Terrorismo a 10 anni da Charlie Hebdo, con Claudio Bertolotti, Sky tg24


Charlie Hebdo: una riflessione a 10 anni dall’attacco jihadista

di Claudio Bertolotti.


A dieci anni da Charlie Hebdo: lo spartiacque del terrorismo in Europa. Inauguriamo oggi la rubrica “Officina Geopolitica” di START InSight con il video commento di Claudio Bertolotti.

Il 7 gennaio 2015, dieci anni fa, un attacco terroristico colpì la redazione parigina di Charlie Hebdo, lasciando dietro di sé una scia di sangue e dodici vittime. I due assalitori, vestiti di nero, irruppero negli uffici del giornale satirico, aprendo il fuoco come ritorsione per le vignette su Maometto. Nonostante il tragico evento, lo spirito e la missione della rivista non si sono mai spenti. Charlie Hebdo rimane un simbolo di libertà di espressione, continuando a pubblicare con la stessa irriverenza che l’ha resa famosa.

L’attacco a Charlie Hebdo, rivendicato dalla branca yemenita di al-Qāʿida (o Ansar al-Sharia), si inserisce in una lunga sequenza di attentati terroristici che hanno colpito l’Europa dopo il 2001. Eventi come quelli di Madrid nel 2004, Londra nel 2005 e Bruxelles nel 2014 fanno parte di questa tragica scia. E tanti altri che sarebbero seguiti nei dieci anni intercorsi da allora: da Nizza e Berlino nel 2016 a Brokstedt e Magdeburgo in Germania nel 2023 e 2024. L’attentato a Parigi causò la morte di 17 persone, tra cui figure di spicco del giornale satirico.

Dopo l’attacco a Charlie Hebdo e l’omicidio del poliziotto Ahmed Merabet, i due terroristi jihadisti, i fratelli Saïd e Chérif Kouachi, si diedero alla fuga a bordo di un’auto. Nonostante l’allarme diffuso nella regione parigina, riuscirono a nascondersi nei boschi a nord del Paese. Il 9 gennaio, vennero individuati e, dopo un assedio da parte delle forze di polizia e militari, ed eliminati.

Il 9 gennaio 2015, Amedy Coulibaly, complice dei fratelli Kouachi e affiliato allo Stato Islamico, si barricò in un supermercato kosher a Parigi dopo aver ucciso una poliziotta il giorno precedente. Durante il sequestro, quattro ostaggi vennero uccisi. Coulibaly venne ucciso a seguito dell’irruzione da parte della polizia. Successivamente emerse che l’attacco era parte di un piano più ampio, con altri complici fuggiti verso la Siria.

L’11 gennaio 2015, milioni di persone si riversarono per le strade di Parigi per manifestare solidarietà dopo gli attacchi terroristici contro Charlie Hebdo e l’Hyper Cacher. La marcia, simbolo di difesa della libertà di espressione, vide la partecipazione di leader mondiali e rappresentanti di varie nazioni. Pochi giorni dopo, il nuovo numero di Charlie Hebdo, realizzato dai sopravvissuti, venne pubblicato in diverse lingue e distribuito a milioni di copie in tutto il mondo, sottolineando la resistenza contro il terrorismo e l’importanza della libertà di stampa.

L’attacco del 7 gennaio 2015 fu un atto di natura politica e segnò l’inizio di una serie di attentati che avrebbero sconvolto la Francia nei mesi successivi. Le stragi del 13 novembre 2015 a Parigi e del 14 luglio 2016 a Nizza confermarono la vulnerabilità del Paese. Nel 2020, il processo per l’attacco a Charlie Hebdo si concluse con 14 condanne, segnando un passo importante nella lotta contro il terrorismo. A dieci anni di distanza, Charlie Hebdo resta un simbolo della libertà di espressione, resistente alle minacce e alla violenza.

Il terrorismo oggi: opportuna riflessione.

Il terrorismo attuale, ponendo le proprie radici nella profondità di un’evoluzione storica molto complessa, rappresenta una minaccia ideologica diffusa. E la minaccia del terrorismo jihadista è oggi particolarmente rilevante, collegata alle dinamiche storiche, conflittuali, delle relazioni internazionali e della competizione in Medio Oriente, in Africa e alla violenza discendente dalla lettura radicale dell’Islam; una dinamica conflittuale che oggi si associa sempre più spesso alla ricerca di identità di gruppi e individui attraverso l’opposizione culturale di una componente non marginale degli immigrati maghrebini di seconda e terza generazione in Europa. E parliamo di una galassia jihadista frammentata e caratterizzata da diverse ideologie e approcci pratici, tanto da indurre una riflessione sul concetto di terrorismo contemporaneo che si impone come fenomeno sociale molto diverso dai terrorismi che lo hanno preceduto.

Una necessaria riflessione che ci invita a riflettere sull’opportunità di un cambio di paradigma nella stessa definizione di terrorismo, non più da intendere come azione volta ad ottenere risultati politici attraverso la violenza, dunque nelle intenzioni. Bensì come effetto della violenza applicata: è terrorismo la manifestazione di violenza, privo di un’organizzazione alle spalle. È terrorismo nella manifestazione, non nell’organizzazione.

All’interno della stessa galassia jihadista, il terrorismo si impone come strumento di lotta, di resistenza e di prevaricazione, e lo fa con diversi gradi e modelli di violenza: da quella individuale, a quella organizzata, a quella ispirata e ancora al terrorismo insurrezionale che ben abbiamo conosciuto in Afghanistan e in Iraq, in Siria e, in parte, stiamo osservando nelle sue manifestazioni nella Striscia di Gaza dove l’esercito israeliano si confronta con il gruppo Hamas (Bertolotti, 2024).

E proprio l’esperienza afghana, che l’Autore del presente articolo ha avuto modo di studiare da vicino per molti anni, a cui si è sommata l’ondata di violenza conseguente all’appello di Hamas a colpire Israele e i suoi alleati, e la successiva vittoria islamista in Siria, hanno svolto un ruolo determinante nella ripresa di un terrorismo ispirato ed emulativo a livello globale, che si basa sull’esperienza vittoriosa dei talebani contro l’Occidente, da un lato, e, dall’altro, sulla rabbia veicolata attraverso la strategia comunicativa di Hamas che trova in alcune minoranze ideologizzate occidentali una cassa di risonanza che sovrappone, confondendola, l’agenda violenta e terrorista di Hamas alla legittima istanza palestinese: due elementi a cui si somma l’entusiasmo della galassia jihadista conseguente alla vittoria del gruppo islamista Hay’at Tahrir al-Sham in Siria, che ben è riuscito a mascherarsi agli occhi occidentali attraverso un pragmatico opportunismo. Eventi sul piano delle Relazioni internazionali che, attraverso la retorica jihadista, sono sfruttati per dimostrare la bontà e la fondatezza del jihad, e dunque del terrorismo come strumento di lotta, di vittoria, di giustizia.

E oggi, dopo e insieme all’Afghanistan, all’Iraq, alla Striscia di Gaza e alla Siria, a svolgere questo ruolo di spinta ideologica e coinvolgimento di massa, sono le dinamiche conflittuali in Medioriente e il terrorismo mediaticamente amplificato di Hamas; da questo discendono le manifestazioni emulative di violenza che il terrorismo ai danni di Israele ha in parte provocato e potrebbe sempre più provocare in Europa come nei paesi del Nord Africa, dell’Africa subsahariana e del Sahel.[1]

Terrorismo di successo o fallimentare? Elementi di analisi dell’operazione terroristica contro Charlie Hebdo: azione tattica, obiettivo strategico.

Dall’articolo originale di C. Bertolotti pubblicato il 12 gennaio 2015 su ITSTIME

Parigi, 7-9 gennaio 2014: 15 morti (12 vittime e tre terroristi jihadisti). Dopo Canada, Stati Uniti e Australia, i due episodi in Francia, collegati o meno tra di loro, forniscono alcuni utili elementi di valutazione sul “terrorismo jihadista” contemporaneo.

Si vogliono qui elencare sinteticamente gli elementi di forza caratterizzanti tale fenomeno (in fase di espansione e radicalizzazione), le vulnerabilità, gli elementi di minaccia, le opportunità e, infine, i “trade-off” – le variabili in grado di influire sugli sviluppi socio-politici e sulle procedure di sicurezza in atto e in fase di implementazione.

In primo luogo, i punti di forza del terrorismo jihadista emerso in concomitanza con l’espansione territoriale e comunicativa del fenomeno Stato islamico (2013-2017) si sono temporaneamente concretizzati nelle adeguate capacità informativa, organizzativa e di movimento a cui si sono uniti la forte motivazione e l’elevato livello operativo acquisito da quei foreign fighter “europei” che hanno fatto rientro dai teatri di guerra iracheno, siriano e libico. Tali soggetti sono stati in grado di sfruttare a proprio vantaggio la pressoché infinita disponibilità di obiettivi di tipo “soft target” da colpire e caratterizzati da un elevato livello di vulnerabilità; un vantaggio che si è accompagnato alla possibilità di reperimento di armi da guerra provenienti dal mercato nero (nulla a che vedere con le armi comuni regolarmente denunciate e detenute) e di equipaggiamenti reperibili dal libero commercio. Azioni di questa tipologia sono state in grado di indurre all’emulazione altri soggetti, indipendenti e non organizzati: gli emulatori, spesso indicati impropriamente come i lone wolf (lupi solitari o terroristi autoctoni).

Agli elementi forti fanno eco alcuni fattori di debolezza del terrorismo jihadistaIn primis, sul piano operativo, la marginale capacità di colpire con efficacia la maggior parte degli hard-target (obiettivi militari, infrastrutture strategiche, critiche e sensibili); sul piano informativo vi è invece una concreta vulnerabilità all’identificazione attraverso i social-network. Infine, su un piano più generale, permangono gli attriti latenti all’interno delle eterogenee dimensioni jihadiste, mentre si sono sviluppate le conflittualità tra i differenti brand del jihad, in particolare al-Qa’ida vs lo Stato islamico: una competizione che apre all’intensificazione delle azioni violente.

Ai fattori di debolezza del terrorismo jihadista, si contrappongono le vulnerabilità degli stati occidentali. Gli eventi registrati nel corso degli ultimi dieci anni, tendono a dimostrare come le forze di sicurezza e di intelligence non siano in grado di contrastare le manifestazioni di un fenomeno sempre più audace (e il verificarsi di un singolo episodio si impone su quelli prevenuti con efficacia); nel complesso vi è una sostanziale incapacità previsionale da cui derivano limiti oggettivi di azione preventiva – accentuati dai tagli alle spese della componente difesa-sicurezza – nei confronti dei potenziali obiettivi la cui salvaguardia richiede(rebbe) elevati costi in termini di risorse umane, economiche e materiali per garantirne la sicurezza fisica. Inoltre, pesa l’assenza di un adeguato quadro giuridico finalizzato a un efficace contrasto al “terrorismo fondamentalista di matrice jihadista” (che differisce dallo storico “terrorismo politico” di stampo europeo in ragioni, dinamiche, sviluppi e organizzazione).

Pesa, nel complesso, l’assenza di una classe dirigente competente in grado di definire una linea strategica per la sicurezza e che sia, al contempo, in grado di far fronte al crescente disagio sociale – in parte conseguenza di un alto tasso di disoccupazione – e alla pressione dell’opera di reclutamento e propaganda jihadista – sia globale via web, sia a livello locale. A ciò si aggiungono la diffusione del “terrore”, il condizionamento dell’opinione pubblica, l’esaltazione di sentimenti nazionalistici e la deriva estremista (su entrambi i fronti) e populista i cui effetti inducono a scelte politiche restrittive, tra le quale anche la limitazione di diritti individuali (privacy e sicurezza) e la sospensione di accordi internazionali (nel merito si cita la decisione del governo francese nel 2015, e dieci anni dopo quello tedesco, di limitare il libero movimento dei cittadini europei attraverso le proprie frontiere, in deroga al trattato di Shengen).

Significative le opportunità potenziali, su entrambi i fronti.

Le opportunità del terrorismo jihadista sono conseguenza del contesto in cui si è orientato a operare e della riorganizzazione strutturale.

Il contesto operativo è il “domestic urban warfare” (ambito urbano ad alta densità di popolazione) in grado, da un lato, di garantire la presenza di safe-areas di supporto e, dall’altro, di opporre una limitata capacità di reazione da parte di forze di polizia urbana dal basso profilo operativo.

Si è così imposta una nuova forma ibrida della guerra che ha indotto a una razionale riorganizzazione strutturale del terrorismo jihadista, su base individuale, rafforzata dall’attivazione di singoli soggetti pronti a colpire, in caso di appello o in risposta a eventi emotivamente o mediaticamente esaltanti, e già presenti in Europa o in aree di prossimità (come la Turchia che è al tempo stesso area di transito della “migrazione jihadista” e sostenitrice del fronte islamista siriano di Hay’at Tahrir al-Sham che con la forza insurrezionale ha posto termine al regime di Bashar al-Assad).

Le opportunità che possono essere colte dagli stati occidentali sono rappresentate, in primo luogo, da una collaborazione attiva delle agenzie intelligence funzionale alla possibile riorganizzazione di un modello di difesa-sicurezza di tipo “diffuso e condiviso”; a ciò si unisce l’opportunità di un maggiore coinvolgimento delle comunità musulmane. In secondo luogo, v’è da porre in evidenza l’opportunità rappresentata da un razionale, quanto efficace, impegno dell’Occidente nella lotta ad ampio spettro al gruppo Stato islamico e in un coerente ed equilibrato controllo delle frontiere lungo l’arco mediterraneo.

A fronte delle opportunità, vi sono le minacce. La prima è rappresentata dall’emergere di una condizione di tensione sociale derivante da azioni terroristiche reali o, più semplicemente, potenziali, a cui si contrappongono i limiti di capacità di reazione e contrasto dei governi europei. Limiti che saranno messi a dura prova dal probabile fenomeno di emulazione ampiamente registrato e dalla replicabilità di azioni dimostrative anche violente (ad esempio, l’incendio alla rivista tedesca “Hamburger Morgenpost” l’11 gennaio 2015, che nei giorni successivi all’attacco a Parigi pubblicò alcune vignette di Charlie Hebdo, e, lo stesso giorno, l’allarme bomba a Bruxelles alla sede del più importante quotidiano belga, “Le Soir”). Un livello di minaccia accentuato dalla natura inequivocabile del ruolo di “one-shot fighter” del “terrorista”, determinato dalla consapevolezza di andare incontro a morte altamente probabile o certa.

Infine, le scelte alternative (trade-off). Sul piano della sicurezza, non sono da escludere i potenziali effetti dinamizzanti derivanti dal processo di amplificazione mass-mediatica, a cui concorrono sia le striscianti quanto fantasiose teorie “complottistiche”, sia la diffusione virale di quei video-web postumi dei terroristi che possono alimentare le dinamiche di competizione dei gruppi di jihadisti ed esaltare improvvisati lone wolf. Significativa è la strategia finalizzata all’attenzione massmediatica che ha per scopi l’amplificazione del messaggio e la capacità attrattiva dei potenziali militanti (in particolare al-Qa’ida e Stato islamico, che in tale ottica hanno impresso un’accelerata recrudescenza di azioni mediaticamente sempre più appaganti; con ciò indicando un’escalation nell’intensità delle azioni su suolo europeo).

Fatte queste necessarie valutazioni iniziali, concludiamo con l’elenco (certamente parziale) degli effetti derivanti dalla singola azione portata a compimento a Parigi nel gennaio 2015 da due soli soggetti (a cui si aggiunge una seconda azione condotta da un singolo terrorista).

Sul piano tattico e operativo:

  • eliminazione degli obiettivi (dal forte valore simbolico);
  • capacità di tenere impegnate 88.000 unità della sicurezza nazionale (Forze Armate e di polizia), distraendole dai normali compiti di routine;
  • blocco della capitale di una delle più importanti nazioni a livello mondiale;
  • dimostrazione dei limiti dello strumento intelligence e di sicurezza.

Sul piano strategico e politico:

  • diffusione e amplificazione massmediatica del messaggio jihadista;
  • dimostrazione dell’imprevedibilità della minaccia;
  • generale consapevolezza di vulnerabilità (forte impatto psicologico);
  • terrore diffuso immediato e paura collettiva persistente;
  • scelta da parte degli attentatori del “martirio autonomamente scelto (istisshadi) e imposizione del ruolo di “martire” (shahid) di fronte alla propria comunità;
  • induzione alla polarizzazione “identitaria”;
  • fomento degli impulsi populisti e radicali;
  • mobilitazione della Comunità internazionale;
  • avvio del processo di revisione dei protocolli di sicurezza;
  • sospensione degli accordi di Shengen e possibile restrizione delle libertà individuali (privacy, mobilità).

In estrema sintesi, si tratta innegabilmente di un successo sui piani mediatico, politico, psicologico e su quello della sicurezza; un successo facilmente replicabile indipendentemente dagli effetti diretti su quel “campo di battaglia” del quale siamo parte, in veste di attori protagonisti o di semplici comparse.

In conclusione: il vero successo è a livello operativo: il “blocco funzionale”

Come abbiamo avuto modo di evidenziare in #ReaCT2024 – 5° Rapporto sul radicalismo e il terrorismo in Europa, anche quando un attacco terroristico non riesce, produce comunque un risultato significativo: impegna pesantemente le forze armate e di polizia, distraendole dalle loro normali attività o impedendo loro di intervenire a favore della collettività. Inoltre, può interrompere o sovraccaricare i servizi sanitari, limitare, rallentare, deviare o fermare la mobilità urbana, aerea e navale, e ostacolare il regolare svolgimento delle attività quotidiane, commerciali e professionali, danneggiando le comunità colpite. Questo riduce efficacemente il vantaggio tecnologico e il potenziale operativo, nonché la capacità di resilienza. In generale, infligge danni diretti e indiretti, indipendentemente dalla capacità di provocare vittime. La limitazione della libertà dei cittadini è un risultato misurabile ottenuto attraverso queste azioni.

In sostanza, il successo del terrorismo, anche senza causare vittime, risiede nell’imporre costi economici e sociali alla collettività e nel condizionare i comportamenti nel tempo in relazione alle misure di sicurezza o limitazioni imposte dalle autorità politiche e di pubblica sicurezza. Questo fenomeno è noto come “blocco funzionale”. Nonostante la capacità operativa del terrorismo sia sempre più ridotta, il “blocco funzionale” rimane uno dei risultati più importanti ottenuti dai terroristi, indipendentemente dal successo tattico (uccisione di almeno un obiettivo). Dal 2004 a oggi, il terrorismo ha dimostrato di essere efficace nel conseguire il “blocco funzionale” nell’80% dei casi, con un picco del 92% nel 2020 e dell’89% nel 2021. Questo risultato impressionante, ottenuto con risorse limitate, conferma il vantaggioso rapporto costo-beneficio a favore del terrorismo, pur a fronte di una rilevata perdita progressiva di capacità che ha visto diminuire l’ottenimento del “blocco funzionale”, sceso al 78% nel 2022 e al 67% nel 2023.


[1] C. Bertolotti (2024), Il terrorismo jihadista in Europa e le dinamiche mediterranee: evoluzione storica, sociale e operativa in un’era di cambiamenti globali – i risultati dell’Osservatorio sul radicalismo e il contrasto al terrorismo (ReaCT), in “#ReaCT2024, 5° Rapporto sul Radicalismo e il Terrorismo in Europa”, ed. START InSight.


MDHM nell’era digitale: il doppio volto dell’Intelligenza Artificiale tra minaccia e soluzione per la democrazia.

di Claudio Bertolotti.

