Abstract L’accelerazionismo militante è definito dall’Accelerationism Research Consortium come un insieme di strategie volte a esacerbare le divisioni sociali per accelerare il collasso della società, attraverso mezzi spesso violenti. Questo fenomeno non è limitato a un’unica ideologia politica, essendo presente sia nell’estrema destra che nell’estrema sinistra, sebbene con manifestazioni differenti. L’accelerazionismo di estrema destra si oppone principalmente all’uguaglianza, vista come una minaccia all’ordine sociale naturale, e cerca di precipitare il crollo delle democrazie liberali, utilizzando la polarizzazione e la violenza politica. Dal punto di vista geopolitico, nazioni come Russia e Cina potrebbero sostenere tali movimenti per destabilizzare l’Occidente e minare la legittimità del modello democratico liberale, rafforzando le proprie posizioni autoritarie. L’accelerazionismo di estrema sinistra, invece, trae origine dal marxismo, con l’obiettivo di accelerare la caduta del capitalismo per innescare una rivoluzione proletaria. Queste dinamiche rappresentano una minaccia crescente per la sicurezza internazionale, poiché sfruttano le tensioni interne e le divisioni sociali per promuovere l’instabilità globale.
L ’Accelerationism Research Consortium, un’iniziativa di ricerca specializzata nello studio dell’accelerazionismo militante, lo definisce come un insieme di tattiche e strategie volte a intensificare le divisioni sociali latenti, spesso attraverso mezzi violenti, al fine di accelerare il collasso della società. L’accelerazionismo non si allinea necessariamente con una specifica ideologia politica e può essere osservato sia nell’estrema sinistra che nell’estrema destra dello spettro politico, tuttavia, l’uno e l’altro si presentano con aspetti differenti. L’accelerazionismo militante di estrema destra non si preoccupa di criticare ad esempio il post-colonialismo, ma si concentra piuttosto sul contrastare il tema dell’uguaglianza, che è percepito come una manifestazione del decadimento sociale e una minaccia all’ordine sociale basato sulla disuguaglianza, che si considera invece ispirata all’ordine naturale. Per salvaguardare o ripristinare questo “ordine naturale”, l’accelerazionismo militante di estrema destra cerca pertanto di creare condizioni che facilitino il crollo del sistema liberale e democratico esistente. Ad esempio, lo scontro razziale viene usato come piattaforma per l’azione politica, con l’obiettivo di accelerare la caduta delle società liberali e capitaliste. La sua strategia principale prevede la diffusione di ideologie politiche contraddittorie e problematiche attraverso vari mezzi, come la promozione della polarizzazione o l’impegno nella violenza politica per creare emergenze e crisi sociali, con l’obiettivo di impedire il funzionamento delle istituzioni sociali.
Dal punto di vista delle relazioni internazionali e degli studi sulla sicurezza, è evidente che questo obiettivo è in linea con gli obiettivi di nazioni ostili. Si ritiene, per esempio, che Russia e Cina siano interessate per motivi strategici a sostenere l’accelerazionismo militante, indipendentemente dal suo allineamento ideologico o politico. In primo luogo, favorire il caos e la divisione all’interno delle nazioni occidentali serve a minarne la stabilità e l’influenza globale, rafforzando così potenzialmente la posizione di Russia e Cina sulla scena mondiale. Esacerbando le tensioni sociali e le polarizzazioni esistenti, questi paesi possono creare distrazioni per i governi occidentali, distogliendo la loro attenzione e le loro risorse da questioni globali come l’Ucraina o Taiwan. In secondo luogo, sostenere i gruppi accelerazionisti è in linea con l’obiettivo più ampio di contrastare il modello democratico liberale occidentale. Promuovendo ideologie estremiste che rifiutano le norme e le istituzioni democratiche, questi paesi cercano di delegittimare i valori occidentali e indebolire l’attrattiva della democrazia come sistema politico e sociale. Questa strategia può contribuire a rafforzare la legittimità dei regimi autoritari, presentandoli come una solida alternativa alle democrazie occidentali. Inoltre, favorire il conflitto interno nei paesi occidentali può fungere da forma di ritorsione o deterrenza contro la percepita interferenza occidentale negli affari interni di Russia e Cina. Sostenendo l’accelerazionismo militante, questi paesi possono reagire contro le sanzioni occidentali, le critiche agli abusi dei diritti umani, o il sostegno ai movimenti di opposizione. Inoltre, evidenziando le divisioni interne e i disordini sociali nelle nazioni occidentali, Russia e Cina possono dissuadere i governi occidentali dall’intervenire nei loro affari interni o dal perseguire politiche estere aggressive contro di loro.
