sforzi instancabili. Voglio, altresì, ringraziare il Ministero della Difesa italiano per aver confermato la stima e la fiducia nell’Osservatorio che dirigo concedendo il patrocinio all’evento di presentazione del rapporto, e il prestigioso Centro Alti Studi per la Difesa per la disponibilità dimostrata. Gratitudine che si estende al Ministero dell’Interno italiano che, attraverso il contributo della Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione, ha permesso di completare il nostro sforzo per la comprensione e la definizione della contemporanea minaccia rappresentata dai radicalismi ideologici e dai terrorismi violenti.
Quali risultati ci consegna la ricerca dell’Osservatorio?
Negli ultimi tre anni, dal punto di vista quantitativo, la frequenza degli attacchi terroristici è rimasta lineare. L’Europa è classificata come la terza regione maggiormente colpita dai terrorismi, seguendo la Russia e l’Eurasia, e l’America centrale e i Caraibi. I Paesi dell’Unione europea, il Regno Unito e la Svizzera sono stati afflitti nel 2022 da 50 attacchi terroristici di varia natura, una significativa flessione rispetto ai 73 del 2021. Sul piano qualitativo, guardando in particolare al mai sopito dell’islamismo violento, il rapporto evidenzia la natura in continua evoluzione del jihadismo, che ha subito molteplici trasformazioni fin dalle sue origini in Afghanistan negli anni ’80, diffondendosi e radicalizzandosi. Al Qa’ida è stata l’incarnazione del movimento globalizzato e radicalizzato fino a quando il gruppo terroristico Stato islamico è emerso nel 2014, proponendo un approccio ancora più estremo. La sconfitta dello Stato islamico in Iraq e Siria nel 2017-18 ha segnato la prima sconfitta tangibile del movimento jihadista. I movimenti jihadisti nazionali, per lo più nutriti dai soggetti globali, sono ora di nuovo di moda, e la regione del Sahel il centro del jihadismo riemergente. Da Sud a Est, il rapporto evidenzia il pericolo del terrorismo jihadista nella regione balcanica, che rimane una minaccia per la sicurezza italiana ed europea. L’Italia ha attuato e confermato varie iniziative per contrastare questa minaccia, in particolare confermando il proprio impegno a livello di missioni internazionali di mantenimento della pace.
Il rapporto approfondisce poi il tema della minaccia dell’estremismo di destra, della disinformazione, delle teorie del complotto, del suprematismo bianco e del crescente fenomeno dell’anarco-insurrezionalismo.
Alla luce del mondo in continua evoluzione e del conflitto che ora ha raggiunto l’Europa, è essenziale adattare i nostri paradigmi interpretativi della minaccia e mettere in discussione la definizione di terrorismo, l’approccio al contrasto al processo di radicalizzazione e la ricollocazione del terrorismo stesso nel nuovo scenario di conflitto.
Inoltre, in un quadro sempre più complesso e dinamico, la gestione delle crisi nel XXI secolo presenta sfide uniche a causa del contesto interconnesso e interdipendente, rendendo difficile la previsione. Il rapporto #ReaCT2023 ha dato ampio spazio anche a questo aspetto.
Infine, abbiamo voluto porre l’attenzione sulla recente pubblicazione del progetto di ricerca spagnolo sul contrasto al terrorismo internazionale all’interno delle fonti criminali multilivello e sull’analisi critica delle questioni di diritto penitenziario, giurisprudenza e pratica applicata alle sentenze per gli autori di atti terroristici. Il progetto di ricerca qui illustrato offre proposte costruttive per combinare le sfide poste da questo fenomeno criminale con la garanzia dei diritti umani fondamentali ed esplora il potenziale della giustizia riparativa.
In conclusione, il contributo di quest’anno è una testimonianza della forza e della dedizione della nostra comunità di studiosi e operatori nella lotta in corso contro i radicalismi e i terrorismi. Auspico che le idee contenute in questo rapporto contribuiscano a una migliore comprensione dell’evoluzione della minaccia dei terrorismi in Europa e servano come appello all’azione per tutti i soggetti interessati a lavorare insieme per prevenire e contrastare l’estremismo violento.
Grazie a tutti gli Autori che, con il loro encomiabile lavoro, hanno contribuito ancora una volta alla realizzazione di #ReaCT2023. Un ringraziamento speciale per il sostegno va anche alla Chapman University con sede ad Orange, California,all’Università della Svizzera Italiana – USI a Lugano e alla Piattaforma cantonale di prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo violento (Repubblica e Cantone Ticino). Infine, come sempre, a START InSight, che ha consentito la pubblicazione e la distribuzione internazionale del nostro rapporto annuale.
di Ahmed Ajil, Università di Losanna (Svizzera) – Ricercatore, Criminologo
Una panoramica dei casi di cui si è occupato il Tribunale Penale Federale svizzero dall’11 settembre
Nonostante la Svizzera non abbia subito attacchi su vasta
scala come quelli che hanno colpito altre nazioni europee nell’ultimo decennio,
il fenomeno della violenza politico-ideologica di matrice jihadista è tuttavia
presente. Nel dicembre del 2021, i servizi di intelligence della Confederazione contavano 41 individui cosiddetti “a rischio” ritenuti cioè
“una minaccia prioritaria per la sicurezza interna ed esterna della Svizzera”.
Nel contesto del “monitoraggio della jihad”, (dal 2012 ad oggi) hanno anche
identificato 714 persone attive in rete che simpatizzano/simpatizzavano per
organizzazioni terroriste jihadiste distribuendo materiale di propaganda o
intrattenendosi con altri che difendono l’ideologia di questi gruppi. Dall’11
settembre 2001, 91 individui hanno lasciato la Svizzera per unirsi a
un’organizzazione terrorista in Afghanistan, Pakistan, Yemen, Somalia, Siria o
Iraq. Alcuni sono tornati mentre altri,
attualmente detenuti dalle forze curde in Siria, cercano attivamente di essere
rimpatriati, cosa che il Consiglio Federale rifiuta di fare.
Fra i vari modi a disposizione per contrastare il fenomeno terrorista,
il ricorso al diritto penale costituisce il più ovvio. Nel suo rapporto
annuale del 2020, il Ministero Pubblico della Confederazione riportava
35 inchieste pendenti per terrorismo nel 2016, 34 nel 2017, 30 nel 2018, 31 nel
2019 e 26 nel 2020. In questo breve contributo, vorrei presentare alcune
conclusioni da un progetto di ricerca sulla repressione del terrorismo da parte
del Tribunale Penale Federale (TPF), condotta insieme al collega Kastriot
Lubishtani e i cui risultati sono in parte stati pubblicati su Jusletter del 31
maggio 2021.
Il Tribunale Penale
Federale (TPF), operativo dal 2004, è l’autorità giudiziaria incaricata di
emettere le condanne per i reati legati al terrorismo. I pochi procedimenti
penali aperti dalle autorità cantonali vengono presi in
carico dal Ministero Pubblico
della Confederazione (MPC) e portati a processo
davanti al TPF, ad eccezione di quelli che coinvolgono minori. L’analisi delle tendenze in ambito di giudizio,
ci permette di avere una visione approfondita dei casi più seri che superano tutti
gli stadi del cosiddetto “imbuto penale”. A questo
punto, è utile specificare che l’MPC può anche condannare autonomamente degli individui, fintanto che la sentenza non supera i sei mesi di
privazione della libertà. L’MPC utilizza spesso questa opzione, ma poiché
questi verdetti non sono di principio accessibili al pubblico, qui non ne
teniamo conto.
Da un punto di vista giuridico, ci sono principalmente due disposizioni
che vengono applicate in caso di reati di natura terroristica. Una è
rappresentata dall’articolo 260ter del Codice Penale Svizzero, che criminalizza il sostegno e la
partecipazione a organizzazioni criminali (una definizione che include i gruppi
terroristici). L’altra, è la Legge Federale che vieta le organizzazioni Stato Islamico,al-Qa’ida e gruppi
affini (in breve: legge IS/AQ), che è entrata in vigore il 1° gennaio del 2015.