Abstract

La diffusione di informazioni false, fuorvianti o manipolate – riassunta nell’acronimo MDHM (misinformation, disinformation, malinformation e hate speech) – rappresenta una delle sfide più critiche dell’era digitale, con conseguenze profonde sulla coesione sociale, la stabilità politica e la sicurezza globale. Questo studio analizza le caratteristiche distintive di ciascun fenomeno e il loro impatto interconnesso, evidenziando come alimentino l’erosione della fiducia nelle istituzioni, la polarizzazione sociale e l’instabilità politica.

L’intelligenza artificiale emerge come una risorsa cruciale per contrastare il MDHM, offrendo strumenti avanzati per il rilevamento di contenuti manipolati e il monitoraggio delle reti di disinformazione. Tuttavia, la stessa tecnologia alimenta nuove minacce, come la creazione di deepfake e la generazione di contenuti automatizzati che amplificano la portata e la sofisticazione della disinformazione. Questo paradosso evidenzia la necessità di un uso etico e strategico delle tecnologie emergenti.

Il lavoro propone un approccio multidimensionale per affrontare il MDHM, articolato su tre direttrici principali: l’educazione critica, con programmi scolastici e campagne pubbliche per rafforzare l’alfabetizzazione mediatica; la regolamentazione delle piattaforme digitali, mirata a bilanciare la rimozione dei contenuti dannosi con la tutela della libertà di espressione; la collaborazione globale, per garantire una risposta coordinata a una minaccia transnazionale.

In conclusione, l’articolo sottolinea l’importanza di un impegno concertato tra governi, aziende tecnologiche e società civile per mitigare gli effetti destabilizzanti del MDHM e preservare la democrazia, la sicurezza e la fiducia nelle informazioni.

Definizioni e Distinzioni

La diffusione di informazioni false, fuorvianti o manipolate costituisce una delle sfide più complesse e pericolose dell’era digitale, con ripercussioni significative sull’equilibrio sociale, politico e culturale. I fenomeni noti come misinformation,disinformation, malinformatione hate speech, sintetizzati nell’acronimo MDHM, rappresentano manifestazioni distinte ma strettamente interconnesse di questa problematica. Una comprensione approfondita delle loro specificità è imprescindibile per sviluppare strategie efficaci volte a contenere e contrastare le minacce che tali fenomeni pongono alla coesione sociale e alla stabilità delle istituzioni.

Misinformation: Informazioni false diffuse senza l’intenzione di causare danno. Ad esempio, la condivisione involontaria di notizie non verificate sui social media.

Disinformation: Informazioni deliberatamente create per ingannare, danneggiare o manipolare individui, gruppi sociali, organizzazioni o nazioni. Un esempio è la diffusione intenzionale di notizie false per influenzare l’opinione pubblica o destabilizzare istituzioni.

Malinformation: informazioni basate su fatti reali, ma utilizzate fuori contesto per fuorviare, causare danno o manipolare. Ad esempio, la divulgazione di dati personali con l’intento di danneggiare la reputazione di qualcuno.

Hate Speech: espressioni che incitano all’odio contro individui o gruppi basati su caratteristiche come razza, religione, etnia, genere o orientamento sessuale. Questo tipo di discorso può fomentare violenza e discriminazione.

Impatto sulla Società

La diffusione di misinformation, disinformation, malinformation e hate speech rappresenta una sfida cruciale per la stabilità delle società moderne. Questi fenomeni, potenziati dalla rapidità e dalla portata globale dei media digitali, hanno conseguenze significative che si manifestano in vari ambiti sociali, politici e culturali. Tra i principali effetti troviamo l’erosione della fiducia nelle istituzioni, la polarizzazione sociale e l’acuirsi delle minacce alla sicurezza.

 

Erosione della Fiducia

L’informazione falsa o manipolata rappresenta un attacco diretto alla credibilità delle istituzioni pubbliche, dei media e persino della comunità scientifica. Quando le persone vengono sommerse da un flusso costante di notizie contraddittorie o palesemente mendaci, il risultato inevitabile è una crisi di fiducia generalizzata. Nessuna fonte viene risparmiata dal dubbio, nemmeno i giornalisti più autorevoli o gli organismi governativi più trasparenti. Questo processo mina le fondamenta della società e alimenta un clima di incertezza che, a lungo andare, può trasformarsi in alienazione.

Un esempio emblematico si osserva nel contesto del processo democratico, dove la disinformazione colpisce con particolare intensità. Le campagne di manipolazione delle informazioni, mirate a diffondere falsità sulle procedure di voto o sui candidati, hanno un effetto devastante sull’integrità elettorale. Ciò non solo alimenta il sospetto e la sfiducia nelle istituzioni democratiche, ma crea anche un senso di disillusione tra i cittadini, allontanandoli ulteriormente dalla partecipazione attiva.

Le conseguenze diventano ancora più evidenti nella gestione delle crisi globali. Durante la pandemia da COVID-19, l’ondata di teorie del complotto e la diffusione di cure non verificate hanno rappresentato un ostacolo significativo per gli sforzi della salute pubblica. La disinformazione ha alimentato paure infondate e diffidenza verso i vaccini, rallentando la risposta globale alla crisi e aumentando la diffusione del virus.

Ma questa erosione della fiducia non si ferma al singolo individuo. Le sue ripercussioni si estendono a tutta la società, frammentandola. I legami sociali, già indeboliti da divisioni preesistenti, diventano ancora più vulnerabili alla manipolazione. E così, si crea un terreno fertile per ulteriori conflitti e instabilità, in cui le istituzioni si trovano sempre più isolate, mentre cresce il rischio di una società incapace di reagire a sfide collettive.

 

Polarizzazione Sociale

Le campagne di disinformazione trovano terreno fertile nelle divisioni già esistenti all’interno della società, sfruttandole con l’obiettivo di amplificarle e renderle insormontabili. Questi fenomeni, alimentati da strategie mirate e potenziati dalle piattaforme digitali, intensificano il conflitto sociale e compromettono la possibilità di dialogo, lasciando spazio a una polarizzazione sempre più marcata.

L’amplificazione delle divisioni è forse il risultato più visibile della disinformazione. La manipolazione delle informazioni viene utilizzata per radicalizzare le opinioni politiche, culturali o religiose, costruendo una narrazione di contrapposizione tra un “noi” e un “loro”. Nei contesti di tensioni etniche, per esempio, la malinformation, diffusa con l’intento di distorcere eventi storici o di strumentalizzare questioni politiche attuali, accentua le differenze percepite tra gruppi sociali. Questi contrasti, spesso già esistenti, vengono esasperati fino a cristallizzarsi in conflitti identitari difficili da sanare.

A ciò si aggiunge l’effetto delle cosiddette “bolle informative”, create dagli algoritmi delle piattaforme digitali. Questi sistemi, progettati per massimizzare l’engagement degli utenti, propongono contenuti che rafforzano le loro opinioni preesistenti, limitandone l’esposizione a prospettive alternative. Questo fenomeno, noto come “filtro bolla”, non solo solidifica pregiudizi, ma isola gli individui all’interno di una realtà mediatica che si nutre di conferme continue, impedendo la comprensione di punti di vista differenti.

La polarizzazione, alimentata dal MDHM, non si ferma però al piano ideologico. In molti casi, la radicalizzazione delle opinioni si traduce in azioni concrete: proteste, scontri tra gruppi e, nei casi più estremi, conflitti armati. Guerre civili e crisi sociali sono spesso il culmine di una spirale di divisione che parte dalle narrative divisive diffuse attraverso disinformazione e hate speech.

In definitiva, la polarizzazione generata dal MDHM non danneggia solo il dialogo sociale, ma mina anche le fondamenta della coesione collettiva. In un tale contesto, risulta impossibile trovare soluzioni condivise a problemi comuni. Ciò che rimane è un clima di conflittualità permanente, dove il “noi contro loro” sostituisce qualsiasi tentativo di collaborazione, rendendo la società più fragile e vulnerabile.

Minaccia alla Sicurezza

Nei contesti di conflitto, il MDHM si rivela un’arma potente e pericolosa, capace di destabilizzare società e istituzioni con implicazioni devastanti per la sicurezza collettiva e individuale. La disinformazione, insieme al discorso d’odio, alimenta un ciclo di violenza e instabilità politica, minacciando la pace e compromettendo i diritti umani. Gli esempi concreti di come queste dinamiche si manifestano non solo illustrano la gravità del problema, ma evidenziano anche l’urgenza di risposte efficaci.

La propaganda e la destabilizzazione costituiscono uno degli utilizzi più insidiosi della disinformazione. Stati e gruppi non statali sfruttano queste pratiche come strumenti di guerra ibrida, mirati a indebolire il morale delle popolazioni avversarie e a fomentare divisioni interne. In scenari geopolitici recenti, la diffusione di informazioni false ha generato confusione e panico, rallentando la capacità di risposta delle istituzioni. Questa strategia, pianificata e sistematica, non si limita a disorientare l’opinione pubblica ma colpisce direttamente il cuore della coesione sociale.

Il discorso d’odio, amplificato dalle piattaforme digitali, è spesso un precursore di violenze di massa. Ne è tragico esempio il genocidio dei Rohingya in Myanmar, preceduto da una campagna di odio online che ha progressivamente deumanizzato questa minoranza etnica, preparandone il terreno per persecuzioni e massacri. Questi episodi dimostrano come lo hate speech, una volta radicato, possa tradursi in azioni violente e sistematiche, con conseguenze irreparabili per le comunità coinvolte.

Anche sul piano individuale, gli effetti del MDHM sono profondamente distruttivi. Fenomeni come il doxxing – la divulgazione pubblica di informazioni personali con intenti malevoli – mettono a rischio diretto la sicurezza fisica e psicologica delle vittime. Questo tipo di attacco non solo espone le persone a minacce e aggressioni, ma amplifica un senso di vulnerabilità che si estende ben oltre il singolo episodio, minando la fiducia nel sistema stesso.

L’impatto cumulativo di queste dinamiche mina la stabilità sociale nel suo complesso, creando fratture profonde che richiedono risposte immediate e coordinate. Affrontare il MDHM non è solo una questione di difesa contro la disinformazione, ma un passo essenziale per preservare la pace, proteggere i diritti umani e garantire la sicurezza globale in un’epoca sempre più interconnessa e vulnerabile.

 

Strategie di Mitigazione

La lotta contro il fenomeno MDHM richiede una risposta articolata e coordinata, capace di affrontare le diverse sfaccettature del problema. Dato l’impatto complesso e devastante che questi fenomeni hanno sulla società, le strategie di mitigazione devono essere sviluppate con un approccio multidimensionale, combinando educazione, collaborazione tra i diversi attori e un quadro normativo adeguato.

Educazione e Consapevolezza

La prima e più efficace linea di difesa contro il fenomeno MDHM risiede nell’educazione e nella promozione di una diffusa alfabetizzazione mediatica. In un contesto globale in cui le informazioni circolano con una rapidità senza precedenti e spesso senza un adeguato controllo, la capacità dei cittadini di identificare e analizzare criticamente i contenuti che consumano diventa una competenza indispensabile. Solo attraverso una maggiore consapevolezza sarà possibile arginare gli effetti negativi della disinformazione e costruire una società più resiliente.

Il pensiero critico rappresenta la base di questa strategia. I cittadini devono essere messi nelle condizioni di distinguere le informazioni affidabili dai contenuti falsi o manipolati. Questo processo richiede l’adozione di strumenti educativi che insegnino come verificare le fonti, identificare segnali di manipolazione e analizzare il contesto delle notizie. È un impegno che va oltre la semplice formazione: si tratta di creare una cultura della verifica e del dubbio costruttivo, elementi essenziali per contrastare la manipolazione informativa.

Un ruolo cruciale in questa battaglia è giocato dalla formazione scolastica. Le scuole devono diventare il luogo privilegiato per l’insegnamento dell’alfabetizzazione mediatica, preparando le nuove generazioni a navigare consapevolmente nel complesso panorama digitale. L’integrazione di questi insegnamenti nei programmi educativi non può più essere considerata un’opzione, ma una necessità. Attraverso laboratori pratici, analisi di casi reali e simulazioni, i giovani possono sviluppare le competenze necessarie per riconoscere contenuti manipolati e comprendere le implicazioni della diffusione di informazioni false.

Tuttavia, l’educazione non deve limitarsi ai giovani. Anche gli adulti, spesso più esposti e vulnerabili alla disinformazione, devono essere coinvolti attraverso campagne di sensibilizzazione pubblica. Queste iniziative, veicolate sia attraverso i media tradizionali che digitali, devono illustrare le tecniche più comuni utilizzate per diffondere contenuti falsi, sottolineando le conseguenze negative di tali fenomeni per la società. Un cittadino informato, consapevole dei rischi e capace di riconoscerli, diventa un elemento di forza nella lotta contro la disinformazione.

Investire nell’educazione e nella sensibilizzazione non è solo una misura preventiva, ma un pilastro fondamentale per contrastare il MDHM. Una popolazione dotata di strumenti critici è meno suscettibile alle manipolazioni, contribuendo così a rafforzare la coesione sociale e la stabilità delle istituzioni democratiche. Questo percorso, pur richiedendo un impegno costante e coordinato, rappresenta una delle risposte più efficaci a una delle minacce più insidiose del nostro tempo.

Collaborazione Intersettoriale

La complessità del fenomeno MDHM è tale che nessun singolo attore può affrontarlo efficacemente da solo. È una sfida globale che richiede una risposta collettiva e coordinata, in cui governi, organizzazioni non governative, aziende tecnologiche e società civile collaborano per sviluppare strategie condivise. Solo attraverso un impegno sinergico è possibile arginare gli effetti destabilizzanti di questa minaccia.

Le istituzioni governative devono assumere un ruolo guida. I governi sono chiamati a creare regolamentazioni efficaci e ambienti sicuri per lo scambio di informazioni, garantendo che queste misure bilancino due aspetti fondamentali: la lotta contro i contenuti dannosi e la protezione della libertà di espressione. Un eccesso di controllo rischierebbe infatti di scivolare nella censura, minando i principi democratici che si intendono tutelare. L’approccio deve essere trasparente, mirato e in grado di adattarsi all’evoluzione delle tecnologie e delle dinamiche di disinformazione.

Le aziende tecnologiche, in particolare i social media, giocano un ruolo centrale in questa sfida. Hanno una responsabilità significativa nel contrastare la diffusione del MDHM, essendo i principali veicoli attraverso cui queste dinamiche si propagano. Devono investire nello sviluppo di algoritmi avanzati, capaci di identificare e rimuovere i contenuti dannosi in modo tempestivo ed efficace. Tuttavia, l’efficacia degli interventi non può venire a scapito della libertà degli utenti di esprimersi. La trasparenza nei criteri di moderazione, nella gestione dei dati e nei meccanismi di segnalazione è fondamentale per mantenere la fiducia degli utenti e prevenire abusi.

Accanto a questi attori, le organizzazioni non governative (ONG) e la società civile svolgono un ruolo di intermediazione. Le ONG possono fungere da ponte tra istituzioni e cittadini, offrendo informazioni verificate e affidabili, monitorando i fenomeni di disinformazione e promuovendo iniziative di sensibilizzazione. Queste organizzazioni hanno anche la capacità di operare a livello locale, comprendendo meglio le dinamiche specifiche di determinate comunità e adattando le strategie di contrasto alle loro esigenze.

Infine, è imprescindibile favorire partnership pubbliche e private. La collaborazione tra settori pubblico e privato è essenziale per condividere risorse, conoscenze e strumenti tecnologici utili a combattere il MDHM. In particolare, le aziende possono offrire soluzioni innovative, mentre i governi possono fornire il quadro normativo e il supporto necessario per implementarle. Questa sinergia permette di affrontare la disinformazione con un approccio più ampio e integrato, combinando competenze tecniche, capacità di monitoraggio e intervento.

La risposta al MDHM non può dunque essere frammentata né limitata a un singolo settore. Solo attraverso una collaborazione trasversale e globale sarà possibile mitigare le conseguenze di questi fenomeni, proteggendo le istituzioni, i cittadini e la società nel suo insieme.

Ruolo delle Tecnologie Avanzate e Artificial Intelligence (AI) nel Contesto del MDHM

Le tecnologie emergenti, in particolare l’intelligenza artificiale (IA), svolgono un ruolo cruciale nel contesto di misinformation, disinformation, malinformation e hate speech. L’AI rappresenta un’arma a doppio taglio: da un lato, offre strumenti potenti per individuare e contrastare la diffusione di contenuti dannosi; dall’altro, alimenta nuove minacce, rendendo più sofisticati e difficili da rilevare gli strumenti di disinformazione.

Rilevamento Automatico

L’intelligenza artificiale ha rivoluzionato il modo in cui affrontiamo il fenomeno della disinformazione, introducendo sistemi avanzati di rilevamento capaci di identificare rapidamente contenuti falsi o dannosi. In un panorama digitale in cui il volume di dati generato quotidianamente è immenso, il monitoraggio umano non è più sufficiente. Gli strumenti basati sull’AI si rivelano quindi essenziali per gestire questa complessità, offrendo risposte tempestive e precise.

Tra le innovazioni più rilevanti troviamo gli algoritmi di machine learning, che rappresentano il cuore dei sistemi di rilevamento automatico. Questi algoritmi, attraverso tecniche di apprendimento automatico, analizzano enormi quantità di dati alla ricerca di schemi che possano indicare la presenza di contenuti manipolati o falsi. Addestrati su dataset contenenti esempi di disinformazione già identificati, questi sistemi sono in grado di riconoscere caratteristiche comuni, come l’uso di titoli sensazionalistici, un linguaggio emotivamente carico o la presenza di immagini alterate. L’efficacia di tali strumenti risiede nella loro capacità di adattarsi a nuovi modelli di manipolazione, migliorando costantemente le proprie performance.

Un altro ambito cruciale è quello della verifica delle fonti. Strumenti basati su AI possono confrontare le informazioni che circolano online con fonti affidabili, identificando discrepanze e facilitando il lavoro dei fact-checker. In questo modo, la tecnologia accelera i tempi di verifica, permettendo di contrastare in maniera più efficiente la diffusione di contenuti falsi prima che raggiungano un pubblico vasto.

L’AI è anche fondamentale per contrastare una delle minacce più sofisticate: i deepfake, di cui più oltre tratteremo. Grazie a tecniche avanzate, è possibile analizzare video e immagini manipolati, individuando anomalie nei movimenti facciali, nella sincronizzazione delle labbra o nella qualità complessiva del contenuto visivo. Aziende come Adobe e Microsoft stanno sviluppando strumenti dedicati alla verifica dell’autenticità dei contenuti visivi, offrendo una risposta concreta a una tecnologia che può facilmente essere sfruttata per scopi malevoli.

Il monitoraggio del linguaggio d’odio è un altro fronte in cui l’AI dimostra il suo valore. Attraverso algoritmi di elaborazione del linguaggio naturale (NLP), è possibile analizzare i testi in tempo reale per identificare espressioni di hate speech. Questi sistemi non solo categorizzano i contenuti, ma assegnano priorità agli interventi, garantendo una risposta rapida ed efficace ai casi più gravi. In un contesto in cui il discorso d’odio può rapidamente degenerare in violenza reale, la capacità di intervenire tempestivamente è cruciale.

Infine, l’intelligenza artificiale è in grado di rilevare e analizzare reti di disinformazione. Attraverso l’analisi delle interazioni social, l’AI può individuare schemi che suggeriscono campagne coordinate, come la diffusione simultanea di messaggi simili da account collegati. Questa funzione è particolarmente utile per smascherare operazioni orchestrate, sia a livello politico che sociale, che mirano a destabilizzare la fiducia pubblica o a manipolare l’opinione delle persone.

