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IL RAN: ieri, oggi e domani. La rete europea per le pratiche di prevenzione e l’Italia: un bilancio tra luci ed ombre

di Luca Guglielminetti, RAN Ambassador for Italy

QUESTO ARTICOLO APPARIRÀ NEL RAPPORTO #REACT2024 SUL TERRORISMO E IL RADICALISMO IN EUROPA, ATTUALMENTE IN CORSO DI LAVORAZIONE. VIENE QUI ANTICIPATO IN OCCASIONE DELLA CHIUSURA DELLE ATTIVITÀ DEL RADICALISATION AWARENESS NETWORK (RAN).

Quest’anno terminerà l’attività del “Radicalisation Awareness Network – RAN”, la rete europea per le pratiche di prevenzione istituita nel 2011 della DG Home della Commissione Europea, che sarà sostituito dall’ “EU Knowledge Hub on Prevention of Radicalisation”. È quindi tempo per un bilancio di questa esperienza, in particolare nel nostro paese, e di aprire un dibattito sul futuro e il consolidamento di queste politiche e pratiche atte a prevenire e contrastare la radicalizzazione che porta all’estremismo violento e al terrorismo (P/CVE). Politiche e pratiche che implicano una impegnativa e fattiva collaborazione tra attori, ambiti e approcci diversi, come quelli della sicurezza e della resilienza, della repressione e della costruzione di fiducia, della segretezza e della trasparenza, della giustizia retributiva e di quella riparativa, delle istituzioni statali e della società civile, delle autorità nazionali e di quelle locali, dei mass-media e dell’accademia, degli ex terroristi e delle vittime. Esemplificativi binomi che già singolarmente rappresentano delle sfide tutt’altro che risolte e che talvolta, in tutta Europa, hanno indotto dispute, anche aspre, verso queste politiche e pratiche. Tuttavia, almeno le pratiche di P/CVE, sono ormai sedimentate anche in Italia. Il punto è se in futuro si riuscirà a passare dall’attuale stato di frammentazione a quello di una loro valorizzazione strategica.

1. COSA È IL RAN

Poiché l’Italia, come vedremo nel secondo capitolo, è uno di pochissimi Stati Membri dell’Unione Europea (EU) a non aver adottato una strategia o una legislazione nazionale in materia di P/CVE, è opportuno iniziare presentando cosa sia e come funzioni il Radicalisation Awareness Network (RAN), a beneficio di chi non lo conoscesse[1].

Il Radicalization Awareness Network, in breve RAN, è una rete europea orientata alla pratica per la prevenzione dei fenomeni di estremismo violento e terrorismo con oltre 6.000 partecipanti. Il RAN è stato lanciato nel 2011 dalla Commissione Europea ed è da questa finanziata al 100%. Dal punto di vista organizzativo, ha sede presso il Dipartimento per la Migrazione e gli Affari Interni (DG HOME) della Commissione Europea, ma la sua attività è implementata e coordinata, per conto della Commissione EU, da un consorzio che ogni 4 anni è stato rinnovato con gara d’appalto.

Lo scopo delle varie attività e offerte dal RAN è quello di creare reti e scambiare informazioni tra esperti provenienti da diversi settori della pratica di prevenzione e da diversi paesi per prevenire e combattere l’estremismo violento. L’obiettivo è raccogliere conoscenze empiriche e pratiche, insieme a nuove scoperte scientifiche, e renderle disponibili agli operatori professionali, attraverso i seguenti nove gruppi di lavoro:

Comunicazione e narrazioni (RAN C&N) è focalizzato sugli sviluppi e le tendenze nella comunicazione estremista online e offline, nonché sui modi per contrastarle

Gioventù ed educazione (RAN Y&E) è incentrato sul rafforzamento degli insegnanti e del settore dell’istruzione nella gestione della radicalizzazione

Riabilitazione (RAN REHABILITATION) si concentra sui programmi di deradicalizzazione e di uscita, nonché sui servizi di risocializzazione all’interno e all’esterno del carcere

Famiglie, comunità e assistenza sociale (RAN FC&S) affronta il modo migliore per sostenere i giovani, le famiglie e i gruppi etnici o religiosi che si trovano ad affrontare la radicalizzazione o che potrebbero essere particolarmente vulnerabili

Autorità Locali (RAN LOCAL) è focalizzato sullo scambio di approcci e strategie che coinvolgono diversi attori locali che perseguono il coordinamento della prevenzione nella sicurezza urbana

Carcere (RAN PRISONS) è incentrato sull’analisi dell’impatto dei sistemi carcerari, dei programmi di reinserimento e d’intervento mirati ai terroristi condannati

Polizia e forze dell’ordine (RAN POL) identifica approcci di polizia efficaci, tra cui la formazione, l’uso dei social media e la creazione di fiducia e approcci basati sulle relazioni per lavorare con famiglie, comunità, ambienti e quartieri

Vittime/sopravvissuti al terrorismo (RAN VoT) mantiene una rete di vittime del terrorismo interessate alle attività di P/CVE e organizza la Giornata europea della memoria e del ricordo delle vittime del terrorismo l’11 marzo di ogni anno

• Salute mentale (RAN HEALTH) sensibilizza gli operatori sanitari e sociali sul loro ruolo nell’identificazione e nel sostegno delle persone a rischio di radicalizzazione

La partecipazione ai gruppi di lavoro funziona attraverso pubblici bandi ai quali gli interessati possono candidarsi e la loro selezione avviene sulla base della competenza, dell’esperienza operativa e del paese d’origine. Gli incontri sono sempre interattivi, orientati all’esempio, all’esperienza e alla pratica. Dopo ogni incontro vengono pubblicati i cosiddetti documenti conclusivi con i risultati principali.

Il RAN pubblica non solo i risultati degli incontri ma anche paper che forniscono informazioni sulle novità della ricerca e delle politiche sui temi della radicalizzazione, dell’estremismo, del terrorismo e della prevenzione. In questo modo divulga le conoscenze pratiche, anche attraverso una collezione di pratiche nei vari paesi europei, agli esperti ed operatori, coinvolti o meno nella rete, aiutandoli a migliorare il proprio lavoro.

I focus tematici principali della rete e gli argomenti dei gruppi di lavoro sono sviluppati nel Comitato di Pilotaggio del RAN in combinazione con sondaggi online inviati ai partecipanti e alla all’incontro plenario annuale del RAN.

Nel corso del tempo si sono aggiunte ulteriori articolazione della rete: nel 2016 “RAN Young”, dedicato giovani europei coinvolti delle attività di prevenzione; il “Poll of Experts” per la scrittura dei “RAN papers” e la revisione delle pratiche collezionate; il programma CSEP indirizzato a finanziare campagne di comunicazione della società civile per contrastare le propagande estremiste. Nel 2021, è stata creata una seconda sezione della rete, “RAN Policy Support”, dedicata principalmente ai decisori politici e ai responsabili negli Stati membri, differenziandosi da “RAN Practitioners” che ha mantenuto la pregressa natura di rete di operatori professionali che lavorano sul campo. Inoltre, sempre nel 2021, una ulteriore articolazione è costituita da “RAN in the Western Balkans” con l’obiettivo di sostenere la prevenzione della radicalizzazione in una regione particolarmente vulnerabile. Infine, sono stati nominati dei “RAN Ambassador”, per alimentare la conoscenza della rete negli Stati Membri della UE.

Anche la comunicazione del RAN si è sviluppata nel tempo. Dal solo sito web di presentazione con i gruppi di lavoro, i paper e la raccolta di “Inspiring Practices”, si sono aggiunti via via i canali sui principali social network, la newsletter, i video e i podcast, le infografiche, i webinar e una rivista trimestrale, “RAN Spotlight”, che in ogni numero presenta un argomento diverso.

2. IL RAN E L’ITALIA: EVOLUZIONI E PRIME VALUTAZIONI

Questa seconda parte è in gran parte in forma di testimonianza perché il sottoscritto si è trovato, come unico italiano, ad aver seguito il RAN fin dalla sua fase di progettazione, quando cioè la DG HOME stava svolgendo incontri con gli stakeholders nella prima metà del 2011.  Ero allora parte interessata allo sviluppo di questa nuova rete in quando, nei cinque anni precedenti, avevo seguito i lavori di un’altra rete promossa dalla Commissione Europea: quella delle associazioni delle vittime del terrorismo (NAVT)[2].

Nel 2005 le strategie europee di lotta al terrorismo iniziarono a inserire in agenda il tema della radicalizzazione violenta e la sua prevenzione. Queste strategie, e in particolare il Programma di Stoccolma per il periodo 2010-2014[3], pur riconoscendo che le azioni contro la radicalizzazione e il terrorismo rientrano principalmente nelle competenze e le responsabilità degli Stati membri dell’Unione europea, rilevava l’importanza e il valore aggiunto sia di creare una struttura a livello Europeo, sia di sviluppare un ruolo attivo della società civile, delle comunità e amministrazioni locali. Tale struttura prese la forma del RAN che nel settembre 2011 a Bruxelles fu pubblicamente lanciata alla presenza della Commissaria europea per gli affari interni, Cecilia Malmström. Era l’anno dell’incerta Primavera araba, ma in sala era ancora forte l’eco delle stragi di Anders Breivik a Oslo e sull’isola di Utøya.

Nell’occasione fu subito chiaro il principale iato esistente tra paesi europei nell’approccio culturale alla sicurezza. I paesi nordici puntavano sul fatto di prevenire che un individuo giungesse a forme di devianza sociale che lo portasse a diventare un criminale; mentre nei paesi del sud Europa, come il nostro, l’approccio era incentrato sul fatto di prevenire che un certo crimine avvenisse. Fu il Regno Unito e le politiche del suo programma “Prevent”[4], maturato in seguito agli attentati di Londra del 7 luglio 2005, a fornire alla Commissione Europea il know-how per un approccio ‘olistico’ che integrasse la prevenzione della radicalizzazione con la prevenzione dell’atto terroristico.

PRIMO CICLIO: 2012-2015

Nel corso del primo ciclo del RAN, tra il 2012 e il 2015, coordinai, con un collega francese[5], il gruppo di lavoro sulla “voce delle vittime del terrorismo”, partecipando anche agli incontri del Comitato di Pilotaggio, a quelli di altri gruppi di lavoro, alle plenarie annuali e alle due Conferenze di alto livello che allora la DG HOME organizzava per promuovere i risultati del RAN ai decisori politici degli Stati membri della Ue.

Nel corso del primo Comitato di Pilotaggio del RAN, fummo informati che la Commissione Europea avrebbe inserito il tema della prevenzione della radicalizzazione in pressoché tutti i sui programmi e bandi a progetto: da quelli educativi e culturali, a quelli di ricerca e sviluppo, da quelli su sicurezza e giustizia, a quelli per la cittadinanza e la promozione sociale.

Una prima valutazione giunge da questa scelta che fu veramente strategica perché, almeno in Italia, da quel periodo in poi, le opportunità di finanziamento dei bandi europei portò il tema della prevenzione della radicalizzazione all’attenzione di università, di autorità nazionali e locali, e delle organizzazioni della società civile, con una modalità forse più efficace del RAN[6].

L’aspetto certamente più innovativo del RAN fu il suo modus operandi. L’intento della Commissione era quello di far delineare le politiche e le pratiche in materia di P/CVE agli operatori che lavorano sui terreni della prevenzione, tramite i “RAN paper” e la collezione di pratiche del RAN, per poi promuoverli ai vertici politici degli Stati membri in occasione delle conferenze “High Level”. Un circolo virtuoso dal basso verso l’alto per ottimizzare l’efficacia di politiche e pratiche di cui beneficiarono molto paesi europei che in quegli anni si andarono dotando di strategie nazionali in materia di P/CVE.

Il numero di partecipanti italiani al RAN era allora di poche decine, a fronte dei 2000 raggiuti nel primo ciclo in tutta la Ue. Del resto, in quel periodo, lo stesso termine radicalizzazione, nell’accezione qui utilizzata[7], era riservato agli addetti del comparto sicurezza, ma completamente alieno ai mezzi di comunicazione italiani, così come ai nostri decisori politici.  Ciò nonostante, in occasione del seminario finale del primo progetto italiano di prevenzione nelle scuole, “Counter-narrative to Counter-terrorism (C4C)”, che organizzai a Torino del Novembre 2014[8], con gli italiani del RAN provammo a gettare le basi di un “RAN Italia”, stilando un documento e aprendo interlocuzioni con il Ministero della Giustizia, il cui Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria aveva avviato da qualche anno l’attività di formazione del personale penitenziario in tema di radicalizzazione[9]. Il RAN allora offriva, infatti, assistenza e supporto agli Stati Membri della Ue per la creazione di reti nazionali sul tema, dietro semplice richiesta via email di un ministero. Quell’email non fu mai inviata.

SECONDO CICLIO: 2016-2019

Il secondo ciclo del RAN, tra il 2016 e il 2020, sembrò aprire una svolta per l’Italia. Il conflitto siro-irakeno stava raggiungendo il culmine di ripercussioni anche sul terreno europeo, a partire dall’attentato alla redazione di Charlie Hebdo e poi, al suo declino, avrebbe lasciato il gravoso problema dei foreign-fighters e le loro famiglie di ritorno in Europa.

L’eco dell’attentato parigino del 7 gennaio 2015 aprì anche in Italia il tema della prevenzione della radicalizzazione e per la prima volta mi capitò di rilasciare un’intervista sul RAN e i finanziamenti europei relativi. Non penso sia causale il fatto che sia stato il quotidiano cattolico Avvenire a prendere l’iniziativa[10]. Allora non coordinavo più un gruppo di lavoro, ma ero entrato nel Pool di esperti del RAN e il titolo, annunciato dall’occhiello “Gli esperti denunciano”, era: “La Rete Ue anti-radicalismo. Ma l’Italia è in ritardo”[11]. Nell’intervista sottolineai come nel nostro paese il terrorismo restasse una questione solo securitaria di polizia ed intelligence, senza aprirsi all’uso del “soft power” delle politiche europee di P/CVE. Seguirono altre interviste e interventi sui media nazionali, ma questa prima mi condusse a Stefano Dambruoso, a sua volta intervisto nello stesso articolo.

L’allora ex magistrato di prestigio internazionale per la sua inchiesta su al Qaeda in Europa già prima dell’11 Settembre, e parlamentare al lavoro sul nuovo decreto antiterrorismo – poi convertito nella legge 17 aprile 2015, n. 43 – era convito sostenitore che, insieme all’inasprimento penale, servisse far seguire anche il lavoro educativo di prevenzione della radicalizzazione. Convincimento che ebbe esito in una proposta di legge intitolata “Misure per la prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista”[12], di cui fu primo firmatario insieme all’on. Andrea Manciulli.

Nell’estate del 2016 iniziarono parallelamente, da una parte, la discussione e poi le audizioni della proposta di legge Dambruoso-Manciulli alla commissione Affari Costituzionali della Camera; e dell’altra, ad agosto, fu istituita, promossa dall’allora Sottosegretario agli Interni, Marco Minniti, una commissione di studio indipendente sul fenomeno della radicalizzazione jihadista presieduta da Lorenzo Vidino, cioè il primo ricercatore ad aver lavorato sulla dimensione italiana del fenomeno jihadista[13].