Per la nostra ricerca abbiamo raccolto tutte le sentenze collegate a
queste due disposizioni e in seguito selezionato unicamente quelle relative al
terrorismo. L’unica forma di terrorismo con la quale il TPF si è confrontato a
partire dal 2004, è quella di ispirazione jihadista. Dalla pubblicazione del
nostro articolo nel maggio 2021, hanno avuto luogo due ulteriori udienze che si
sono concluse con la condanna di tre individui in totale, di cui si dà conto in
questo contributo.
I numeri
Dal 2004 fino al novembre 2021, il
TPF si è occupato di un totale di 17 procedimenti penali legati al terrorismo
jihadista. La maggior parte di questi, ha avuto luogo dopo lo scoppio della
guerra civile siriana e la conseguente espansione territoriale del gruppo Stato islamico che ha
raggiunto il suo picco nel giugno del 2014. In effetti, nel periodo fra il 2004
e il 2014, sono stati condotti tre procedimenti con l’incriminazione formale di
undici persone mentre altri 14 procedimenti e 21 persone sono state portate
davanti al TPF fra il 2014 e il 2020. La lingua dei procedimenti è stata il
tedesco in dodici dei casi trattati a Bellinzona (sede del TPF), mentre
il francese è stato utilizzato in tre casi e l’italiano in due occasioni.
Questi procedimenti sono relativamente complessi, ciò che si
riflette tanto nella durata dell’iter pre-processuale che nei costi. Fra l’avvio dei procedimenti penali
contro un/a sospettato/a e la sua effettiva incriminazione sono trascorsi, in
media, 882 giorni, vale a dire quasi due anni e mezzo. I costi diretti generati
dall’inchiesta, dalla difesa e dalle udienze sono arrivati a ragginugere gli
800.000 CHF per un singolo caso.
Nel contesto dei 17 procedimenti, davanti al TPF
sono apparsi 32 individui in totale. Ciò significa che in diversi casi –
precisamente in sette – erano coinvolte più persone. Nello
specifico, quattro
procedimenti hanno coinvolto due persone, mentre i restanti tre procedimenti hanno
coinvolto rispettivamente tre persone, quattro persone e infine sette persone. In ognuno
dei restanti dieci procedimenti, è stata incriminata un’unica persona.
La stragrande
maggioranza dei casi di terrorismo approdati al TPF ha portato a condanne. In totale, sono stati condannati 30 individui
mentre due persone sono state assolte da tutte le accuse. Fino al 20 novembre
2021, si registravano 21 sentenze definitive ed esecutive. Su 30 persone, sei
alla fine non sono state condannate per reati legati al terrorismo. Di
conseguenza, ad oggi, sono state emesse 24 condanne per reati legati al
terrorismo, di cui quindici definitive e nove pendenti.
Chi sono i terroristi svizzeri?
30 imputati erano uomini, mentre una donna è comparsa come co-imputata e
una seconda come imputata principale. Dodici degli accusati erano cittadini
svizzeri, sette dei quali con la doppia cittadinanza. Fra questi, una cittadino
svizzero-turco si è visto revocare la cittadinanza, per decisione confermata
dal Tribunale Amministrativo Federale nel 2021. Nove imputati avevano un
permesso di soggiorno. Dieci erano richiedenti l’asilo; di questi, sette con
una richiesta pendente e tre ammessi provvisoriamente. Una imputata non aveva
mai vissuto in Svizzera ma si trovava nel paese al momento del suo arresto.
L’ampia maggioranza, più precisamente 26 persone, non avevano precedenti
penali, fatto che solleva dei dubbi sulla pertinenza del cosiddetto “crime-terror
nexus” per ciò che riguarda il contesto svizzero. Gli altri sei individui erano
stati condannati per vari reati: tre per infrazioni al codice della strada, uno
per infrazioni alla legge sulle armi, e un altro per violazione degli obblighi
di mantenimento. Infine, un imputato era stato condannato in diverse occasioni
per ingresso illegale, minacce e coercizione.
Al momento della sentenza, 19 imputati erano disoccupati e dipendevano
dall’assistenza sociale; cinque imputati non avevano un reddito imponibile ed
erano indebitati; tre imputati avevano un lavoro e un salario mensile. Infine,
le condizioni economiche dei restanti cinque imputati sono sconosciute. Queste
osservazioni dimostrano la validità dell’ipotesi della “biographical
availability” secondo la quale una mancanza di “struttura” e occupazione potrebbe facilitare il
coinvolgimento in attività ad alto rischio o illegali.
Su 30 condannati (21 sentenze
definitive e nove pendenti), in 25 casi sono state comminate delle pene
detentive, oltre a ulteriori pene pecuniarie in quattro di questi casi. Nove
delle pene detentive erano sospese ; altre sei erano sospese parzialmente. Ciò
significa che sono state comminate dieci pene detentive senza la condizionale.
In cinque casi, il TPF ha comminato unicamente pene pecuniarie, di cui due
sospese. .
La sentenza più mite è stata una pena pecuniaria sospesa di 100 CHF al
giorno per 25 giorni. La condanna più severa è stata una sentenza di custodia
di 70 mesi, abbinata a un divieto di ingresso nel paese della durata di
quindici anni.
Cosa sono le
“attività terroristiche” nel contesto svizzero?
Riguardo la natura dei crimini, si può notare che
dal 2001 su suolo svizzero non sono stati commessi -né quindi portati davanti
al TPF- atti di violenza terroristica (le inchieste sugli attacchi di Morges e
Lugano avvenuti nel 2020 sono ancora aperte).
Se ci focalizziamo sulle 24 condanne per reati
legati al terrorismo (sei condanne erano infine non legate al terrorismo), si
nota che gli atti perseguiti in relazione al terrorismo di matrice jihadista
erano principalmente legati ad attività sulle piattaforme Internet. Due
procedimenti che hanno coinvolto un totale di quattro persone concernevano la
gestione di siti internet contenenti materiale di propaganda come immagini e
video, oltre a commenti che glorificavano i leaders delle principali
organizzazioni terroristiche come Osama Bin Laden. Tre persone sono state
recentemente condannate in relazione alla produzione di un’intervista filmata
con un ribelle jihadista nel conflitto siriano, Abdullah al-Muhaysini. Per
sette delle persone condannate, le accuse erano limitate esclusivamente ad
attività sui social media come Facebook, YouTube e app di messaggistica come WhatsApp e Telegram, che consistevano nella spedizione e/o condivisione di video, immagini
e commenti, e in un caso, la traduzione di comunicazioni mediatiche di un
gruppo jihadista.
In alcuni casi, l’attività ha avuto luogo
principalmente nell’ambito digitale, ma gli individui sono stati condannati in
qualità di membri di una rete. Nel caso della condanna di tre uomini, il caso è
stato aperto per sospetti riguardo un potenziale attacco, ma alla fine, sono
stati solo condannati per le loro attività sui social network. In un caso, l’unico imputato è stato
condannato per avere mantenuto contatti con persone all’estero, affiliate a
organizzazioni terroristiche, ma anche per aver incoraggiato un’altra persona
in Libano a portare avanti un attacco contro Hizbullah oppure l’esercito americano.
Gli atti più “fisici” sono consistiti in tentativi di recarsi
in aree di conflitto o attività legate ai combattimenti all’estero. Quattro persone
sono state incriminate per aver cercato di raggiungere il territorio
siro-iracheno per unirsi allo Stato Islamico, uno
per aver aderito a un gruppo armato in Siria e aver reclutato altri, e un altro
per proselitismo in Svizzera e aver fornito sostegno logistico a foreign fighter in Turchia.