In definitiva, l’intelligenza artificiale rappresenta uno strumento indispensabile per affrontare il fenomeno della disinformazione e dell’hate speech. Tuttavia, come ogni tecnologia, richiede un uso etico e responsabile. Solo attraverso un’implementazione trasparente e mirata sarà possibile sfruttare appieno il potenziale dell’AI per proteggere l’integrità delle informazioni e la coesione sociale.

Generazione di Contenuti

L’intelligenza artificiale, se da un lato rappresenta una risorsa preziosa per contrastare la disinformazione, dall’altro contribuisce a rendere il fenomeno MDHM ancora più pericoloso, fornendo strumenti per la creazione di contenuti falsi e manipolati con livelli di sofisticazione senza precedenti. È proprio questa ambivalenza che rende l’IA una tecnologia tanto potente quanto insidiosa.

Un esempio emblematico è rappresentato dai citati deepfake, prodotti grazie a tecnologie basate su reti generative avversarie (GAN). Questi strumenti permettono di creare video e immagini estremamente realistici, in cui persone possono essere mostrate mentre affermano o compiono azioni mai avvenute. I deepfake compromettono gravemente la fiducia nelle informazioni visive, un tempo considerate una prova tangibile della realtà. Ma non si fermano qui: la loro diffusione può essere utilizzata per campagne di diffamazione, per manipolare l’opinione pubblica o per destabilizzare contesti politici già fragili. La capacità di creare realtà alternative visive rappresenta una minaccia diretta alla credibilità delle fonti visive e alla coesione sociale.

Parallelamente, i testi generati automaticamente da modelli di linguaggio avanzati, come GPT, hanno aperto nuove frontiere nella disinformazione. Questi sistemi sono in grado di produrre articoli, commenti e post sui social media che appaiono del tutto autentici, rendendo estremamente difficile distinguere i contenuti generati da una macchina da quelli scritti da una persona reale. Non a caso, tali strumenti vengono già sfruttati per alimentare botnet, reti automatizzate che diffondono narrazioni polarizzanti o completamente false, spesso con l’obiettivo di manipolare opinioni e alimentare conflitti sociali.

Un ulteriore aspetto cruciale è rappresentato dalla scalabilità della disinformazione. L’automazione garantita dall’AI consente la creazione e la diffusione di contenuti falsi su larga scala, amplificandone in modo esponenziale l’impatto. Ad esempio, un singolo attore malevolo, sfruttando questi strumenti, può generare migliaia di varianti di un messaggio falso, complicando ulteriormente il compito dei sistemi di rilevamento. In pochi istanti, contenuti manipolati possono essere diffusi a livello globale, raggiungendo milioni di persone prima che si possa intervenire.

Infine, l’AI offre strumenti per la mimetizzazione dei contenuti, che rendono i messaggi manipolati ancora più difficili da individuare. Algoritmi avanzati consentono di apportare modifiche minime ma strategiche a testi o immagini, eludendo così i sistemi di monitoraggio tradizionali. Questa capacità di adattamento rappresenta una sfida continua per gli sviluppatori di strumenti di contrasto, che devono aggiornarsi costantemente per stare al passo con le nuove tecniche di manipolazione.

In definitiva, l’intelligenza artificiale, nella sua capacità di generare contenuti altamente sofisticati, rappresenta un’arma a doppio taglio nel panorama del MDHM. Se non regolamentata e utilizzata in modo etico, rischia di accelerare la diffusione della disinformazione, minando ulteriormente la fiducia pubblica nelle informazioni e destabilizzando la società. È indispensabile affrontare questa minaccia con consapevolezza e strumenti adeguati, combinando innovazione tecnologica e principi etici per limitare gli effetti di questa pericolosa evoluzione.

Sfide e Opportunità

L’impiego dell’intelligenza artificiale nella lotta contro il fenomeno del MDHM rappresenta una delle frontiere più promettenti ma anche più complesse dell’era digitale. Sebbene l’IA offra opportunità straordinarie per contrastare la diffusione di informazioni dannose, essa pone anche sfide significative, evidenziando la necessità di un approccio etico e strategico.

Le Opportunità Offerte dall’IA

Tra i vantaggi più rilevanti, spicca la capacità dell’AI di analizzare dati in tempo reale. Grazie a questa caratteristica, è possibile anticipare le campagne di disinformazione, identificandone i segnali prima che si diffondano su larga scala. Questo permette di ridurre l’impatto di tali fenomeni, intervenendo tempestivamente per arginare i danni.

Un altro aspetto fondamentale è l’impiego di strumenti avanzati per certificare l’autenticità dei contenuti. Tecnologie sviluppate da organizzazioni leader nel settore consentono di verificare l’origine e l’integrità dei dati digitali, restituendo fiducia agli utenti. In un contesto in cui la manipolazione visiva e testuale è sempre più sofisticata, queste soluzioni rappresentano un baluardo essenziale contro il caos informativo.

L’AI contribuisce inoltre a snellire le attività di fact-checking. L’automazione delle verifiche consente di ridurre il carico di lavoro umano, velocizzando la risposta alla diffusione di contenuti falsi. Questo non solo migliora l’efficienza, ma permette anche di concentrare le risorse umane su casi particolarmente complessi o delicati.

Le Sfide dell’AI nella Lotta al MDHM

Tuttavia, le stesse tecnologie che offrono queste opportunità possono essere sfruttate per scopi malevoli. Gli strumenti utilizzati per combattere la disinformazione possono essere manipolati per aumentare la sofisticazione degli attacchi, creando contenuti ancora più difficili da rilevare. È un paradosso che sottolinea l’importanza di un controllo rigoroso e di un uso responsabile di queste tecnologie.

La difficoltà nel distinguere tra contenuti autentici e manipolati rappresenta un’altra sfida cruciale. Man mano che le tecniche di disinformazione evolvono, anche gli algoritmi devono essere costantemente aggiornati per mantenere la loro efficacia. Questo richiede non solo investimenti tecnologici, ma anche una collaborazione continua tra esperti di diversi settori.

Infine, è impossibile ignorare i bias insiti nei modelli di AI, che possono portare a errori significativi. Algoritmi mal progettati o addestrati su dataset non rappresentativi rischiano di rimuovere contenuti legittimi o, al contrario, di non individuare alcune forme di disinformazione. Questi errori non solo compromettono l’efficacia delle operazioni, ma possono minare la fiducia nel sistema stesso.

Conclusione

L’intelligenza artificiale è una risorsa strategica nella lotta contro misinformation, disinformation, malinformation e hate speech, ma rappresenta anche una sfida complessa. La sua ambivalenza come strumento di difesa e al contempo di attacco richiede un uso consapevole e responsabile. Mentre da un lato offre soluzioni innovative per rilevare e contrastare contenuti manipolati, dall’altro consente la creazione di disinformazione sempre più sofisticata, amplificando il rischio per la stabilità sociale e istituzionale.

Il MDHM non è un fenomeno isolato o temporaneo, ma una minaccia sistemica che mina le fondamenta della coesione sociale e della sicurezza globale. La sua proliferazione alimenta un circolo vizioso in cui l’erosione della fiducia, la polarizzazione sociale e le minacce alla sicurezza si rafforzano reciprocamente. Quando la disinformazione contamina il flusso informativo, la fiducia nelle istituzioni, nei media e persino nella scienza si sgretola. Questo fenomeno non solo genera alienazione e incertezza, ma riduce la capacità dei cittadini di partecipare attivamente alla vita democratica.

La polarizzazione sociale, amplificata dalla manipolazione delle informazioni, è un effetto diretto di questa dinamica. Narrativi divisivi e contenuti polarizzanti, spinti da algoritmi che privilegiano l’engagement a scapito dell’accuratezza, frammentano il tessuto sociale e rendono impossibile il dialogo. In un clima di contrapposizione “noi contro loro”, le divisioni politiche, culturali ed etniche si trasformano in barriere insormontabili.

A livello di sicurezza, il MDHM rappresenta una minaccia globale. Le campagne di disinformazione orchestrate da stati o gruppi non statali destabilizzano intere regioni, fomentano violenze e alimentano conflitti armati. L’uso del hate speech come strumento di deumanizzazione ha dimostrato il suo potenziale distruttivo in numerosi contesti, contribuendo a un clima di vulnerabilità collettiva e individuale.

Affrontare questa sfida richiede un approccio integrato che combini educazione, regolamentazione e cooperazione globale.

Promuovere l’educazione critica: l’alfabetizzazione mediatica deve essere una priorità. Educare i cittadini a riconoscere e contrastare la disinformazione è il primo passo per costruire una società resiliente. Programmi educativi e campagne di sensibilizzazione devono dotare le persone degli strumenti necessari per navigare nel complesso panorama informativo.

Rafforzare la regolamentazione delle piattaforme digitali: le aziende tecnologiche non possono più essere semplici spettatori. È indispensabile che adottino standard chiari e trasparenti per la gestione dei contenuti dannosi, garantendo al contempo il rispetto della libertà di espressione. Una supervisione indipendente può assicurare l’equilibrio tra sicurezza e diritti fondamentali.

Incentivare la collaborazione globale: la natura transnazionale del MDHM richiede una risposta coordinata. Governi, aziende private e organizzazioni internazionali devono lavorare insieme per condividere risorse, sviluppare tecnologie innovative e contrastare le campagne di disinformazione su scala globale.

Solo attraverso un’azione concertata sarà possibile mitigare gli effetti devastanti del MDHM e costruire una società più resiliente e informata. Il futuro della democrazia, della coesione sociale e della sicurezza dipende dalla capacità collettiva di affrontare questa minaccia con determinazione, lungimiranza e responsabilità.


La caduta di Damasco e lo sgretolamento dell’Asse della Resistenza iraniano.

di Claudio Bertolotti.

La Siria di Bashar al-Assad non esiste più.

La rapida avanzata degli insorti islamisti, guidati dall’Hayat Tahrir al-Sham (HTS), contro il governo di Bashar al-Assad segna un punto di svolta critico nel panorama mediorientale. Dopo quasi quattordici anni di guerra civile, con un conflitto alimentato da interessi internazionali e influenze regionali, l’architettura di potere costruita dalla famiglia Assad – ereditata nel 2000 da Bashar dopo la lunga presidenza del padre Hafez – è oggi in disfacimento. L’offensiva, partita circa dieci giorni fa da Idlib, ha messo in ginocchio un regime un tempo ritenuto solido, sconfiggendo unità militari e paramilitari sostenute sia dall’Iran sia dalla Russia, pilastri di quell’“Asse della Resistenza” ideato per contenere le pressioni occidentali e israeliane.

I risultati tattici ottenuti dai gruppi islamisti e jihadisti, in parte sostenuti dalle forze del Syrian DDefense Forces curde, ma principalmente riconducibili a Hayat Tahrir al-Sham (HTS) guidata da Abu Mohammed al-Jolani, si sono rivelati decisivi: Aleppo, Hama e Homs – nodi strategici e simbolici del potere di Damasco – sono cadute senza una reale capacità di reazione da parte dei difensori. Il contenimento dell’opposizione armata, agevolato sin dal 2015 dall’intervento militare russo, è venuto meno. Mosca, impegnata su altri fronti e consapevole del mutato contesto strategico, sembra aver rivisto i propri interessi, lasciando indebolire la tenuta del regime. Di fronte a questa svolta, la stessa Teheran, uno dei principali sponsor del governo siriano, appare costretta a ridimensionare il proprio coinvolgimento, concentrandosi sulla preservazione di aree costiere e comunità tradizionalmente legate agli Assad.

La fuga di Assad, su cui insistono numerose fonti, non è ancora confermata ufficialmente, ma le sue smentite appaiono deboli. Damasco, un tempo simbolo dell’autorità presidenziale, è caduta. Sul piano diplomatico, il Qatar ospita una complessa trama negoziale: da un lato i ministri degli Esteri di Russia, Iran e Turchia; dall’altro, il “quartetto” occidentale (Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Germania) con i rappresentanti dell’UE e l’inviato ONU Geir Pedersen. Il risultato degli incontri è la proposta di una transizione politica a Ginevra, volta a salvaguardare le strutture statali e a coinvolgere figure del vecchio establishment non direttamente responsabili degli abusi del regime. Contemporaneamente si guarda alla pericolosa ipotesi di integrare componenti dell’opposizione armata, compresi alcuni elementi legati ad HTS, nonostante sia un “gruppo terroristico” riconosciuto da diverse potenze occidentali. Si tratta, evidentemente, di una necessaria concessione strategica: il nuovo equilibrio sul terreno costringe gli attori internazionali ad aprire canali di dialogo prima impensabili.

La posta in gioco è elevata: evitare un nuovo bagno di sangue e impedire il collasso dello Stato siriano, distinguendo nettamente l’apparato istituzionale dal regime uscente. Sullo sfondo, la riconfigurazione degli assetti regionali. L’indebolimento dell’Asse della Resistenza – costruito su un solido legame tra Damasco, Teheran, i proxy armati filo-iraniani e il supporto russo – mina l’influenza iraniana nel Levante e apre nuovi scenari di competizione. Il Libano, l’Iraq e persino le relazioni tra Israele e Iran risentiranno di queste dinamiche, così come la lotta al jihadismo internazionale.

Inoltre, l’accesso alle prigioni simbolo della repressione siriana, come Adra e Saydnaya, potrebbe rivelare le dimensioni degli abusi perpetrati negli ultimi decenni. Il rilascio e la restituzione di informazione sui prigionieri scomparsi potrebbero costituire gesti emblematici per favorire una qualche forma di riconciliazione post-conflitto.

La comunità internazionale, stretta tra il rischio di una deriva jihadista e la necessità di ristabilire un ordine politico sostenibile, si trova di fronte a un nuovo paradigma: la Siria come l’Afghanistan. Dinamiche simili, prospettive preoccupanti legate allo jihadismo internazionale che dalla Siria potrebbe minacciare la regione e l’Occidente. Ma ciò che più preoccupa è il ruolo che la Turchia, dopo aver sostenuto la caduta del regime attraverso il sostegno diretto agli islamisti dell’HTS – che ricordiamo, affondano le loro radici in al-Qa’ida e nell’ISIS – vorrà giocare coerentemente con la sua ambizione di influenza del Medioriente e del Nord Africa.


Il caos come arma. Esplorare l’accelerazionismo militante, dall’estrema sinistra all’estrema destra

di Andrea Molle, Chapman University, Professore Associato

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Abstract
L’accelerazionismo militante è definito dall’Accelerationism Research Consortium come un insieme di strategie volte a esacerbare le divisioni sociali per accelerare il collasso della società, attraverso mezzi spesso violenti. Questo fenomeno non è limitato a un’unica ideologia politica, essendo presente sia nell’estrema destra che nell’estrema sinistra, sebbene con manifestazioni differenti. L’accelerazionismo di estrema destra si oppone principalmente all’uguaglianza, vista come una minaccia all’ordine sociale naturale, e cerca di precipitare il crollo delle democrazie liberali, utilizzando la polarizzazione e la violenza politica. Dal punto di vista geopolitico, nazioni come Russia e Cina potrebbero sostenere tali movimenti per destabilizzare l’Occidente e minare la legittimità del modello democratico liberale, rafforzando le proprie posizioni autoritarie. L’accelerazionismo di estrema sinistra, invece, trae origine dal marxismo, con l’obiettivo di accelerare la caduta del capitalismo per innescare una rivoluzione proletaria. Queste dinamiche rappresentano una minaccia crescente per la sicurezza internazionale, poiché sfruttano le tensioni interne e le divisioni sociali per promuovere l’instabilità globale.

Keywords
Accelerationism, Far-left, Far-right, Manosphere, Radicalization, Societal collapse

Introduzione

L ’Accelerationism Research Consortium, un’iniziativa di ricerca specializzata nello studio dell’accelerazionismo militante, lo definisce come un insieme di tattiche e strategie volte a intensificare le divisioni sociali latenti, spesso attraverso mezzi violenti, al fine di accelerare il collasso della società. L’accelerazionismo non si allinea necessariamente con una specifica ideologia politica e può essere osservato sia nell’estrema sinistra che nell’estrema destra dello spettro politico, tuttavia, l’uno e l’altro si presentano con aspetti differenti. L’accelerazionismo militante di estrema destra non si preoccupa di criticare ad esempio il post-colonialismo, ma si concentra piuttosto sul contrastare il tema dell’uguaglianza, che è percepito come una manifestazione del decadimento sociale e una minaccia all’ordine sociale basato sulla disuguaglianza, che si considera invece ispirata all’ordine naturale. Per salvaguardare o ripristinare questo “ordine naturale”, l’accelerazionismo militante di estrema destra cerca pertanto di creare condizioni che facilitino il crollo del sistema liberale e democratico esistente. Ad esempio, lo scontro razziale viene usato come piattaforma per l’azione politica, con l’obiettivo di accelerare la caduta delle società liberali e capitaliste. La sua strategia principale prevede la diffusione di ideologie politiche contraddittorie e problematiche attraverso vari mezzi, come la promozione della polarizzazione o l’impegno nella violenza politica per creare emergenze e crisi sociali, con l’obiettivo di impedire il funzionamento delle istituzioni sociali.

Dal punto di vista delle relazioni internazionali e degli studi sulla sicurezza, è evidente che questo obiettivo è in linea con gli obiettivi di nazioni ostili. Si ritiene, per esempio, che Russia e Cina siano interessate per motivi strategici a sostenere l’accelerazionismo militante, indipendentemente dal suo allineamento ideologico o politico. In primo luogo, favorire il caos e la divisione all’interno delle nazioni occidentali serve a minarne la stabilità e l’influenza globale, rafforzando così potenzialmente la posizione di Russia e Cina sulla scena mondiale. Esacerbando le tensioni sociali e le polarizzazioni esistenti, questi paesi possono creare distrazioni per i governi occidentali, distogliendo la loro attenzione e le loro risorse da questioni globali come l’Ucraina o Taiwan. In secondo luogo, sostenere i gruppi accelerazionisti è in linea con l’obiettivo più ampio di contrastare il modello democratico liberale occidentale. Promuovendo ideologie estremiste che rifiutano le norme e le istituzioni democratiche, questi paesi cercano di delegittimare i valori occidentali e indebolire l’attrattiva della democrazia come sistema politico e sociale. Questa strategia può contribuire a rafforzare la legittimità dei regimi autoritari, presentandoli come una solida alternativa alle democrazie occidentali. Inoltre, favorire il conflitto interno nei paesi occidentali può fungere da forma di ritorsione o deterrenza contro la percepita interferenza occidentale negli affari interni di Russia e Cina. Sostenendo l’accelerazionismo militante, questi paesi possono reagire contro le sanzioni occidentali, le critiche agli abusi dei diritti umani, o il sostegno ai movimenti di opposizione. Inoltre, evidenziando le divisioni interne e i disordini sociali nelle nazioni occidentali, Russia e Cina possono dissuadere i governi occidentali dall’intervenire nei loro affari interni o dal perseguire politiche estere aggressive contro di loro.