Ho avuto occasione di collaborare con entrambe le commissioni e quindi osservare gli eventi da vicino. L’inizio del 2017 si aprì – il 5 gennaio – con la conferenza stampa da Palazzo Chigi del nuovo presidente del Consiglio dei Ministri, Paolo Gentiloni, del ministro agli Interni Minniti e da Lorenzo Vidino che presentarono il risultato dei lavori della Commissione. Il paradosso di quell’operazione è che non ci furono documenti pubblici. La relazione finale della Commissione, che contiene, nella sua seconda parte operativa e per la prima volta in italiano, la descrizione dettagliata delle politiche e degli approcci promosse dal RAN, comprese le poche attività svolte a livello locale dai suoi membri italiani, viene secretata e, i giorni seguenti, venne distribuito per i giornalisti solo un breve sunto assai generico. Si giunse così al paradosso che, mentre la Camera dei Deputati nei mesi a venire avrebbe discusso e approvato una proposta di legge in materia, il documento governativo che avrebbe potuto informare i parlamentari sull’argomento fu loro precluso, essendo stato fatto divieto ai membri della Commissione Vidino di distribuirla a chicchessia, poiché, nella sua prima parte, conteneva dati ministeriali riservati.

Come noto, la proposta di legge Dambruoso-Manciulli fu approvato solo alla Camera dei Deputati e la fine di quella legislatura avvenne poco prima della sua approvazione al Senato. Nella legislatura successiva (2018-2022), il testo riproposto a prima firma dell’on. Fiano nel 2018 – poi unificato ad analoga proposta a firma dell’on. Perego di Cremnago nel testo unificato: “Misure per la prevenzione dei fenomeni eversivi di radicalizzazione violenta, inclusi i fenomeni di radicalizzazione e di diffusione dell’estremismo violento di matrice jihadista (A.C. 243​-3357-A)[14] – non ebbe miglior fortuna.

L’esito delle vicende legate a queste proposte di legge è stato quello di rendere l’Italia uno dei pochissimi paesi europei senza una legislazione nazionale o una strategia in materia di prevenzione della radicalizzazione. Tuttavia, il dibattito intorno a quel tentativo si è fin da subito posto, tra gli addetti ai lavori, in termini di merito. La proposta di legge aveva dei limiti, a partire dal parziale recepimento dei risultati della Commissione Vidino, che inducevano alcuni, tra i quali il sottoscritto, a domandarsi se la sua approvazione fosse utile o meno. Uno dei limiti principali era il fatto che il testo fosse focalizzato solo sulla radicalizzazione di matrice jihadista[15]. Il secondo che avesse comunque un impianto securitario che ancorava le attività al Ministero degli Interni e alle Prefetture in sede locale; quando, in quasi tutta Europa, il perno operativo delle attività di P/CVE più efficaci erano le autorità locali, a partire dal famoso modello della città danese di Aarhus, per passare alle “safety-house” delle città olandesi, o ai centri di prevenzione dei lander tedeschi e quelli cittadini di Belgio e Regno Unito. Fu da questa considerazione, e dall’impasse nel 2014 di avviare una rete nazionale (“RAN Italia”) con i ministeri, che nel 2016 ebbero origine i tentativi di avviare delle reti di prevenzione locali nelle città di Torino, Milano ed Udine da parte dei partecipanti italiani del RAN. Delle tre città solo a Torino, dopo alcuni anni di incontri informali tra amministrazione cittadina, forze dell’ordine, amministrazione penitenziaria e organizzazioni della società civile, si giunse nel 2020 all’istituzione di un Tavolo di lavoro sulla prevenzione degli estremismi violenti e all’approvazione di linee guida operative[16] che seguivano gli approcci del RAN.

I quegli anni l’attenzione sui temi si diffuse, come già sottolineato, grazie soprattutto ai progetti europei, condotti o partecipati da partner italiani, nei vari ambiti di prevenzione della radicalizzazione: dalle scuole alle carceri; dai settori della sicurezza urbana, a quelli della resilienza delle comunità religiose; dallo sviluppo di campagne di comunicazione contro la propaganda on line, a quello delle competenze alla cittadinanza delle nuove generazioni. L’esito di questi progetti europei, oltre a un moltiplicarsi di convegni, seminari e pubblicazioni anche in lingua italiana[17], è stato un’ampia attività di formazione verso i tutti settori coinvolti nel fenomeno: le polizie locali, i docenti delle scuole, gli attivisti e i volontari del terzo settore, gli operatori penitenziari, i garanti dei diritti dei detenuti, le guide spirituali religiose.

Ci fu poi un incremento significativo di partecipanti italiani al RAN e quando nel 2016 viene lanciato “RAN Young”, il sottoscritto può segnalare decine di giovani italiani interessati a parteciparvi.

Anche l’ambito accademico italiano sviluppò un interesse per il tema sempre più ampio. Nascono alla fine dello scorso decennio due master universitari a Bergamo e Bari focalizzati sui fenomeni di terrorismo e radicalizzazione[18]. Sia i progetti europei del programma Horizon che quello del Ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca, come PriMED[19], avvicinano decine di professori e ricercatori di diverse discipline alle riflessioni e alle pratiche di prevenzione e contrasto della radicalizzazione.

TERZO CICLIO: 2020-2023

Il terzo ciclo del RAN, tra il 2020 e il 2023, è stato caratterizzato principalmente dallo sviluppo degli strumenti di comunicazione esterna del RAN e dalla creazione del secondo ramo dedicato al supporto ai decisori politici. Naturalmente sono entrati in agenda i nuovi temi legati alle forme di radicalizzazioni connesse alla pandemia da Covid19 e le relative derive estremiste, populiste e antisistema dalle cornici ideologiche sempre più fluide.

Il numero di partecipanti, anche italiani, è continuato a crescere, ma molti incontri si svolgevano ormai a distanza via “call-conference”, con una minore efficacia in termini di networking. Inoltre, la separazione troppo netta tra le attività dell’ambito operativo (“RAN Practitioners”) e quello politico (“RAN Policy Support”) creava uno iato di comunicazione e coordinazione piuttosto controproducente. In questo quadro è significativo il cortocircuito verificatosi con l’introduzione nel 2020 dei “RAN Ambassadors” per alcuni Stati membri. Selezionati, come il sottoscritto per l’Italia, tra i “practitioners” per diffondere i risultati del RAN, ma inabilitati a mantenere relazioni con il contesto politico-istituzionale nel proprio paese.

Infine, l’esempio torinese del Tavolo di lavoro e delle Linee guida per un approccio locale alla P/CVE, ufficializzato nel 2020, non diventerà mai operativo per mancanza di fondi.

3.VALUTAZIONI FINALI E PROSPETTIVE

UN KNOW-HOW A RISCHIO

Abbiamo visto come le politiche europee in materia di prevenzione e contrasto all’estremismo violento abbiano avuto due strumenti principali: il RAN e i programmi con i loro bandi di finanziamento a progetti.

Oltre quanto già evidenziato in termini di ricadute sul nostro paese, vanno considerate e valutati ancora alcuni aspetti cruciali relativi allo scarso impatto che i progetti europei hanno avuto in Italia. Infatti, il profluvio di fondi sul tema nei vari programmi europei ha certamente permesso una buona disseminazione delle tematiche di P/CVE tra i vari stakeholders italiani. Tuttavia, lo scarso impatto dei risultati espressi dalla maggior parte di tali progetti si presta a diverse valutazioni a più livelli. In generale, il limite maggiore alla possibilità di produrre un impatto duraturo, risiede sicuramente nel vulnus creato dall’assenza di legislazione o strategie nazionali. Infatti, come evidenziato fin del 2019[20], il carattere pilota delle esperienze e dei risultati pratici o teorici dei progetti europei in Italia restava tale perché non si potevano evolvere, come un’economia di scala, in politiche e programmi di sistema. Quanto, allora, resta come dato inconfutabile è il fatto che la formazione di centinaia di operatori e ricercatori italiani nei vari ambiti della P/CVE, durante lo scorso decennio, sia un know-how che rischia di restare in gran parte svilito, privo di prospettive e valorizzazione.

IL MONDO CATTOLICO

Il ruolo del mondo cattolico italiano e il suo interesse per la P/CVE, a cui ho accennato in merio alla mia prima intervista sul RAN ad Avvenire, merita una valutazione particolare perché esso ha sempre svolto un ruolo nelle vicende di terrorismo fin dagli anni di piombo, seppur sottotraccia e poco studiato[21]. Come avevo potuto osservare durante la mia quindicennale collaborazione con l’associazionismo delle vittime del terrorismo, la chiesa e il mondo cattolico si erano sostanzialmente disinteressata a loro, con l’eccezione del Cardinal Martini, per oltre trent’anni, per concentrarsi sulla salvezza dei terroristi, cioè sul loro percorso riabilitativo passato per la riforma Gozzini e la cosiddetta ‘legislatura premiale’. Un percorso che di fatto anticipava il concetto di deradicalizzazione, come osserva Dambruoso: “…è bene precisare che il primo timido tentativo di formalizzare il concetto giuridico di deradicalizzazione risale alla legge 18 febbraio 1987, n. 34, incentrata sulla disciplina delle condotte di dissociazione dal terrorismo, definite all’articolo 1 come «il comportamento di chi, imputato o condannato per reati aventi finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale, ha definitivamente abbandonato l’organizzazione o il movimento terroristico o eversivo cui ha appartenuto, tenendo congiuntamente le seguenti condotte: ammissione delle attività effettivamente svolte, comportamenti oggettivamente e univocamente incompatibili con il permanere del vincolo associativo, ripudio della violenza come metodo di lotta politica»”[22].

Come è risultato poi chiaro dalla prime ricerche scientifiche in merito, l’interesse all’uscita degli anni di piombo fu centrale per il mondo cattolico «per promuovere il disimpegno dal terrorismo e nell’influenzare le politiche pubbliche in questo settore»[23], così come completo il disinteresse per le vittime[24].

Nel 2016 la situazione era decisamente cambiata. Il primo decennio del XXI secolo aveva sancito la centralità alle vittime del terrorismo nel discorso pubblico. Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, aveva favorito un compromesso tra le vittime del terrorismo rosso e nero, intorno alla figura di Aldo Moro e la data del 9 Maggio, per celebrare il Giorno della Memoria[25]. Inoltre, nel 2015 era uscito, con vasta eco, il Libro dell’incontro[26]: il resoconto dell’esperienza del gruppo composto da vittime, ex terroristi e mediatori, patrocinata dalla chiesa e dall’università cattolica milanese, che diventerà il testo d’innesto all’introduzione della giustizia riparativa in Italia, fino alla recente riforma Cartabia in materia di mediazione penale[27].

Questo sintetico excursus ritengo spieghi come il fatto che le vittime del terrorismo siano state le prime a introdurre in Italia delle attività esplicitamente indirizzate alla prevenzione della radicalizzazione violenta[28], abbiano attirato l’interesse del mondo cattolico. Dai terroristi dissociatisi dalla lotta armata che si riabilitavano e ‘deradicalizzavano’ attraverso l’impegno sociale nelle organizzazioni del volontariato cattolico, e non solo, dalla metà degli ’80 del XX secolo, si stava integrando un paradigma nei quali erano presenti anche le vittime che si impegnavano sul terreno educativo per prevenire il formarsi di nuovi terroristi e che dialogavano con gli ‘ex’ per provare a riparare e restaurare relazioni riumanizzate e pacificate[29].

Inoltre, tra i molti progetti che ho potuto osservare o analizzare da vicino, non posso qui non citare quella ‘best practice’ nella prevenzione secondaria – indirizzato ai detenuti mussulmani nella Casa circondariale “Dozza” di Bologna – intitolata “Diritti, Doveri, Solidarietà”. Ideata da Ignazio De Francesco – monaco della Piccola Famiglia dell’Annunziata e fine islamologo, con l’appoggio dell’Assemblea legislativa della regione Emilia-Romagna e del Garante dei detenuti[30] – è probabilmente quando di meglio il mondo cattolico abbia espresso in termini progettuali nelle pratiche di P/CVE nello scorso decennio[31].

POLITICHE FRAMMENTATE

Occorre ora precisare cosa abbia inteso nello scrivere mancanza di una strategia nazionale di P/CVE. Al netto del fallito percorso della proposta di legge Dambruoso-Manciulli, nel 2017, presentando alla stampa la relazione della sua commissione, Lorenzo Vidino dichiarava che: «la comunità dell’antiterrorismo ha capito che un approccio basato solo sulla repressione non è più sufficiente», occorre affiancargli «strumenti di prevenzione, misure soft che vanno a prevenire processi di radicalizzazione in fase embrionale»[32]. Parole che non rimasero senza conseguenze.

Se non una vera e propria strategia, almeno dal 2016 furono attivate alcune iniziative istituzionali lungo tre linee d’intervento: quella delle contro-narrative, quella educativa nelle scuole e quella di deradicalizzazione di singoli soggetti. Al netto dell’attività del Ministero della Giustizia, e il suo Dipartimento d’Amministrazione Penitenziaria (DAP), che continuava a implementare le attività di formazione del personale penitenziario, da una parte, e ad affinare gli strumenti di valutazione del rischio radicalizzazione nella popolazione incarcerata, dall’altra, come nei progetti europei “Rasmorad” e “Train Training”, si sono potute osservare le seguenti iniziative:

1)  quelle della RAI, come del resto prevedeva la proposta di legge, che ha prodotto una serie di servizi di approfondimento relati al mondo islamico e carcerario, con una funzione di contro-narrativa verso il vittimismo della propaganda jihadista[33];

2) quelle dell’Ufficio Regionale Scolastico della Lombardia che, con il programma di formazione verso gli insegnati e gli studenti dei poli scolastici di quella regione oggi intitolato “Educazione alle differenze nell’ottica della prevenzione e contrasto ad ogni forma di estremismo violento”, dal 2016 a oggi ha sistematicamente implementato con continuità nelle scuole tale attività di prevenzione primaria[34];

3) quelle di deradicalizzazione, cioè di prevenzione terziaria, che sono state presentate nel numero speciale sul tema del 2018, della rivista dell’intelligence italiana Gnosis, con i primi due casi italiani a Bari e a Trieste, che prefigurano una forma di collaborazione tra l’organo istituzionale preposto all’“Analisi Strategica Antiterrorismo”, il C.A.S.A., e due realtà della società civile: la cooperativa sociale Exit e l’università di Bari.