In
conclusione, risulta che sui 24 individui condannati dal TPF per reati legati
al terrorismo, 18 erano coinvolti esclusivamente o in prevalenza, in attività
digitali, mentre 6 si sono mobilitati fisicamente per fornire sostegno a gruppi
terroristici. È importante notare che nonostante questi ultimi fossero “fisicamente” più coinvolti
di altri, le loro attività contemporanee sui social media e sulle app di
messaggistica hanno avuto una rilevanza essenziale per la loro condanna.
La rete si allarga
gradualmente
Dal punto di vista giuridico, gli individui sono
stati condannati principalmente per il loro supporto a organizzazioni criminali
o gruppi affiliati allo Stato
Islamico e al-Qa’ida. Solo tre persone sono state condannate per la partecipazione a un
gruppo terroristico. Ciò può essere spiegato in due modi: da un lato, è
difficile dimostrare l’appartenenza e la partecipazione a reti e gruppi
vagamente organizzati come quelli che caratterizzano il fenomeno jihadista dopo
l’11 settembre. D’altro lato, dall’analisi dei casi in questione emerge
chiaramente che, paragonata alla definizione piuttosto ristretta di “appartenenza” , la nozione
di “sostegno” è molto ampia e in pratica è arrivata a indicare una qualsiasi attività
che si ritiene mettere in buona luce un’organizzazione terroristica. Per
esempio, un individuo è stato in parte condannato per aver postato su Facebook un’immagine
di un ospedale funzionante in un’area controllata dallo Stato islamico, per
mostrare che le infrastrutture non erano state tutte danneggiate durante il
regno del gruppo terroristico. In un altro caso, un individuo è stato
condannato per aver mandato tre immagini di propaganda via Whatsapp a un’altra
persona. Non sorprende quindi che la maggior parte dei casi abbia portato a
condanne per la nozione piuttosto approssimativa del termine “sostegno”.
L’evoluzione del dispositivo anti-terrorismo
della Svizzera fa parte di una tendenza più generalizzata, che ha preso piede dopo
gli attacchi dell’11 settembre, che mira ad anticipare l’applicabilità del
quadro giuridico penale a un contesto pre-delittuoso (“pre-criminal“), allargando
in questo modo la rete penale in cui ricadono le azioni ritenute attività
legate al terrorismo.
Ciò è comprensibile da una prospettiva politica,
ma presenta un certo numero di sfide da una prospettiva giuridica ed etica. Di
fatto, la svolta preventiva delle leggi anti-terrorismo della Svizzera e il
modo un cui vengono applicate porta le autorità ad indagare e condannare azioni
sempre più slegate dagli atti violenti veri e propri che si vogliono prevenire.
In una sfera pre-delittuosa (“pre-criminal“) sempre più
ampia, è impossibile coprire la totalità gli atti perseguibili ed è più
probabile che si manifesti una disparità di trattamento. Questi sono aspetti di
cui tenere conto, quando si pensa a come rafforzare ed espandere in futuro gli sforzi anti-terrorismo in Svizzera.
Terrorismo in Europa: minaccia lineare in evoluzione e partecipazione individuale
Lo Stato islamico non ha
più la forza di inviare terroristi sul suolo europeo perché si è vista azzerare
la propria effettiva capacità operativa in conseguenza della perdita di
territorio, di una rilevante consistenza finanziaria e di reclute. Tuttavia, la
minaccia rimane significativa anche attraverso la presenza e l’azione di attori
isolati, spesso improvvisati e spinti dall’emulazione e senza un legame diretto
con l’organizzazione.
Mentre il gruppo dello Stato
Islamico continua a imporsi su un piano ideologico come la principale
minaccia jihadista, è però improbabile che sia in grado di riproporre il
travolgente richiamo che ebbe il “califfato” nel periodo 2014-2017, poiché
ha perso il vantaggio della novità, e di conseguenza l’appeal, che ne
rappresentava il punto di forza, in particolare nei confronti dei più giovani.
Inoltre, sia dal punto di vista legislativo che da quello operativo, l’Europa
ha saputo ridurre in maniera rilevante le proprie vulnerabilità, sebbene vi
siano maggiori risultati più in termini di contrasto al terrorismo che di
prevenzione. Permangono, nel complesso segnali di incertezza legate agli
effetti emulativi e alla “chiamata alla guerra” connessa a eventi sul
piano internazionale in grado di indurre singoli soggetti ad agire in nome del jihad:
l’evento più importante nel 2021, che ha dato e continuerà a dare un impulso agli
effetti del jihad transnazionale è la vittoria dei talebani in Afghanistan che,
da un lato tende ad alimentare la variegata propaganda jihadista attraverso il
messaggio della “vittoria come risultato della lotta continua” e, dall’altro
lato, da vita a una forma di competizione dei “jihad” tra gruppi impegnati in
forme di lotta e resistenza esclusivamente locali e chi, come lo Stato
islamico, recepisce e propone il jihad esclusivamente come strumento
di lotta a oltranza a livello globale.
In tale quadro complessivo e in
continua evoluzione, dobbiamo prestare attenzione alla crescente forza
estremista in alcune parti dell’Africa, in particolare le aree dell’Africa
sub-sahariana, il Sahel, il Corno d’Africa e, ancora, il Ruanda e il Mozambico,
al fine di contrastare l’emergere in questo continente di nuovi
“califfati” o “willayat” che potrebbero minacciare
direttamente l’Europa.
Nella prolifica propaganda jihadista,
lo Stato Islamico si vanta della propria diffusione nel continente
africano e pone in evidenza come l’obiettivo di contrastare la presenza e la diffusione
del cristianesimo porterà il gruppo a espandersi in altre aree del continente. Se
altrove, come nel Maghreb, nel Mashreq e in Afghanistan l’attività dello Stato
islamico è incentrata sulla lotta settaria intra-musulmana, in Africa la
sua presenza si impone come parte di un conflitto tra musulmani e cristiani,
rafforzata da una propaganda che insiste sulla necessità di fermare la
conversione dei musulmani al cristianesimo attuata attraverso i “missionari” e
“il pretesto” degli aiuti umanitari. In tale quadro si inseriscono le
violenze, i rapimenti e le uccisioni di religiosi missionari, attacchi contro
le Ong e le missioni internazionali, dal Burkina Faso al Congo e, ancora, gli
attacchi agli abitanti dei villaggi cristiani in particolare in occasione delle
festività di Natale e Capodanno.
Scendono i numeri, ma permane
la minaccia del terrorismo
Analizzando gli ultimi tre anni, l’incidenza degli attacchi terroristici mostra una tendenza stabile dal punto di vista quantitativo. Tra il 2017 e il 2020, nell’Unione Europea, nel Regno Unito e in Svizzera, sono stati riportati 457 attacchi, inclusi quelli falliti e sventati, rispetto ai 895 registrati nel periodo 2014-2017.
Nel 2020, si sono verificati 119 attacchi, dei quali 62 nel Regno Unito e 2 in Svizzera. Secondo il rapporto Europol (TeSat 2020), il 43% di questi atti è attribuibile a movimenti della sinistra radicale (che sono passati da 26 a 25), il 24% a gruppi separatisti ed etno-nazionalisti, il 7% a formazioni di estrema destra (che hanno visto un aumento percentuale ma una diminuzione in termini assoluti rispetto al 2019), mentre il 26% sono azioni riconducibili al jihadismo. Sebbene gli attacchi jihadisti rappresentino una parte relativamente piccola del totale delle azioni violente, si confermano i più pericolosi per numero di vittime e impatto, con un calo da 16 vittime nel 2020 a 13 nel 2021, sottolineando la persistente minaccia del terrorismo jihadista in termini di conseguenze dirette.
Dal 2014 al 2021, si sono verificati 165 attacchi terroristici in Europa legati al jihad, in seguito ai principali eventi attribuiti al gruppo Stato Islamico. Di questi, 34 sono stati rivendicati ufficialmente dallo Stato Islamico. In tali attacchi, hanno preso parte 219 terroristi, di cui 63 sono morti durante l’azione. Il bilancio delle vittime è stato di 434 morti e 2.473 feriti, secondo i dati del database START InSight.