1. Accelerazionismo militante di estrema sinistra
Il concetto di accelerazionismo ha origine in seno al marxismo, nella convinzione che intensificando le forze distruttive del sistema capitalistico si possa ottenerne la distruzione finale e la successiva liberazione, attraverso la rivoluzione proletaria. Il terrorismo di sinistra che si avvale di un impianto ideologico accelerazionista, prescrive l’uso o la minaccia della violenza da parte di entità subnazionali che si oppongono al capitalismo, all’imperialismo e al colonialismo. Questa tendenza si manifesta anche nei movimenti di difesa dei diritti ambientali o degli animali, o ancora in quelli che sostengono sistemi sociali e politici decentralizzati, come l’anarchismo. In termini di incidenti, il numero di incidenti mortali attribuiti a ideologie di estrema sinistra varia nel tempo. Il picco globale della violenza rivoluzionaria accelerazionista di sinistra si è verificato durante gli anni ’60 e ’70. Tuttavia, fino al 2012, il numero degli eventi terroristici di estrema sinistra è di circa quattro volte quello degli eventi di estrema destra. Negli ultimi anni, in particolare nel 2019 e nel 2020, il numero di incidenti di estrema destra e di estrema sinistra è stato più o meno uguale. In tempi più recenti, la situazione ha iniziato a differire tra Europa e Stati Uniti. In Europa gli attacchi dell’estrema sinistra hanno ripreso ad
essere più diffusi, e in particolare quelli mirati ad attaccare organizzazioni di destra. Ad esempio, le organizzazioni tedesche come Engel – Guntermann e Hammerbande si concentrano chiaramente nel prendere di mira gli estremisti di destra, o individui percepiti come tali. Tuttavia, c’è un notevole cambiamento nel loro approccio, poiché sono sempre più impegnati in attività che vanno oltre i conflitti locali con l’ambiente estremista di destra. Gli analisti suggeriscono anche un aumento dei legami con gruppi esterni. Questa interconnessione tra le reti estremiste di sinistra in Europa ha il potenziale per influenzare le loro strategie e gli obiettivi specifici che scelgono.

Negli Stati Uniti, secondo l’Anti-Defamation League, solo il 6% delle 443 vittime di estremisti registrate tra il 2012 e il 2021 erano motivate ideologie di estrema sinistra. In confronto, il 75% era connesso a convinzioni di estrema destra e il 20% a convinzioni islamiste. È importante notare che tutte le vittime delle ideologie di estrema sinistra negli Stati Uniti erano motivate dal nazionalismo nero, che l’ADL classifica come estremismo di sinistra. Nel complesso, la minaccia violenta rappresentata dagli estremisti di sinistra negli Stati Uniti rimane relativamente piccola, mentre in Europa è in aumento. La tendenza è stata confermata da diverse autorità. Ad esempio, il Terrorism Situation and Trend Report (TE-SAT) riporta che l’80% degli attacchi eseguiti con successo nel 2022 sono stati compiuti da gruppi terroristici di sinistra e anarchici.

A livello globale, i movimenti affiliati alle ideologie di estrema sinistra includono gruppi Antifa, nonché gruppi che si occupano di questioni ambientali. Ci sono anche vari media alternativi di estrema sinistra, come The Grayzone o Breakthrough News, e organizzazioni come il Partito per il Socialismo e la Liberazione o il Partito Mondiale dei Lavoratori. Queste entità possono occasionalmente esprimere simpatia per regimi autoritari percepiti come ostili all’Occidente e abbracciare teorie del complotto. Anche se queste piattaforme potrebbero non sostenere apertamente la violenza, i loro contenuti e le loro campagne sostengono attivamente ideologie autoritarie all’interno del pubblico mainstream, erodendo così la credibilità dei difensori dei diritti umani e della democrazia e promuovendo la polarizzazione.
The Grayzone, un media di estrema sinistra, esemplifica questa tendenza preoccupante. Fondata nel 2015 dal giornalista Max Blumenthal poco dopo
un viaggio a Mosca, questa piattaforma mediatica adotta costantemente una posizione apparentemente antimperialista, difendendo spesso il presidente siriano Bashar al-Assad, Vladimir Putin e il venezuelano Maduro per la loro presunta resistenza contro il dominio degli Stati Uniti. Inoltre, si nega il genocidio uiguro e gli attacchi con gas chimici in Siria. Lo stesso Blumenthal ha partecipato a manifestazioni anti-lockdown e antivaccini e attualmente svolge un ruolo molto attivo nel movimento pro-Hamas/pro-palestinese, che rappresenta una nuova sfida significativa e allarmante per la sicurezza nazionale.

L’uso di Internet da parte dell’accelerazionismo militante di estrema sinistra L’esplorazione della cultura online di estrema sinistra è un argomento spesso trascurato. Questa particolare fazione, che esiste ai margini della sinistra più ampia, si posiziona contro varie ideologie e gruppi come l’alt-right, la correttezza politica, i social justice warriors e le posizioni centriste e liberal-democratiche. Nonostante le sue radici ideologiche e la tendenza della sinistra a disprezzare la cultura popolare online, impiega tattiche simili a quelle dell’alt-right online, compreso l’uso dell’umorismo, dei meme, del trolling su Twitter e dell’aperta ostilità. Tuttavia, rimane saldamente radicato nell’ideologia progressista di sinistra. Indicato con vari nomi come “alt-left”, “volgar left” o “Dirtbag Left”, l’origine di questo movimento è attribuita ad Amber Frost, scrittrice, podcaster e attivista con sede a Brooklyn. Il suo podcast Chapo Trap House, strettamente associato a questo movimento, utilizza comicità e ironia in uno stile da atleta shock, criticando allo stesso tempo sia il partito democratico che quello repubblicano. Altri media e individui collegati alla sinistra sporca includono TrueAnon e Red Scare, anch’essi vagamente associati al movimento BlueAnon, una controparte di sinistra del noto fenomeno QAnon.

2. Accelerazionismo militante di estrema destra
Inizialmente, l’accelerazionismo militante non era principalmente associato all’estremismo di estrema destra. Tuttavia, si è fatto strada gradualmente in questo
ambiente attraverso due vie significative. In primo luogo, negli anni ’90, il filosofo britannico Nick Land sviluppò una versione libertaria dell’accelerazionismo di destra dopo aver studiato i lavori di Gilles Deleuze e Félix Guattari sull’accelerazionismo di sinistra e incorporando la sua interpretazione dell’analisi del capitalismo di Marx. Due decenni dopo, all’inizio degli anni 2010, le idee di Land hanno guadagnato terreno nel movimento emergente dell’“alt-right”, che si è profondamente interessato al suo concetto antiegualitario e antidemocratico di “neo-reazione”. Il secondo e più influente percorso attraverso il quale l’accelerazionismo si è infiltrato nell’estrema destra è stata la pubblicazione del libro Siege, che raccoglieva post di newsletter scritti dal neonazista americano James Mason, un ammiratore di Charles Manson. Mason era coinvolto in varie organizzazioni naziste negli Stati Uniti già dalla fine degli anni ’60, aveva legami personali con importanti leader di estrema destra, tra cui George Lincoln Rockwell, il leader del Partito nazista americano, e William Pierce, l’autore del romanzo The Turner Diaries, che ha ispirato l’attacco terroristico del 1995 a Oklahoma City. Mason fu influenzato anche da Joseph Tommasi, il leader del Fronte di Liberazione Nazionale Socialista, un gruppo ispirato dalle organizzazioni di sinistra e dalla guerriglia urbana che sosteneva la creazione del caos attraverso il terrorismo come mezzo per destabilizzare l’ordine politico negli Stati Uniti.

Mason creò la newsletter Siege, pubblicata dal 1980 al 1986, come piattaforma per esprimere la sua disapprovazione per la posizione assunta dall’estremismo di estrema destra americano. Nelle pagine della sua pubblicazione, incorporò elementi di teorie cospirative antisemite e razziste, concentrandosi in particolare su una “cospirazione mondiale ebraica” che mirava a eseguire un “genocidio bianco”. Questo concetto, ora etichettato come “Grande Sostituzione”, ha contribuito allo sviluppo del mito del Deep State, generando il cliché bipartisan di un “governo occulto sionista” in America. Nel suo libro, Mason sosteneva anche che l’ordine sociale prevalente era diventato così profondamente corrotto che organizzazioni consolidate come il Partito nazista americano, con i loro metodi convenzionali di impegno politico, erano diventate inefficaci nel perseguimento della liberazione della “razza bianca”. Secondo Mason, il progresso poteva essere raggiunto solo attraverso mezzi rivoluzionari e violenti messi in atto da individui e l’instaurazione di un “Nuovo Ordine” nazionalsocialista avrebbe richiesto la distruzione della società. L’accelerazionismo militante di estrema destra, come sottotipo del terrorismo apocalittico, si ispira fortemente ai luoghi comuni antisemiti, inclusi concetti come il “genocidio bianco” e la “teoria della grande sostituzione”. Inoltre, sfrutta la conoscenza tradizionale percepita e i codici culturali per razionalizzare le loro convinzioni antimoderne e prendere di mira gli individui che ritengono responsabili del decadimento sociale. Di conseguenza, l’accelerazionismo può essere visto quasi al pari di una religione, come evidenziato dalle sue somiglianze e dalla sua mescolanza con gruppi come i Branch Davidians, la cui escatologia rispecchia dinamiche simili.

L’uso di Internet da parte dell’accelerazionismo militante di estrema destra
Negli Stati Uniti, gli aderenti alle ideologie di estrema destra hanno riconosciuto il potenziale di Internet già negli anni ’80. Hanno capito che le piattaforme online offrivano un’opportunità senza precedenti per diffondere il loro messaggio a un pubblico più ampio senza i vincoli imposti dai media tradizionali. In particolare, David Duke, una figura di spicco del movimento estremista di estrema destra statunitense ed ex leader del Ku Klux Klan, ha lodato Internet come piattaforma ideale per una “rivoluzione bianca”. L’avvento della comunicazione online ha giocato un ruolo significativo nell’ascesa di Siege, in particolare durante la metà degli anni 2010, quando l’ “alt-right” ha guadagnato importanza. Questo movimento ha abbracciato strategie di azione militante, che sono state ulteriormente amplificate in seguito alla manifestazione “Unite the Right” a Charlottesville, negli Stati Uniti, nell’agosto 2017. Gli eventi circostanti la manifestazione, inclusa la tragica uccisione della contro-manifestante Heather Heyer, hanno scatenato intense dibattiti all’interno della comunità estremista di estrema destra americana. La critica di Mason alle manifestazioni e la sua difesa dell’accelerazionismo militante hanno avuto ampia risonanza in queste discussioni. Di conseguenza, in seguito agli eventi di Charlottesville, l’hashtag #ReadSiege ha guadagnato terreno sia a livello nazionale che all’interno del discorso online transnazionale di estrema destra.

Screenshot da un documentario della PBS (7 agosto 2018)

Come oggi, il rischio associato all’accelerazionismo militante è monitorato principalmente in Nord America, con solo un numero limitato di analisti europei che tengono attivamente sotto controllo le sue attività. La globalizzazione dell’accelerazionismo militante di estrema destra durante gli anni 2010 ha dato origine a varie traiettorie, tutte strettamente intrecciate con gli spazi digitali, che dovrebbero sollevare preoccupazioni. Una piattaforma importante per l’accelerazionismo militante di estrema destra è stata la Iron March, in lingua inglese, che ha operato dal 2011 al 2017 ed è servita da terreno fertile per i gruppi accelerazionisti. Questo forum ha attirato una vasta gamma di militanti estremisti
di estrema destra che si sentivano emarginati da altri forum Internet come Stormfront, fondato nel 1996, o erano insoddisfatti delle offerte delle organizzazioni di estrema destra esistenti rivolte ai giovani. All’interno del forum Iron March, i membri coltivavano la propria sottocultura di accelerazionismo militante di estrema destra, caratterizzata da testi chiave e un’estetica distinta con loghi ispirati ai simboli delle Waffen SS e maschere di teschi in bianco e nero. Gli amministratori di Iron March hanno incoraggiato attivamente la comunicazione online transnazionale e facilitato il networking regionale e locale tra i membri oltre i confini del regno digitale. In particolare, tra gli utenti di Iron March è emersa una rete terroristica estremista di estrema destra, che rimane attiva anche a tutt’oggi. L’influenza di
Iron March, ponendo un’enfasi significativa sull’azione, si è estesa oltre lo sviluppo della sua sottocultura estremista di estrema destra. Di conseguenza, diversi gruppi accelerazionisti, tra cui National Action (Regno Unito), Feuerkrieg Division (USA) e Antipodean Resistance (2016), sono stati istituiti come propaggini di questo forum. È anche importante riconoscere che Iron March segnò semplicemente l’inizio di questo fenomeno.

La globalizzazione dell’accelerazionismo militante di estrema destra
La vera ascesa della rete globale di accelerazionismo militante di destra può essere fatta risalire al periodo tra il 2018 e il 2019, che ha visto eventi significativi come l’attacco alla Sinagoga Tree of Life a Pittsburgh (USA) e l’attacco a Christchurch, in Nuova Zelanda. Questi incidenti hanno mostrato un elevato livello di sofisticazione nel modo in cui gli autori hanno pubblicizzato le loro azioni. Un esempio ha riguardato la diffusione di un ampio manifesto online e lo streaming live dell’attacco, stabilendo un nuovo punto di riferimento per la violenza di estrema destra. Ne è seguita, naturalmente, un’ondata di attacchi imitativi, inclusi ma non limitati a Poway ed El Paso negli Stati Uniti, a Oslo e Halle in Europa. Durante questo periodo, la piattaforma digitale 8chan è servita come hub online preferito per l’accelerazionismo militante, facilitando la diffusione della sua propaganda. Tuttavia, la crescente pressione da parte del pubblico e delle istituzioni alla fine ha portato alla chiusura di 8chan nell’agosto 2019. Inizialmente, questa chiusura ha avuto un effetto frenante sulla diffusione della propaganda, ma alla fine i gruppi accelerazionisti si sono ripresi. Tuttavia, quando la piattaforma è riemersa come 8kun nel novembre 2019, molti ex utenti erano già migrati su Telegram. Telegram, fondata da Pavel e Nikolai Durov nel 2013, mirava inizialmente a fornire un mezzo per la comunicazione online che sarebbe stato più difficile da monitorare per stati autoritari come la Russia. Tuttavia, nel giro di pochi anni, ha sviluppato funzionalità aggiuntive che lo hanno trasformato in una piattaforma di social media. In particolare, la capacità di crittografare i messaggi nella comunicazione uno a uno lo rendeva particolarmente attraente per i gruppi di estrema destra e jihadisti per diffondere propaganda e reclutare nuovi membri. Per individui e gruppi di estrema destra i cui account erano stati bloccati o cancellati su piattaforme di social media più tradizionali, Telegram ha offerto un’alternativa sicura per raggiungere un pubblico più ampio. Di conseguenza, alcune nicchie di Telegram sono diventate note come “Terrorgram”, a causa del funzionamento indisturbato dei gruppi terroristici e della glorificazione dei terroristi e delle loro azioni sulla piattaforma. La frammentazione tra le due piattaforme ha comportato una diminuzione della dimensione percepita del pubblico dell’accelerazionismo militante di estrema destra. È interessante notare che questa divisione ha anche stabilito una gerarchia, con gli utenti di Telegram che si consideravano i leader, o “generali”, del movimento, cercando attivamente di reclutare le masse, o “soldati di fanteria”, per la loro causa. L’8kun, recentemente ristabilito, è emerso come una piattaforma ideale per reclutare la fanteria, poiché molti tentativi di attacco sono stati effettuati da membri attivi di questo imageboard.

3. La manosfera
Nonostante un calo generale delle attività pubbliche tra i militanti accelerazionisti di estrema destra durante la pandemia di COVID-19, i loro sforzi digitali sono aumentati in modo significativo dalla primavera del 2022. Di conseguenza, è aumentato anche il numero di attacchi sventati. Le tendenze primarie che hanno avuto origine all’interno di queste comunità online strettamente unite durante gli anni ’80, ’90 e 2000 rimangono rilevanti all’interno del social network globale in cui si sono evolute. In particolare, emergono continuamente nuovi spazi online, che spesso hanno poca somiglianza con le tradizionali organizzazioni estremiste di estrema destra. Queste reti decentralizzate, organizzate in cellule, promuovono sottoculture definite dai loro codici culturali, come i meme, e si adattano costantemente per aumentare la loro rilevanza nella sfera pubblica. Ora hanno permeato altri regni online, comprese le piattaforme di gioco, e fanno affidamento sulla più ampia cultura dei troll su Internet. Si propagano attraverso la manosfera, un insieme di comunità incentrate sull’antifemminismo radicale e sull’ambiente della teoria della cospirazione, dove gli individui cercano “la verità” o abbracciano l’ideologia della “pillola rossa”. Queste reti prosperano in forum “politicamente scorretti” formando una sottocultura transnazionale che ruota
attorno a contenuti estremisti di estrema destra, misogini, antisemiti e misantropici, sia ironici che seri. Di particolare interesse è la manosfera, che ha attirato l’attenzione degli accelerazionisti a causa della sua rapida crescita e del potenziale di esplosioni violente nel mondo reale.

Nonostante venga definita un nome collettivo, la manosfera comprende quattro sottoculture distinte: attivisti per i diritti degli uomini che vedono le politiche femministe come dannose per i diritti dei maschi, incel (celibi involontari) che ritengono le donne responsabili della loro mancanza di opportunità e status sociale, separatisti che credono in una cospirazione femminista per smantellare la mascolinità e sostenere la completa segregazione tra i generi, e il tipo seducente che oggettiva le donne e promuove l’accettazione della cultura dello stupro. Queste sottoculture emergenti si allineano anche con le culture dell’odio digitale esistenti che hanno già stabilito la loro presenza su varie piattaforme, rafforzando così i loro sforzi di reclutamento.

4. Quando destra e sinistra uniscono le forze
È importante riconoscere che i gruppi accelerazionisti agiscono principalmente come opportunisti e colgono ogni opportunità per infiltrarsi in un movimento popolare. Ciò è stato evidente in vari casi nel corso della storia. Ad esempio, nel 2020, il movimento antigovernativo di estrema destra Boogaloo ha tentato di associarsi al movimento Black Lives Matter rivendicando obiettivi condivisi. Allo stesso modo, negli anni 2000, i Black Bloc di estrema sinistra hanno sfruttato con successo le proteste popolari contro i leader del G8. Durante la pandemia, sia i gruppi di estrema sinistra che quelli di estrema destra si sono uniti contro le misure di blocco. In questi contesti è emersa anche la violenza stocastica, che si manifesta come atti sporadici di aggressione, intimidazione o distruzione di proprietà. Sebbene tali incontri si schierassero apparentemente contro gli obblighi di vaccinazione e percepissero violazioni delle libertà personali, spesso attiravano individui con inclinazioni estremiste provenienti sia dall’estremismo di sinistra che da quello di destra dello spettro politico. Nel mezzo del trambusto di questi eventi, attori solitari o piccole fazioni si sono impegnati in atti di violenza casuale (stocastica), che vanno dalle molestie verbali alla violenza fisica, volti a seminare il caos e instillare paura. Gli estremisti di estrema destra hanno sfruttato queste manifestazioni per propagare sentimenti antigovernativi e amplificare la sfiducia nelle istituzioni sanitarie pubbliche, mentre l’estrema sinistra le ha viste come opportunità per sfidare gli interessi aziendali e in particolare le grandi aziende farmaceutiche. La natura imprevedibile della violenza stocastica in questo contesto non solo pone preoccupazioni immediate per la sicurezza, ma sottolinea anche la più ampia polarizzazione sociale e radicalizzazione che alimenta tali eventi.