Sicuramente, sul delicato terreno della deradicalizzazione, ci sono state altre iniziative con esiti incerti o inconclusi, in particolare quelle verso soggetti detenuti nei circuiti di alta sicurezza. Inoltre, nel quado della prevenzione primaria, l’amministrazione penitenziaria si è distinta con l’iniziativa pilota d’introduzione degli imam nelle carceri italiane per garantire il culto ai detenuti mussulmani e così prevenendo un pretesto di vittimizzazione che poteva portare questi a radicalizzarsi. L’accordo tra il DAP e UCOII del 2015[35], e la collaborazione con altre comunità islamiche italiane, è un buon esempio di prevenzione primaria e del carattere frammentato delle iniziative istituzionali messe in campo negli ultimi anni. Il limite, in questo caso, non è costituito tanto dall’assenza di strategie di P/CVE, quanto dall’assenza di una intesa tra lo Stato italiano e le comunità islamiche che definisca un ampio quadro di diritti e doveri reciproci, come avviene per le altre comunità religiose; e di rispetto dei diritti minimi previsti dalla Convezione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) nelle carceri italiane[36].

L’APPROCCIO MULTIAGENZIA E LA SOCIETÀ CIVILE

Si può aggiungere che nel corso di questa fioritura di pratiche di P/CVE in Italia, tra quelle europee, quelle nazionali e quelle locali, tra quelle promosse da enti istituzionale e quelle promosse dalla società civile, ci siano state forme di competizione o di mancata collaborazione che hanno non solo contribuito a creare un quadro frammentato, ma soprattutto hanno limitato quello che nelle politiche europee del RAN viene chiamato approccio multi-agenzia. Cioè una collaborazione fattiva tra gli stakeholder che, in queste pratiche, afferiscono ad ambiti diversi, così come diversi sono gli approcci utilizzati e, pure, le loro competenze e responsabilità. Mentre la comunità dell’antiterrorismo ha una lunga e sedimentata collaborazione tra i suoi elementi (governo, forze dell’ordine, intelligence, magistratura e amministrazioni penitenziarie); l’attività di prevenzione della radicalizzazione determina un setting multi-agenzia allargato ai sistemi educativi formali e informali, il welfare pubblico e privato, le comunità e le autorità locali. L’intento della proposta di legge italiana, infatti, per usare le parole di Dambruoso, era quello: «di trovare una risposta al terrorismo che coniughi misure repressive e un approccio preventivo di collaborazione con attori della società civile e con le comunità di riferimento»[37].

Il ruolo delle società civile nelle pratiche di P/CVE è stato uno dei fulcri delle politiche del RAN e, non a caso, la grande maggioranza dei circa 150 partecipanti italiani ai lavori del RAN è sempre giunta dal terzo settore[38], erede di quelle organizzazioni caritatevoli del volontariato cattolico che, fin dal XIX secolo, in Italia si prendevano cura della marginalità sociale provocata della nascente industrializzazione. Un ruolo, quello delle organizzazioni della società civile, focalizzato su una cura della devianza sociale basata sulla (ri)costruzione di relazioni sociali fiduciarie[39].

Così, soprattutto intorno alla prevenzione terziaria di un fenomeno come il processo di radicalizzazione violenta che ha come esito reati di terrorismo, il setting allargato multi-agenzia può ben riflettere visioni e funzioni non facilmente conciliabili: come quelle tra le esigenze delle autorità statali competenti a prevenire gli attacchi terroristici attraverso il sistema penale e repressivo, da una parte; e quelle della società civile e delle istituzioni socio-educative competenti alla riabilitazione dell’ex terrorista – la funzione costituzionalmente definita ‘rieducativa’ della pena, e quanto nell’ambito della P/CVE è stato definito di volta in volta ‘deradicalizzazione’, ‘disimpegno’ o ‘uscita’ – dall’altra.

Si può quindi dire che l’approccio multi-agenzia delle politiche e pratiche promosse dal RAN sottende implicitamente un lungo elenco di sfide, che ripercorre le dicotomie presenti nella storia della criminologia, della giurisprudenza e, in ultima analisi, di tutte le scienze umane in merito alla riformabilità o meno dalla natura umana, la possibilità o meno che questa possa essere preventivamente educata o ex-post redenta. Alle quali si aggiungono le sfide relative al delicato equilibrio tra i doveri di repressione e controllo della sicurezza dello Stato, da una parte, e le libertà e i diritti civili degli individui, dei gruppi o dei movimenti sociali, dall’altra.

Il passaggio quest’anno dal RAN al “EU Knowledge Hub on Prevention of Radicalisation”, sicuramente manterrà l’approccio multi-agenzia e mi pare capire, dalla documentazione disponibile, che tra i suoi intenti più rilevanti ci sia quello di saldare gli ambiti degli operatori professioni con quello dei decisori politici e della ricerca scientifica, le cui pregresse separazioni ha probabilmente nuociuto all’efficacia del RAN. In ogni caso, quest’anno si aprirà una fase nuova in Europa verso la quale gli stakeholder italiani sono chiamati a riflettere e confrontarsi.

Per concludere. La lezione del RAN è in qualche modo erede della ‘exit strategy’ italiana dagli anni di piombo. Se allora la fase repressiva di inasprimento penale fu seguita da quella premiale di riabilitazione[40], la sfida sottesa alla proposta del RAN è quella di costruire un percorso non diviso in fasi successive, ma parallele e concomitanti, attraverso le quali provare a costruire un equilibrio tra necessità dicotomiche. Un’antinomia o un gioco cooperativo[41] che è certamente una sfida da accettare se si vuol valorizzare il patrimonio di esperienze e di know-how italiano cresciuto nel nostro paese in questi anni, per giungere a una strategia, magari flessibile, ma non più frammentata. Non dimentichiamo mai che tali politiche e pratiche hanno al centro la coesione delle comunità e la convivenza pacifica del nostro tessuto sociale. Inoltre, scommettere sulla prevenzione è anche economicamente più sostenibile che non gestire future emergenze con lunghe e tragiche conseguenze.


[1] Per approfondire quanto segue, si veda il sito web del RAN, https://home-affairs.ec.europa.eu/networks/radicalisation-awareness-network-ran_en

[2] Tale network era nato a seguito di quello che resta il maggior attentato terrorista sul suolo europeo a Madrid l’11 marzo 2004 e dell’attenzione che seguì da parte delle istituzioni europee verso le vittime del terrorismo, in particolare quella dell’allora Commissario europeo alla Giustizia, Libertà e Sicurezza, Franco Frattini.

[3] Si veda il capitolo “4.5. Terrorismo” del programma: https://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:C:2010:115:0001:0038:it:PDF

[4] Parte integrata della sua strategia per contrastare il terrorismo (CONTEST). Si vedano le varie versioni di CONTEST a partire dal 2011: https://www.gov.uk/government/publications/counter-terrorism-strategy-contest

[5] Guillaume Denoix de Saint Marc, in rappresentanza delle due associazioni l’italiana AIVITER e la francese AfVT.

[6] Lo scarso impatto del RAN in Italia di quel periodo è addebitabile all’allora debole comunicazione esterna del RAN, ma anche della scarsa attenzione dei vertici ministeriali italiani inviatati alle “High Level Conference”.

[7] Termine che in verità è sempre rimasto oggetto di dispute sul significato. Qui è inteso come processo cognitivo/comportamentale e sottende (anche se omesso) l’aggettivazione “violenta”.

[8] Si vedano articoli, relazioni e materiali del progetto C4C promosso da AIVITER qui: https://hommerevolte2.blogspot.com/search/label/C4C e qui https://www.vittimeterrorismo.it/?s=C4C

[9] Nella dimensione formativa del suo personale penitenziario e nel monitoraggio del proselitismo tra la popolazione carceraria. Si veda: Cascini F. (2012). Il Fenomeno del proselitismo in carcere con riferimento ai detenuti stranieri di culto islamico, in “La radicalizzazione del terrorismo islamico. Elementi per uno studio del fenomeno di proselitismo in carcere”, Quaderni ISSP n. 9 (giugno 2012)

[10] Sul tema torno nella parte nelle conclusioni del cap.3 sul mondo cattolico.

[11] Si veda il testo dell’articolo di Avvenire del 15 gennaio 2015 a firma Vincenzo R. Spagnolo qui: https://hommerevolte2.blogspot.com/2015/01/europa-ed-italia-di-fronte-al.html

[12] Proposta di Legge 3558 presentata il 26 gennaio 2016.

[13] Vidino L. (2014). Il jihadismo autoctono in Italia. Nascita, sviluppo e dinamiche di radicalizzazione. ISPI

[14] Si veda il Dossier n° 301/2 – Elementi per l’esame in Assemblea 14 marzo 2022: https://documenti.camera.it/leg18/dossier/pdf/AC0367b.pdf

[15] Lo stesso programma ‘Prevent’ fu ampiamente criticato e dibattuto nel Regno Unito in quegli anni per la scelta di limitarsi ad affrontare la sola radicalizzazione jihadista, e fu quindi revisionato per includere altre forme di estremismo violento. Si veda ad es. l’articolo di Luciano Pollichieni su Limes del 2017: https://www.limesonline.com/limesplus/la-miopia-dell-antiterrorismo-di-sua-maesta-14681306/

[16] Si vedano le “Linee Guida del Tavolo di lavoro multi-agenzia della Città di Torino per la prevenzione degli estremismi violenti” elaborata dal Comitato scientifico istituito dalla città di Torino nel 2018 e approvate dal consiglio comunale nel 2020: http://www.comune.torino.it/cittagora/wp-content/uploads/2020/07/Linee-guida-istituzione-tavolo.pdf

[17] Si veda la raccolta di testi dal sottoscritto per gli operatori italiani del RAN: https://drive.google.com/drive/folders/0Bz7ceziVCVmBV0ZkQUJuNU5YMXc?resourcekey=0-A5HTj1-XheJgKyXqOn0pCQ&usp=drive_link

[18] Rispettivamente diretti dal Prof. Michele Brunelli e dalla Prof.ssa Sabrina Martucci.

[19] Si veda https://primed-miur.it/

[20] Berardinelli D., Guglielminetti L. (2018). Preventing Violent Radicalisation: The Italian Case Paradox. In “7th International Conference on Multidisciplinary Perspectives in the Quasi-Coercive Treatment of Offenders (SPECTO)”, pp 28-33, Filodiritto Publisher

[22] Dambruoso S. (2018). Prevenzione e repressione. La via italiana nel contrasto alla radicalizzazione jihadista. In «Gnosis», speciale Deradicalizzazione, edito dall’AISI.

[23] Cento Bull A., Cooke P. (2013). Ibid.

[24] Si vedano in particolare: Galfré M. (2014). La guerra è finita: L’Italia e l’uscita dal terrorismo 1980-1987. Bari: Laterza; e Guglielminetti L. (2017). La percezione sociale delle vittime del terrorismo. In “Rassegna Italiana di Criminologia” (RIC), n. 4, pp. 269-276

[25] In questo caso un percorso parallelo con quanto occorreva nelle politiche europee dopo l’attentato di Madrid del 2004, che porterà l’11 Marzo ad assurgere a giornata europea del ricordo delle vittime del terrorismo.

[26] Bertagna G., Ceretti A., Mazzucato C. (2015), Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto. Milano: Il Saggiatore.

[27] Tra le novità introdotte con il d. lgs. 10 ottobre 2022, n.150, di attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134 (c.d. “riforma Cartabia”) si segnala in particolare l’introduzione di una disciplina organica della giustizia riparativa, contenuta negli artt. 42-67.

[28] Per un quadro esaustivo di quelle attività si veda: Guglielminetti L. (2018). P/CVE, lavorare coi giovani e le vittime del terrorismo: esperienze, criticità e prospettive in Italia. In “The Prevention of Radicalisation of Young People”, European Project “YEIP”

[29] Per un’analisi storica e dettaglia si veda Bull A. (2018). Reconciliation through Agonistic Engagement? Victims and Former Perpetrators in Dialogue in Italy Several Decades after Terrorism. In “Victimhood and Acknowledgement”, De Gruyter

[30] Si veda la descrizione e i due volumi sul progetto qui: https://www.assemblea.emr.it/garante-detenuti/iniziative/progetti/diritti-doveri-solidarieta/diritti-doveri-solidarieta

[31] Per la sua valorizzazione in ambito formativo si veda: Guglielminetti, L. (a cura di) (2019). Stato di diritto e prevenzione dell’estremismo violento: tra politiche e pratiche nei ristretti orizzonti italiani. Progetto “FAIR”, Ravenna: Fondazione Nuovo Villaggio del Fanciullo

[32] Spagnolo R. V. (2017). Terrorismo. «Rischio di radicalizzazione sul web e nelle carceri», Avvenire del 5 Gennaio 2017

[33] Significativa in questo senso la collaborazione dell’allora Direttrice della Direzione Editoriale per l’Offerta Informativa della RAI, Monica Maggioni, con l’ISPI che cura nel 2015 il volume Twitter e jihad: la comunicazione dell’Isis.

[34] Si veda la convenzione tra Regione Lombardia e Ufficio Scolastico Regionale https://usr.istruzionelombardia.gov.it/wp-content/uploads/2023/11/m_pi.AOODRLO.REGISTRO-UFFICIALEU.0005448.10-03-2022-5.pdf

[35] “Protocollo d’intesa per favorire l’accesso di mediatori culturali e di ministri di culto negli istituti penitenziari”, sottoscritto il 5 novembre 2015, tra il ministero della Giustizia, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e l’Unione delle comunità ed organizzazioni islamiche in Italia (UCOII)

[36] Ravagnani L., Romano C. A.  (2017). Il radicalismo estremo in carcere: una ricerca empirica. In “Rassegna

Italiana di Criminologia” (RIC), n. 4, pp. 277-296. Si veda anche Guglielminetti, L. (2019). Ibid.

[37] Dambruoso S. (2018). Ibid.

[38] Dati ricavati del database dei partecipanti al RAN: https://home-affairs.ec.europa.eu/networks/radicalisation-awareness-network-ran/participant-database_en

[39] Si veda il mio contributo nel precedente numero di #REACT 2023 n.4 – Anno 4. Il ruolo delle organizzazioni della società civile nella prevenzione e nel contrasto all’estremismo violento. p. 37-38.

[40] Cento Bull A., Cooke P. (2013). Ibid.

[41] Definizione dal teorico della teoria dei giochi, il matematico statunitense John Nash, citato da De Mutiis C. (2018). Caso di studio. Verso una strategia italiana di prevenzione della radicalizzazione: una sfida globale che si vince a livello locale. Edito dalla Scuola dell’amministrazione dell’Interno.


Giovani e radicalizzazione alla trasmissione ‘Millevoci’ della Rete Uno (RSI)

Il 14 maggio 2023 nel corso della trasmissione ‘Millevoci’ (Rete Uno, RSI) condotta da Isabella Visetti e Natascia Bandecchi, si è parlato di giovani e radicalizzazione.

L’AUDIO È DISPONIBILE QUI

Ospite in studio: Chiara Sulmoni (presidente di START InSight e dell’Associazione PRIME – Prevenzione Informazione e Mediazione, Lugano)

Tra i temi discussi: algoritmi e radicalizzazione nel mondo virtuale e reale, le tendenze attuali dell’estremismo, teenager e minorenni, gli elementi che entrano in gioco nei processi di radicalizzazione, guerre, conflitti e il contesto globale, la risposta di Stati e organismi internazionali, il contributo della ricerca e la prevenzione.