Nel 2021 si sono verificati 18 eventi, registrando una leggera diminuzione rispetto ai 25 attacchi dell’anno precedente. Tuttavia, si è osservato un aumento delle azioni di tipo “emulativo”, ovvero atti ispirati da attacchi recenti: la percentuale di tali azioni è passata dal 48% nel 2020 al 56% nel 2021 (rispetto al 21% nel 2019). Il 2021 ha inoltre confermato la predominanza di attacchi individuali, spesso non pianificati e destinati al fallimento, che hanno progressivamente sostituito le azioni strutturate e coordinate, tipiche del contesto urbano europeo tra il 2015 e il 2017.
L’anagrafica
dei terroristi “europei”
L’adesione all’azione terroristica continua a confermarsi
come scelta esclusivamente maschile: su 207 attentatori il 97% sono maschi (7 le donne); contrariamente al 2020,
quando 3 donne presero parte ad attacchi terroristici, il 2021 non ha
registrato la partecipazione diretta di attentatrici.
I 207 terroristi (uomini e donne) hanno un’età mediana di
26 anni: un dato che varia nel corso del tempo (dai 24 nel 2016, ai 30 nel
2019). I dati anagrafici di 169 soggetti di cui si hanno
informazioni complete hanno consentito di definire un quadro molto interessante
da cui si evince che il 10% è di età inferiore ai 19 anni, il 36% ha un’età
compresa tra i 19 e i 26, il 39% tra i 27 e i 35 e, infine, il 15% è di età
superiore ai 35 anni.
L’88% degli attacchi, per i quali disponiamo di informazioni dettagliate, sono stati eseguiti da persone appartenenti a seconde e terze generazioni di immigrati, nonché da immigrati di prima generazione, sia con status regolare che irregolare.
Secondo l’analisi condotta su 154 dei 207 terroristi presenti nel database START InSight, il 45% sono immigrati regolari, mentre il 24% appartiene a discendenti di immigrati di seconda o terza generazione. Gli immigrati irregolari costituiscono il 19% del totale, un dato in crescita che è salito al 25% nel 2020 e ha raggiunto il 50% nel 2021. Inoltre, è rilevante la presenza di un 8% di cittadini europei convertiti all’Islam. Complessivamente, il 77% dei terroristi risiedono regolarmente in Europa, mentre gli immigrati irregolari rappresentano circa 1 su 6 dei terroristi. In un 4% dei casi, tra gli attaccanti sono stati identificati bambini o minori (7 in totale).
La mappa etno-nazionale del terrorismo in Europa
Il fenomeno della radicalizzazione jihadista in Europa colpisce in modo più marcato alcuni gruppi nazionali ed etnici. Esiste una correlazione tra le principali comunità di immigrati e la provenienza dei terroristi, come indicato dalle nazionalità dei terroristi o delle loro famiglie di origine, che rispecchiano la composizione delle comunità straniere in Europa. In particolare, prevale l’origine maghrebina: i gruppi etno-nazionali più coinvolti nella radicalizzazione jihadista sono quelli di origine marocchina (in Francia, Belgio, Spagna e Italia) e algerina (in Francia).
Stabili i recidivi e i soggetti già noti
all’intelligence
Significativo è il ruolo dei recidivi, ossia individui già condannati per terrorismo che compiono nuove azioni violente al termine della loro pena detentiva e, in alcuni casi, anche durante la detenzione. La loro incidenza è aumentata dal 3% del totale dei terroristi nel 2018 (1 caso) al 7% nel 2019 (2 casi), raggiungendo il 27% nel 2020 (6 casi), con un singolo caso registrato nel 2021. Questo andamento evidenzia la pericolosità sociale di tali soggetti, i quali, nonostante una condanna, tendono a rimandare la realizzazione di atti terroristici, suggerendo un aumento della probabilità di nuovi atti terroristici nei prossimi anni, man mano che termineranno le pene detentive della maggior parte dei terroristi attualmente in carcere.
Oltre ai recidivi, START InSight ha evidenziato una tendenza rilevante riguardo alle azioni terroristiche perpetrate da individui già conosciuti dalle forze dell’ordine o dai servizi di intelligence europei: questi soggetti hanno rappresentato il 44% e il 54% del totale degli attacchi rispettivamente nel 2021 e nel 2020, rispetto al 10% nel 2019 e al 17% nel 2018.
Nel 2021, la partecipazione ad azioni terroristiche da parte di individui con precedenti detentivi (anche per reati non legati al terrorismo) ha mantenuto una certa stabilità, con un 23% di coinvolgimento, un dato leggermente in calo rispetto al 2020 (33%), ma in linea con i livelli del 2019 (23%), del 2018 (28%) e del 2017 (12%). Questo trend continua a supportare l’idea che le carceri possano essere ambienti propizi alla radicalizzazione e all’adesione al terrorismo.
Si riduce la capacità offensiva
del terrorismo?
Per avere una visione accurata del fenomeno terroristico, è fondamentale analizzarlo su tre livelli distinti: strategico, operativo e tattico. La strategia riguarda l’utilizzo delle operazioni belliche per raggiungere gli obiettivi della guerra; la tattica si riferisce all’impiego delle forze in campo per vincere le battaglie; mentre il livello operativo si colloca a metà strada tra questi due aspetti. Questa sintesi, pur essendo semplice, mette in evidenza un elemento cruciale: l’impiego delle risorse umane.
Il successo a livello
strategico è marginale
Il 16% delle azioni ha ottenuto un successo a livello strategico, ossia ha avuto conseguenze strutturali: blocco del traffico aereo/ferroviario nazionale e/o internazionale, mobilitazione delle forze armate, interventi legislativi di ampia portata. Un dato molto elevato considerando il limitato sforzo organizzativo e finanziario da parte dei gruppi, o dei singoli attaccanti. L’andamento nel corso degli anni è stato discontinuo, ma ha messo in evidenza una progressiva riduzione di capacità ed efficacia: 75% di successo strategico nel 2014, 42% nel 2015, 17% nel 2016, 28% nel 2017, 4% nel 2018, 5% nel 2019, 12% nel 2020 e 6% nel 2021. Nel computo dei risultati strategici, gli attacchi hanno ottenuto l’attenzione dei media internazionali nell’79% dei casi, il 95% a livello nazionale, mentre le azioni organizzate e strutturate dei commando e dei team-raid hanno ottenuto la totale attenzione mediatica. Un evidente, quanto ricercato, successo mediatico che può aver influito sensibilmente sulla campagna di reclutamento di aspiranti martiri o combattenti del jihad, la cui entità numerica rimane elevata in corrispondenza della maggiore intensità di azioni terroristiche (2016-2017). Ma se è vero che l’amplificazione massmediatica ha effetti positivi sull’azione di reclutamento, è anche vero che tale attenzione tende a ridursi col tempo a causa di due ragioni principali: la prima è la prevalenza di azioni a bassa intensità in rapporto a quelle ad alta – in diminuzione – e quelle a bassa e media intensità – in sensibile aumento dal 2017 al 2021. La seconda è l’assuefazione di un’opinione pubblica emotivamente sempre meno toccata dalla violenza del terrorismo, in particolare dagli eventi a “bassa” e “media intensità”.