Nell’attuale contesto politico, questi gruppi si stanno ora allineando con il movimento filo-palestinese. Il movimento filo-palestinese ha ottenuto un sostegno significativo negli ultimi mesi, con numerosi manifestanti scesi in piazza in tutto il mondo per chiedere un cessate il fuoco a Gaza. Sfortunatamente, questa ondata di sostegno ha anche creato un ambiente in cui vari gruppi, tra cui accelerazionisti di estrema sinistra, estrema destra e organizzazioni antisemite, tentano di associarsi al
movimento filo-palestinese tradizionale. Ciò ha provocato una rete confusa di affermazioni e una diffusa diffusione di disinformazione. Un modo in cui questi gruppi sfruttano il movimento filo-palestinese è adottandone il linguaggio per criticare le azioni del governo israeliano a Gaza, tuttavia, utilizzano la piattaforma per promuovere teorie e stereotipi del complotto antiebraico. Le fazioni di destra fanno spesso riferimento alla teoria del complotto della “Grande Sostituzione”, sostenendo senza fondamento che gli individui ebrei facilitano intenzionalmente la migrazione nei paesi occidentali per sostituire i bianchi. D’altro canto, le fazioni di sinistra attaccano le democrazie liberali e le economie basate sul mercato invocando riferimenti al sionismo e al colonialismo. Negli Stati Uniti e in Europa, gli estremisti di estrema destra e di estrema sinistra hanno sfruttato la crescente rabbia nei confronti del governo israeliano come un’opportunità per diffondere teorie del complotto antisemite, antidemocratiche e anticapitaliste. La loro intenzione è legittimare queste idee all’interno del discorso mainstream e attirare nuove reclute.

Main takeaways
Sia i gruppi accelerazionisti militanti di estrema sinistra che quelli di estrema destra possiedono un vantaggio evolutivo digitale dovuto alle trasformazioni nel panorama dei media online, che hanno creato nuove strade per la radicalizzazione. Questi accelerazionisti hanno anche utilizzato strategicamente algoritmi per indirizzare gli individui suscettibili al reclutamento. A differenza dei loro predecessori BBS negli anni ’80 e ’90, che rispecchiavano le comunità della vita reale, le piattaforme odierne sono caratterizzate dall’”economia dell’attenzione” e dalla “dipendenza dalla dopamina”. I post che non riescono ad attirare sufficiente attenzione vengono gradualmente eliminati dalle prime pagine per fare spazio a post particolarmente accattivanti, trasformando di fatto l’estremismo in una dipendenza chimica. Inoltre, la violenza dell’estrema sinistra e dell’estrema destra sono sempre più interconnesse, creando un classico “dilemma sulla sicurezza”. Queste caratteristiche amplificano ulteriormente la natura pericolosa di questo fenomeno e dovrebbero richiedere un monitoraggio e un intervento attivi.

La violenza stocastica è una tattica inquietante impiegata dagli estremisti politici, caratterizzata dalla sua natura imprevedibile e casuale. A differenza della violenza organizzata con obiettivi e obiettivi chiari, la violenza stocastica mira a creare un’atmosfera pervasiva di paura e incertezza colpendo apparentemente a caso. Questa strategia spesso coinvolge attori solitari o piccoli gruppi che compiono atti di violenza senza il coordinamento diretto di un’organizzazione più ampia, rendendo difficile per le autorità anticiparli o prevenirli. Gli autori del reato possono essere motivati da ideologie o rivendicazioni estreme, utilizzando la violenza come mezzo per diffondere il terrore e portare avanti la propria agenda. La violenza stocastica rappresenta una sfida significativa per gli sforzi antiterrorismo, poiché può essere difficile individuare e affrontare preventivamente la radicalizzazione alla base di tali attacchi. Inoltre, la sua natura imprevedibile amplifica l’impatto psicologico sulle comunità, alimentando paura e sfiducia e minando la coesione sociale. Affrontare la violenza stocastica richiede un approccio articolato che affronti non solo le preoccupazioni immediate in materia di sicurezza, ma anche i fattori sociali sottostanti che contribuiscono all’estremismo e alla radicalizzazione.

L’accelerazionismo militante è emerso come uno strumento per paesi stranieri ostili come la Russia e la Cina per seminare il caos e destabilizzare le nazioni occidentali dall’interno. Queste nazioni possono clandestinamente sostenere o manipolare gruppi estremisti che aderiscono a dottrine accelerazioniste per esacerbare le tensioni sociali esistenti e sfruttare le vulnerabilità dei sistemi democratici. Ad esempio, la Russia è stata accusata di utilizzare piattaforme online per amplificare narrazioni divisive e sostenere movimenti accelerazionisti di estrema destra in Europa e negli Stati Uniti, con l’obiettivo di minare la fiducia nelle istituzioni democratiche e favorire la discordia interna. Allo stesso modo, la Cina è stata coinvolta nel finanziamento e nella promozione di fazioni estremiste per sfruttare le
faglie sociali nelle società occidentali, indebolendo così la loro coesione e influenza globale. Tale sfruttamento dell’accelerazionismo militante sottolinea la natura evolutiva della guerra asimmetrica, in cui attori non statali e ideologie marginali diventano strumenti nelle strategie geopolitiche di nazioni ostili. Nel complesso, Russia e Cina potrebbero sostenere i gruppi militanti accelerazionisti in Occidente come parte di una strategia multiforme per indebolire i loro avversari, sfidare i valori e le istituzioni occidentali e promuovere i propri interessi geopolitici sulla scena globale.

In conclusione, il rischio di un’accelerazione del terrorismo è chiaro e significativo mentre ci avviciniamo al 2024, e potrebbe addirittura aumentare ulteriormente nel periodo precedente alle elezioni presidenziali statunitensi o alle prossime elezioni europee. È probabile che individui scontenti e gruppi estremisti armati continuino a ricorrere alla violenza per scatenare una rivoluzione e impedire a quello che percepiscono come il Deep State di manipolare le elezioni nei propri interessi. L’attuale scontro di narrazioni contrastanti, presenti in quasi ogni aspetto del discorso politico, aggravato dalle divisioni partitiche e amplificato sui social media, continuerà a ostacolare gli sforzi dei governi nell’affrontare la minaccia del terrorismo interno. L’atmosfera attuale ricorda in modo allarmante il periodo precedente a eventi come gli “anni di piombo” o l’attentato di Oklahoma City. In quegli anni, la retorica estremista spingeva presunti patrioti o rivoluzionari, come Mario Moretti o Timothy McVeigh, a proteggere i loro concittadini da quello che vedevano come un governo corrotto sostenuto da una ricca élite. Oggi ci sono potenzialmente molti più individui con una propensione analoga, e non possiamo permetterci di aspettare un’altra serie di eventi tragici prima che venga intrapresa un’azione decisiva contro questa minaccia.

Andrea Molle, Ph.D., FRAS, Senior Research Fellow, Orange (California, Stati Uniti). Scienziato sociale quantitativo e computazionale. Dal 2012 è Assistant Professor di Scienze Politiche e Ricercatore associato all’Institute for the Study of Religion, Economics, and Society della Chapman University. Dal 2006 al 2008 è stato JSPS Fellow
in Antropologia al Nanzan Institute for Religion and Culture (Nagoya, Giappone).


Estremismo giovane, autonomo ed emancipato

di Chiara Sulmoni, Presidente START InSight

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Abstract
Fra il 2023 e il 2024 in vari paesi europei si è fatta strada una seria preoccupazione riguardo il coinvolgimento di teenagers e minorenni in reati legati al terrorismo e attività estremiste. Se a portare a termine attacchi e attentati sono ancora in gran parte uomini poco al di sotto dei 30 anni, la radicalizzazione online fa presa sui giovanissimi in maniera inedita, rappresentando una sfida tutt’altro che facile per chi opera nella prevenzione e nel contrasto.

Keywords Accelerationism, Radicalization, Terrorism

1. Teenagers ed estremismo

La sera di sabato 2 marzo 2024 in un quartiere centrale di Zurigo un quindicenne svizzero di origini tunisine accoltella gravemente un ebreo ortodosso. Nelle ore successive all’attacco, emerge in rete un video preregistrato nel quale il ragazzo, che si definisce un “soldato del Califfato” e giura fedeltà allo Stato Islamico, dichiara di avere agito in risposta all’appello lanciato da quest’ultimo di colpire “gli ebrei, i cristiani e i loro alleati criminali”, e incita a sua volta altri a prendere l’iniziativa (1).

L’ evento si inserisce in un contesto globale che è stato segnato da un sensibile aumento dall’antisemitismo dopo il brutale attentato terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023, al quale Israele ha risposto mettendo Gaza a ferro e fuoco; una realtà che con il suo tragico carico di vittime civili ha alimentato tanto le narrative della sfera jihadista e degli estremismi più in generale, quanto la polarizzazione sociale che ha trovato sfogo, talvolta violento, nelle piazze, nelle università e su internet. Un clima dal forte potenziale di radicalizzazione e di mobilitazione, accentuato da un’intensa disinformazione, a cui sono esposti anche ragazzini al di sotto dei 15 anni.(2)

La Confederazione -già colpita nel 2020 da due attacchi all’arma bianca di matrice jihadista a Morges e a Lugano, che avevano in quell’occasione però visto passare all’azione un uomo e una donna adulti, scagliatisi contro vittime scelte a caso- si confronta improvvisamente con una tendenza che caratterizza ormai da qualche anno l’universo dell’estremismo violento e della radicalizzazione in Europa, e che consiste nel progressivo abbassamento dell’età di chi è coinvolto in questi fenomeni.

Nel 2021, le statistiche inglesi indicavano già un incremento rilevante negli arresti di ragazzi al di sotto dei 18 anni, sospettati di aver commesso reati legati al terrorismo, con una prevalenza della matrice di estrema destra (3). Le percentuali hanno continuato a salire toccando il picco finora più alto nel 2023, quando sul totale dei fermi -tra giovani e adulti- quasi il 19% riguardava teenagers non ancora 17enni (4).

L’attrattiva dei ragazzi e delle ragazze nei confronti del jihadismo è coerente con quanto avvenuto nel periodo che ha segnato la massima espansione territoriale dell’ISIS, attorno alla metà dello scorso decennio; anche allora il Vecchio Continente aveva visto numerosi adolescenti aderire alla narrativa e progettualità dello Stato Islamico, mettendosi in viaggio nel tentativo di raggiungere la Siria e l’Iraq; come la teenager inglese Shamima Begum, partita da Londra a 15 anni nel 2015 insieme a delle coetanee e oggi bloccata in Medioriente in uno dei campi di detenzione dove sono confinate le famiglie degli ex-combattenti. Il suo è divenuto un caso controverso ed emblematico, dopo che le autorità britanniche hanno deciso di privarla della nazionalità rendendola, di fatto, apolide, nonostante c’è chi ritenga che sia stata vittima di indottrinamento e forse anche di tratta (5).

Giovanissimi commisero violenze di natura jihadista dopo che l’ISIS, a partire dal 2014, iniziò ad incoraggiare i propri sostenitori rimasti nei rispettivi paesi di residenza ad attivarsi con i mezzi a disposizione, inaugurando anche la stagione dei cosiddetti “lupi solitari” -una definizione fuorviante, in ragione delle reti di contatti e relazioni che emergono nella maggior parte delle indagini-. Questa mossa strategica del Califfato ha cambiato in maniera permanente il modus operandi dei terroristi, valorizzando l’autonomia dei singoli e permettendo al gruppo terroristico, quando confrontato con difficoltà operative, di continuare a proiettare un’immagine di forza rivendicando azioni di ‘successo’ portate avanti dai propri simpatizzanti.

Uno studio sugli attentati di matrice islamista avvenuti in Europa fra il 2014 e il 2017 indicava che, tra attacchi riusciti e sventati, teenagers e ragazzini erano coinvolti in poco meno di un quarto degli eventi jihadisti; il fenomeno interessava soprattutto la Francia, la Germania e il Regno Unito (6).

Un evento simile a quello di Zurigo si era verificato, ad esempio, a Marseille nel 2016, quando un 15enne di etnia curda aveva attaccato un docente, anch’egli di religione ebraica, nei pressi dell’istituto scolastico dove insegnava.

Casi più recenti sono stati l’uccisione brutale, nel novembre del 2020 alle porte di Parigi, del Prof. Samuel Paty da parte di un 18enne russo di origine cecena, a seguito di una violenta campagna islamista via social che era stata scatenata nei giorni precedenti contro il docente; o quella di un insegnante in un liceo di Arras, nell’ottobre del 2023, ad opera di radicalizzato di 20 anni originario dell’Inguscezia. Dopo quest’ultimo attacco, il procuratore anti-terrorismo francese Jean -François Ricard dichiarò che negli ultimi tre anni (dal 2020, ndr) nel paese era stata riscontrata una crescente propensione, da parte dei giovanissimi, alla pianificazione di atti violenti (7).

Va specificato che gli attacchi portati a termine rimangono ancora in gran parte appannaggio degli adulti; dal database del centro d’analisi e ricerca START InSight, che traccia i profili degli jihadisti entrati in azione in Europa, emerge che l’età mediana di chi ha colpito l’Europa fra il 2014 ed oggi è di 26 anni: un dato che subisce variazioni -dai 24 anni registrati nel 2016 ai 30 anni del 2019-, e che nel 2023 indica l’età perfino in lieve risalita, attestandosi sui 28.5 anni.

Più in generale, emerge come il 7% dei terroristi avesse un’età inferiore ai 19 anni (con una riduzione progressiva dei minori!); il 38% un’età compresa tra i 19 e i 26 anni; il 41,5% tra i 27 e i 35 anni e infine, il 13,5% di età superiore ai 35 anni.

In precedenza, uno studio del 2019 della Scuola Universitaria per le Scienze Applicate di Zurigo (ZHAW), basato sulle informazioni disponibili relative a 130 diversi casi di natura jihadista di cui si era occupato il Servizio delle Attività Informative della Confederazione nel corso dei dieci anni precedenti, indicava che a radicalizzarsi al di sotto dei 20 anni era stato il 18% degli individui, mentre per i minorenni il dato – all’epoca piuttosto contenuto- scendeva al 6% (8).

Tuttavia nel Canton Vaud, dove è stato istituto nel 2018 un programma di prevenzione della radicalizzazione, più del 40% dei casi trattati riguarda minorenni (9). E recentemente, il capo dell’intelligence elvetica Christian Dussey ha dichiarato come la radicalizzazione di matrice jihadista dei minorenni tocchi oggi la Confederazione in proporzioni (addirittura) maggiori rispetto agli altri Stati europei (10). Poco dopo l’attacco di Zurigo, nella Svizzera francese e tedesca sono stati fermati altri sei ragazzi fra i 15 e i 18 anni, in contatto con coetanei in Germania, Francia e Belgio; alcuni, in questa rete, apparentemente intenzionati a portare avanti attacchi. Nei primi 9 mesi del 2024, la Polizia svizzera sarebbe intervenuta in 11 casi di giovani radicalizzati; è stato fermato anche un bambino di 11 anni.

L’esperto di terrorismo Peter Neumann ha segnalato che nel complesso, in Europa, dall’ottobre 2023, due terzi degli arresti hanno riguardato ragazzini fra i 13 e i 19 anni d’età (11).

In Inghilterra e Galles, fra l’aprile 2022 e il marzo 2023 più del 60% delle segnalazioni nell’ambito del programma di prevenzione Prevent -che impone a chi lavora nel settore pubblico, soprattutto la scuola, di comunicare i casi di sospetta radicalizzazione- riguardava individui fino ai 20 anni; il 31% non arrivava ai 14. Ma se la maggior parte dei casi trattati non ha poi richiesto ulteriori prese a carico- quasi la metà di quelli più seri era però rappresentata da ragazzini fra gli 11 e i 15 anni (12).

“Childhood Innocence? Mapping Trends in Teenage Terrorism Offenders”, uno studio pubblicato dall’International Centre for the Study of Radicalisation (ICSR) del King’s College di Londra, che ha preso in esame le attività di 43 minorenni condannati per reati collegati al terrorismo, sempre in Inghilterra e Galles, dal 2016 al 2023 (13), invita a non sottovalutare il ruolo dei ragazzi; sebbene nel periodo preso in considerazione nessun bambino sia riuscito a commettere un attentato e il reato più comune sia consistito nel possesso di materiale estremista, dalla ricerca emerge come un terzo sia stato condannato per la preparazione di atti di terrorismo, e come i ragazzi abbiano agito da “amplificatori” e “innovatori”, in grado di produrre materiali di propaganda, di reclutare altri e di pianificare attacchi. A fare deragliare i loro piani, potrebbero essere stati fattori legati all’età, come l’ingenuità e l’incapacità organizzativa.

Questa intraprendenza giovanile è un tratto comune del panorama estremista degli ultimi anni: nel 2020 si è scoperto che a capo della Feuerkrieg Division, un gruppo di estrema destra attivo solo online ma con intenti terroristici e con membri in vari paesi, dagli Stati Uniti alla Lituania, c’era un 13enne estone -ne aveva 11, al momento della fondazione nel 2018-. Alcuni teenagers che ne facevano parte pianificavano attivamente degli attentati (14).

Sempre nel marzo del 2024 In Inghilterra, un giovane anarchico di sinistra di 20 anni è stato condannato a 13 anni di carcere; fra le altre cose, pianificava di uccidere 50 persone e aveva dedicato un manuale di istruzioni su come costruire armi e bombe “ai disadattati, ai signori nessuno, agli anarchici e terroristi del passato e del futuro, che vogliono combattere per la libertà contro il governo” (15).

2. L’emancipazione dell’estremismo

Studi e indagini hanno analizzato come gruppi, movimenti e individui -in particolare jihadisti o appartenenti alla vasta galassia dell’estrema destra- abbiano saputo cogliere e sfruttare efficacemente le opportunità progressivamente offerte da Internet e dalle tecnologie in continua evoluzione per divulgare le proprie ideologie, avvicinare potenziali reclute e simpatizzanti, disseminare riviste e guide pratiche per aspiranti attentatori, adattando e diversificando la propria comunicazione anche in base al genere. Incluso l’impiego dell’intelligenza artificiale per elaborare rapidamente immagini e video di propaganda dal forte ed immediato impatto estetico ed emotivo che solo un decennio fa avrebbero richiesto il meticoloso apporto di un team e oggi possono anche essere realizzate da un’unica persona (16).

Ad emergere è la consapevolezza di come, nel corso del tempo, siano cambiati in modo sostanziale sia il modo di produrre, consumare e condividere propaganda, che le identità di chi è coinvolto in queste attività. L’entrata in scena dei social media attorno alla metà degli anni 2000, in particolare, ha favorito la rapida diffusione e l’acceso a materiale di natura estremista, e permesso di creare relazioni e interagire continuamente, al punto che, si legge in un saggio del ricercatore Jacob Ware su questo tema, “il processo di radicalizzazione si insinuava ora in ogni aspetto della vita di un soggetto, e il radicalizzatore poteva proiettare la propria influenza in un salotto o una camera da letto” (17).

Ware spiega che oggi siamo ormai confrontati con la terza generazione influenzata dalla radicalizzazione online; una generazione in cui gli individui non solo agiscono in autonomia, ma promuovono sé stessi e le proprie azioni.

I gruppi terroristici (quelli con una solida gerarchia interna) sono meno rilevanti, mentre le ideologie sono fluide. Già nel rapporto #ReaCT2022 Michael Krona, riferendosi al contesto jihadista, indicava l’esistenza di sostenitori online meno inclini a legarsi ad una singola organizzazione, che “formano delle nuove entità, promuovono interpretazioni ideologiche più ampie, costruendo i loro propri brand, piuttosto che rafforzare scrupolosamente il marchio dello Stato Islamico” (18). Oggi la produzione di propaganda e narrativa estremista -ma anche l’incitamento all’azione- non sono più una prerogativa dei media legati ai movimenti terroristici, ma un’operazione a cui partecipa una larga base di adepti e militanti in contatto fra loro. Un reticolato che può estendersi da un continente all’altro.