1. Accelerazionismo militante di estrema sinistra Il concetto di accelerazionismo ha origine in seno al marxismo, nella convinzione che intensificando le forze distruttive del sistema capitalistico si possa ottenerne la distruzione finale e la successiva liberazione, attraverso la rivoluzione proletaria. Il terrorismo di sinistra che si avvale di un impianto ideologico accelerazionista, prescrive l’uso o la minaccia della violenza da parte di entità subnazionali che si oppongono al capitalismo, all’imperialismo e al colonialismo. Questa tendenza si manifesta anche nei movimenti di difesa dei diritti ambientali o degli animali, o ancora in quelli che sostengono sistemi sociali e politici decentralizzati, come l’anarchismo. In termini di incidenti, il numero di incidenti mortali attribuiti a ideologie di estrema sinistra varia nel tempo. Il picco globale della violenza rivoluzionaria accelerazionista di sinistra si è verificato durante gli anni ’60 e ’70. Tuttavia, fino al 2012, il numero degli eventi terroristici di estrema sinistra è di circa quattro volte quello degli eventi di estrema destra. Negli ultimi anni, in particolare nel 2019 e nel 2020, il numero di incidenti di estrema destra e di estrema sinistra è stato più o meno uguale. In tempi più recenti, la situazione ha iniziato a differire tra Europa e Stati Uniti. In Europa gli attacchi dell’estrema sinistra hanno ripreso ad essere più diffusi, e in particolare quelli mirati ad attaccare organizzazioni di destra. Ad esempio, le organizzazioni tedesche come Engel – Guntermann e Hammerbande si concentrano chiaramente nel prendere di mira gli estremisti di destra, o individui percepiti come tali. Tuttavia, c’è un notevole cambiamento nel loro approccio, poiché sono sempre più impegnati in attività che vanno oltre i conflitti locali con l’ambiente estremista di destra. Gli analisti suggeriscono anche un aumento dei legami con gruppi esterni. Questa interconnessione tra le reti estremiste di sinistra in Europa ha il potenziale per influenzare le loro strategie e gli obiettivi specifici che scelgono.
Negli Stati Uniti, secondo l’Anti-Defamation League, solo il 6% delle 443 vittime di estremisti registrate tra il 2012 e il 2021 erano motivate ideologie di estrema sinistra. In confronto, il 75% era connesso a convinzioni di estrema destra e il 20% a convinzioni islamiste. È importante notare che tutte le vittime delle ideologie di estrema sinistra negli Stati Uniti erano motivate dal nazionalismo nero, che l’ADL classifica come estremismo di sinistra. Nel complesso, la minaccia violenta rappresentata dagli estremisti di sinistra negli Stati Uniti rimane relativamente piccola, mentre in Europa è in aumento. La tendenza è stata confermata da diverse autorità. Ad esempio, il Terrorism Situation and Trend Report (TE-SAT) riporta che l’80% degli attacchi eseguiti con successo nel 2022 sono stati compiuti da gruppi terroristici di sinistra e anarchici.
A livello globale, i movimenti affiliati alle ideologie di estrema sinistra includono gruppi Antifa, nonché gruppi che si occupano di questioni ambientali. Ci sono anche vari media alternativi di estrema sinistra, come The Grayzone o Breakthrough News, e organizzazioni come il Partito per il Socialismo e la Liberazione o il Partito Mondiale dei Lavoratori. Queste entità possono occasionalmente esprimere simpatia per regimi autoritari percepiti come ostili all’Occidente e abbracciare teorie del complotto. Anche se queste piattaforme potrebbero non sostenere apertamente la violenza, i loro contenuti e le loro campagne sostengono attivamente ideologie autoritarie all’interno del pubblico mainstream, erodendo così la credibilità dei difensori dei diritti umani e della democrazia e promuovendo la polarizzazione. The Grayzone, un media di estrema sinistra, esemplifica questa tendenza preoccupante. Fondata nel 2015 dal giornalista Max Blumenthal poco dopo un viaggio a Mosca, questa piattaforma mediatica adotta costantemente una posizione apparentemente antimperialista, difendendo spesso il presidente siriano Bashar al-Assad, Vladimir Putin e il venezuelano Maduro per la loro presunta resistenza contro il dominio degli Stati Uniti. Inoltre, si nega il genocidio uiguro e gli attacchi con gas chimici in Siria. Lo stesso Blumenthal ha partecipato a manifestazioni anti-lockdown e antivaccini e attualmente svolge un ruolo molto attivo nel movimento pro-Hamas/pro-palestinese, che rappresenta una nuova sfida significativa e allarmante per la sicurezza nazionale.