Il 16% degli attacchi terroristici ha avuto un impatto strategico significativo, provocando conseguenze di ampia portata come il blocco dei trasporti aerei o ferroviari a livello nazionale e internazionale, la mobilitazione delle forze armate o l’introduzione di importanti interventi legislativi. Questo risultato è notevole, soprattutto considerando il limitato sforzo organizzativo e finanziario impiegato dai gruppi o dagli individui coinvolti. Tuttavia, nel tempo, si è registrata una riduzione nella capacità e nell’efficacia strategica di tali attacchi: il successo strategico è passato dal 75% nel 2014 al 42% nel 2015, al 17% nel 2016, al 28% nel 2017, scendendo ulteriormente al 4% nel 2018, al 5% nel 2019, al 12% nel 2020 e al 6% nel 2021
Per quanto riguarda l’impatto mediatico, il 79% degli attacchi ha catturato l’attenzione della stampa internazionale, mentre il 95% ha ricevuto copertura dai media nazionali. Le azioni più organizzate e strutturate, come quelle effettuate da commando o team-raid, hanno ottenuto la massima visibilità mediatica. Questo ampio risalto sui media ha probabilmente influito in modo significativo sulla campagna di reclutamento di nuovi combattenti o aspiranti martiri per il jihad, con un picco di adesioni nei periodi di maggiore intensità degli attacchi, in particolare tra il 2016 e il 2017.
Tuttavia, nonostante la visibilità mediatica abbia favorito il reclutamento, questa attenzione tende a diminuire nel tempo per due motivi principali. In primo luogo, c’è stato un aumento significativo delle azioni a bassa e media intensità dal 2017 al 2021, mentre quelle ad alta intensità sono in calo. In secondo luogo, il pubblico sta diventando sempre più assuefatto alla violenza terroristica, risultando meno emotivamente coinvolto, soprattutto in risposta agli eventi di “bassa” e “media intensità”.
Il livello tattico preoccupa, ma non è la priorità del
terrorismo
Partendo dal presupposto che il fine delle azioni sia di provocare la morte del nemico (nel 35% dei casi gli obiettivi sono le forze di sicurezza), tale obiettivo viene raggiunto nel periodo 2004-2021 in media nel 50% dei casi. È però opportuno tenere in considerazione che l’ampio periodo di tempo tende a influire in maniera significativa sul margine di errore; l’evoluzione dell’ultimo periodo preso in esame, 2014-2021, mostrerebbe infatti una tendenza al peggioramento negli effetti ricercati dai terroristi con una prevalenza di attacchi a bassa intensità e un aumento di azioni dall’esito fallimentare, almeno fino al 2019. I risultati degli ultimi sei anni, in particolare, mostrerebbero come il successo a livello tattico sia stato ottenuto, nel 2016, nel 31% dei casi a fronte di un 6% di atti formalmente fallimentari, mentre il 2017 si è stabilizzato su una percentuale di successo del 40% e di fallimento del 20%. Un andamento complessivo che, passando dal 33% di successo a livello tattico e un raddoppio degli attacchi fallimentari (42%) nel 2018 e consegnandoci un dato ulteriormente al ribasso del 25% di successo nel 2019, può essere letto come il duplice effetto della progressiva diminuzione della capacità operativa dei terroristi e dell’accresciuta reattività delle forze di sicurezza europee. Ma se l’analisi suggerisce una capacità tecnica che si è effettivamente ridotta, è altresì vero che l’improvvisazione e l’imprevedibilità del nuovo terrorismo individuale ed emulativo ha fatto registrare un nuovo aumento delle azioni di successo, passate dal 32% nel 2020 e al 44% nel 2021.
Negli ultimi sei anni, i dati indicano che nel 2016 il successo tattico è stato ottenuto nel 31% dei casi, mentre il tasso di fallimento si attestava al 6%. Nel 2017, il tasso di successo è aumentato al 40%, accompagnato però da un incremento dei fallimenti, che ha raggiunto il 20%. Nel 2018, si è osservato un 33% di successo tattico, ma con un raddoppio degli attacchi falliti al 42%, seguito da un ulteriore calo del successo al 25% nel 2019. Queste tendenze possono essere interpretate come il risultato di una riduzione della capacità operativa dei terroristi, combinata con una maggiore efficacia delle forze di sicurezza europee.
Nonostante l’analisi indichi una diminuzione della capacità tecnica dei terroristi, è evidente che l’improvvisazione e l’imprevedibilità del nuovo terrorismo individuale ed emulativo hanno determinato un incremento delle azioni riuscite, passando dal 32% nel 2020 al 44% nel 2021.
Il vero successo è a livello operativo: il “blocco
funzionale”
Anche quando un attacco terroristico risulta fallimentare, riesce comunque a conseguire effetti significativi, come l’impegno straordinario delle forze armate e di polizia, distogliendole dalle normali attività di routine o impedendo loro di intervenire per il bene della collettività. Inoltre, può causare l’interruzione o il sovraccarico dei servizi sanitari, limitare, rallentare, deviare o fermare la mobilità urbana, aerea e navale, e ostacolare il normale svolgimento delle attività quotidiane, commerciali e professionali, con conseguenti danni alle comunità colpite. Questi attacchi riducono inoltre il vantaggio tecnologico e il potenziale operativo, così come la capacità di resilienza delle società colpite. Infine, indipendentemente dalla presenza di vittime, gli attacchi terroristici infliggono danni diretti e indiretti e, coerentemente, la restrizione delle libertà dei cittadini rappresenta un risultato tangibile che il terrorismo consegue attraverso le proprie azioni.
In altre parole, il terrorismo ottiene successo anche senza causare vittime, poiché riesce a imporre costi economici e sociali alla collettività e a influenzarne i comportamenti nel tempo. Questo avviene attraverso le misure di sicurezza o le restrizioni imposte dalle autorità politiche e di pubblica sicurezza per proteggere la popolazione. Questo effetto viene definito come “blocco funzionale”.
Nonostante la capacità operativa del terrorismo sia in costante diminuzione, il “blocco funzionale” rimane il risultato più significativo ottenuto dai terroristi, a prescindere dal successo tattico, ovvero dall’uccisione di almeno un bersaglio.
Nonostante un successo tattico rilevato nel 34% degli attacchi dal 2004 a oggi, il terrorismo ha dimostrato una notevole efficacia nel raggiungere il “blocco funzionale”, ottenuto in media nell’82% dei casi. Questo dato è salito al 92% nel 2020 e all’89% nel 2021. Considerando le risorse limitate impiegate dai terroristi, questi risultati evidenziano un impressionante rapporto costo-beneficio a favore delle loro operazioni.
#ReaCT2022: il 3° Rapporto sul terrorismo e il radicalismo in Europa. Online il 24 febbraio
Disponibile dal 24 febbraio, in italiano e inglese, su osservatorioreact.it e su startinsight.eu (link diretto): presentazione, in collaborazione con Formiche.net, giovedì 24 febbraio 2022 sul canale web di Formiche.
È disponibile dal 24 febbraio in formato digitale e cartaceo #ReaCT2022 – La Rivista, il 3° Rapporto sul terrorismo e il radicalismo in Europa, che offre al lettore uno studio sulla sua evoluzione, le sue tendenze ed effetti, attraverso un approccio quantitativo, qualitativo e comparativo. Curato dall’Osservatorio ReaCT, il documento è composto da 15 contributi d’analisi su jihadismo e altre forme di estremismo violento che caratterizzano il panorama attuale e che durante la pandemia hanno acquisito ulteriore forza e visibilità, proponendo nel contempo casi studio, prospettive e riflessioni volte a portare un contributo concreto e a intavolare un dialogo continuativo con tutte quelle realtà -accademiche e istituzionali- che si occupano della questione e delle sue problematiche pratiche. #ReaCT2022 vuole essere uno strumento utile messo a disposizione di operatori per la sicurezza, sociali ed istituzionali, di giornalisti, studenti e del più ampio pubblico.
I numeri del terrorismo
jihadista. Come ogni anno, il Rapporto si apre con la fotografia aggiornata del
terrorismo di matrice jihadista in Europa, grazie alle informazioni raccolte
nel database di START InSight, curato da Claudio Bertolotti, direttore
esecutivo di ReaCT. Se la violenza di matrice jihadista può essere considerata
marginale in termini assoluti, rispetto cioè al totale delle azioni portate
avanti da gruppi e militanti di varie ideologie, essa continua ad essere rilevante
sia per le conseguenze, che per il numero di vittime. La minaccia rimane dunque
significativa ed è rappresentata oggi in particolar modo dagli attacchi da
parte di individui che agiscono in modo autonomo, indipendente, spesso senza un
legame diretto con l’organizzazione terroristica ma mobilitati da narrative
jihadiste globali.