Come racconta un’inchiesta internazionale realizzata nel 2022 da giornalisti infiltratisi in una rete di teenagers neo-nazisti, il vantaggio di questo network -ma lo stesso principio vale in altri casi- consiste nella sua struttura lasca, mobile, che fa perno sulla partecipazione di singoli individui sparsi per il mondo: “tutto ciò di cui hanno bisogno è un computer, un cellulare e una camera da letto. E tutto ciò che hanno in comune è la loro ideologia e il loro odio: nei confronti degli ebrei, delle figure politiche, dei giornalisti” (19).

Quest’immagine dell’adolescente radicalizzato chiuso nella propria stanza si ripropone, quindi; ma la camera può essere più simile a una cabina di regia, che a un rifugio in cui si isola un ragazzino vulnerabile esposto alle trame di malintenzionati. Il già menzionato studio inglese sui minorenni condannati per terrorismo, sottolinea la necessità di superare lo stereotipo associato ai bambini, che li considera una mera “pedina” nelle mani degli adulti; se attivi in un contesto estremista online protetti dall’anonimato, il “peso” e l’effetto, per esempio, delle loro azioni e dei loro posts, è identico a quello di tutti gli altri.

I ‘combattenti’ virtuali, oggi nativi digitali, dimostrano un forte potenziale nell’assicurare una continua promozione delle idee estremiste -una campagna mediatica pro-ISIS blandisce ed esorta specificamente questi “eserciti di una persona” e “mujaheddin di Internet” a non demordere (20). La capacità di impiegare in modo selettivo i diversi social media e le app di messaggistica criptate per comunicare, scambiarsi informazioni, incoraggiarsi a vicenda, discutere di violenze, attacchi e obiettivi, e l’abilità nel migrare di piattaforma in piattaforma per sfuggire alla scure delle big tech e delle operazioni congiunte di Polizia intese a liberare Internet dai contenuti di natura terroristica, li rendono un asset difficile da contrastare.

In sintesi, l’epoca attuale è caratterizzata da un estremismo ‘emancipato’, diffuso e de-centralizzato che si fonda sulla ‘libera iniziativa’; un ecosistema in cui “ognuno può essere rimpiazzato” (21) e tutti gli attentatori possono diventare fonte di ispirazione per altri; che si tratti di Brenton Tarrant, estremista di destra che nel 2019, a 28 anni, a Christchurch, in Nuova Zelanda, ha attaccato due moschee uccidendo oltre 50 persone; che si tratti di Elliott Rodger che a 22 anni in California, nel 2014, ha commesso una strage in nome dell’ideologia misogina ed è oggi celebrato dagli incel violenti, o ancora che si tratti del quindicenne svizzero autore dell’accoltellamento di Zurigo, il cui gesto viene esaltato dagli accoliti dello Stato Islamico. Alcuni giorni dopo l’attacco, ricercatori del Counter Extremism Project hanno individuato sei profili di TikTok che celebravano lo jihadista svizzero (22).

3. La radicalizzazione della violenza

Nel corso del 2024, analisti e media hanno talvolta fatto riferimento all’espressione ‘TikTok-jihad’ o ‘terrorismo TikTok’ per definire il contesto nel quale avviene l’avvicinamento dei teenager all’estremismo; social, piattaforme di gioco e chat criptate finiscono spesso sul banco degli imputati e vengono considerati oggi strumenti principali di radicalizzazione. Non si tratta tuttavia di semplici ‘canali’ attraverso i quali viene diffuso un messaggio indirizzato a potenziali nuove leve; queste piattaforme offrono spazi di condivisione, socializzazione, visibilità e partecipazione: termini e concetti importanti per comprendere una realtà che non consiste (più) solo in un galassia di ideologie politico-religiose violente, ma che è anche costituita da subculture generate e animate dagli stessi ragazzi (quella incel, ad esempio, o quella dell’accelerazionismo militante); in altre parole, da comunità / collettività che si riconoscono in propri valori, norme comportamentali, codici linguistici ed estetici. Nel periodo adolescenziale, che è caratterizzato dalla ricerca di un’identità e di un posto nel mondo, ma talvolta anche da sentimenti di ribellione, da fragilità personali che possono derivare da contrasti in famiglia, o violenze quali il bullismo e il razzismo, il senso di appartenenza a un gruppo di riferimento assume un ruolo non secondario.

Analisti e intelligence sottolineano già da qualche anno, come problematiche di natura psicologica e adesione alla violenza, prima ancora che all’ideologia, rappresentino tendenze ormai consolidate. La voglia di rivalsa, di acquisire potere nelle relazioni sociali, di protagonismo e di sfogo alle frustrazioni personali (23), vengono oggi considerate motivazioni sufficienti nel contribuire alla radicalizzazione dei ragazzi, una radicalizzazione in cui la percezione di torti subiti può sovrapporsi a battaglie socio-politiche. Tutti questi fattori, sommati a un ‘clima’ virtuale caratterizzato da algoritmi che premiano contenuti provocatori e dalla banalizzazione dell’odio attraverso, ad esempio, la produzione e condivisione di memes, contribuiscono ad abbassare la soglia di adesione all’estremismo (violento e non). In uno scenario così complesso e in continua evoluzione, è molto difficile essere in grado di valutare i rischi posti dagli individui radicalizzati nel mondo reale, soprattutto se minorenni. Pur nella consapevolezza che la radicalizzazione è un percorso personale non irreversibile, e che non conduce necessariamente verso il terrorismo. (24)

Chiara Sulmoni, BA, MA, Presidente e Coordinatrice editoriale di START InSight, Lugano, (Svizzera) ha conseguito un BA e un MA in Italian Studies c/o UCL (University College London) e un MA in Near and Middle Eastern Studies c/o SOAS (School of Oriental and African Studies, London). Giornalista e producer, ha lavorato alla realizzazione di documentari e reportage per la radio / TV in particolare su temi legati al mondo arabo e islamico, Afghanistan e Pakistan, conflitti, radicalizzazione di matrice islamista. Dal 17 aprile 2019, è Co-Direttore di ReaCT – Osservatorio nazionale sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo (Roma-Milano-Lugano). Dal 2023, è Presidente e Coordinatrice dell’Associazione PRIME – Prevenzione Informazione e Mediazione (Lugano).

Note
1) In Video Uploaded To Internet, Teenage Stabber Of Jew In Zürich Swears Allegiance To Islamic State (ISIS), Calls On Muslims To Target Jews And Christians Everywhere, MEMRI, Special Dispatch No. 11166, 4 March 2024. In https://www.memri.org/reports/video-uploadedinternet-teenage-stabber-jew-z%C3%BCrich-swearsallegiance-islamic-state-isis
2) Symonds, Tom, Gaza war creating a radicalisation moment, senior UK police officer says, BBC News , 19th January 2024. In https://www.bbc.com/news/uk-68035172
3) Counter- Terrorism Policing, Upward trend in children arrested for terrorism offences, News, 9th June 2022. In https:// www.counterterrorism.police.uk/upward-trend-inchildren-arrested-for-terrorism-offences/
4) Counter-Terrorism Policing, Number of young people arrested for terrorism offences hits record high, News, 15th March 2024. In: https://www.counterterrorism.police.uk/ number-of-young-people-arrested-for-terrorism-offenceshits-record-high/
5) Sabbagh, D., Shamima Begum a victim of trafficking when she left Britain for Syria, court told, The Guardian, 24th October 2023. In: https://www.theguardian.com/uk-news/2023/ oct/24/shamima-begum-victim-of-trafficking-when-sheleft-uk-for-syria-court-told
6) Simcox, R., European Islamist Plots and Attacks Since 2014— and How the U.S. Can Help Prevent Them, The Heritage Foundation, Backgrounder No. 3236, 1st August 2017. See also: Bourebka, M., Overlooked and underrated? The role of youth and women in preventing violent extremism, CIDOB, Notes internationals, 240, 11/2020: “In the European context, as of 2016, the fastest-growing age group amongst the radicalised individuals in Europe was 12- to 17-year-olds”
7) de la Ruffie, E., Attentat: des mineurs radicalisés, «un phénomène nouveau» et «inquiétant», selon le procureur anti-terroriste, Le Journal du Dimanche, 7 Novembre 2023. In: https:// www.lejdd.fr/societe/attentat-des-mineurs-radicalises-unphenomene-nouveau-et-inquietant-selon-le-procureurantiterroriste-139493
8) Sulmoni, C., Radicalizzazione jihadista e prevenzione. Aggiornamenti dalla Svizzera, START InSight www.startinsight.eu.
9) Comment le groupe Etat islamique courtise les mineurs sur les plateformes de jeux vidéo, RTS, 27 Mai 2024 https:// www.rts.ch/info/suisse/2024/article/comment-le-groupe -etat-islamique-courtise-les-mineurs-sur-les-plateformes-dejeux-video-28516132.html.
10) Rhyn, L., und Knellwolf, T., Die Schweiz hat überdurchschnittlich viele Fälle radikalisierter Jugendlicher, Tages Anzeiger, 22 August 2024. In: https:// www.tagesanzeiger.ch/geheimdienst-chef-sieht-sicherheitder-schweiz-in-gefahr-665955949850.
11) Ernst, A., Terrorismus in Europa: Es gibt genügend Hinweise, dass sich etwas Grösseres ankündigt, NZZ, 23 August 2024. In: https://www.nzz.ch/international/terrorismusin-europa-die-tik-tok-generation-peter-r-neumannld.1844746
12) Individuals referred to and supported through the Prevent Programme, April 2022 to March 2023. Home Office Official Statistics, 14th December 2023. In: https://www.gov.uk/ government/statistics/individuals-referred-to-prevent/ individuals-referred-to-and-supported-through-the-preventprogramme-april-2022-to-march-2023#demographics
13) Rose, H., and Vale, G., “Childhood Innocence? Mapping Trends in Teenage Terrorism Offenders”, ICSR, London, 2023.
14) Nabert, A., Brause, C., Bender, B., Robins-Early, N., Death Weapons, Inside a Teenage Terrorist Network, Politico, 27th July 2022. In: https://www.politico.eu/article/ inside-teenage-terrorist-network-europe-death-weapons/
15) Gardham, D., Jacob Graham: Left-wing anarchist jailed for 13 years over terror offences after declaring he wanted to kill at least 50 people, Sky News, 19th March 2024 https:// news.sky.com/story/jacob-graham-left-wing-anarchistjailed-for-13-years-over-terror-offences-after-declaring-hewanted-to-kill-at-least-50-people-13097584
16) Katz, R., SITE Special Report: Extremist Movements are Thriving as AI Tech Proliferates, SITE Intelligence Group, 16th May 2024 https://ent.siteintelgroup.com/Articlesand-Analysis/extremist-movements-are-thriving-as-ai-tech -proliferates.html
17) Ware, J., The Third Generation of Online Radicalization, Program on Extremism, George Washington University, 16th June 2023. In: https://extremism.gwu.edu/thirdgeneration-online-radicalization
18) Krona, M., Le comunità jihadiste online costruiscono i loro brand ed espandono l’universo terrorista creando nuove entità, #ReaCT2022, Rapporto sul Terrorismo e il Radicalismo in Europa, N.3, Anno 3, ed. START InSight (Lugano). In. https://www.startinsight.eu/react2022-n-3-anno-3/
19) Nabert, A., Brause, C., Bender, B., Robins-Early, N., Death Weapons, Inside a Teenage Terrorist Network, Politico, 27th July 2022. In: https://www.politico.eu/article/ inside-teenage-terrorist-network-europe-death-weapons/
20) Pro-Islamic State (ISIS) Social Media Campaign Calling For ‘Media Jihad’ Expands To TikTok, Jihad and Terrorism Threat Monitor, MEMRI, 22nd June 2023 https:// www.memri.org/jttm/pro-islamic-state-isis-social-mediacampaign-calling-media-jihad-expands-tiktok
21) See: Death Weapons
22) Extremist Content Online: Pro-ISIS TikTok Users Celebrate Accused Attacker In Zurich Stabbing, Counter Extremism Project, 11 March 2024. In: https:// www.counterextremism.com/press/extremist-contentonline-pro-isis-tiktok-users-celebrate-accused-attackerzurich-stabbing
23) IS recruitment is not portrayed as violent enlistment for a political-religious cause but as a platform for venting frustrations with parents, teachers and society. It offers an outlet for their mundane lives and a chance at dubious “15 minutes of fame”, in: Avrahami, Z., TikTok jihad: Online radicalization threat looms over Europe, Ynetnews.com, 10th August 2024 https:// www.ynetnews.com/article/ rjgiduh9c
24) “Minorenni radicalizzati, ma non per forza terroristi”, RSI Info, 6 settembre 2024 https://www.rsi.ch/info/ticinogrigioni-e-insubria/%E2%80%9CMinorenni-radicalizzatima-non-per-forza-terroristi%E2%80%9D–2246363.html


Il terrorismo jihadista in Europa e le dinamiche mediterranee: evoluzione storica, sociale e operativa in un’era di cambiamenti globali.

di Claudio Bertolotti, Direttore, START InSight
estratto da #ReaCT2024 – Rapporto sul terrorismo e il radicalismo in Europa

Abstract Questo articolo indaga il terrorismo oltre le definizioni tradizionali, esaminando la sua evoluzione all’interno dei confini dell’Europa geografica, enfatizzando le radici storiche, le motivazioni individuali e collettive, e l’adattamento operativo, condividendo le ragioni alla base di una ormai necessaria revisione della stessa definizione di terrorismo, da intendersi come effetto della violenza, piuttosto che mera azione organizzata per fini politici. Analizzando i dati forniti dal data base START InSight, l’articolo si concentra sui Paesi dell’Unione europea costantemente interessati dalle traiettorie del jihadismo e dalle conseguenti sfide per la sicurezza collettiva, contribuendo al dibattito accademico con una prospettiva multidimensionale sul terrorismo, considerandone gli aspetti storici, socio-politici e culturali.

Keywords Jihadism, blocco funzionale

1. Il terrorismo come fenomeno politico e sociale che si evolve con il tempo e con il mutare delle dinamiche di competizione tra individue, gruppi, stati.

Il terrorismo attuale, ponendo le proprie radici nella profondità di un’evoluzione storica molto complessa, rappresenta una minaccia ideologica diffusa. E la minaccia del terrorismo jihadista è oggi particolarmente rilevante, collegata alle dinamiche storiche, conflittuali, delle relazioni internazionali e della competizione in Medio Oriente, in Africa e alla violenza discendente dalla lettura radicale dell’Islam; una dinamica conflittuale che oggi si associa sempre più spesso alla ricerca di identità di gruppi e individui attraverso l’opposizione culturale di una componente non marginale degli immigrati maghrebini di seconda e terza generazione in Europa. E parliamo di una galassia jihadista frammentata e caratterizzata da diverse ideologie e approcci pratici, tanto da indurre una riflessione sul concetto di terrorismo contemporaneo che si impone come fenomeno sociale molto diverso dai terrorismi che lo hanno preceduto.

Una necessaria riflessione che ci invita a riflettere sull’opportunità di un cambio di paradigma nella stessa definizione di terrorismo, non più da intendere come azione volta ad ottenere risultati politici attraverso la violenza, dunque nelle intenzioni. Bensì come effetto della violenza applicata: è terrorismo la manifestazione di violenza, privo di un’organizzazione alle spalle. È terrorismo nella manifestazione, non nell’organizzazione.

All’interno della stessa galassia jihadista, il terrorismo si impone come strumento di lotta, di resistenza e di prevaricazione, e lo fa con diversi gradi e modelli di violenza: da quella individuale, a quella organizzata, a quella ispirata e ancora al terrorismo insurrezionale che ben abbiamo conosciuto in Afghanistan e in Iraq e, in parte, stiamo osservando nelle sue prime manifestazioni nella Striscia di Gaza dove l’esercito israeliano si confronta con il gruppo Hamas (Bertolotti, 2024).

E proprio l’esperienza afghana, che l’Autore del presente articolo ha avuto modo di studiare da vicino per molti anni, a cui si è sommata l’ondata di violenza conseguente all’appello di Hamas a colpire Israele e i suoi alleati, hanno svolto un ruolo determinante nella ripresa di un terrorismo ispirato ed emulativo a livello globale, che si basa sull’esperienza vittoriosa dei talebani contro l’Occidente, da un lato, e, dall’altro, sulla rabbia veicolata attraverso la strategia comunicativa di Hamas che trova in alcune minoranze ideologizzate occidentali una cassa di risonanza che sovrappone, confondendola, l’agenda violenta e terrorista di Hamas alla legittima istanza palestinese. Eventi sul piano delle Relazioni internazionali che, attraverso la retorica jihadista, sono sfruttati per dimostrare la bontà e la fondatezza del jihad, e dunque del terrorismo come strumento di lotta, di vittoria, di giustizia.

E oggi, dopo e insieme all’Afghanistan, all’Iraq e alla Striscia di Gaza, a svolgere questo ruolo di spinta ideologica e coinvolgimento di massa, sono le dinamiche conflittuali in Medioriente e il terrorismo mediaticamente amplificato di Hamas; da questo discendono le manifestazioni emulative di violenza che il terrorismo ai danni di Israele ha in parte provocato e potrebbe sempre più provocare in Europa come nei paesi del Nord Africa, dell’Africa subsahariana e del Sahel.

2. Trend e dinamiche: calano i numeri, ma la minaccia del terrorismo persiste- un’analisi degli attacchi dal 2014 al 2023.

Guardando agli ultimi cinque anni, da un punto di vista quantitativo l’incidenza degli attacchi terroristici di matrice jihadista si presenta lineare, con una percettibile diminuzione registrata negli ultimi anni, attestandosi ai livelli pre-fenomeno Isis/Stato islamico. Dal 2019 al 2024 sono stati registrati nell’Unione Europea, nel Regno Unito e in Svizzera 92 attacchi (12 sia nel 2023 che nel 2024 – dati al 30 settembre 2024), di successo e fallimentari: 99 quelli rilevati nel precedente periodo 2014-2018 (12 nel 2015).

Sulla scia dei grandi eventi terroristici in Europa nel nome del gruppo Stato islamico, e successivamente in verosimile relazione con gli elementi galvanizzanti conseguenti alla presa del potere talebano in Afghanistan e all’appello del gruppo Hamas, sono stati registrate 206 azioni in nome del jihad dal 2014 al 2024, delle quali 70 esplicitamente rivendicate dallo Stato islamico: 249 i terroristi che vi hanno preso parte (di cui 7 donne, 73 morti in azione), 446 le vittime decedute e 2.558 i feriti (database START InSight).

Sia nel 2023 che nel 2024 sono state registrate 12 azioni jihadiste, in lieve flessione rispetto ai 18 attacchi annuali registrati nel 2022 e 2021, ma con un aumento significativo di azioni di tipo “emulativo”, ossia ispirate da altri attacchi nei giorni precedenti, che ha portato il dato ad attestarsi sui livelli elevati degli anni precedenti: dal 17% del totale di azioni emulative nel 2022 al 58% nel 2023 (erano il 56% nel 2021). Il 2023 ha inoltre confermato un trend ormai consolidato nell’evoluzione del fenomeno, con una sostanzialmente esclusiva predominanza di azioni individuali, non organizzate, in genere improvvisate, che hanno progressivamente sostituito le azioni strutturate e coordinate caratterizzanti il “campo di battaglia” urbano europeo del periodo 2015-2017 (il totale delle azioni nel 2023 e il 97% delle azioni registrate l’anno precedente).