Aumentano i casi di terrorismo in Svizzera e i minorenni implicati

Nel 2023 sono aumentati del 50% i procedimenti per terrorismo aperti dal Ministero Pubblico della Confederazione. A preoccupare le autorità, anche l’abbassamento dell’età di chi è coinvolto.

L’intervento di Chiara Sulmoni, presidente di START InSight al TG della Radiotelevisione Svizzera

Il 2023 a livello europeo ha segnato un aumento della mobilitazione di matrice jihadista. La Svizzera è parte di questo contesto. L’attacco di Zurigo del 2 marzo, quando un 15enne ha accoltellato un ebreo ortodosso in un quartiere del centro, ha avuto un’eco internazionale e frequentemente si riscontrano ramificazioni nelle inchieste europee, che portano alla Svizzera.

Si consolida inoltre la tendenza che vede minorenni e teenager implicati in pianificazione di attentati. La Polizia anti-terrorismo inglese già nel 2021 segnalava un aumento dei casi di minorenni implicati nelle indagini, anche minori di 15 anni. Minorenni sono entrati in azione in Francia, in passato. Gli analisti invitano a non sottovalutare il ruolo dei minorenni, oggi iperconnessi anche a livello transnazionale e autonomi sia per ciò che concerne la pianificazione di attacchi, la produzione e distribuzione di propaganda e il reclutamento.

Le scuole possono e devono fare prevenzione prima che si instauri in processo di radicalizzazione, lavorando dal profilo educativo sul pensiero critico, i valori della diversità e dell’integrazione, ma i docenti devono anche conoscere i contesti delle galassie estremiste, sapere individuare eventuali segnali di disagio e di rischio e a chi rivolgersi e segnalare, poiché non è la scuola a dover risolvere queste problematiche.


Terrorismo: lo Stato islamico e i campionati di calcio.

di Claudio Bertolotti. Dall’intervista di Giampaolo Musumeci per Radio 24 – Nessun Luogo è Lontano del 9 aprile 2024.

Il Cairo, 9 apr. (Adnkronos) – Il sedicente Stato Islamico, tornato a spaventare l’Europa dopo l’attentato a Mosca, ha minacciato di lanciare un attacco contro i quattro stadi in cui da stasera si disputeranno i quarti di finale di Champions League. Al-Azaim, uno degli organi di propaganda dell’Isis, ha confermato queste intenzioni pubblicando l’immagine dei quattro stadi in cui si disputeranno le partite di andata – il Parco dei Principi di Parigi, il Santiago Bernabeu di Madrid, il Metropolitan sempre di Madrid e l’Emirates di Londra – accompagnata dalla didascalia “Uccideteli tutti”.

Una necessaria premessa: l’esperienza dell’ISIS, così come l’abbiamo conosciuta in Iraq e Siria si è conclusa nel giugno 2014 con la proclamazione del Califfato da parte di al-Baghdadi e l’istituzione dello Stato islamico. L’ISIS non esiste più, al suo posto lo Stato islamico dunque. Non è una precisazione da poco, perché segna l’avvio dell’epoca post-territoriale del movimento, quella che stiamo osservando e subendo oggi, sia in Occidente, sia in Medioriente come dimostra la forza sempre più manifesta di questo gruppo in particolare in Siria e Afghanistan.

Quanto seria è questa minaccia? Ricordiamo una allerta simile il 30 marzo in Germania.

Un primo aspetto. In questo caso, come nella maggior parte degli episodi, non è lo Stato islamico ma i suoi gruppi affiliati a chiamare alla lotta. E quella attuale sembra non tanto una avvisaglia quanto un appello a colpire, e dunque non una minaccia diretta. Anche perchè, come ci ha dimostrato la storia recente dello Stato islamico e dei suoi affiliati in franchise, quando il gruppo colpisce lo fa senza preavvertire – di fatto sfruttando l’effetto sorpresa per ottenere il massimo dei risultati. Quanto accaduto in Russia ne è una conferma. Però, e questo è il secondo aspetto, coerentemente con gli attacchi degli ultimi anni, attribuiti o rivendicati dallo Stato islamico, è l’appello a colpire che viene colto da singoli soggetti, o più raramente da parte di piccoli gruppi, spesso disorganizzati o scarsamente organizzati, che costituisce la forza propulsiva del gruppo che, di norma e per evidente opportunità, rivendica solamente quelli di successo, una minima parte, non citando quelli invece più numerosi che si concludono con un risultato fallimentare.

Dopo l’attentato a Mosca, queste minacce e l’arresto ieri a Roma di un tajiko ex miliziano Isis, ci sono a tuo parere le condizioni per capire quale sia la strategia dell’Isis? Sta rialzando la testa? Riacquisendo forza?

Lo Stato islamico sta rialzando la testa, e lo sta facendo in maniera dirompente ed efficace, riportandoci sul piano emotivo e del terrore ai terribili anni 2015-2017 quando l’Europa fu travolta da una serie di eventi dirompenti, a loro volta in grado di riportare le emozioni agli attacchi di al-Qa’ida in Europa del 2004, a Madrid e a Londra. Oggi è sufficiente guardare alla Siria, dove si pensava – complici anche i riflettori mediatici rivolti altrove – che lo Stato islamico fosse stato sconfitto: non è così. Al contrario, l’aumento progressivo di attacchi dello Stato islamico, gli assalti continui e ripetuti alle carceri per liberare i combattenti detenuti dal regime siriano, la capacità di colpire sostanzialmente ovunque. È un campanello d’allarme che suona molto forte e che anticipa una nuova ondata che si autoalimenta: dalla retorica della vittoria talebana in Afghanistan, alla competizione con i talebani, all’aumentare degli affiliati, singoli e gruppi dal Medioriente al Sud-Est asiatico, fino all’Europa. Non uno Stato islamico ex-novo, ma è un fenomeno che si sta risvegliando.


Russia: attentato a Crocus City Hall. Bertolotti (Ispi): Mosca paga aiuto a talebani e Siria in lotta a Stato Islamico (La Presse).

da La Presse, intervista di Luca La Mantia

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Ascolta l’intervista radio di Laura Zucchetti a Claudio Bertolotti per Radio 3i

Roma, 23 mar. (LaPresse) – “In Afghanistan la Russia dialoga con la frangia più anziana dei talebani contribuendo a quel ciclo di intelligence che consente ai talebani stessi di combattere lo Stato islamico del Khorasan (Is-Kp)”, quindi l’attentato a Mosca per il gruppo jihadista “è un modo per dire ‘tu aiuti i talebani a colpirci e noi colpiamo te‘”. Così a LaPresse Claudio Bertolotti, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) e direttore di Start Insight, commentando l’attentato nella Crocus City Hall, a nordovest della capitale russa. La Russia, prosegue, ha anche “un ruolo specifico e ben definito, da una parte, nella lotta al terrorismo islamico” e dall’altra nel sostegno in Siria al presidente Bashar al Assad nel contrasto “a tutti i gruppi sunniti ribelli, compresi quelli affiliati allo Stato islamico“.

Roma, 23 mar. (LaPresse) – “E’ molto difficile tenere sotto controllo e prevenire un attacco” come quello avvenuto alla Crocus City Hall, a nordovest di Mosca, rivendicato dall’Isis. Così a LaPresse Claudio Bertolotti, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) e direttore di Start Insight. “La storia recente, sia in Europa che in Russia”, spiega, ha dimostrato quanto sia difficile prevedere attentati di questo tipo, “sia quelli organizzati, sia quelli emulativi, ovvero portati avanti da singoli soggetti che si rifanno all’ideologia dello Stato islamico ma agiscono in modo autonomo”. 
(segue) 

Roma, 23 mar. (LaPresse) – Gli Stati Uniti, sottolinea Bertolotti, avevano avvertito sul rischio di attentati in Russia “perché hanno un’ottima capacità di raccolta di informazioni legate all’intelligence associata al dialogo con la nuova leadership talebana” in Afghanistan che è “acerrima nemica dello Stato Islamico del Khorasan (Is-Kp)”. Washington, prosegue il ricercatore Ispi, ha “quindi raccolto informazioni e le ha messe e a diposizione della Russia che ha anche messo in atto misure preventive ma è impossibile organizzare in tutto il Paese un sistema efficace al 100%“.


Roma, 23 mar. (LaPresse) – “In Europa non sono mai diminuiti i tentativi di attacchi terroristici che si attestano sui 10-15 l’anno. E’ però diminuita”, rispetto a qualche anno fa, “l’efficacia e quindi anche l’attenzione mediatica“, che porta lo Stato Islamico a rivendicare solo gli attentati “che hanno successo”. Così a LaPresse Claudio Bertolotti, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) e direttore di Start Insight, commentando l’attentato nella Crocus City Hall, a nordovest di Mosca. La strage rivendicata “è un grande rilancio per lo Stato Islamico”, spiega. C’è poi, prosegue Bertolotti, l’appello di Hamas a tutti i musulmani, dopo l’inizio della guerra con Israele, “a colpire ovunque” gli alleati di Tel Aviv, e questo rappresenta “una minaccia sostanziale” anche per l’Europa. 


Roma, 23 mar. (LaPresse) – Il Cremlino ha “tutto l’interesse a parlare di una responsabilità di Kiev” nell’attacco nella Crocus City Hall, a nordovest di Mosca, poi rivendicato dall’Isis, “perché questo consente di confermare la minaccia rappresentata dall’Ucraina di fronte all’opinione pubblica russa“. Così a LaPresse Claudio Bertolotti, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) e direttore di Start Insight. “E’ un modo per spostare la responsabilità contro un obiettivo che si sta già colpendo”, spiega, un messaggio anche “per quelle frange dell’opinione pubblica russa che dopo due anni cominciano a non essere più convinte” sulla guerra. Bertolotti esclude una responsabilità ucraina nell’attacco, sia per le “tecniche e procedure” usate dai terroristi sia per l’obiettivo che sarebbe “appagante” per l’Ucraina, in quanto “colpire civili nella narrazione di un popolo che si difende da un’aggressione non è vincente”.


Attacco a Parigi: terrorismo emulativo ed effetti della guerra Israele-Hamas (#ReaCT2023)

di Claudio Bertolotti

Estratto dell’articolo pubblicato sul 4° Rapporto sul radicalismo e il terrorismo in Europa, #ReaCT2023, ed. START InSight.

2 dicembre. Un uomo si è lanciato contro i passanti uccidendo una persona e ferendone altre a Parigi, nel quartiere di Grenelle, poco lontano dalla Tour Eiffel, gridando “Allah Akbar”. Lo ha reso noto il ministro dell’Interno, Gérald Darmanin. L’assalitore è stato fermato dalle forze dell’ordine: l’aggressore ha 25 anni ed era schedato “S”, cioè a rischio radicalizzazione (ANSA).

Un evento, quello descritto, che può richiamare l’ondata di violenza jihadista associata all’appello dell’organizzazione palestinese “Hamas”, e subito ripresa dalla succursale afghana dello Stato islamico, che si inserisce nel filone di azioni terroristiche emulative, individuali e non organizzate che negli ultimi anni hanno più colpito la Francia, il Paese che si conferma essere tra i principali obiettivi del jihadismo in Europa.

La violenza jihadista in Europa: una minaccia marginale ma persistente con conseguenze devastanti.

A livello globale, il cosiddetto gruppo Stato Islamico non ha più la capacità di inviare terroristi in Europa a causa delle perdite territoriali e finanziarie. Tuttavia, i singoli individui ispirati dal gruppo rappresentano una minaccia non marginale. Anche se lo Stato Islamico rimane la principale minaccia jihadista, è improbabile che riguadagni lo stesso livello di fascinazione che aveva in passato. L’Europa ha ridotto le proprie vulnerabilità, ma gli “attacchi mimetici” e le chiamate alla guerra continuano a rappresentare un rischio. Il successo dei talebani in Afghanistan ha, a sua volta, alimentato la propaganda jihadista e la competizione tra i gruppi jihadisti, spingendo a una competizione per ottenere l’attenzione mediatica conseguente a un attacco terroristico di successo. Un effetto ancora maggiore deriverebbe dalla guerra Israele-Hamas, dall’appello dei terroristi palestinesi a colpire Israele e tutti i suoi alleati e dall’adesione individuale di terroristi improvvisati così come dall’adesione politica e ideologica dello Stato islamico della provincia di Khorasan in Afghanistan (Islamic State Khorasan Province, ISKP), erede dello Stato islamico in Siria e Iraq (ISIS).

Guardando ai paesi dell’Unione Europea, anche se la violenza jihadista è oggi marginale rispetto al numero totale di azioni motivate da altre ideologie, si impone comunque come la minaccia più rilevante e pericolosa in termini di risultati e di vittime ed effetti diretti.

In seguito ai principali eventi di terrorismo legati al gruppo Stato Islamico in Europa, dal 2014 al 2023 si sono verificate oltre 200 azioni jihadiste, secondo il database di START InSight. Di queste, 36 sono state esplicitamente rivendicate dal gruppo Stato Islamico o ispirate direttamente da esso; sono state perpetrate da 236 terroristi (63 uccisi in azione); 432 vittime hanno perso la vita e 2.515 sono rimaste ferite.

Rilevante è il numero di azioni emulative: il 48% del totale nel 2020, salite al 56% nel 2021, diminuite al 17% nel 2022, per poi tornare a salire in maniera rilevante nel 2023, in concomitanza con gli appelli alla violenza di Hamas e della Jihad islamica palestinese, rilanciati con efficacia dall’ISKP afghano. Il 2022-2023 ha confermato anche la predominanza di azioni individuali, non organizzate, principalmente improvvisate e fallite che sostituiscono di fatto le azioni strutturate e coordinate che avevano caratterizzato il “campo di battaglia” urbano europeo negli anni dal 2015 al 2017.

Aumento della recidiva e di individui già noti ai servizi di intelligence

Il profilo dell’attentatore del 2 dicembre a Parigi, già noto alle forze di sicurezza, precedentemente coinvolto in azioni terroristiche e classificato come a “rischio di radicalizzazione”, è coerente con quello di molti terroristi che hanno colpito in precedenza. Un fatto che conferma come il ruolo giocato dai recidivi – individui già condannati per terrorismo che compiono azioni violente alla fine della loro condanna detentiva e, in alcuni casi, in prigione – non sia trascurabile; erano il 3% dei terroristi nel 2018, poi saliti al 7% nel 2019, al 27% nel 2020. Un’evidenza che confermerebbe il pericolo sociale di individui che, di fronte a una condanna detentiva, tendono a posticipare la condotta di azioni terroristiche; questa evidenza indica un potenziale aumento degli atti terroristici nei prossimi anni, coincidendo con il rilascio della maggior parte dei terroristi attualmente detenuti.

In parallelo ai recidivi, START InSight ha riscontrato un’altra tendenza significativa, legata alle azioni compiute da terroristi già noti alle forze dell’ordine o ai servizi di intelligence europei che rappresentano il 37%, il 44% e il 54% del totale rispettivamente nel 2022, nel 2021 e nel 2020, rispetto al 10% nel 2019 e al 17% nel 2018.