Nel
2021 gli eventi jihadisti sono stati 18, in lieve flessione rispetto ai 25
attacchi dell’anno precedente ma con un aumento di azioni di tipo “emulativo”,
ossia ispirate da altri attacchi nei giorni precedenti: dal 48% del totale di azioni
emulative nel 2020 al 56% nel 2021 (erano il 21% nel 2019). Il 2021 ha inoltre
confermato la predominanza delle azioni individuali, non organizzate, in genere
improvvisate e fallimentari che hanno progressivamente sostituito le azioni
strutturate e coordinate caratterizzanti il “campo di battaglia” urbano europeo
negli anni 2015-2017. Il terrorismo si conferma inoltre un fenomeno prevalentemente
maschile: su 207 attentatori (dal 2014), il 97% sono uomini mentre l’età media è
di 26 anni. Di rilievo negli ultimi anni è stato anche il ruolo di recidivi, attentatori
già noti alle forze dell’ordine o con precedenti detentivi. Infine, va
ricordato che anche quando fallimentare, un attacco terroristico ottiene un
risultato favorevole che consiste nell’imporre costi economici e sociali alla
collettività e nel condizionarne i comportamenti nel tempo. La limitazione
della libertà dei cittadini è un risultato misurabile, che il terrorismo
ottiene attraverso le proprie azioni: questo è il “blocco funzionale”, ottenuto
nell’82% dei casi: un risultato che conferma il vantaggioso rapporto
costo-beneficio a favore del terrorismo.
Estremismi violenti, radicalizzazione e casi
studio. I contenuti del Rapporto. I contenuti complessivi del Rapporto 2022 spaziano
dalla presentazione dei numeri e profili dei terroristi jihadisti in Europa, alla
discussione sul Nuovo Terrorismo Insurrezionale (NIT), che trae ulteriore
vigore e motivazione anche dal ritorno dei Talebani in Afghanistan; dall’esame
del contesto sub-sahariano, dove operano organizzazioni jihadiste caratterizzate
da una retorica globalista ma che restano profondamente connesse a dinamiche locali,
all’impegno europeo nella prevenzione del radicalismo violento nei Balcani
Occidentali; dai processi per terrorismo di cui si è occupato il Tribunale
Penale Federale in Svizzera dal 2001 ad oggi, alle dinamiche delle comunità
jihadiste online; dai nuovi orizzonti della radicalizzazione, che si sono
allargati ulteriormente durante la pandemia e richiedono che si presti
maggiore attenzione alle dinamiche di
gruppo e ai problemi sociali collegati alla violenza; ai focus sull’estrema
destra, l’anti-semitismo di ritorno, il cospirazionismo, il movimento NoVax; fino
ai casi studio sul reinserimento sociale dei minori radicalizzati e la
deradicalizzazione nel contesto neo-nazista, che mettono in evidenza anche
l’approccio e il lavoro portato avanti
dalle autorità italiane. Infine, il documento include considerazioni riguardo l’aggiornamento
dei Terrorism Risk Assessment Instruments (TRA-I), che
sono sviluppati con lo scopo di poter meglio valutare la minaccia rappresentata
dai processi di radicalizzazione e dalle attività ad essi affini; riflessioni
sugli scenari delle guerre future; la recensione del volume “Understanding radicalisation,
terrorism and de-radicalisation. Historical, socio-political
and educational perspectives from Algeria, Azerbaijan and Italy”.
ReaCT
nasce su iniziativa di una ‘squadra’ composta da esperti e professionisti della
società svizzera di ricerca e produzione editoriale START InSight di Lugano, del Centro di ricerca ITSTIME dell’Università Cattolica di Milano, del Centro di Ricerca CEMAS dell’Università La Sapienza e della SIOI sempre a Roma. A ReaCT hanno anche aderito come partner Europa Atlantica e il Gruppo Italiano Studio Terrorismo (GRIST).
L’Osservatorio ReaCT è composto da una Direzione, un
Comitato Scientifico di indirizzo ed editoriale, un Comitato Parlamentare e un
Gruppo di lavoro permanente.
Dall’Introduzione di N. Petrelli al suo libro “La Deterrenza nel XXI secolo” ed. START InSight
Nel corso degli ultimi anni la nozione di deterrenza, da tempo quasi completamente scomparsa dal vocabolario della politica internazionale, è riemersa in numerosi documenti strategici di paesi Europei (inclusa l’Italia essendo il concetto menzionato nel Libro Bianco della Difesa 2015), e non. Il concetto è stato altresì impiegato da esperti e giornalisti per spiegare la logica alla base della prassi strategica di importanti attori internazionali, in primis la Russia di Putin
Tale “rinascita”
potrebbe ingenerare l’impressione di un ritorno al passato, a pratiche
strategiche caratteristiche di quella che è nota come “la prima età nucleare”
nel quadro di quell’assetto geopolitico straordinariamente stabile che è stato
la Guerra Fredda. Non è così. La deterrenza del XXI secolo è sia concetto, che
fenomeno profondamente differente da quello che è stato in quelli che potremmo
definire i suoi “anni d’oro” i 50 e 60 del XX secolo. L’obiettivo di questa
ricerca è quello di far comprendere tale diversità ed il ruolo che la deterrenza potrebbe svolgere negli
affari internazionali negli anni a venire attraverso uno studio dell’evoluzione
storica della sua teoria e della pratica. Come evidenziato da uno dei più
importanti studiosi contemporanei di deterrenza, Alex Wilner, innovazioni nella
pratica della deterrenza hanno generalmente fatto seguito a significativi
sviluppi teorici.
Con il
termine ‘teoria della deterrenza’ ci si riferisce in genere ad
un corpus di studi accademici che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, è arrivato
a dominare la letteratura sugli studi di sicurezza negli Stati Uniti ed in
Europa occidentale. Circa quella che potrebbe essere chiamata la
storiografia o l’evoluzione della teoria della deterrenza, esistono due scuole
di pensiero. Da una parte coloro che, sviluppando un’idea originariamente
coniata da Robert Jervis, vedono la teoria della deterrenza evolversi
attraverso distinte “ondate”. Ognuna di queste sarebbe caratterizzata da un
particolare framework analitico, interpretazione del processo della deterrenza,
e focus sui mezzi della stessa influenzati (principalmente ma non solo) dai
problemi strategici più salienti del momento. Dall’altra, una seconda scuola di
pensiero sostiene al contrario che tale periodizzazione sottovaluti i
significativi elementi di continuità esistenti tra le varie fasi di sviluppo
della teoria, e che la letteratura sulla deterrenza possa in gran parte, sino
circa ai primi anni 2000, essere classificata come una singola teoria, con
circoscritte sub-variazioni. Secondo tale approccio significative discontinuità
nella teoria della deterrenza si sono manifestate solo nel momento in cui il
focus analitico si è spostato dallo studio della deterrenza fra stati a quello
delle relazioni di deterrenza tra attori statali e non-statali.
L’approccio adottato in questa ricerca
sintetizza i punti di vista delle due scuole. Infatti, nel fornire una
periodizzazione dell’evoluzione della teoria della deterrenza basata sulla
nozione di “ondate” successive, parte dall’assunto che, sebbene diverse sotto
molti profili differenti, esse possano essere considerate tutte esplorazioni di
un’unica teoria. In ciò la ricerca si ispira all’autorevole opinione secondo
cui esiste una sola teoria generale della deterrenza, intesa come un insieme coerente di ipotesi logicamente connesse circa il
fenomeno, la cui valenza e applicabilità sono eterne e universali. Tale
teoria generale espone la natura della deterrenza come concetto, funzione, e
processo e spiega gli elementi che influenzano e guidano specifiche strategie
di deterrenza.