Aumenta l’uso di coltelli e armi improvvisate I terroristi usano sempre più spesso coltelli per una serie di motivi, legati a fattori pratici, ideologici e strategici:

– Facilità di accesso: i coltelli sono facilmente reperibili e non richiedono competenze tecniche avanzate per essere utilizzati. A differenza delle armi da fuoco o degli esplosivi, che possono richiedere una certa logistica o competenze tecniche, i coltelli sono comuni in ogni casa o negozio.

– Discrezione: un coltello può essere portato facilmente senza destare sospetti, a differenza di altre armi più vistose o pericolose. Questo consente di avvicinarsi alle vittime o ai luoghi di attacco senza essere notati immediatamente.

– Effetto di terrore: gli attacchi con coltelli, spesso condotti in spazi pubblici o affollati, hanno un forte impatto psicologico sulla popolazione. La natura ravvicinata e brutale di un attacco con un’arma da taglio amplifica la paura tra i presenti e nei media, creando un forte effetto simbolico.

– Attacchi individuali: negli ultimi anni, molte organizzazioni terroristiche hanno incoraggiato attacchi individuali o “lupi solitari”. Gli attacchi con coltelli sono ideali per questo tipo di azioni, poiché richiedono una pianificazione minima e possono essere condotti da una sola persona, senza la necessità di una rete organizzativa complessa.

– Controllo delle armi: in molti Paesi, le leggi sulle armi da fuoco sono molto severe, rendendo difficile ottenere pistole o fucili. I coltelli, invece, sono meno regolamentati e possono essere acquistati legalmente quasi ovunque.

– Modello d’ispirazione: attacchi con coltelli di successo, come quelli avvenuti in diverse città europee negli ultimi anni, hanno ispirato altri estremisti a replicare questo tipo di azione, seguendo la narrativa che si tratti di un mezzo efficace e relativamente semplice per diffondere terrore. In sintesi, l’uso crescente di coltelli da parte dei terroristi è legato alla loro accessibilità, alla facilità d’uso, alla discrezione e all’efficacia nel creare panico e paura tra la popolazione (Molle, 2024).

3. Il profilo dei terroristi “europei”

Il terrorismo jihadista è un fenomeno a partecipazione prevalentemente maschile: su 295 attentatori il 97% sono di genere maschile (10 le donne); contrariamente al 2020, quando 3 attentatrici presero parte ad azioni terroristiche, il triennio 2021-2023 non ha visto la loro partecipazione diretta.

I terroristi (uomini e donne) identificati i cui dati anagrafici sono stati resi noti hanno un’età mediana di 26 anni: un dato che varia nel corso del tempo (dai 24 nel 2016, ai 30 nel 2019), registrando un aumento dell’età nell’ultimo periodo analizzato che ci consegnando un dato di 28,5 anni nel 2023. Lo studio del profilo dei 200 soggetti di cui abbiamo informazioni anagrafiche sufficienti ha consentito di definire un quadro molto interessante da cui emerge un dato del 7% di terroristi di età inferiore ai 19 anni (con una riduzione dei minori con il trascorrere del tempo), il 38% ha un’età compresa tra i 19 e i 26, il 41,5% tra i 27 e i 35 e, infine, il 13,5% è di età superiore ai 35 anni. Dati che confermerebbero un aumento dell’età media nel corso del tempo nella fascia 19-35 anni a fronte di una riduzione dei minori coinvolti in attacchi terroristici nello stesso periodi di tempo.

Il 93% dei soggetti che hanno portato a compimento un atto terroristico, di cui abbiamo informazioni complete, sono stati portati a termine da “immigrati” (prima, seconda e terza generazione), sia regolari che irregolari. Dei 155 su 237 terroristi analizzati attraverso il database START InSight, il 45% sono immigrati regolari di prima generazione; 28% sono discendenti di immigrati (seconda o terza generazione); gli immigrati irregolari sono il 26%: un dato, quest’ultimo, in crescita che passa al 25% nel 2020, raddoppia con un dato del 50% nel 2021 e cresce fino al 67% nel 2023, con ciò indicando un cambio significativo nella natura dei terroristi tra i quali aumenta la presenza di attentatori di prima generazione (complessivamente il 71% del totale di terroristi). Significativa è anche il dato riferito al 7% di cittadini di origine europea convertiti all’Islam (un dato in lieve flessione rispetto alla media degli anni precedenti). Complessivamente il 73% dei terroristi sono regolarmente residenti in Europa, mentre il ruolo degli immigrati irregolari si impone con un rapporto di circa 1 ogni 4 terroristi (il rapporto era 1:6 fino al 2020). Nel 4% degli episodi è stata riscontrata la presenza di bambini/minori (7) tra gli attaccanti, un dato che ha registrato una diminuzione.

La dimensione etno-nazionale dei terroristi in Europa Il fenomeno della radicalizzazione jihadista in Europa affligge maggiormente alcuni gruppi nazionali ed etnici specifici. Vi è un chiaro rapporto di proporzionalità tra i principali gruppi di immigrati e i terroristi, evidenziato dalla nazionalità dei terroristi o delle loro famiglie di origine, che rispecchia la dimensione delle comunità straniere in Europa. In particolare, prevale l’origine maghrebina: i gruppi etno-nazionali principalmente afflitti dall’adesione jihadista sono quelli marocchino (in particolare in Francia, Belgio, Spagna e Italia) e algerino (in Francia). Il fenomeno della radicalizzazione è stato particolarmente evidente in Belgio e Francia, dove comunità numerose di origine marocchina e algerina hanno visto un numero elevato di giovani aderire a gruppi jihadisti. In Francia, ad esempio, una parte significativa dei terroristi coinvolti negli attentati recenti proveniva da famiglie di origine algerina e marocchina, riflettendo la presenza storica e la dimensione di queste comunità nel paese (Bertolotti, 2023).

Recidivi e terroristi già noti all’intelligence Il ruolo dei recidivi è cresciuto con il trascorrere del tempo, e in conseguenze del loro rilascio dopo periodi di detenzione recentemente conclusi. Si tratta di individui già condannati per terrorismo che hanno portato a compimento azioni violente a fine pena detentiva e, in alcuni casi, anche all’interno delle strutture penitenziarie. Un dato che ci consegna un trend caratterizzato dal 3% di recidivi nel totale dei terroristi che hanno colpito nel 2018 (1 caso), al 7% (2) nel 2019, al 27% (6) nel 2020, al 25% (3) nel 2023. Questa situazione conferma la pericolosità sociale di individui che, seppur incarcerati, ritardano l’attuazione di azioni terroristiche. Questo fenomeno suggerisce un incremento della probabilità di attacchi terroristici nei prossimi anni, parallelamente al rilascio di molti detenuti per reati di terrorismo.

START InSight ha evidenziato una tendenza rilevante riguardo le azioni terroristiche compiute da individui già noti alle forze dell’ordine o ai servizi di intelligence europei. Nel 2021, questi casi rappresentavano il 44% del totale, mentre nel 2020 erano il 54%. Questo è un incremento significativo rispetto al 10% registrato nel 2019 e al 17% nel 2018. Un dato che, riferito al 2023, è cresciuto stabilizzandosi al 75%, di fatto confermando le ragioni di preoccupazione delle istituzioni deputate a contrasto del fenomeno violento. I soggetti con precedenti detentivi (anche per reati non associati al terrorismo) nel 2021 hanno confermato una certa stabilità nella partecipazione ad azioni terroristiche da parte di individui con un pregresso carcerario con un dato del 23% nel 2021, in lieve calo rispetto all’anno precedente (33% nel 2020) ma in linea con quello del 2019 (23% nel 2019, 28% nel 2018 e 12% nel 2017); un’evidenza che, pur a fronte di un dato riferito al 2023 decisamente inferiore (8%) confermerebbe l’ipotesi che identifica i luoghi detentivi come spazi di potenziale radicalizzazione e adesione al terrorismo.

4. Quale la reale capacità distruttiva del terrorismo?

Per comprendere il fenomeno del terrorismo in modo realistico, è fondamentale analizzarlo su tre livelli distinti: strategico, operativo e tattico. La strategia riguarda l’utilizzo delle risorse per raggiungere gli obiettivi di lungo termine della guerra. La tattica si concentra sull’uso delle forze in combattimento per ottenere vittorie specifiche in battaglia. Il livello operativo funge da collegamento tra i due, coordinando azioni tattiche per raggiungere gli obiettivi strategici. Questa sintesi, nella sua essenza, sottolinea l’importanza dell’impiego degli uomini nella condotta di azioni militari.

Il successo a livello strategico è marginale Diminuisce – passando dal 16% al 13% – il successo strategico delle azioni terroristiche, ossia l’ottenimento di risultati impattanti sul piano strutturale: blocco del traffico aereo/ferroviario nazionale e/o internazionale, mobilitazione delle forze armate, interventi legislativi di ampia portata. Un dato che è comunque da considerare come elevato, considerando il limitato sforzo organizzativo e finanziario da parte dei gruppi, o dei singoli attentatori terroristi. L’andamento nel corso degli anni è stato discontinuo, ma ha messo in evidenza una progressiva riduzione complessiva in termini di capacità ed efficacia: 75% di successo strategico nel 2014, 42% nel 2015, 17% nel 2016, 28% nel 2017, 4% nel 2018, 5% nel 2019, 12% nel 2020 e 6% nel 2021; dal 2022 il successo strategico non viene più ottenuto dagli attacchi terroristici; di fatto confermando un consolidato processo di normalizzazione del terrorismo.

Il trend dell’attenzione mediatica verso gli attacchi terroristici è in calo. A livello strategico, gli attacchi hanno ricevuto l’attenzione dei media internazionali nel 75% dei casi e il 95% a livello nazionale. Le operazioni organizzate dai commando e dai team-raid hanno ottenuto una copertura mediatica completa. Questo successo mediatico ha significativamente influenzato la campagna di reclutamento di aspiranti martiri o combattenti jihadisti, con un picco di reclutamento durante i periodi di maggiore intensità di azioni terroristiche (2016-2017). Tuttavia, l’effetto amplificatore dei media sul reclutamento tende a diminuire nel tempo per due principali motivi: in primo luogo, c’è stata una prevalenza di azioni a “bassa intensità” rispetto a quelle ad “alta intensità”, che sono diminuite, mentre le azioni a bassa e media intensità sono aumentate notevolmente dal 2017 al 2021, pur a fronte di un aumento significativo delle azioni a media intensità nel 2023. In secondo luogo, il pubblico è diventato gradualmente meno sensibile emotivamente alla violenza del terrorismo, specialmente per quanto riguarda gli eventi a bassa e “media intensità”.

Sebbene il livello tattico susciti preoccupazione, non è la priorità per il terrorismo. Partendo dal presupposto che l’obiettivo delle azioni sia provocare la morte del nemico (con le forze di sicurezza come bersaglio nel 35% dei casi), questo è stato raggiunto in media nel 50% dei casi tra il 2004 e il 2023. Tuttavia, l’ampio intervallo di tempo influisce significativamente sul margine di errore. L’analisi del periodo 2014-2023 mostra una tendenza al peggioramento degli effetti desiderati dai terroristi, con una prevalenza di attacchi a bassa intensità e un aumento delle azioni fallimentari, almeno fino al 2022, quando il successo tattico si stabilizza al 33%, coerentemente con i dati del 2016. Il 2023 è in controtendenza.

I dati degli ultimi sei anni evidenziano che nel 2016, il successo tattico è stato ottenuto nel 31% dei casi, con un 6% di atti fallimentari. Nel 2017, il successo è salito al 40%, con un tasso di fallimento del 20%. Nel 2018, il successo è sceso al 33%, mentre gli attacchi falliti sono raddoppiati al 42%. Nel 2019, il successo è ulteriormente calato al 25% per poi risalire al 33% nel 2020-2022. Questo andamento, che può essere interpretato come un duplice effetto della riduzione della capacità operativa dei terroristi e della maggiore reattività delle forze di sicurezza europee, ci consegna però un dato riferito al 2023 pari al 50% di azioni in grado di ottenere un successo tattico, ossia la morte di almeno un obiettivo.

Database START Insight (Lugano, 2024)

Il vero successo è a livello operativo: il “blocco funzionale” Anche quando un attacco terroristico non riesce, produce comunque un risultato significativo: impegna pesantemente le forze armate e di polizia, distraendole dalle loro normali attività o impedendo loro di intervenire a favore della collettività. Inoltre, può interrompere o sovraccaricare i servizi sanitari, limitare, rallentare, deviare o fermare la mobilità urbana, aerea e navale, e ostacolare il regolare svolgimento delle attività quotidiane, commerciali e professionali, danneggiando le comunità colpite. Questo riduce efficacemente il vantaggio tecnologico e il potenziale operativo, nonché la capacità di resilienza. In generale, infligge danni diretti e indiretti, indipendentemente dalla capacità di provocare vittime. La limitazione della libertà dei cittadini è un risultato misurabile ottenuto attraverso queste azioni.

In sostanza, il successo del terrorismo, anche senza causare vittime, risiede nell’imporre costi economici e sociali alla collettività e nel condizionare i comportamenti nel tempo in relazione alle misure di sicurezza o limitazioni imposte dalle autorità politiche e di pubblica sicurezza. Questo fenomeno è noto come “blocco funzionale”. Nonostante la capacità operativa del terrorismo sia sempre più ridotta, il “blocco funzionale” rimane uno dei risultati più importanti ottenuti dai terroristi, indipendentemente dal successo tattico (uccisione di almeno un obiettivo). Dal 2004 a oggi, il terrorismo ha dimostrato di essere efficace nel conseguire il “blocco funzionale” nell’80% dei casi, con un picco del 92% nel 2020 e dell’89% nel 2021. Questo risultato impressionante, ottenuto con risorse limitate, conferma il vantaggioso rapporto costo-beneficio a favore del terrorismo, pur a fronte di una rilevata perdita progressiva di capacità che ha visto diminuire l’ottenimento del “blocco funzionale”, sceso al 78% nel 2022 e al 67% nel 2023.

5. La capacità di reclutamento e le strategie operative

Il gruppo Stato islamico, persa la sua capacità territoriale in Siria e Iraq (2013-2017), non ha più la forza di inviare i propri terroristi sul suolo europeo a causa della perdita della capacità di proiezione operativa diretta all’esterno; al contrario, il gruppo non avrebbe perso la potenzialità attrattiva, con ciò dimostrando di aver saputo sviluppare una capacità di reclutamento indiretto basato sul riconoscimento “postumo” degli individui che portano a compimento azioni terroristiche individuali di successo. Per queste ragioni la minaccia rimane significativa, proprio grazie alla presenza e all’azione di attori isolati, spesso improvvisati e spinti dall’emulazione e senza un legame diretto con l’organizzazione.

Mentre il gruppo dello Stato Islamico continua a imporsi su un piano ideologico come la principale minaccia jihadista, in particolare sfruttando il controllo territoriale e le disponibilità finanziarie del proprio franchise afghano Stato islamico Khorasan, è però assodato come sia incapace di riproporre il travolgente richiamo che ebbe il “califfato” nel periodo 2014-2017, poiché sarebbero venuti meno il vantaggio della novità, e di conseguenza l’appeal, che ne costituiva il punto di forza, in particolare nei confronti dei più giovani. Inoltre, sia dal punto di vista legislativo che sul piano operativo, l’Unione europea ha saputo ridurre in maniera rilevante le proprie vulnerabilità, sebbene con maggiore prevalenza in termini di contrasto al terrorismo rispetto all’azione preventiva.

Permangono, nel complesso segnali di preoccupazione legati agli effetti emulativi e alla “chiamata alla guerra” connessa a eventi sul piano internazionale in grado di indurre singoli soggetti ad agire in nome del jihad: l’evento più importante nel 2021, che ha dato e continuerà a dare un impulso agli effetti del jihad transnazionale è stata la vittoria dei talebani in Afghanistan che, da un lato ha alimentato la variegata propaganda jihadista attraverso il messaggio della “vittoria come risultato della lotta continua” e, dall’altro lato, ha dato vita a una forma di competizione dei “jihad” tra gruppi impegnati in forme di lotta e resistenza esclusivamente locali e chi, come lo Stato islamico, recepisce e propone il jihad esclusivamente come strumento di lotta a oltranza a livello globale. In tale dinamica competitiva si sono inserite le azioni associate alla guerra IsraeleHamas e all’appello jihadista a colpire attraverso azioni di violenza, in cui gli adepti dello Stato islamico e i musulmani votati alla causa di Hamas si sono contesi i successi sul campo di battaglia e la conseguente attenzione mediatica.

In tale quadro complessivo e in continua evoluzione, dobbiamo continuare a prestare attenzione alla forza jihadista nel continente africano, in particolare le aree dell’Africa sub-sahariana, il Sahel, il Corno d’Africa e, ancora, il Ruanda e il Mozambico, al fine di contrastare l’emergere in questo continente di nuovi “califfati” o “wilayat” che potrebbero minacciare direttamente l’Europa.

Nella prolifica propaganda jihadista, lo Stato Islamico si vanta della propria diffusione nel continente africano, in un rapporto di competizione collaborativa con il proprio franchise afghano, e pone in evidenza come l’obiettivo di contrastare la presenza e la diffusione del cristianesimo porterà il gruppo a espandersi in altre aree del continente. Se altrove, come nel Maghreb, nel Mashreq e in Afghanistan l’attività dello Stato islamico è incentrata sulla lotta settaria intra-musulmana, in Africa la sua presenza si è ormai impone come parte di un conflitto tra musulmani e cristiani, rafforzata da una propaganda che insiste sulla necessità di fermare la conversione dei musulmani al cristianesimo attuata attraverso i “missionari” e “il pretesto” degli aiuti umanitari. In tale quadro si inseriscono le violenze, i rapimenti e le uccisioni di religiosi missionari, attacchi contro le Organizzazioni non governative (Ong) e le missioni internazionali, dal Burkina Faso al Congo e, ancora, gli attacchi alle comunità cristiane.

6. Dal Nord Africa al Sahel: uno sguardo al terrorismo “mediterraneo”

Guardando al nord Africa, la regione continua ad affrontare le minacce di gruppi terroristici affiliati ad alQa’ida nel Maghreb islamico (AQIM); lo Stato Islamico; e i combattenti terroristi stranieri (FTF) che si sono recati in Iraq o in Siria. Il ritorno inosservato di questi reduci nei loro paesi d’origine dopo la sconfitta territoriale dello Stato islamico pone ulteriori sfide alla sicurezza. Inoltre, negli ultimi anni, attori solitari e piccole cellule hanno compiuto una serie di attacchi mortali in diversi Stati nordafricani e si sono dimostrati difficili da individuare.

Il Sahel sta diventando un nuovo centro del terrorismo jihadista, con un aumento significativo delle vittime in questa regione nel 2023, ma nel complesso, l’area MENA (Medio Oriente e Nord Africa) ha visto una diminuzione del 42% delle vittime negli ultimi tre anni. Il Nord Africa in particolare sta assistendo a una costante riduzione della violenza estremista, riportando il numero di attacchi violenti ai livelli pre-IS. Nel 2022, il Nord Africa ha registrato una diminuzione di 14 volte delle vittime rispetto al 2015, con il Marocco classificato come il paese più sicuro nella regione, mentre l’Egitto è tra i paesi più colpiti dal terrorismo. La Libia, l’Algeria e la Tunisia si collocano tra i due estremi con un impatto medio-basso del terrorismo.