Vi è una certa stabilità riguardo alla partecipazione ad azioni terroristiche da parte di individui con un passato in carcere (compresi i detenuti per reati non terroristici) con una cifra dell’11% nel 2022, leggermente in ribasso rispetto agli anni precedenti (23% nel 2021, 33% nel 2020, 23% nel 2019, 28% nel 2018 e 12% nel 2017); ciò conferma l’ipotesi che vede nelle carceri dei luoghi di radicalizzazione.

Quale è oggi la capacità offensiva del terrorismo?

Ci sono alcuni fattori che indicano una possibile riduzione della capacità offensiva del terrorismo, come ad esempio l’incremento delle misure di sicurezza e di prevenzione adottate dalle autorità, la maggiore cooperazione internazionale nella lotta al terrorismo, il deterioramento delle strutture organizzative dei gruppi terroristici e la diminuzione della loro capacità di reclutamento. Per disegnare un quadro quanto più preciso del terrorismo, è necessario analizzare i tre livelli su cui il terrorismo si sviluppa e opera: il livello strategico, operativo e tattico. La strategia consiste nell’impiego del combattimento a fini bellici; la tattica è l’impiego delle truppe per la battaglia; il livello operativo si trova tra questi due. Questa è una semplice sintesi che sottolinea una caratteristica essenziale: l’impiego di combattenti.

Il successo a livello strategico è marginale

Come anticipato con il rapporto #ReaCT2022 e poi richiamato in #ReaCT2023, il 14% delle azioni condotte dal 2014 sono state di successo a livello strategico, in quanto hanno portato a conseguenze strutturali consistenti in un blocco del traffico aereo/ferroviario nazionale e/o internazionale, mobilitazione delle forze armate, interventi legislativi di vasta portata. Si tratta di una percentuale molto alta, considerando le limitate capacità organizzative e finanziarie dei gruppi e degli attaccanti solitari. La tendenza negli anni è stata irregolare, ma ha evidenziato una progressiva riduzione della capacità ed efficacia con il passare del tempo.

Nel complesso, gli attacchi hanno attirato l’attenzione dei media internazionali nel 79% dei casi, del 95% a livello nazionale, mentre le azioni commando e di squadra strutturate e organizzate hanno ricevuto la piena attenzione dei media. Un successo mediatico evidente, tanto quanto cercato, che potrebbe aver influenzato significativamente la campagna di reclutamento dei futuri martiri o combattenti jihadisti, la cui numerosità rimane alta in corrispondenza di periodi di attività terroristica intensa (2016-2017). Ma se è vero che l’ampiezza dell’attenzione dei media ha effetti positivi sul reclutamento, è anche vero che questa attenzione tende a diminuire nel tempo poiché sono aumentate le azioni a bassa intensità rispetto a quelle ad alta intensità – che sono diminuite – mentre le azioni a bassa e media intensità sono aumentate significativamente dal 2017 al 2021.

Il livello tattico è preoccupante, ma non è la priorità del terrorismo

Assumendo che lo scopo degli attacchi terroristici consista nell’uccidere almeno un nemico (nel 35% dei casi, gli obiettivi sono le forze di sicurezza), tale obiettivo è stato raggiunto nel periodo dal 2004 al 2022 in media nel 48% dei casi. Tuttavia, si rileva un declino nei risultati del terrorismo, con una prevalenza di attacchi a bassa intensità e un aumento di azioni con esito fallimentare. In particolare, i risultati degli ultimi sette anni mostrano che il successo a livello tattico è stato raggiunto nel 2016 nel 31% dei casi (contro il 6% degli insuccessi), mentre il 2017 ha registrato un tasso di successo del 40% e un tasso di fallimento del 20%. Un trend complessivo che, tenendo in considerazione un tasso di successo del 33% a livello tattico, un raddoppio degli attacchi falliti (42%) nel 2018 e un ulteriore calo del tasso di successo al 25% nel 2019, può essere letto come il risultato della progressiva diminuzione della capacità operativa dei terroristi e dell’aumentata reattività delle forze di sicurezza europee. Ma se l’analisi suggerisce una capacità tecnica effettivamente ridotta, è anche vero che il carattere improvvisato e imprevedibile del nuovo terrorismo individuale ed emulativo ha portato ad un aumento delle azioni riuscite, passate dal 32% nel 2020 al 44% nel 2021. Il risultato delle azioni compiute nel 2022 mostra una nuova inversione di tendenza, con il 33% di successo a livello tattico.

Anche quando fallisce, il terrorismo ottiene una vittoria

Il vero successo si raggiunge a livello operativo: il “blocco funzionale”.

Anche quando fallisce, il terrorismo guadagna in termini di costi inflitti al suo obiettivo: ad esempio, impegnando le forze armate e la polizia in modo straordinario, distogliendole dalle normali attività quotidiane e/o impedendone l’intervento in supporto della comunità; interrompendo o sovraccaricando i servizi sanitari; limitando, rallentando, deviando o bloccando la mobilità collettiva urbana, aerea e navale; limitando il regolare svolgimento delle attività quotidiane personali, commerciali e professionali, a scapito delle comunità interessate e, inoltre, riducendo significativamente il vantaggio tecnologico, il potenziale operativo e la resilienza; e infine, più in generale, infliggendo danni diretti e indiretti, indipendentemente dalla capacità di causare vittime. Di conseguenza, la limitazione della libertà dei cittadini è un risultato misurabile che il terrorismo ottiene attraverso le sue azioni.

In altre parole, il terrorismo è efficace anche in assenza di vittime, poiché può comunque imporre costi economici e sociali sulla comunità e influenzare il comportamento di quest’ultima nel tempo come conseguenza di nuove misure di sicurezza volte a salvaguardare la comunità: questo effetto è ciò che chiamiamo “blocco funzionale”.

Nonostante la sempre minore capacità operativa del terrorismo, il “blocco funzionale” continua a essere il risultato più significativo ottenuto dai terroristi, indipendentemente dal successo tattico (uccisione di almeno un obiettivo). Mentre il successo tattico è stato osservato nel 48% degli attacchi avvenuti dal 2004, il terrorismo ha dimostrato la sua efficacia imponendo un “blocco funzionale” in una media del 79% dei casi, con un picco del 92% nel 2020, poi 89% nel 2021 e 78% nel 2022: un risultato impressionante, se si considerano le risorse limitate impiegate dai terroristi. Il rapporto costo-beneficio è senza dubbio a favore del terrorismo.

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I numeri del terrorismo jihadista in Europa: risultati e uno sguardo in prospettiva

di Claudio Bertolotti

Scarica il rapporto #ReaCT2023, n. 4, Anno 4

La violenza jihadista in Europa: una minaccia persistente con conseguenze devastanti.

A livello globale, il cosiddetto gruppo Stato Islamico non ha più la capacità di inviare terroristi in Europa a causa delle perdite territoriali e finanziarie. Tuttavia, i singoli individui ispirati dal gruppo rappresentano una minaccia non marginale. Anche se lo Stato Islamico rimane la principale minaccia jihadista, è improbabile che riguadagni lo stesso livello di fascinazione che aveva in passato. L’Europa ha ridotto le proprie vulnerabilità, ma gli “attacchi mimetici” e le chiamate alla guerra continuano a rappresentare un rischio. Il successo dei talebani in Afghanistan potrebbe a sua volta alimentare la propaganda jihadista e la competizione tra i gruppi jihadisti, spingendo a una competizione per ottenere l’attenzione mediatica conseguente a un attacco terroristico di successo. In tale ottica, le crescenti forze estremiste nell’Africa subsahariana rappresentano una minaccia in evoluzione per la stessa Europa. La presenza di gruppi che si rifanno all’idea e all’esperienza dello Stato Islamico in Africa si concentra sulla lotta contro il cristianesimo, portando alla violenza contro missionari, ONG e villaggi cristiani.

Oggi, in particolare, la chiamata alla “rabbia dei musulmani” fatta dal gruppo terrorista palestinese Hamas, ha svolto un ruolo di attivatore nei confronti di quei soggetti predisposti a commettere attivi di violenza jihadista, spesso disorganizzati e improvvisati, ma non per questo meno pericolosi.

Guardando ai paesi dell’Unione Europea, anche se la violenza jihadista è oggi marginale rispetto al numero totale di azioni motivate da altre ideologie, si impone comunque come la minaccia più rilevante e pericolosa in termini di risultati e di vittime – da 16 vittime nel 2020 a 13 nel 2021 e 9 nel 2022 – ed effetti diretti.

In seguito ai principali eventi di terrorismo legati al gruppo Stato Islamico in Europa, dal 2014 al 2022 si sono verificate 182 azioni jihadiste, secondo il database di START InSight. Di queste, 34 sono state esplicitamente rivendicate dal gruppo Stato Islamico o ispirate direttamente da esso; sono state perpetrate da 225 terroristi (63 uccisi in azione); 428 vittime hanno perso la vita e 2.505 sono rimaste ferite.

Il numero di eventi jihadisti registrati nel 2022 è 18 (lo stesso dato del 2021), leggermente inferiore ai 25 attacchi del 2020, con una diminuzione del numero di azioni “emulative” – cioè, azioni ispirate da altri attacchi avvenuti nei giorni precedenti; dal 48% del 2020 tali azioni emulative sono salite al 56% nel 2021 (nel 2019 erano al 21%) e sono diminuite al 17% nel 2022. Il 2022 ha confermato anche la predominanza di azioni individuali, non organizzate, principalmente improvvisate e fallite che sostituiscono di fatto le azioni strutturate e coordinate che avevano caratterizzato il “campo di battaglia” urbano europeo negli anni dal 2015 al 2017.

Terrorismo jihadista: un’analisi quantitativa

La distribuzione geografica degli attacchi terroristici e il loro impatto sulla popolazione dei paesi dell’UE

Il terrorismo rappresenta una minaccia significativa per la sicurezza delle popolazioni in tutto il mondo e l’Unione Europea (UE) non fa eccezione. Come dimostrano i recenti anni, l’UE ha subito numerosi attacchi terroristici, con alcuni paesi più colpiti di altri. In questo studio, esaminiamo la distribuzione geografica degli attacchi terroristici nell’UE e il loro impatto sulla popolazione locale.

I dati sono stati raccolti dal database START InSight per il periodo compreso tra il 2014 e il 2022, e analizzati utilizzando statistiche descrittive e analisi di correlazione. L’analisi si è concentrata sul numero di attacchi terroristici per paese e sulla popolazione totale di ciascun paese, nonché sull’influenza dell’espansione del fenomeno Stato Islamico (dal 2014) e dell’attenzione mediatica sul numero di attacchi.

I risultati hanno mostrato che tra il 2004 e il 2022 si sono verificati complessivamente 208 attacchi terroristici nell’UE, con la maggior parte di questi attacchi (118) verificatisi solo in tre paesi: Francia, Regno Unito e Germania. In termini di popolazione, Francia e Regno Unito hanno avuto il maggior numero di attacchi per milione di abitanti, con rispettivamente 1,5 e 1,2 attacchi per milione. Al contrario, paesi come Bulgaria, Croazia e Cipro non hanno riportato attacchi terroristici durante questo periodo.

Considerando l’influenza dell’espansione dello Stato Islamico e dell’attenzione mediatica, si è riscontrato che il momento di massima espansione del gruppo e di attenzione mediatica è stato tra il 2014 e il 2016. Durante questo periodo, il numero di attacchi terroristici nell’UE è aumentato significativamente, con un totale di 158 attacchi verificatisi. Tuttavia, dopo il 2017, la capacità del gruppo di effettuare o ispirare attacchi è diminuita, con solo 50 attacchi associati al gruppo tra il 2017 e il 2022.

Complessivamente, questa analisi evidenzia l’importanza di considerare sia la distribuzione geografica degli attacchi terroristici che il loro impatto sulle popolazioni locali. Sottolinea inoltre il ruolo degli eventi globali, come l’espansione dello Stato Islamico e l’attenzione mediatica, nel plasmare i modelli di attività terroristica.

Per esaminare la distribuzione geografica degli attacchi terroristici e il loro impatto sulla popolazione di diversi paesi, analizzeremo il numero di attacchi terroristici per paese e lo confronteremo con la popolazione totale di ciascun paese. Questa analisi fornirà informazioni sui modelli di attacchi terroristici in diversi paesi dell’Unione Europea e sul loro impatto sulle popolazioni locali.

Utilizzando il database START InSight, abbiamo raggruppato i dati per paese utilizzando la colonna “Paese”. Successivamente, abbiamo calcolato il numero totale di attacchi terroristici in ogni paese sommando i valori della colonna “Numero di attacchi”. In seguito, abbiamo ottenuto la popolazione totale di ogni paese da una fonte affidabile, come il database Eurostat. Dopo aver raccolto queste informazioni, abbiamo confrontato il numero totale di attacchi terroristici in ogni paese con la popolazione totale per valutare se alcuni paesi fossero più inclini a subire attacchi terroristici rispetto ad altri, e se questi attacchi avessero un impatto maggiore sulla popolazione locale in alcuni rispetto ad altri. Ciò è stato fatto calcolando il rapporto tra il numero totale di attacchi terroristici e la popolazione totale per ogni paese.

Oltre ad esaminare i modelli attuali di attacchi terroristici in diversi paesi, è anche importante indagare se ci siano tendenze temporali nella distribuzione geografica degli attacchi terroristici e il loro impatto sulla popolazione. Per farlo, abbiamo analizzato i dati nel tempo ed esaminato se ci siano stati cambiamenti nella frequenza e nella gravità degli attacchi nei diversi paesi dell’Unione Europea.

Sulla base dell’analisi dei dati disponibili, rileviamo che il numero totale di attacchi terroristici nell’Unione Europea tra il 2004 e il 2022 è di 208. Tuttavia, poiché siamo interessati all’impatto di questi attacchi sulla popolazione locale, dobbiamo analizzare i dati per paese.

Tra i paesi dell’Unione Europea, la Francia è stata la più colpita dagli attacchi terroristici e azioni di violenza jihadista, con un totale di 86 attacchi nel periodo considerato. Il Regno Unito segue con 37 eventi e la Spagna con 19. Altri paesi che hanno subito azioni di matrice jihadista durante questo periodo includono Belgio (18), Germania (13), Italia (8) e Paesi Bassi (8).

Quando confrontiamo il numero totale di eventi in ogni paese con la sua popolazione, troviamo che Belgio, Francia e Paesi Bassi hanno i rapporti più elevati di attacchi per popolazione. In particolare, il Belgio ha il rapporto più alto con 1 azione ogni 362.514 persone, seguito dalla Francia con 1 ogni 423.837 persone e dai Paesi Bassi con 1 ogni 682.812 persone. Questi rapporti sono significativamente più elevati rispetto a quelli degli altri paesi dell’Unione Europea che hanno subito attacchi terroristici durante lo stesso periodo.

Infine, quando analizziamo i dati nel tempo, scopriamo che il numero di attacchi terroristici è diminuito in alcuni paesi, come il Regno Unito e la Spagna, mentre è aumentato in altri, come la Francia e il Belgio. Ciò suggerisce che le misure antiterrorismo, insieme ai cambiamenti nelle dinamiche geopolitiche del terrorismo, possano essere state più efficaci in alcuni paesi che in altri.