Nel
mettere insieme le parti costitutive della teoria della deterrenza sparse nella
letteratura lo scopo di questo elaborato è euristico, il lavoro è in altre parole finalizzato ad illuminare sia
eventuali cambiamenti nell’ontologia del fenomeno della deterrenza, così come
evidenziati da modifiche analitiche ed epistemologiche nella teoria, sia
evoluzioni concettuali intervenute nel tempo.
La
comprensione di tali cambiamenti è a sua volta essenziale per la formazione di coloro che hanno compiti e
responsabilità inerenti lo sviluppo della politica estera e di sicurezza a
livello nazionale. Sotto questo punto di vista, parafrasando Colin Gray, la
teoria generale può essere paragonata a un passepartout in grado di
arricchire concettualmente coloro che sviluppano e attuano la politica estera e
di sicurezza, aprendo una porta su una componente essenziale delle interazioni
nell’attuale sistema internazionale.
Il Concetto di Deterrenza: Aree di Consenso e Criteri Analitici
Il primo passo per sviluppare un framework adeguato ad analizzare
l’evoluzione della teoria della deterrenza è ricapitolare i principali elementi
di consenso all’interno della stessa circa l’oggetto di riferimento al fine di
identificare le dimensioni fondamentali di variazione del concetto. Esse
verranno quindi impiegate per delineare una serie di criteri tra essi correlati
che aiutino a cogliere le principali differenze tra le varie “ondate” della
teoria dalla fine degli anni 40 ad oggi.
Esiste un
consenso piuttosto ampio circa la definizione di deterrenza come: la
manipolazione, da parte di un attore, del calcolo costi/benefici di un
avversario/competitore circa una determinata azione. Riducendo i benefici o aumentando i costi
potenziali (o entrambi), è possibile far desistere un avversario/competitore
dall’intraprendere un’azione considerata dannosa. Concettualmente, la
deterrenza è una forma di influenza coercitiva basata principalmente su
incentivi negativi; in termini colloquiali potrebbe essere definita come l’arte
del ricatto e della generazione della paura. La deterrenza può considerarsi una
forma di influenza in quanto non tenta di controllare l’avversario/competitore,
ad esempio cercando di eliminare la sua capacità di agire o di stabilire su di
esso una qualche forma di controllo fisico. La deterrenza, al contrario, lascia
al “bersaglio”, l’attore che ne è fatto oggetto, la possibilità di esercitare
una scelta, mirando ad influenzarla. In secondo luogo, la deterrenza può
considerarsi coercitiva in quanto utilizza prevalentemente minacce, incentivi
negativi. La necessità della deterrenza sorge infatti quando un attore si
aspetta che il corso d’azione intrapreso da un avversario/competitore possa
condurre ad un esito dannoso. Per tale ragione tende ad incentrare il proprio
tentativo di influenza sulla minaccia, pur associandola nella maggioranza dei
casi a determinati messaggi o incentivi positivi. L’essenza della deterrenza è
quindi la generazione nel bersaglio della convinzione che il proprio corso
d’azione porterà a un risultato negativo per i propri interessi o obiettivi. Da
ultimo è importante notare che, per quanto radicato in un calcolo razionale, il
concetto di deterrenza consta anche di una componente emotiva. Chiunque scelga
di sviluppare una strategia di deterrenza non può fondarla solo su elementi
tangibili e misurabili da parte del “bersaglio”, poiché il suo calcolo non sarà
basato esclusivamente su una valutazione di input noti. Al contrario le
strategie di deterrenza presuppongono l’introduzione di un elemento
imponderabile al fine di generare incertezza, dubbio, in chi è fatto oggetto di
minacce, circa come la forza potrebbe essere utilizzata contro di lui e circa
l’impatto che potrebbe avere sui suoi interessi. Tale componente della
deterrenza ed il suo funzionamento sono stati magistralmente sintetizzati da
Schelling nell’espressione: “la minaccia che lascia qualcosa al caso”.
La
letteratura distingue tra “situazione di deterrenza”, in cui un attore è dissuaso dal compiere
determinate azioni senza che nessuno abbia deliberatamente tentato di inviare
un messaggio di dissuasione, e “strategia di deterrenza”, quando tale comportamento
fa seguito a un segnale deliberatamente elaborato e inviato. Idealmente, nel
momento in cui un attore opta per una “strategia di deterrenza”, si procede a
sviluppare un programma di deterrenza guidato da un particolare obiettivo
politico e fondato su ipotesi di intelligence relative alle intenzioni e
capacità dell’avversario e su una stima della correlazione di forze o “net assessment”. Teoricamente, nella
prima fase di questo programma, i pianificatori della deterrenza delineano la
percezione di minaccia dell’avversario/competitore e identificano i “valori”
strategici che possono essere effettivamente minacciati e messi a rischio; in
una fase successiva, cercano modi e mezzi per sfruttare queste paure nel modo
più efficace, al fine di modellare il calcolo strategico dell’avversario. In
questa ultima fase, i pianificatori comunicano minacce inequivocabili che
segnalano intenzioni e capacità credibili. Ogni strategia di deterrenza
consiste in altre parole in tre elementi: capacità; minaccia; comunicazione.
La
deterrenza dipende quindi in primo luogo dalla presenza di effettive capacità di mettere in atto la minaccia che si
intende comunicare. Tali capacità, di qualsiasi tipo esse siano, devono
necessariamente trovarsi in una condizione di “prontezza operativa”, ovvero
devono poter essere rapidamente impiegate e devono, almeno in una certa misura,
essere visibili al soggetto verso cui si indirizza la minaccia deterrente. Per
esempio, durante la crisi di Kargil tra India e Pakistan del 1999, il Pakistan
attivò le proprie capacità nucleari con il solo scopo di mandare un messaggio a
Nuova Delhi. Islamabad era infatti consapevole che gli USA avrebbero monitorato
attentamente ogni attività relativa all’arsenale nucleare e sfruttò la
circostanza per cercare di “deterrere” l’India. La componente capacitiva della
deterrenza ne costituisce la fondamentale base materiale, ovvero l’elemento in
grado di condizionare la componente razionale del calcolo strategico
dell’avversario.
In secondo luogo, la deterrenza dipende da una percezione di credibilità
della minaccia formulata che, come la letteratura ha evidenziato, può
divergere, in maniera anche significativa, dalla realtà oggettiva. Essa è
infatti in primo luogo influenzata dalla situazione specifica in cui viene
comunicata: la minaccia di un attacco nucleare in risposta a una “provocazione”
grave è certamente più credibile di una minaccia analoga in risposta a
un’aggressione “minore”. Esiste tuttavia anche un’altra componente della
credibilità, che è inerente al soggetto che formula la minaccia, non alla
situazione. In circostanze identiche, la minaccia di un attore può essere
credibile laddove quella di un altro non lo sarebbe. In parte, come pocanzi
asserito, ciò deriva dalle capacità di attuare la minaccia nonché da quella di
difendersi dalla risposta dell’altro. Ma c’è di più; è stato infatti
chiaramente dimostrato che la credibilità è legata alla “reputazione”, alla
percezione di risolutezza rispetto al prezzo da pagare per impedire una
determinata azione da parte di un avversario. Ciò spiega in parte come mai
tanti — tra cui l’allora Segretario della Difesa Chuck Hagel — abbiano
criticato l’amministrazione di Barack Obama quando, dopo aver tracciato linee
rosse circa l’uso di armi chimiche in Siria, decise poi di non intervenire per
sanzionare il comportamento di Bashar al-Assad. Parimenti, il fatto che dopo la
guerra del 2006 tra Israele ed
Hezbollah, non vi siano più stati conflitti tra i due attori suggerisce quanto
la strategia israeliana abbia avuto dei meriti, come in parte ha poi ammesso lo
stesso leader di Hezbollah anni dopo. Hassan Nasrallah infatti, in una
intervista concessa qualche tempo dopo la fine della guerra, ha infatti
dichiarato che la sua organizzazione non si aspettava una tale reazione da
parte di Israele. Reazione che ha certamente contribuito ad evitare scontri
diretti da ormai molti anni a questa parte. Il dato è interessante se si pensa
che, da un punto di vista di strategia militare e operativo, Israele uscì
perdente da quella guerra il cui valore, assumendo che la nostra
interpretazione sia corretta, può dunque essere compreso solo nel medio-lungo
termine.