Il Sahel e il Maghreb sono fortemente connessi politicamente, economicamente e in termini di sicurezza. La presenza di gruppi terroristici che sfruttano tensioni etniche, sfide climatiche e mancanza di servizi pubblici ha trasformato questa regione in un centro di attività jihadiste, con il rischio di diffondere la minaccia terroristica verso altre aree. L’instabilità nel Sahel ha già influenzato l’Africa occidentale e i paesi costieri del Golfo di Guinea, dove gruppi affiliati ad al-Qaeda sono attivi. Questa situazione potrebbe anche coinvolgere il Nord Africa, mettendo a rischio i progressi ottenuti in materia di prevenzione, antiterrorismo e de-radicalizzazione in alcuni paesi della regione.

Ora, guardando ai paesi del nord africa come paesi di emigrazione, ancora di più, come paesi di transito dei flussi migratori verso l’Europa, si pone la questione della possibile contaminazione jihadista o del suo trasferimento. Un ragionamento che impone di osservare l’evoluzione di un fenomeno in fase di evidente consolidamento e che trova nell’area mediterranea quella che è a tutti gli effetti un’inesauribile linfa vitale.

Claudio Bertolotti, è Dottore di ricerca (Ph.D.), Direttore Esecutivo di START, è stato dal 2014 al 2023 ricercatore senior presso “5+5 Defense Initiative”. Laureato in Storia contemporanea e specializzato in Sociologia dell’Islam, ha conseguito un dottorato in Sociologia e Scienza politica, con un focus sulle Relazioni Internazionali. Dal 17 aprile 2019 è Direttore Esecutivo di ReaCT – Osservatorio nazionale sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo (Roma-Milano-Lugano). Dal 30 settembre 2021 è membro del Comitato per i diritti umani e civili presso il Consiglio della Regione Piemonte. È autore, tra gli altri, di Gaza Underground: la guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas. Storia, strategie, tattiche, guerra cognitiva e intelligenza artificiale (START InSight, 2024), Immigrazione e terrorismo (START InSight, 2020), Afghanistan contemporaneo. Dentro la guerra più lunga (CASD, 2019), Shahid. Analisi del terrorismo suicida in Afghanistan (FrancoAngeli ed. 2010).

Bibliografia
Bertolotti, C. (2024), Gaza Underground: la guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas. Storia, strategie, tattiche, guerra cognitiva e intelligenza artificiale, START InSight ed., Lugano.
Bertolotti, C. (2023), L’evoluzione del terrorismo in Europa: terrorismo di sinistra, destra, anarchico, individuale, e il ruolo degli immigrati nel terrorismo jihadista all’interno dell’Unione Europea (Analisi di correlazione e regressione), in #ReaCT2023, 4° Rapporto sul Terrorismo e il Radicalismo in Europa, START InSight ed., Lugano, ISBN 978-88-322-94-18-7, ISSN 2813-1037 (print), ISSN 2813-1045 (online)


Pubblicato il Rapporto #ReaCT2024 sul terrorismo e il radicalismo in Europa

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Introduzione di Claudio Bertolotti, Direttore dell’Osservatorio ReaCT

In qualità di Direttore dell’Osservatorio sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo (ReaCT), sono lieto, oltreché onorato, di presentare per il quinto anno consecutivo il nostro annuale prodotto di ricerca e analisi sul terrorismo e il radicalismo in Europa. Nel solco tracciato dai precedenti quattro numeri, #ReaCT2024 – 5° Rapporto sul radicalismo e il terrorismo in Europa è frutto dell’impegno e della costanza di ricercatori, accademici, professionisti che, con differenti approcci, metodi e punti di osservazione, collocandosi su un piano trasversale e multidisciplinare teso a definire le origini, le ragioni, i punti di forza e le vulnerabilità di un fenomeno poliedrico che la tradizionale metodologia analitica non è più in grado di collocare all’interno di definizioni che non siano meramente didascaliche o formali. È ormai consolidata l’evoluzione dei fenomeni di devianza sociale – così come anticipammo in maniera dettagliata e approfondita all’inizio del nostro percorso di ricerca ed editoriale a partire dal 2020 – che progressivamente si sovrappongono o si associano ai fenomeni di violenza radicale, sempre più a partecipazione individuale, emulativa con una rilevante ambizione “spettacolare”, rientranti in sfere ideologiche o identitarie dal crescente carattere “compartimentato”.

Il rapporto, coerentemente con il percorso sin qui tracciato, si propone come combinazione unica di rivista scientifica e volume collettivo, con contributi di vari autori, ricercatori e collaboratori che hanno dedicato il loro tempo, la loro esperienza e le loro conoscenze. A loro, indistintamente, va la gratitudine del board di ReaCT e mia personale, per il prezioso contributo di ricerca sul campo e per i loro immani sforzi intellettuali. Voglio altresì ringraziare il Ministero della Difesa italiano per aver confermato la stima e la fiducia nell’Osservatorio che dirigo concedendo il patrocinio agli eventi di presentazione del rapporto.

Quali risultati ci consegna la ricerca continua dell’Osservatorio?

Guardando agli ultimi cinque anni, nel più ampio contesto di un’evoluzione storica e operativa, da un punto di vista quantitativo l’incidenza degli attacchi terroristici di matrice jihadista si presenta lineare, con una percettibile diminuzione registrata negli ultimi anni, attestandosi ai livelli pre-fenomeno Isis/Stato islamico. Dal 2019 al 2023 sono stati registrati nell’Unione Europea, nel Regno Unito e in Svizzera 92 attacchi (12 sia nel 2023 che nel 2024 – dati al 30 settembre 2024), di successo e fallimentari: 99 quelli rilevati nel precedente periodo 2014-2018 (12 nel 2015). Sulla scia dei grandi eventi terroristici in Europa nel nome del gruppo Stato islamico, e successivamente in verosimile relazione con gli elementi galvanizzanti conseguenti alla presa del potere talebano in Afghanistan e all’appello del gruppo palestinese Hamas associato alla guerra contro Israele, sono stati registrate 194 azioni in nome del jihad dal 2014 al 2023, delle quali 70 esplicitamente rivendicate dallo Stato islamico. Nel 2023 sono state registrate 12 azioni jihadiste, coerenti con i dati del 2024 ma in lieve flessione rispetto ai 18 attacchi annuali del 2022 e 2021, e con un aumento significativo di azioni di tipo “emulativo”, ossia ispirate da altri attacchi nei giorni precedenti, che ha portato il dato ad attestarsi sui livelli elevati degli anni precedenti. Il 2023 e il 2024 hanno inoltre confermato un trend ormai consolidato nell’evoluzione del fenomeno, con una sostanzialmente esclusiva predominanza di azioni individuali, non organizzate, in genere improvvisate.

Il Rapporto, dopo la disamina storica e quantitativa del fenomeno terroristico, approfondisce poi il tema dello Stato Islamico Khorasan e la possibile minaccia rivolta all’Europa con particolare attenzione al jihad di ritorno dal Sahel al Nord Africa. Allargando il campo di osservazione, #ReaCT2024 si concentra sulle variabili del terrorismo e i caratteri delle manifestazioni antisistema rilevando la necessità di analizzare un fenomeno estremamente dinamico in funzione degli spazi di azione e, su un piano paradigmatico, di procedere urgentemente verso una nuova e condivisa definizione di terrorismo poiché da questa discendono gli strumenti legislativi e giudiziari di prevenzione e contrasto del fenomeno. Altro tema approfondito è quello del “terrorismo solitario” inteso come fenomeno molteplice e puntiforme grazie al ruolo giocato dai social network, dalle dinamiche collettive, dai cluster e dalle ondate e comunità online, a cui si associa l’evoluzione di forme di estremismi “giovani, autonomi ed emancipati”.

In tale contesto in costante evoluzione si inseriscono i fenomeni di radicalizzazione ed estremismo negli ecosistemi digitali fra nuove tecnologie e intelligenza artificiale, i discorsi d’odio digitali come precursori della violenza estremista che apre all’ipotesi suggestiva del “caos armato” a cui il Rapporto dedica un’ampia analisi con un focus sull’accelerazionismo militante, dall’estrema sinistra all’estrema destra.

Sul piano della prevenzione, ampio spazio viene dedicato all’analisi sulla RAN (Radicalization Awareness Network), attraverso un bilancio approfondito su successi, limiti e fallimenti in termini di policy e pratiche, ponendo l’accento sulla vexata quaestio: i radicali torneranno mai a de-radicalizzarsi?

Ampio spazio viene poi dedicato all’insorgere di nuovi estremismi portatori di istanze anti-democratiche, per poi invitare i lettori a riflettere sull’evoluzione dei fenomeni attraverso due casi studio specifici: il primo sulla prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo violento attraverso il contributo delle forze di sicurezza in Portogallo; il secondo sulla sistematica discriminazione di genere in Afghanistan sotto il governo islamista dei talebani, teorizzando la sistematicità di un’apartheid di genere. In conclusione, anche il contributo di quest’anno ha voluto confermare l’ambizione dell’Osservatorio di essere testimonianza della forza e della dedizione della nostra comunità di studiosi e operatori nella lotta in corso contro l’evolvere dei fenomeni di devianza sociale violenta, dei radicalismi e dei terrorismi. Auspico, in qualità di Direttore dell’Osservatorio, che i risultati e le suggestioni contenute in questo Rapporto contribuiscano sempre più a una migliore comprensione dell’evoluzione della minaccia dei terrorismi in Europa e servano come appello all’azione per tutti i soggetti interessati a lavorare insieme ai fini della prevenzione e del contrasto agli estremismi violenti.

Grazie ancora a tutti gli Autori che, con il loro encomiabile lavoro, hanno contribuito ancora una volta alla realizzazione di #ReaCT2024. Un ringraziamento speciale va, come sempre, a START InSight, che ha consentito la pubblicazione e la distribuzione internazionale del nostro rapporto annuale. Infine, un doveroso ricordo al nostro amico Marco Cochi, ricercatore serio e capace, prematuramente scomparso.


Radicalizzati a 11 anni. È possibile?

Dopo la segnalazione di un caso nella Svizzera francese, il Presidente di START InSight Chiara Sulmoni ha parlato del tema con i servizi info della Radiotelevisione svizzera di lingua italiana.

Intervista a cura della giornalista Francesca Calcagno, SEIDISERA, 6 settembre 2024 (approfondimento radio)

LEGGI QUI LA TRASCRIZIONE DELL’INTERVISTA

Intervista a cura della giornalista Alessia Caldelari, TG RSI, 6 settembre 2024 (TV)


Ucciso Ismail Haniyeh, capo politico di Hamas. Chi sarà il suo sostituto?

di Claudio Bertolotti

Estratto dal volume Gaza Underground. La guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas, ed START InSight.

La struttura politica di Hamas

Hamas è strutturata su una serie di organi direttivi che svolgono varie funzioni politiche, militari e sociali. L’autorità in capo, responsabile dell’agenda politica e strategica del movimento, appartiene al consiglio della shura di Hamas, l’organo di leadership al vertice della catena organizzativa di comando,[1] che opera in esilio.  Tuttavia, le operazioni quotidiane del gruppo rientrano nell’ambito del bureau politico, così come le operazioni militari fanno capo più specificamente al braccio militare del gruppo, le brigate Izz ad-Din al-Qassam, organo che gode di un alto grado di autonomia operativa.[2] I comitati locali gestiscono le questioni di base a Gaza e in Cisgiordania.

Quali sono i leader più importanti di Hamas a cui Israele dà la caccia? Tre i soggetti chiave del movimento: Khaled Meshaal, ex capo politico del movimento e ora capo ufficio politico estero, Yahya Sinwar, capo dell’ala militare di Hamas e Ismail Haniyeh, capo dell’ufficio politico del gruppo a Gaza, ucciso da Israele il 30 luglio 2024 in Iran, nella sua residenza di Teheran, a seguito di un probabile raid aereo con droni.

Storia, pregresso e ruolo politico di Ismail Haniyeh

Ismail Haniyeh[3], conosciuto anche come Isma’il Haniyyah e Ismail Haniya, assurse al ruolo di primo ministro dell’Anp in seguito alla vittoria elettorale di Hamas del 2006; dopo i violenti scontri tra fazioni con la rivale Fatah, che portarono alla dissoluzione del governo e all’istituzione di un’amministrazione autonoma guidata da Hamas nella Striscia di Gaza, Haniyeh assunse il ruolo di leader del governo de facto nella Striscia (2007-14) e, nel 2017, fu scelto per sostituire Khaled Meshaal come capo dell’ufficio politico.

Figlio di genitori arabi palestinesi sfollati dal loro villaggio vicino ad Ashqelon (in quello che oggi è Israele) nel 1948, Haniyeh nacque nel 1962 nel campo profughi di Al-Shati’, Striscia di Gaza, dove trascorse i primi anni della sua vita. Come per la maggior parte dei minori rifugiati, Haniyeh fu educato nelle scuole gestite dall’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (Unrwa). Nel 1981 si iscrisse all’Università islamica di Gaza, dove studiò letteratura araba e iniziò l’attivismo politico studentesco, guidando un’associazione islamista affiliata ai Fratelli Musulmani. Quando Hamas si formò, nel 1988 Haniyeh era tra i suoi membri fondatori più giovani, avendo sviluppato stretti legami con il leader spirituale del gruppo, lo sceicco Ahmed Yassin. Haniyeh fu arrestato dalle autorità israeliane nel 1988 e imprigionato per sei mesi per la sua partecipazione alla Prima intifada. Arrestato di nuovo nel 1989, rimase in prigione fino a quando Israele lo deportò nel sud del Libano nel 1992 insieme a circa quattrocento altri islamisti. Tornò poi a Gaza nel 1993, in seguito agli accordi di Oslo, e fu nominato decano dell’Università islamica.

Il ruolo di leadership di Haniyeh in Hamas si radicò nel 1997, quando fu nominato segretario personale di Yassin, divenendone uno stretto confidente. I due furono bersaglio di un primo fallito tentativo di assassinio da parte di Israele nel 2003; una seconda operazione mirata israeliana portò alla morte di Yassin pochi mesi dopo. Nel 2006 Hamas partecipò alle elezioni legislative palestinesi, con Haniyeh in testa alla lista. Il gruppo ottenne la maggioranza dei seggi in parlamento e Haniyeh divenne primo ministro dell’Anp. La comunità internazionale reagì alla leadership di Hamas congelando gli aiuti all’Autorità Palestinese, con ciò mettendo a dura prova l’organo di governo. Nel giugno 2007, dopo mesi di tensione e un violento conflitto armato tra le fazioni, il presidente Mahmoud Abbas del partito Fatah destituì Haniyeh e ne sciolse il governo. La conseguenza fu l’istituzione di un governo autonomo guidato da Hamas nella Striscia di Gaza, con Haniyeh a capo della compagine governativa. Poco dopo, Israele attuò un pacchetto di sanzioni e restrizioni alla Striscia di Gaza, con il supporto e la collaborazione dell’Egitto.

Nel gennaio 2008 un attacco con decine di razzi venne lanciato dalla Striscia di Gaza verso Israele; come pronta risposta Israele intensificò il suo blocco. Ciononostante, Hamas mantenne il controllo della Striscia di Gaza e il suo governo oscillò tra occasionali successi politici e battute d’arresto. Per quanto riguarda l’ottenimento di concessioni da Israele, Hamas ottenne il rilascio di oltre mille prigionieri palestinesi detenuti da Israele in cambio del soldato israeliano rapito Gilad Shalit. Un altro successo presentato all’opinione pubblica palestinese fu la performance di Hamas nella guerra contro Israele nell’estate del 2014 sebbene, a causa del blocco, le condizioni di vita all’interno della Striscia stessero progressivamente peggiorando. Nel frattempo, ci furono una serie di tentativi di riconciliazione tra Hamas nella Striscia di Gaza e l’Autorità Palestinese guidata da Fatah in Cisgiordania. In uno di questi tentativi, nel 2014, il governo di Hamas si dimise formalmente per far posto a un governo di unità nazionale con Fatah. Così facendo, Haniyeh rinunciò al suo incarico di primo ministro pur mantenendo quello di capo politico locale, fino a quando non venne sostituito da Yahya Sinwar nel 2017. Dopo pochi mesi, Haniyeh venne eletto capo dell’ufficio politico di Hamas, in sostituzione di Khaled Meshaal.

Nel dicembre 2019 Haniyeh lasciò la Striscia di Gaza, trasferendosi all’estero, tra Turchia e Qatar, facilitando la sua capacità di rappresentare Hamas all’estero. Tra le sue visite più importanti si citano il funerale di Qassem Soleimani, un alto comandante del Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche iraniane (Irgc) ucciso da un attacco di droni statunitensi nel gennaio 2020, l’insediamento del presidente iraniano Ebrahim Raisi nell’agosto 2021 e il suo funerale il 23 maggio 2024. Nello stesso anno, mentre le truppe statunitensi si ritiravano dall’Afghanistan, Haniyeh chiamò il capo dell’ufficio politico e negoziatore dei talebani, Abdul Ghani Baradar, per congratularsi con lui per il successo nell’aver posto termine all’occupazione statunitense nel Paese. Nell’ottobre 2022 Haniyeh incontrò il presidente siriano Bashar al-Assad; quello fu il primo incontro tra i leader di Hamas e della Siria dalla rottura all’inizio della guerra civile nel 2011. In un raid israeliano a Gaza, il 10 aprile 2024, morirono tre dei suoi figli; un altro era morto in un precedente attacco israeliano il 17 ottobre 2023.

Mahmoud Zahar: il possibile sostituto di Ismail Haniyeh

La decisione di nominare il nuovo capo politico di Hamas spetta al consiglio della shura del movimento. Molto dipenderà dai nuovi equilibri politici determinati dal peso della rinforzata leadership militare che guida le brigate di HamasIzz ad-Din al-Qassam nella Striscia di Gaza.

Mahmoud Zahar è considerato uno dei leader più importanti di Hamas e membro della leadership politica del movimento: è uno dei principali candidati a sostituire Ismail Haniyeh. Frequentò la scuola a Gaza e l’università al Cairo, per poi lavorare come medico a Gaza e Khan Younis, fino a quando le autorità israeliane lo licenziarono in relazione al suo ruolo politico. Detenuto nelle carceri israeliane nel 1988, nel 1992 fu tra i deportati da Israele nella terra di nessuno, in Libano, dove vi trascorse un anno. Con la vittoria di Hamas alle elezioni del 2006, Zahar entrò a far parte del Ministero degli Affari Esteri nel nuovo governo del primo ministro Ismail Haniyeh.[4] Israele tentò di eliminarlo nel 2003, quando un aereo bombardò la sua casa nella città di Gaza. Sopravvisse all’attacco, nel quale però morì il figlio maggiore, Khaled. Il suo secondo figlio, Hossam, che era un membro delle brigate Izz ad-Din al-Qassam, venne ucciso in un successivo attacco aereo a Gaza nel 2008.

Per la lettura completa dell’analisi, vai al volume Gaza Underground. La guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas, ed START InSight.


[1] Berti B. (2013), Armed Political Organizations: From Conflict to Integration, Johns Hopkins University Press.

[2] Hroub K. (2010), Hamas: A Beginner’s Guide, London: Pluto Press.

[3] C. Bertolotti (2024), Gaza Underground: la guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas: Storia, strategie, tattiche, guerra cognitiva e intelligenza artificiale, START InSight ed., Lugano, pp. 40-44.

[4] C. Bertolotti (2024), Gaza Underground: la guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas: Storia, strategie, tattiche, guerra cognitiva e intelligenza artificiale, START InSight ed., Lugano, p. 40-44.