L’uso di Internet da parte dell’accelerazionismo militante di estrema sinistra L’esplorazione della cultura online di estrema sinistra è un argomento spesso trascurato. Questa particolare fazione, che esiste ai margini della sinistra più ampia, si posiziona contro varie ideologie e gruppi come l’alt-right, la correttezza politica, i social justice warriors e le posizioni centriste e liberal-democratiche. Nonostante le sue radici ideologiche e la tendenza della sinistra a disprezzare la cultura popolare online, impiega tattiche simili a quelle dell’alt-right online, compreso l’uso dell’umorismo, dei meme, del trolling su Twitter e dell’aperta ostilità. Tuttavia, rimane saldamente radicato nell’ideologia progressista di sinistra. Indicato con vari nomi come “alt-left”, “volgar left” o “Dirtbag Left”, l’origine di questo movimento è attribuita ad Amber Frost, scrittrice, podcaster e attivista con sede a Brooklyn. Il suo podcast Chapo Trap House, strettamente associato a questo movimento, utilizza comicità e ironia in uno stile da atleta shock, criticando allo stesso tempo sia il partito democratico che quello repubblicano. Altri media e individui collegati alla sinistra sporca includono TrueAnon e Red Scare, anch’essi vagamente associati al movimento BlueAnon, una controparte di sinistra del noto fenomeno QAnon.
2. Accelerazionismo militante di estrema destra Inizialmente, l’accelerazionismo militante non era principalmente associato all’estremismo di estrema destra. Tuttavia, si è fatto strada gradualmente in questo ambiente attraverso due vie significative. In primo luogo, negli anni ’90, il filosofo britannico Nick Land sviluppò una versione libertaria dell’accelerazionismo di destra dopo aver studiato i lavori di Gilles Deleuze e Félix Guattari sull’accelerazionismo di sinistra e incorporando la sua interpretazione dell’analisi del capitalismo di Marx. Due decenni dopo, all’inizio degli anni 2010, le idee di Land hanno guadagnato terreno nel movimento emergente dell’“alt-right”, che si è profondamente interessato al suo concetto antiegualitario e antidemocratico di “neo-reazione”. Il secondo e più influente percorso attraverso il quale l’accelerazionismo si è infiltrato nell’estrema destra è stata la pubblicazione del libro Siege, che raccoglieva post di newsletter scritti dal neonazista americano James Mason, un ammiratore di Charles Manson. Mason era coinvolto in varie organizzazioni naziste negli Stati Uniti già dalla fine degli anni ’60, aveva legami personali con importanti leader di estrema destra, tra cui George Lincoln Rockwell, il leader del Partito nazista americano, e William Pierce, l’autore del romanzo The Turner Diaries, che ha ispirato l’attacco terroristico del 1995 a Oklahoma City. Mason fu influenzato anche da Joseph Tommasi, il leader del Fronte di Liberazione Nazionale Socialista, un gruppo ispirato dalle organizzazioni di sinistra e dalla guerriglia urbana che sosteneva la creazione del caos attraverso il terrorismo come mezzo per destabilizzare l’ordine politico negli Stati Uniti.
Mason creò la newsletter Siege, pubblicata dal 1980 al 1986, come piattaforma per esprimere la sua disapprovazione per la posizione assunta dall’estremismo di estrema destra americano. Nelle pagine della sua pubblicazione, incorporò elementi di teorie cospirative antisemite e razziste, concentrandosi in particolare su una “cospirazione mondiale ebraica” che mirava a eseguire un “genocidio bianco”. Questo concetto, ora etichettato come “Grande Sostituzione”, ha contribuito allo sviluppo del mito del Deep State, generando il cliché bipartisan di un “governo occulto sionista” in America. Nel suo libro, Mason sosteneva anche che l’ordine sociale prevalente era diventato così profondamente corrotto che organizzazioni consolidate come il Partito nazista americano, con i loro metodi convenzionali di impegno politico, erano diventate inefficaci nel perseguimento della liberazione della “razza bianca”. Secondo Mason, il progresso poteva essere raggiunto solo attraverso mezzi rivoluzionari e violenti messi in atto da individui e l’instaurazione di un “Nuovo Ordine” nazionalsocialista avrebbe richiesto la distruzione della società. L’accelerazionismo militante di estrema destra, come sottotipo del terrorismo apocalittico, si ispira fortemente ai luoghi comuni antisemiti, inclusi concetti come il “genocidio bianco” e la “teoria della grande sostituzione”. Inoltre, sfrutta la conoscenza tradizionale percepita e i codici culturali per razionalizzare le loro convinzioni antimoderne e prendere di mira gli individui che ritengono responsabili del decadimento sociale. Di conseguenza, l’accelerazionismo può essere visto quasi al pari di una religione, come evidenziato dalle sue somiglianze e dalla sua mescolanza con gruppi come i Branch Davidians, la cui escatologia rispecchia dinamiche simili.