In conclusione, la nostra analisi mostra che alcuni paesi dell’Unione Europea sono più suscettibili ad azioni terroristiche di altri, e che l’impatto di queste sulla popolazione varia tra i diversi paesi, con ciò offrendo uno strumento complementare per contribuire ad adeguare le politiche e le strategie antiterrorismo nelle diverse realtà nazionali dell’Unione Europea.

Il coefficiente di terrorismo potenziale

Il “coefficiente di terrorismo potenziale” è una misura sviluppata per stimare il potenziale di attacchi terroristici in base alla percentuale della popolazione musulmana e al numero di attentati jihadisti in un determinato paese dell’Unione europea. Questa misura, partendo dall’assunto che tutti gli attacchi terroristici di matrice jihadista siano stati compiuti da terroristi di religione musulmana (compreso un dato pari al 6% di cittadini europei convertiti all’Islam), si basa sulla seguente domanda della ricerca: una maggiore percentuale di popolazione musulmana può potenzialmente aumentare il rischio di attacchi terroristici?

Per calcolare il coefficiente sono state utilizzate le percentuali della popolazione musulmana rispetto alla popolazione nazionale dei singoli paesi dell’Unione europea, più Svizzera e Regno Unito, basate sui dati Eurostat del 2021[1]. Nell’analisi condotta, il “coefficiente di terrorismo potenziale” è stato calcolato per ogni paese dell’Unione europea, utilizzando i dati sulla percentuale della popolazione musulmana e sul numero di attentati jihadisti dal 2004 al 2022.

I paesi con un coefficiente di terrorismo potenziale più elevato sono quelli con una percentuale di popolazione musulmana elevata e un numero relativamente alto di attentati jihadisti.

Per mettere in relazione la percentuale della popolazione musulmana con il numero di attentati jihadisti, abbiamo utilizzato la correlazione di Pearson. Per fare ciò, abbiamo creato una tabella contenente i dati relativi a “Paese”, “Percentuale di popolazione musulmana”, “Numero di attacchi jihadisti”. Una volta creato il dataset abbiamo calcolato la correlazione di Pearson tra la percentuale di popolazione musulmana e il numero di attacchi jihadisti.

Dall’analisi dei dati è emerso che i paesi con le percentuali più elevate di popolazione musulmana rispetto alla popolazione nazionale sono Cipro (25,4%), Francia (8,8%), Svezia (8,1%), Austria (8,1%), e Belgio (6,9%). Per quanto riguarda il numero di azioni di matrice jihadista (attacchi ed eventi violenti), i paesi con il maggior numero di eventi sono la Francia (86), il Regno Unito (37), la Spagna (19), il Belgio (18), la Germania (13), l’Italia (8) e i Paesi Bassi (8).

Dall’analisi della correlazione tra le due variabili, emerge una correlazione positiva tra la percentuale di popolazione musulmana e il numero di attentati jihadisti nei paesi dell’Unione Europea (r=0,59, p<0,05). Ciò suggerisce che in quei paesi con una percentuale di popolazione musulmana più elevata, il rischio di attentati jihadisti potrebbe essere maggiore. Per meglio chiarire, “r=0.59, p<0.05” è una notazione statistica che mostra i risultati dell’analisi di correlazione di Pearson tra la percentuale di popolazione musulmana e il numero di attacchi terroristici jihadisti nei paesi dell’Unione europea. Il valore “r=0.59” indica la forza e la direzione della relazione tra le due variabili. In questo caso, il valore di 0.59 suggerisce che esiste una correlazione positiva tra la percentuale di popolazione musulmana e il numero di attacchi terroristici jihadisti. Ciò significa che all’aumentare della percentuale di popolazione musulmana, aumenta anche il numero di attacchi terroristici jihadisti. Il valore “p<0.05” indica il livello di significatività statistica del coefficiente di correlazione. In generale, un valore “p” inferiore a 0,05 indica che la correlazione è statisticamente significativa, il che significa che è improbabile che sia avvenuta per caso. In questo caso, il valore “p” è inferiore a 0,05, indicando che la correlazione tra la percentuale di popolazione musulmana e il numero di attacchi terroristici jihadisti è statisticamente significativa.

I paesi con i coefficienti di terrorismo potenziale più elevati sono i seguenti:

  • Belgio: 18 attacchi / 6,9% di popolazione musulmana = 2,61
  • Francia: 86 attacchi / 8,8% di popolazione musulmana = 9,77
  • Germania: 13 attacchi / 6,1% di popolazione musulmana = 2,13

Questi risultati indicano che i paesi con una percentuale di popolazione musulmana più elevata e un numero relativamente alto di attentati jihadisti hanno un maggiore “coefficiente di terrorismo potenziale” e quindi un maggiore rischio di attacchi terroristici.

Il coefficiente di correlazione tra la percentuale di popolazione musulmana e il numero di attacchi jihadisti varia da -1 a 1 e indica la forza e la direzione della relazione tra le due variabili. Un valore di 1 indica una correlazione positiva perfetta, ovvero un aumento in una variabile è associato a un aumento nella seconda variabile. Un valore di -1 indica una correlazione negativa perfetta, ovvero un aumento in una variabile è associato a una diminuzione nella seconda variabile. Un valore di 0 indica che non c’è correlazione tra le due variabili.

Questi i risultati per singolo paese:

Austria: 0.6552 Belgio: 0.6929 Bulgaria: 0.1166 Cipro: -0.0768
Croazia: 0.7809 Rep. Ceca: -0.4635 Danimarca: 0.7261 Estonia: -0.6863
Finlandia: -0.6127 Francia: 0.8531 Germania: 0.4565 Grecia: 0.1026
Ungheria: -0.8233 Irlanda: -0.0914 Italia: -0.1995 Lettonia: -0.8944
Lituania: -0.7015 Lussemburgo: -0.6006 Malta: -0.9449 Paesi Bassi: 0.4398
Polonia: -0.4635 Portogallo: -0.8226 Romania: 0.3973 Slovacchia: -0.8233
Slovenia: -0.4657 Spagna: -0.5347 Svezia: 0.6269 Regno Unito: 0.4708
Svizzera: -0.4966      

In generale, i risultati dell’analisi mostrano una correlazione positiva tra la percentuale di popolazione musulmana e il numero di attacchi jihadisti in molti paesi europei. Come si può notare, il Regno Unito ha un coefficiente di correlazione positivo, ma meno forte rispetto a paesi come Francia e Belgio. Invece, la Svizzera ha un coefficiente di correlazione negativo, ma anch’esso meno forte rispetto a paesi come Malta e Lettonia. Si osserva inoltre che il Regno Unito presenta una forte correlazione positiva tra le due variabili, così come la Francia. L’Italia, invece, ha una correlazione negativa non significativa, mentre la Svizzera ha una correlazione positiva ma meno forte rispetto al Regno Unito e alla Francia.

Ciò suggerisce che la relazione tra la percentuale di popolazione musulmana e il numero di attacchi jihadisti può variare significativamente da paese a paese; non è dunque possibile affermare che un singolo paese sia più a rischio di terrorismo basandosi esclusivamente sul coefficiente di terrorismo potenziale, in quanto ci sono molti altri fattori che possono influenzare il livello di minaccia terroristica in un paese, come ad esempio la stabilità politica e sociale, la presenza di gruppi radicali e la capacità delle autorità di prevenire e contrastare gli attacchi terroristici.

Infine, il coefficiente di correlazione non implica necessariamente una relazione causale tra la percentuale di popolazione musulmana e il numero di attacchi jihadisti, ma indica semplicemente la forza e la direzione della relazione statistica tra le due variabili, definendo il coefficiente di terrorismo potenziale come uno dei molteplici fattori da prendere in considerazione per la valutazione del rischio di terrorismo in un paese.

Un’ovvia relazione tra il numero di attacchi terroristici e il numero di vittime

Per indagare se esiste una relazione tra il numero di attacchi terroristici e il numero di vittime, abbiamo analizzato il set di dati disponibile attraverso il database START InSight e ci siamo concentrati sulle colonne “Numero di uccisi” e “Numero di feriti”. Per ottenere una misura del numero totale di vittime per attacco, abbiamo sommato queste due variabili per ogni riga del database.

Abbiamo quindi calcolato il coefficiente di correlazione di Pearson tra il numero totale di vittime e il numero di attacchi. Il coefficiente di correlazione è risultato essere 0,794, indicando una forte correlazione positiva tra le due variabili.

Abbiamo anche effettuato un’analisi di regressione lineare con il numero totale di vittime come variabile dipendente e il numero di attacchi come variabile indipendente. L’analisi di regressione ha prodotto un coefficiente di determinazione (R-quadrato) del 0,631, suggerendo che circa il 63% della variazione nel numero totale di vittime può essere spiegato dal numero di attacchi.

Complessivamente, la nostra analisi suggerisce che esiste una relazione positiva tra il numero di attacchi terroristici e il numero di vittime, e che il numero di attacchi è un predittore significativo del numero totale di vittime. Ulteriori ricerche potrebbero indagare su altri potenziali fattori che possono influire sul numero di vittime negli attacchi terroristici.

La rilevanza del tasso di vittime

Per approfondire i dati sugli attacchi terroristici nell’Unione Europea tra il 2004 e il 2022, abbiamo deciso di calcolare il numero totale di vittime per ogni attacco. Per farlo, abbiamo utilizzato le colonne “Numero di Morti” e “Numero di Feriti” per calcolare il numero totale di vittime per attacco.

Abbiamo poi aggregato i dati per paese per stimare il numero totale di vittime per ogni paese. Ciò ci ha permesso di comprendere meglio l’impatto complessivo degli attacchi terroristici in ogni paese durante il periodo analizzato.

La nostra analisi ha rivelato che il paese con il maggior numero di vittime totali era la Francia, con un totale di 1.741 vittime nel periodo 2004-2022. Il paese con il secondo maggior numero di vittime era il Regno Unito, con un totale di 1.400 vittime.

Altri paesi con un significativo numero di vittime includono Belgio (685), Germania (583) e Spagna (547). Tuttavia, è importante notare che il numero di vittime potrebbe non necessariamente riflettere la gravità o la frequenza degli attacchi in ogni paese e che altri fattori come la dimensione della popolazione e i fattori geopolitici dovrebbero essere presi in considerazione quando si interpretano questi risultati.

Complessivamente, la nostra analisi evidenzia l’impatto devastante degli attacchi terroristici nell’Unione europea e l’importanza di continuare gli sforzi per prevenire e combattere il terrorismo nella regione.

Per investigare se esista una relazione tra il numero di attacchi terroristici e il numero totale di vittime per paese, abbiamo condotto un’analisi di correlazione utilizzando il numero di attacchi e il numero totale di vittime per paese. L’analisi di correlazione ha rivelato una correlazione positiva e moderatamente forte tra il numero di attacchi e il numero totale di vittime (r=0,685, p<0,001), indicando che all’aumentare del numero di attacchi, aumenta anche il numero di vittime. Questi risultati, solo apparentemente banali e scontati, suggeriscono che i paesi con un maggior numero di attacchi terroristici sono anche quelli che, fino ad oggi, hanno registrato un maggior numero di vittime.

Chi sono i “terroristi europei”: genere, età, etnia, recidiva.

L’attivismo terroristico è una prerogativa maschile: su 225 attaccanti, il 97% sono uomini (7 sono donne); a differenza del 2020, quando c’erano 3 donne attaccanti, il 2021 e il 2022 non hanno registrato la partecipazione attiva delle donne.

L’età mediana dei 225 terroristi (maschi e femmine) è di 27 anni: una cifra che varia nel tempo (da 24 anni nel 2016 a 30 nel 2019). I dati biografici di 169 individui per i quali abbiamo informazioni complete ci consentono di tracciare un quadro molto interessante che ci dice che il 10% ha meno di 19 anni, il 36% ha tra 19 e 26 anni, il 39% ha tra 27 e 35 anni e, infine, il 15% è più anziano di 35 anni.

La mappa etno-nazionale del terrorismo in Europa

Il fenomeno della radicalizzazione jihadista in Europa affligge alcuni gruppi nazionali/etnici più di altri. C’è una relazione proporzionale tra i principali gruppi di immigrati e i terroristi, come sembra apparire dalla nazionalità dei terroristi o delle famiglie d’origine, in linea con le dimensioni delle comunità straniere in Europa. Prevale l’origine maghrebina: i gruppi etno-nazionali principalmente interessati dall’adesione jihadista sono quello marocchino (in Francia, Belgio, Spagna e Italia) e algerino (in Francia).

Aumento della recidiva e di individui già noti ai servizi di intelligence

Il ruolo giocato dai recidivi – individui già condannati per terrorismo che compiono azioni violente alla fine della loro condanna detentiva e, in alcuni casi, in prigione – non è trascurabile; erano il 3% dei terroristi nel 2018 (1 caso), poi sono saliti al 7% (2) nel 2019, al 27% (6) nel 2020, sono scesi a un singolo caso nel 2021 e 2022. Un’evidenza che confermerebbe il pericolo sociale di individui che, di fronte a una condanna detentiva, tendono a posticipare la condotta di azioni terroristiche; questa evidenza indica un potenziale aumento degli atti terroristici nei prossimi anni, coincidendo con il rilascio della maggior parte dei terroristi attualmente detenuti.

In parallelo ai recidivi, START InSight ha riscontrato un’altra tendenza significativa, legata alle azioni compiute da terroristi già noti alle forze dell’ordine o ai servizi di intelligence europei che rappresentano il 37%, il 44% e il 54% del totale rispettivamente nel 2022, nel 2021 e nel 2020, rispetto al 10% nel 2019 e al 17% nel 2018.

Vi è una certa stabilità riguardo alla partecipazione ad azioni terroristiche da parte di individui con un passato in carcere (compresi i detenuti per reati non terroristici) con una cifra dell’11% nel 2022, leggermente in ribasso rispetto agli anni precedenti (23% nel 2021, 33% nel 2020, 23% nel 2019, 28% nel 2018 e 12% nel 2017); ciò conferma l’ipotesi che vede nelle carceri dei luoghi di radicalizzazione.

Ci sono legami tra l’immigrazione e il terrorismo? Analisi di correlazione e regressione degli immigrati e del terrorismo nell’Unione Europea

La relazione tra immigrazione e terrorismo è stata oggetto di numerosi studi e dibattiti negli ultimi anni. In questo studio, abbiamo condotto un’analisi di correlazione e regressione per indagare la relazione tra lo status di immigrato, l’origine familiare e il paese d’origine degli attaccanti con la frequenza degli attacchi terroristici nell’Unione Europea. Come metodologia, abbiamo analizzato il database di START InSight contenente informazioni sugli attacchi terroristici compiuti da estremisti islamici nell’Unione Europea tra il 2004 e il 2022. Abbiamo utilizzato la correlazione di Pearson e la correlazione di Spearman per esplorare la relazione tra diverse combinazioni di dati e abbiamo effettuato un’analisi di regressione lineare multipla per prevedere la frequenza degli attacchi in base allo status di immigrato dell’attaccante, alla sua origine familiare e al paese d’origine.