La
deterrenza consiste in una richiesta nei confronti di un altro attore di
astenersi dal fare qualcosa, ed è una relazione iterativa che richiede significative capacità di
comunicazione. L’attore che intende esercitare deterrenza deve far sì che
l’avversario che intende scoraggiare da un certo corso d’azione comprenda
chiaramente i contorni della minaccia. Fare in modo che un
avversario/competitore comprenda il messaggio deterrente attraverso “il
frastuono e il rumore” della politica internazionale richiede significativi
sforzi pubblici e privati di comunicazione. E’ utile precisare che con
l’espressione “chiarezza di comunicazione” si intende chiarezza rispetto
all’evento o azione che si vuole evitare, le cosiddette “linee rosse”, ma non
necessariamente si implica chiarezza rispetto alla minaccia. La politica
statunitense e, per estensione quella della NATO, durante la Guerra fredda è un
ottimo esempio: qualunque tentativo di invadere la Germania dell’Ovest da parte
Sovietica avrebbe portato ad una immediata e spropositata reazione. Le minacce
di deterrenza possono però anche essere (e spesso sono deliberatamente) ambigue
per numerose ragioni, inclusa la convinzione che una minaccia troppo specifica
possa rivelarsi controproducente in alcune circostanze o rispetto ad alcune
categorie di attori.
Da questa descrizione del consenso accademico e professionale circa la natura della deterrenza discende il nostro argomento generale secondo cui è possibile identificare quattro dimensioni fondamentali di variazione del concetto: Attori; Capacità; Meccanismo; Processo.
La prima dimensione si riferisce al numero di attori il cui calcolo la strategia di deterrenza adottata intende influenzare. Come nella teoria dei giochi, il numero degli attori coinvolti nella relazione di deterrenza incide in maniera significativa sulle dinamiche di interazione tra gli stessi. La seconda dimensione riguarda il tipo di capacità impiegate nel tentativo di far desistere uno o più avversari/competitori da una determinata azione, capacità che possono variare tra “cinetiche” e “non-cinetiche”. Il terzo criterio di variazione riguarda il “meccanismo” di funzionamento della deterrenza, dunque fondamentalmente il tipo di minaccia che si formula nei confronti di un avversario o competitore. L’ultima dimensione di variazione concerne invece la prevalenza della componente fisica o psicologica nel processo attraverso cui il meccanismo dispiega il suo effetto.
Le conseguenze della pandemia da COVID-19 (e dei disastri naturali) sulla sicurezza del Mediterraneo occidentale: presentato il documento “5+5” ai ministri della Difesa
Il 15 dicembre 2021, sotto la presidenza della Libia, è stato presentato ai dieci ministri della Difesa dei paesi aderenti alla “5+5 Defense initiative“, l’annuale documento sviluppato dal gruppo di ricerca internazionale composto dai dieci ricercatori delle due sponde del Mediterraneo occidentale.
La “5+5 Defense Initiative” è un forum di collaborazione nel settore della difesa e della sicurezza nato a fine 2004, che vede coinvolte dieci Nazioni del Mediterraneo occidentale: Algeria, Francia, Italia, Libia, Malta, Mauritania, Marocco, Portogallo, Spagna e Tunisia. L’obiettivo della ” 5+5 Defense Initiative” è di migliorare, tramite la realizzazione di attività pratiche e attraverso lo scambio di idee e di esperienze, la reciproca comprensione e la fiducia nell’affrontare i problemi della sicurezza nell’area di interesse.
La “5+5 Defense Initiative” è un forum di collaborazione nel settore della difesa e della sicurezza nato a fine 2004, che vede coinvolte dieci Nazioni del Mediterraneo occidentale: Algeria, Francia, Italia, Libia, Malta, Mauritania, Marocco, Portogallo, Spagna e Tunisia. L’obiettivo della ” 5+5 Defense Initiative” è di migliorare, tramite la realizzazione di attività pratiche e attraverso lo scambio di idee e di esperienze, la reciproca comprensione e la fiducia nell’affrontare i problemi della sicurezza nell’area di interesse.
Il Direttore di START InSight, Claudio Bertolotti, è il Ricercatore Senior e rappresentante unico per l’Italia presso il gruppo di ricerca internazionale della “5+5 Defense Initiative”, che comprende un ricercatore per ogni paese. La missione del gruppo è fornire ai ministri della Difesa della “5+5” uno strumento di pensiero, analisi e previsione, che permetta loro di approfondire qualsiasi argomento relativo al Mediterraneo occidentale, con l’obiettivo di rafforzare l’azione comune dei partner e facilitare lo sviluppo di una nuova concezione della sicurezza regionale.
L’attività di ricerca è stata sostenuta e sviluppata attraverso il coordinamento del CEMRES – Centre Euro-Magrébin des Etudes et des Recherches Stratégiques – di Tunisi che é, per gli esperti e ricercatori provenienti da Europa e Maghreb, uno spazio per lo scambio di esperienze e lavori sulle soluzioni ai problemi di sicurezza comune per aumentare il clima di fiducia producendo una attività di ricerca oggettiva che evidenzia le vere cause di insicurezza, i problemi e le sfide strategiche del Mediterraneo occidentale.
In linea con il tema di ricerca 2021 – The repercussions of natural disasters, epidemics and pandemics on the security of 5 + 5 Countries (means of cooperation and mutual support) – disastri naturali, epidemie e pandemie sono indicate quali sfide chiave a cui i governi (e le società) sono chiamati a rispondere con soluzioni che promuovano risultati efficaci e sostenibili, in grado di costruire una capacità di resilienza, nel rispetto dei diritti umani e della promozione del benessere economico, sociale e culturale in tempi e a costi complessivi ragionevoli.
Gli USA hanno una “grande strategia” per competere con la Cina nel lungo periodo? A che punto sono nel suo sviluppo? Quali potrebbero essere le sue caratteristiche? Una nuova fase nel dibattito sulla questione ha avuto inizio con la pubblicazione, il 29 gennaio 2021 di un documento anonimo denominato the Longer Telegram sulla falsariga del noto telegramma inviato da George Kennan, nel 1946. L’obiettivo del saggio di Niccolò Petrelli è fornire un’analisi esaustiva di questo documento. Nonostante non abbia carattere di ufficialità, a tutt’oggi rappresenta il tentativo più strutturato e completo di sviluppare una grande strategia per gestire la competizione con la Cina nel lungo periodo, di dare sostanza ad un intento politico che gli USA hanno ormai manifestamente fatto proprio. Il saggio conduce un’analisi comparata del Longer Telegram in prospettiva teorica. Attraverso le lenti della teoria strategica, in particolare della teoria della “grande strategia”, il Longer Telegram viene comparato non solo al documento originale a cui si è ispirato, ma anche a tre dei principali documenti di grande strategia competitiva USA durante Guerra Fredda. Da questa analisi vengono tratte conclusioni non solo circa il corso futuro della grande strategia competitiva USA rispetto alla Cina, ma anche in relazione alle possibili implicazioni per gli Alleati degli Stati Uniti.
è ragionevole ipotizzare che gli USA tenterranno di indirizzare la competizione con la Cina principalmente verso l’ambito militare, tecnologico e finanziario
– Niccolò Petrelli
Niccolò Petrelli è assegnista di ricerca MAECI e docente di Studi Strategici presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Roma Tre
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