L’uso di Internet da parte dell’accelerazionismo militante di estrema destra Negli Stati Uniti, gli aderenti alle ideologie di estrema destra hanno riconosciuto il potenziale di Internet già negli anni ’80. Hanno capito che le piattaforme online offrivano un’opportunità senza precedenti per diffondere il loro messaggio a un pubblico più ampio senza i vincoli imposti dai media tradizionali. In particolare, David Duke, una figura di spicco del movimento estremista di estrema destra statunitense ed ex leader del Ku Klux Klan, ha lodato Internet come piattaforma ideale per una “rivoluzione bianca”. L’avvento della comunicazione online ha giocato un ruolo significativo nell’ascesa di Siege, in particolare durante la metà degli anni 2010, quando l’ “alt-right” ha guadagnato importanza. Questo movimento ha abbracciato strategie di azione militante, che sono state ulteriormente amplificate in seguito alla manifestazione “Unite the Right” a Charlottesville, negli Stati Uniti, nell’agosto 2017. Gli eventi circostanti la manifestazione, inclusa la tragica uccisione della contro-manifestante Heather Heyer, hanno scatenato intense dibattiti all’interno della comunità estremista di estrema destra americana. La critica di Mason alle manifestazioni e la sua difesa dell’accelerazionismo militante hanno avuto ampia risonanza in queste discussioni. Di conseguenza, in seguito agli eventi di Charlottesville, l’hashtag #ReadSiege ha guadagnato terreno sia a livello nazionale che all’interno del discorso online transnazionale di estrema destra.
Come oggi, il rischio associato all’accelerazionismo militante è monitorato principalmente in Nord America, con solo un numero limitato di analisti europei che tengono attivamente sotto controllo le sue attività. La globalizzazione dell’accelerazionismo militante di estrema destra durante gli anni 2010 ha dato origine a varie traiettorie, tutte strettamente intrecciate con gli spazi digitali, che dovrebbero sollevare preoccupazioni. Una piattaforma importante per l’accelerazionismo militante di estrema destra è stata la Iron March, in lingua inglese, che ha operato dal 2011 al 2017 ed è servita da terreno fertile per i gruppi accelerazionisti. Questo forum ha attirato una vasta gamma di militanti estremisti di estrema destra che si sentivano emarginati da altri forum Internet come Stormfront, fondato nel 1996, o erano insoddisfatti delle offerte delle organizzazioni di estrema destra esistenti rivolte ai giovani. All’interno del forum Iron March, i membri coltivavano la propria sottocultura di accelerazionismo militante di estrema destra, caratterizzata da testi chiave e un’estetica distinta con loghi ispirati ai simboli delle Waffen SS e maschere di teschi in bianco e nero. Gli amministratori di Iron March hanno incoraggiato attivamente la comunicazione online transnazionale e facilitato il networking regionale e locale tra i membri oltre i confini del regno digitale. In particolare, tra gli utenti di Iron March è emersa una rete terroristica estremista di estrema destra, che rimane attiva anche a tutt’oggi. L’influenza di Iron March, ponendo un’enfasi significativa sull’azione, si è estesa oltre lo sviluppo della sua sottocultura estremista di estrema destra. Di conseguenza, diversi gruppi accelerazionisti, tra cui National Action (Regno Unito), Feuerkrieg Division (USA) e Antipodean Resistance (2016), sono stati istituiti come propaggini di questo forum. È anche importante riconoscere che Iron March segnò semplicemente l’inizio di questo fenomeno.