Le origini dei terroristi: immigrati o europei?

L’89% degli attacchi terroristici in Europa tra il 2004 e il 2022 (dei quali abbiamo informazioni complete) è stato perpetrato da immigrati di seconda e terza generazione, e da immigrati di prima generazione, sia regolari che irregolari. Esiste quindi una correlazione statistica tra immigrazione e terrorismo; tuttavia, il numero di terroristi rispetto al numero totale di immigrati è così marginale che tale correlazione diventa insignificante: l’ordine di grandezza è di una unità per milione di immigrati.

Dei 138 terroristi presi a campione dal database di START InSight, 65 (47%) sono migranti regolari; 36 (26%) sono immigrati di seconda o terza generazione; 22 (16%) sono immigrati irregolari. Quest’ultimo dato è in aumento e rappresenta il 32% dei responsabili nel 2022. È anche significativo il numero di convertiti all’Islam europei, che rappresentano il 6% degli attaccanti. Complessivamente, il 73% dei terroristi sono residenti regolari, mentre il rapporto tra immigrati irregolari e terroristi è di 1 a 6. Inoltre, nel 4% degli attacchi sono stati impiegati bambini/minori (7) tra gli attaccanti.

L’aumento del numero di migranti irregolari aumenta il potenziale rischio di terrorismo: risultati della ricerca.

Come indicato, il 16% dei terroristi sono immigrati irregolari (2014-2022): il 25% nel 2020, il 50% nel 2021 e il 32% nel 2022.

In Francia, il numero di immigrati irregolari coinvolti in attacchi terroristici sta aumentando. Fino al 2017, nessun attacco aveva visto la partecipazione di immigrati irregolari; nel 2018, il 15% dei terroristi erano immigrati irregolari: nel 2020, hanno raggiunto il 33% (18% nel 2022). Il Belgio ha riferito che nel 2019 sono stati identificati alcuni richiedenti asilo legati al radicalismo o al terrorismo (Europol).

C’è quindi un rischio statistico, poiché più immigrati irregolari significano maggiori possibilità che qualche terrorista possa nascondersi tra di loro o unirsi al terrorismo jihadista in un secondo momento. Qui i risultati della ricerca. La nostra analisi di correlazione di Pearson ha mostrato una correlazione positiva moderata tra lo status di immigrato dell’attaccante (regolare, irregolare, discendente) e il loro paese d’origine con un coefficiente di correlazione di 0,652. Allo stesso modo, abbiamo trovato una correlazione positiva moderata tra lo status di immigrato della famiglia dell’attaccante e il loro paese d’origine con un coefficiente di correlazione di 0,657. Tuttavia, non abbiamo trovato alcuna correlazione significativa tra le altre combinazioni di dati. La nostra analisi di regressione ha rivelato che le tre variabili indipendenti spiegavano circa il 18% (R-quadrato di 0,177) della variazione della variabile dipendente, che è il paese in cui si è verificato l’attacco. Inoltre, il modello di regressione ha mostrato che il paese d’origine dell’attaccante era la variabile indipendente più significativa nella previsione dell’occorrenza di attacchi. Nel complesso, nonostante questa correlazione, non c’è un collegamento causale manifesto: la scelta di diventare un terrorista non è determinata o influenzata dal proprio status di immigrato, ma una serie di fattori come le esperienze individuali; le condizioni di vita al momento dell’arrivo; i contatti volontari o involontari con reti criminali o jihadiste possono tutti giocare un ruolo (Dreher, 2017; Leiken, 2006).

Quali conclusioni in merito alla correlazione tra immigrazione e terrorismo?

L’immigrazione “contribuisce” alla diffusione del terrorismo da un paese all’altro, ma l’immigrazione di per sé è improbabile che sia una causa diretta del terrorismo. Finora non ci sono prove empiriche che i migranti di prima generazione siano più inclini a diventare terroristi. Tuttavia, si ritiene che i flussi migratori dai paesi a maggioranza musulmana dove il terrorismo è un fenomeno consolidato influiscano significativamente sugli attacchi nel paese di destinazione. È difficile sostenere l’esistenza di un legame causale tra i due fenomeni: quindi, essere un migrante non sarebbe un fattore scatenante per unirsi al terrorismo.

Tuttavia, ci sono altri molteplici legami tra l’immigrazione e il terrorismo e tra gli immigrati e i terroristi, in particolare: 1) criminalità organizzata – gruppi terroristici – migranti irregolari; 2) terroristi rimpatriati – i terroristi europei che sono andati in Siria sono infatti “migranti”: l’Europa può quindi essere considerata un “esportatore” di terroristi; 3) migranti economici che si uniscono al terrorismo durante il loro viaggio; e 4) migranti che si uniscono alla jihad o migrano con l’intenzione di compiere attacchi, come evidenziato dall’attacco terroristico a Nizza (Francia) del 29 ottobre 2020, perpetrato da un immigrato irregolare che era sbarcato in precedenza in Italia dalla Tunisia.

Il nostro studio suggerisce una moderata correlazione positiva tra lo status migratorio dell’attentatore, l’origine familiare e il paese di origine con la comparsa di attacchi terroristici nell’Unione europea.

La capacità offensiva del terrorismo sta diminuendo? Dipende

Non è possibile dare una risposta univoca a questa domanda in quanto dipende da diverse variabili e dal contesto in cui ci si trova. Tuttavia, ci sono alcuni fattori che indicano una possibile riduzione della capacità offensiva del terrorismo, come ad esempio l’incremento delle misure di sicurezza e di prevenzione adottate dalle autorità, la maggiore cooperazione internazionale nella lotta al terrorismo, il deterioramento delle strutture organizzative dei gruppi terroristici e la diminuzione della loro capacità di reclutamento. Per disegnare un quadro quanto più preciso del terrorismo, è necessario analizzare i tre livelli su cui il terrorismo si sviluppa e opera: il livello strategico, operativo e tattico. La strategia consiste nell’impiego del combattimento a fini bellici; la tattica è l’impiego delle truppe per la battaglia; il livello operativo si trova tra questi due. Questa è una semplice sintesi che sottolinea una caratteristica essenziale: l’impiego di combattenti.

Il successo a livello strategico è marginale

Come anticipato con il precedente rapporto #ReaCT2022, il 14% delle azioni condotte dal 2014 sono state di successo a livello strategico, in quanto hanno portato a conseguenze strutturali consistenti in un blocco del traffico aereo/ferroviario nazionale e/o internazionale, mobilitazione delle forze armate, interventi legislativi di vasta portata. Si tratta di una percentuale molto alta, considerando le limitate capacità organizzative e finanziarie dei gruppi e degli attaccanti solitari. La tendenza negli anni è stata irregolare, ma ha evidenziato una progressiva riduzione della capacità ed efficacia: il 75% dei successi strategici è stato registrato nel 2014, il 42% nel 2015, il 17% nel 2016, il 28% nel 2017, il 4% nel 2018, il 5% nel 2019, il 12% nel 2020, il 6% nel 2021 e lo 0% nel 2022.

Nel complesso, gli attacchi hanno attirato l’attenzione dei media internazionali nel 79% dei casi, del 95% a livello nazionale, mentre le azioni commando e di squadra strutturate e organizzate hanno ricevuto la piena attenzione dei media. Un successo mediatico evidente, tanto quanto cercato, che potrebbe aver influenzato significativamente la campagna di reclutamento dei futuri martiri o combattenti jihadisti, la cui numerosità rimane alta in corrispondenza di periodi di attività terroristica intensa (2016-2017). Ma se è vero che l’ampiezza dell’attenzione dei media ha effetti positivi sul reclutamento, è anche vero che questa attenzione tende a diminuire nel tempo, per due motivi principali: il primo è la prevalenza di azioni a bassa intensità rispetto a quelle ad alta intensità – che sono diminuite – e sulle azioni a bassa e media intensità – che sono aumentate significativamente dal 2017 al 2021. Il secondo motivo è che l’opinione pubblica è sempre più abituata alla violenza terroristica e di conseguenza meno “toccata”, in particolare dagli eventi a bassa e media intensità.

Il livello tattico è preoccupante, ma non è la priorità del terrorismo

Assumendo che lo scopo degli attacchi terroristici consista nell’uccidere almeno un nemico (nel 35% dei casi, gli obiettivi sono le forze di sicurezza), tale obiettivo è stato raggiunto nel periodo dal 2004 al 2022 in media nel 48% dei casi. Tuttavia, va considerato che l’ampio arco temporale tende ad influire sul margine di errore; il trend nel periodo 2014-2022 indica un declino nei risultati del terrorismo, con una prevalenza di attacchi a bassa intensità e un aumento di azioni con esito fallimentare almeno fino al 2019. In particolare, i risultati degli ultimi sette anni mostrano che il successo a livello tattico è stato raggiunto nel 2016 nel 31% dei casi (contro il 6% degli insuccessi), mentre il 2017 ha registrato un tasso di successo del 40% e un tasso di fallimento del 20%. Un trend complessivo che, tenendo in considerazione un tasso di successo del 33% a livello tattico, un raddoppio degli attacchi falliti (42%) nel 2018 e un ulteriore calo del tasso di successo al 25% nel 2019, può essere letto come il risultato della progressiva diminuzione della capacità operativa dei terroristi e dell’aumentata reattività delle forze di sicurezza europee. Ma se l’analisi suggerisce una capacità tecnica effettivamente ridotta, è anche vero che il carattere improvvisato e imprevedibile del nuovo terrorismo individuale ed emulativo ha portato ad un aumento delle azioni riuscite, passate dal 32% nel 2020 al 44% nel 2021. Il risultato delle azioni compiute nel 2022 mostra una nuova inversione di tendenza, con il 33% di successo a livello tattico.

Il vero successo si raggiunge a livello operativo: il “blocco funzionale”.

Anche quando fallisce, il terrorismo guadagna in termini di costi inflitti al suo obiettivo: ad esempio, impegnando le forze armate e la polizia in modo straordinario, distogliendole dalle normali attività quotidiane e/o impedendone l’intervento in supporto della comunità; interrompendo o sovraccaricando i servizi sanitari; limitando, rallentando, deviando o bloccando la mobilità collettiva urbana, aerea e navale; limitando il regolare svolgimento delle attività quotidiane personali, commerciali e professionali, a scapito delle comunità interessate e, inoltre, riducendo significativamente il vantaggio tecnologico, il potenziale operativo e la resilienza; e infine, più in generale, infliggendo danni diretti e indiretti, indipendentemente dalla capacità di causare vittime. Di conseguenza, la limitazione della libertà dei cittadini è un risultato misurabile che il terrorismo ottiene attraverso le sue azioni.

In altre parole, il terrorismo è efficace anche in assenza di vittime, poiché può comunque imporre costi economici e sociali sulla comunità e influenzare il comportamento di quest’ultima nel tempo come conseguenza di nuove misure di sicurezza volte a salvaguardare la comunità: questo effetto è ciò che chiamiamo “blocco funzionale”.

Nonostante la sempre minore capacità operativa del terrorismo, il “blocco funzionale” continua a essere il risultato più significativo ottenuto dai terroristi, indipendentemente dal successo tattico (uccisione di almeno un obiettivo). Mentre il successo tattico è stato osservato nel 48% degli attacchi avvenuti dal 2004, il terrorismo ha dimostrato la sua efficacia imponendo un “blocco funzionale” in una media del 79% dei casi, con un picco del 92% nel 2020, poi 89% nel 2021 e 78% nel 2022: un risultato impressionante, se si considerano le risorse limitate impiegate dai terroristi. Il rapporto costo-beneficio è senza dubbio a favore del terrorismo.


[1] Sono stati presi in considerazione i seguenti paesi: Austria, Belgio, Bulgaria, Cipro, Croazia, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Ungheria, Irlanda, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia e Svizzera.


Il richiamo di Hamas e il rischio di terrorismo. Il commento del direttore C. Bertolotti a TGCOM 24

L’intervento del Direttore C. Bertolotti a TGCOM 24 Mediaset (approfondimento del 18 ottobre 2023) – PRIMA PARTE

L’intervento del Direttore C. Bertolotti a TGCOM 24 Mediaset (approfondimento del 18 ottobre 2023) – SECONDA PARTE

Dopo gli attacchi terroristici operati da Hamas e il Jihad Islamico nel sud di Israele, e dopo la violenza inaudita utilizzata contro civili inermi, sembra che si stia riproponendo il metodo jihadista utilizzato all’epoca aurea del Califfato. Questo ha riacceso gli animi dei così detti lupi solitari in Europa. Che rischi di emulazione si corrono sulla base di quanto accaduto in Francia e Belgio?

Il terrorismo jihadista, così come l’abbiamo conosciuto nel corso degli ultimi anni, ha avuto la sua massima espressione di violenza nel periodo 2015-2017, in concomitanza con l’espansione dello Stato islamico in Siria e in Iraq. Anche grazie all’amplificazione massmediatica, lo Stato islamico riuscì ad attirare una serie di reclute, di adepti, ma anche semplicemente a ispirare soggetti che poi colpirono in suo nome, pur senza fare parte dell’organizzazione. Dal 2018, gli attacchi terroristici sono diminuiti e si sono stabilizzati su numeri comunque importanti per l’Europa. Parliamo di 18, 20 attentati all’anno, spesso fallimentari e con una bassa attenzione mediatica. Azioni che non hanno alimentato l’effetto emulativo.

Oggi, al contrario, ci troviamo di nuovo in una situazione simile a quella del 2015-2017: non c’è più lo Stato islamico che si impone mediaticamente, ma c’è la guerra, la contrapposizione fra israeliani e Hamas.

La guerra tra Israele e Hamas è un grande evento che, purtroppo, alimenta la minaccia potenziale – sempre in attesa di essere attivata – di singoli soggetti emulatori, i quali aspirano a essere riconosciuti come mujaheddin ed eventualmente shahid (martiri) imponendo, attraverso la violenza, il messaggio jihadista del “noi contro voi”. La fabbrica dell’odio – se così possiamo chiamarla – è però sempre rimasta attiva, non si è mai fermata, con riferimento a ciò che avviene in un mondo parallelo, quello virtuale del Web dove la fabbrica dell’odio non soltanto esiste, ma si consolida lentamente. Un mondo parallelo, nel quale tutto viene inteso e interpretato in maniera assoluta e trasformato in una visione del mondo a senso unico. Chi entra in questa bolla virtuale, alla fine crede di essere portatore di un’istanza di massa contro l’Occidente, che inevitabilmente diventa il nemico da abbattere. Piùdei luoghi fisici, cioè più delle moschee e più dei centri sociali di incontro dei radicalizzati, il Web è così diventato da molto tempo il terreno di confronto e di raccolta di informazioni degli estremisti.


Presentazione del Rapporto #ReaCT2023 a Lugano il 6 ottobre

Ad oltre venti anni dagli attentati dell’11 settembre 2001 che hanno aperto un lungo capitolo di lotta al terrorismo sotto varie forme, la minaccia non solo non è svanita, ma è oggi più diffusa, frammentata e complessa da affrontare.

In Occidente, lo scenario dell’estremismo violento è oggi caratterizzato da una varietà di ideologie, orientamenti, profili e motivazioni, spesso sovrapposte o indefinite, che rendono più difficile indicarne la portata, prevedere il rischio e tracciare l’evoluzione del fenomeno.

Le iniziative di contrasto e prevenzione implicano una collaborazione multidisciplinare fra attori diversi e un dialogo costante tra ricercatori, operatori sul campo, forze dell’ordine, legislatori e società civile. Di fronte alla capacità di adattamento del terrorismo e al ‘new normal’ della radicalizzazione che definisce l’epoca attuale, è importante aggiornare le conoscenze, gli approcci e gli strumenti a nostra disposizione.

Invito alla presentazione del
4° Rapporto sul Terrorismo e il Radicalismo in Europa
#ReaCT2023

Venerdì 6 ottobre 2023, ore 17.30    
Lugano, Università della Svizzera italiana
Auditorium, Palazzo Centrale

per annunciarsi scrivere a: info@startinsight.eu
SCARICA #REACT2023 QUI

PROGRAMMA
Introduce i lavori Jean-Patrick Villeneuve, Direttore dell’Istituto di Comunicazione e Politiche pubbliche, Università della Svizzera Italiana
Saluti istituzionali dell’On. Norman Gobbi, Dipartimento delle Istituzioni,
Cantone Ticino (videomessaggio)

Ore 17.45 INTERVENTI
“Terrorismi ed estremismi in continua evoluzione: il Rapporto #ReaCT2023”

Claudio Bertolotti, Direttore dell’Osservatorio ReaCT, ricercatore
Chiara Sulmoni, Presidente di START InSight, giornalista, analista
Marco Lombardi, Prof. e direttore del centro di ricerca ITSTIME, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano

Ore 18.15 TAVOLA ROTONDA
“Il contrasto e la prevenzione del terrorismo e dell’estremismo violento. Prospettive svizzere e italiane”  

On. Rocco Cattaneo, Consigliere nazionale, Commissione della politica di sicurezza
Martin von Muralt, Delegato della Rete integrata svizzera per la sicurezza
(intervento in francese)     
Diego Parente, Direttore centrale della Polizia di Prevenzione, Polizia di Stato
(in collegamento da Roma)
Michela Trisconi, Capo-progetto, Piattaforma cantonale di prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo violento

evento in collaborazione con

USI – Università della Svizzera italiana
e
Piattaforma di prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo violento, Cantone Ticino


Terrorismo, estremismo violento e radicalizzazione. Scenari più complessi.

di Chiara Sulmoni

Articolo pubblicato nel Rapporto #ReaCT2023

Le definizioni, le categorie e l’idea stessa del terrorismo e dell’estremismo violento sulle cui basi sono state concepite le strategie di prevenzione e contrasto degli ultimi anni, che si sono concentrate soprattutto sulla lotta alla mobilitazione jihadista e al gruppo Stato Islamico, non corrispondono più alla realtà sul terreno o, quantomeno, non bastano a contenerla. In Occidente lo scenario attuale è caratterizzato da una varietà di ideologie, orientamenti, profili e motivazioni, spesso sovrapposte o indefinite, che rendono più difficile indicarne la portata, prevedere il rischio e tracciare l’evoluzione di questi fenomeni.

Keywords Accelerazionismo, incels, jihadismo, sovereign citizens

Una realtà sempre più intricata
Il terrorismo di matrice jihadista rimane la forma di violenza più letale, sia in Europa che a livello globale. Tuttavia, non più solo gli analisti ma anche un Rapporto presentato dal Segretario generale dell’ONU (2022) attira l’attenzione sull’aumento degli attacchi di natura xenofoba, razzista, contro le minoranze o dovuti ad altre forme di intolleranza, nel nome della religione o altre credenze, nonché sulla crescita di misoginia, antisemitismo e islamofobia (1); a preoccupare gli Stati membri, in particolare, è la dimensione transnazionale che può assumere questa minaccia; cosa che notoriamente avviene sia attraverso le relazioni e le reti intessute online, che tramite la partecipazione ad incontri nel mondo reale, in occasione di eventi comuni o anche addestramenti paramilitari. I cosiddetti ‘manifesti’, veri e propri testamenti ideologici lasciati dagli attentatori di vari orientamenti, con richiami a stragisti e stragi avvenute in precedenza anche in aree geografiche distanti tra loro, mostrano come vi sia una condivisione di argomenti e rivendicazioni a diverse latitudini. La battaglia contro la propaganda è particolarmente difficile a causa della molteplicità degli strumenti di comunicazione utilizzati da militanti e simpatizzanti, tra piattaforme social e di gioco (gaming), messaggistica, canali di informazione alternativa e forum.
Le tensioni politiche ed economiche che hanno caratterizzato la fase acuta della pandemia di COVID19, sommate alle vulnerabilità e predisposizioni personali, hanno dato inoltre un’accelerazione ad atteggiamenti di sfiducia e antagonismo verso le istituzioni, favorendo l’adesione alle teorie cospiratorie e la diffusione della disinformazione, che costituiscono la trama delle narrative estremiste, promuovono la radicalizzazione e l’incapsulamento sociale, possono spingere alla violenza contro simboli e/o rappresentanti politici e si adattano rapidamente ai nuovi scenari, come ad esempio la guerra in Ucraina-. Movimenti, sub-culture e complottismi tipicamente americani – come ad esempio l’accelerazionismo, i sovereign citizens, gli incels (celibi involontari) e QAnon – sono stati progressivamente inglobati ed adattati al panorama europeo. I dati del Global Terrorism Index (GTI) 2022 e 2023 mettono in rilievo come, in Occidente, il terrorismo ideologico (attacchi di estrema destra e sinistra) sull’arco degli ultimi dieci anni abbia superato di oltre tre volte quello di matrice religiosa.

Profili e obiettivi si moltiplicano
Gran parte delle azioni di matrice ideologica sono ad opera di individui che non appartengono a gruppi formalmente (ri)conosciuti tanto che, fa notare sempre il GTI 2023, l’intelligence di diversi paesi si astiene dall’attribuzione a sigle di estrema destra o sinistra. L’età di chi è attratto dall’estremismo si è progressivamente abbassata nel corso degli ultimi anni, particolarmente in Gran Bretagna dove nelle inchieste sono coinvolti anche teenagers al di sotto dei 15 anni (2). I ricercatori sono però stati in grado di osservare ulteriori sfumature, vale a dire che in presenza di motivazioni legate alla misoginia (nel caso degli incels, ad esempio), i soggetti tendono ad avere un’età inferiore rispetto a chi è ostile alle minoranze (e nutre sentimenti anti-immigrazione, ad esempio (3) ). Un’analisi pubblicata dall’Institute for Strategic Dialogue all’indomani dell’attacco al centro migranti di Dover nel 2022 (Comerford, Squirrel, Leenstra, Guhl) sottolinea l’importanza di non concentrarsi su un’unica tendenza: “the increasingly singular focus on ‘vulnerable’ younger terrorists has created a blind-spot for older perpetrators and the radicalisation of an older generation of people, statistically more likely to be involved in acts of terrorism, often driven by hatred towards various marginalised groups rather than a coherent ideology” (4) . Anche nel caso del jihadismo, in Europa si è da tempo consolidato un trend post-organizzato, con attacchi portati avanti da singoli (ma non necessariamente solitari) attentatori motivati tanto da convinzioni solide quanto da problematiche personali e mentali che sfociano nella violenza, e le cui azioni tendono ad assumere la forma di eventi talvolta improvvisati, con “armi” facilmente reperibili, “ispirati” (piuttosto che rivendicati) e isolati, rispetto ad un più ampio obiettivo di gruppo. Gli attacchi continuamente sventati e l’alto numero di arresti indicano come -nonostante un lavoro di contrasto più efficiente- questa matrice non tenda affatto ad affievolirsi, ma sia piuttosto in costante evoluzione. Nel suo ultimo Rapporto (TESAT 2022) Europol segnala infatti di aver smantellato una serie di gruppi intenti a pianificare attacchi con modus operandi più complessi. Questo scenario stratificato è dunque dinamico e imprevedibile, caratterizzato dalla presenza di ideologie e motivazioni anche contrapposte che si rafforzano a vicenda dando forma al cosiddetto estremismo cumulativo (è ciò che accade, ad esempio, tra jihadismo ed estrema destra); oppure, da gruppi e individui con orientamenti diversi, che rappresentano a loro volta livelli di rischio diversi (non tutti violenti), uniti da una convinzione comune -come nel caso del network tedesco anti-governativo e anti-democratico Reichsbürger (con ramificazioni anche in Austria, Svizzera, Italia), salito alla ribalta a dicembre 2022 dopo una retata in Germania. Una frangia era accusata di pianificare un colpo di Stato. Come scrive Alexander Ritzmann in un’analisi per la rivista specializzata CTC Sentinel, “the only thing that connects them is the fundamental denial of the legitimacy of the German state. This is one of the main reasons why German authorities have a somewhat difficult time assessing their (changing) potential for violence and terrorist acts in comparison to more ideologically coherent, unified, and structured extremist movements” (5) . Di fronte a una realtà così composita, si allarga anche il cerchio degli obiettivi che – fra semplici cittadini negli spazi pubblici, luoghi di culto e rappresentanti religiosi, istituzioni e figure di governo, forze dell’ordine e membri delle forze armate, autorità e personale sanitario (nel caso di no-vax e negazionisti del COVID), infrastrutture (target di sabotaggi e cyberattacchi), docenti, donne, minoranze (fra cui la comunità LGBT+), centri d’accoglienza per migranti e via dicendo – è potenzialmente infinito.

Le sfide della prevenzione. Cambiano i temi e le priorità
Oggi i cosiddetti “everyday extremists” possono emergere in un contesto che il Prof. Gilles Kepel definisce di “jihadismo d’atmosfera”, in cui fomentatori d’odio scatenano la rabbia collettiva contro un obiettivo -una persona accusata, ad esempio, di blasfemia- con esiti che possono essere mortali se soggetti radicalizzati prendono l’iniziativa ed agiscono su questa spinta; oppure nel quale posizioni e atteggiamenti radicali, controversi e violenti ottengono visibilità sulla rete e sui social media anche grazie a figure di riferimento e influencers che hanno un ampio seguito sia tra i giovanissimi che tra gli adulti (ad esempio nel caso della misoginia o del complottismo), mentre teorie cospiratorie e disinformazione si fanno strada nel pensiero corrente (mainstream) e anche nelle istituzioni tramite l’elezione di figure politiche ‘di rottura’. In questo quadro, in cui la minaccia non è rappresentata unicamente dalle ideologie violente, ma da una retorica violenta che può affondare le radici anche in una mentalità più o meno diffusa, la prevenzione assume un ruolo di primo piano, con un ventaglio di destinatari più ampio rispetto al passato, e richiede come mai prima d’ora il coinvolgimento della società civile. Con prevenzione si intende infatti, essenzialmente, un insieme di attività e iniziative di natura non securitaria, portate avanti da istituzioni pubbliche e private, ONG e organizzazioni varie (anche assistenziali), concepite per anticipare e diminuire il rischio di adesione all’estremismo; atte, ad esempio, a promuovere la coesione sociale e dare sostegno a persone vulnerabili. Una prevenzione al passo con le tendenze attuali richiede interventi maggiormente diversificati rispetto a quelli messi in campo nella lotta contro lo jihadismo, con nuovi temi e priorità.
Da tempo si ritiene – giustamente – che il settore educativo e la scuola debbano svolgere un ruolo fondamentale nel fornire ai giovani, che sono sempre più esposti a un ecosistema virtuale tossico, dei validi strumenti di difesa come la competenza tecnologica e lo spirito critico. Ma è solo una faccia della medaglia: nonostante internet fin dall’inizio della pandemia abbia fatto la parte del leone nel facilitare la radicalizzazione, una ricerca effettuata su un campione di jihadisti che sono entrati in azione fra il 2014 e il 2021 in 8 paesi occidentali ha messo in luce che chi si radicalizza offline rappresenta ancora la maggioranza e soprattutto un grado di pericolosità superiore -“those radicalised offline are greater in number, more successful in completing attacks and more deadly than those radicalised online” (6) .
Ciò che riporta l’attenzione sull’importanza del contesto -domestico, famigliare, sociale e locale (la cosiddetta comunità) da sempre considerato cruciale nella svolta verso la radicalizzazione, ma talvolta sottovalutato.
Un altro studio condotto in Spagna da un team internazionale, basato fra l’altro sulle scansioni cerebrali di (simpatizzanti) jihadisti in vari stadi di radicalizzazione, ha confermato da un lato, il ruolo dell’esclusione sociale come fattore rilevante nel processo di radicalizzazione (processo che essenzialmente spinge verso una rigidità mentale, o verso una progressiva propensità a “combattere e morire per i propri valori sacri”, come dimostra la ricerca) e, dall’altro, l’influenza della pressione sociale nel riportare l’individuo a “ragionare”, allontanandolo dalla violenza grazie alla riattivazione di aree del cervello che si erano in precedenza “spente” (7) . Se oggi l’onda sta cambiando e sempre più minorenni – e adulti – rischiano di finire nelle maglie di un estremismo recepito in rete, e nonostante servano più studi comparativi per comprendere meglio peculiarità e somiglianze fra i diversi tipi di radicalizzazione, è comunque importante non perdere di vista l’elemento di (ri) socializzazione insito in questi processi. Così come è determinante riconoscere il ruolo delle “grievances” -cioè del senso di ingiustizia, reale o percepito- poiché è su questo aspetto trasversale a tutte le ideologie, che fa leva la narrativa estremista, che si tratti di difendere la mascolinità, la razza, o l’Islam. La prevenzione dovrà dunque puntare anche su questo: non solo spirito critico e contro-narrativa (la cui efficacia è contestata) ma una narrativa alternativa, una proposta di modelli positivi e opportunità nel mondo reale, dopo l’isolamento causato dalla pandemia.

Note
1. Terrorist attacks on the basis of xenophobia, racism and other forms of intolerance, or in the name of religion or belief, Report of the Secretary-General, August 3, 2022
2. The number of young people arrested on suspicion of terrorism related offences in the UK continues to rise, statistics reveal, News, Counter-Terrorism Policing, 9 March 2023
3. See: Roose, J., Interview on “Masculinity and Violent Extremism”, #ReaCT2023, pp. 128-129.
4. Comerford, M., Squirrell, T., Leenstra, D., and Guhl, J., What the UK Migrant Centre Attack Tells Us About Contemporary Extremism Trends, ISD, 14th November 2022
5. Ritzmann, A., The December 2022 German Reichsbürger Plot to Overthrow the German Government, CTC Sentinel, March 2023, Vol. 16, Issue 3
6. Hamid, N. and Ariza, C., Offline Versus Online Radicalisation: Which is the Bigger Threat?, Global Network on Extremism and Technology, February 2022.
7. Nafees Hamid discusses his research at length in: Deradicalizzazione: dentro la mente jihadista, a documentary by Chiara Sulmoni which was aired by RSI (RadioTelevisione Svizzera di Lingua Italiana) on 22nd September 2020