La globalizzazione dell’accelerazionismo militante di estrema destra La vera ascesa della rete globale di accelerazionismo militante di destra può essere fatta risalire al periodo tra il 2018 e il 2019, che ha visto eventi significativi come l’attacco alla Sinagoga Tree of Life a Pittsburgh (USA) e l’attacco a Christchurch, in Nuova Zelanda. Questi incidenti hanno mostrato un elevato livello di sofisticazione nel modo in cui gli autori hanno pubblicizzato le loro azioni. Un esempio ha riguardato la diffusione di un ampio manifesto online e lo streaming live dell’attacco, stabilendo un nuovo punto di riferimento per la violenza di estrema destra. Ne è seguita, naturalmente, un’ondata di attacchi imitativi, inclusi ma non limitati a Poway ed El Paso negli Stati Uniti, a Oslo e Halle in Europa. Durante questo periodo, la piattaforma digitale 8chan è servita come hub online preferito per l’accelerazionismo militante, facilitando la diffusione della sua propaganda. Tuttavia, la crescente pressione da parte del pubblico e delle istituzioni alla fine ha portato alla chiusura di 8chan nell’agosto 2019. Inizialmente, questa chiusura ha avuto un effetto frenante sulla diffusione della propaganda, ma alla fine i gruppi accelerazionisti si sono ripresi. Tuttavia, quando la piattaforma è riemersa come 8kun nel novembre 2019, molti ex utenti erano già migrati su Telegram. Telegram, fondata da Pavel e Nikolai Durov nel 2013, mirava inizialmente a fornire un mezzo per la comunicazione online che sarebbe stato più difficile da monitorare per stati autoritari come la Russia. Tuttavia, nel giro di pochi anni, ha sviluppato funzionalità aggiuntive che lo hanno trasformato in una piattaforma di social media. In particolare, la capacità di crittografare i messaggi nella comunicazione uno a uno lo rendeva particolarmente attraente per i gruppi di estrema destra e jihadisti per diffondere propaganda e reclutare nuovi membri. Per individui e gruppi di estrema destra i cui account erano stati bloccati o cancellati su piattaforme di social media più tradizionali, Telegram ha offerto un’alternativa sicura per raggiungere un pubblico più ampio. Di conseguenza, alcune nicchie di Telegram sono diventate note come “Terrorgram”, a causa del funzionamento indisturbato dei gruppi terroristici e della glorificazione dei terroristi e delle loro azioni sulla piattaforma. La frammentazione tra le due piattaforme ha comportato una diminuzione della dimensione percepita del pubblico dell’accelerazionismo militante di estrema destra. È interessante notare che questa divisione ha anche stabilito una gerarchia, con gli utenti di Telegram che si consideravano i leader, o “generali”, del movimento, cercando attivamente di reclutare le masse, o “soldati di fanteria”, per la loro causa. L’8kun, recentemente ristabilito, è emerso come una piattaforma ideale per reclutare la fanteria, poiché molti tentativi di attacco sono stati effettuati da membri attivi di questo imageboard.
3. La manosfera Nonostante un calo generale delle attività pubbliche tra i militanti accelerazionisti di estrema destra durante la pandemia di COVID-19, i loro sforzi digitali sono aumentati in modo significativo dalla primavera del 2022. Di conseguenza, è aumentato anche il numero di attacchi sventati. Le tendenze primarie che hanno avuto origine all’interno di queste comunità online strettamente unite durante gli anni ’80, ’90 e 2000 rimangono rilevanti all’interno del social network globale in cui si sono evolute. In particolare, emergono continuamente nuovi spazi online, che spesso hanno poca somiglianza con le tradizionali organizzazioni estremiste di estrema destra. Queste reti decentralizzate, organizzate in cellule, promuovono sottoculture definite dai loro codici culturali, come i meme, e si adattano costantemente per aumentare la loro rilevanza nella sfera pubblica. Ora hanno permeato altri regni online, comprese le piattaforme di gioco, e fanno affidamento sulla più ampia cultura dei troll su Internet. Si propagano attraverso la manosfera, un insieme di comunità incentrate sull’antifemminismo radicale e sull’ambiente della teoria della cospirazione, dove gli individui cercano “la verità” o abbracciano l’ideologia della “pillola rossa”. Queste reti prosperano in forum “politicamente scorretti” formando una sottocultura transnazionale che ruota attorno a contenuti estremisti di estrema destra, misogini, antisemiti e misantropici, sia ironici che seri. Di particolare interesse è la manosfera, che ha attirato l’attenzione degli accelerazionisti a causa della sua rapida crescita e del potenziale di esplosioni violente nel mondo reale.
Nonostante venga definita un nome collettivo, la manosfera comprende quattro sottoculture distinte: attivisti per i diritti degli uomini che vedono le politiche femministe come dannose per i diritti dei maschi, incel (celibi involontari) che ritengono le donne responsabili della loro mancanza di opportunità e status sociale, separatisti che credono in una cospirazione femminista per smantellare la mascolinità e sostenere la completa segregazione tra i generi, e il tipo seducente che oggettiva le donne e promuove l’accettazione della cultura dello stupro. Queste sottoculture emergenti si allineano anche con le culture dell’odio digitale esistenti che hanno già stabilito la loro presenza su varie piattaforme, rafforzando così i loro sforzi di reclutamento.
4. Quando destra e sinistra uniscono le forze È importante riconoscere che i gruppi accelerazionisti agiscono principalmente come opportunisti e colgono ogni opportunità per infiltrarsi in un movimento popolare. Ciò è stato evidente in vari casi nel corso della storia. Ad esempio, nel 2020, il movimento antigovernativo di estrema destra Boogaloo ha tentato di associarsi al movimento Black Lives Matter rivendicando obiettivi condivisi. Allo stesso modo, negli anni 2000, i Black Bloc di estrema sinistra hanno sfruttato con successo le proteste popolari contro i leader del G8. Durante la pandemia, sia i gruppi di estrema sinistra che quelli di estrema destra si sono uniti contro le misure di blocco. In questi contesti è emersa anche la violenza stocastica, che si manifesta come atti sporadici di aggressione, intimidazione o distruzione di proprietà. Sebbene tali incontri si schierassero apparentemente contro gli obblighi di vaccinazione e percepissero violazioni delle libertà personali, spesso attiravano individui con inclinazioni estremiste provenienti sia dall’estremismo di sinistra che da quello di destra dello spettro politico. Nel mezzo del trambusto di questi eventi, attori solitari o piccole fazioni si sono impegnati in atti di violenza casuale (stocastica), che vanno dalle molestie verbali alla violenza fisica, volti a seminare il caos e instillare paura. Gli estremisti di estrema destra hanno sfruttato queste manifestazioni per propagare sentimenti antigovernativi e amplificare la sfiducia nelle istituzioni sanitarie pubbliche, mentre l’estrema sinistra le ha viste come opportunità per sfidare gli interessi aziendali e in particolare le grandi aziende farmaceutiche. La natura imprevedibile della violenza stocastica in questo contesto non solo pone preoccupazioni immediate per la sicurezza, ma sottolinea anche la più ampia polarizzazione sociale e radicalizzazione che alimenta tali eventi.
Nell’attuale contesto politico, questi gruppi si stanno ora allineando con il movimento filo-palestinese. Il movimento filo-palestinese ha ottenuto un sostegno significativo negli ultimi mesi, con numerosi manifestanti scesi in piazza in tutto il mondo per chiedere un cessate il fuoco a Gaza. Sfortunatamente, questa ondata di sostegno ha anche creato un ambiente in cui vari gruppi, tra cui accelerazionisti di estrema sinistra, estrema destra e organizzazioni antisemite, tentano di associarsi al movimento filo-palestinese tradizionale. Ciò ha provocato una rete confusa di affermazioni e una diffusa diffusione di disinformazione. Un modo in cui questi gruppi sfruttano il movimento filo-palestinese è adottandone il linguaggio per criticare le azioni del governo israeliano a Gaza, tuttavia, utilizzano la piattaforma per promuovere teorie e stereotipi del complotto antiebraico. Le fazioni di destra fanno spesso riferimento alla teoria del complotto della “Grande Sostituzione”, sostenendo senza fondamento che gli individui ebrei facilitano intenzionalmente la migrazione nei paesi occidentali per sostituire i bianchi. D’altro canto, le fazioni di sinistra attaccano le democrazie liberali e le economie basate sul mercato invocando riferimenti al sionismo e al colonialismo. Negli Stati Uniti e in Europa, gli estremisti di estrema destra e di estrema sinistra hanno sfruttato la crescente rabbia nei confronti del governo israeliano come un’opportunità per diffondere teorie del complotto antisemite, antidemocratiche e anticapitaliste. La loro intenzione è legittimare queste idee all’interno del discorso mainstream e attirare nuove reclute.
Main takeaways Sia i gruppi accelerazionisti militanti di estrema sinistra che quelli di estrema destra possiedono un vantaggio evolutivo digitale dovuto alle trasformazioni nel panorama dei media online, che hanno creato nuove strade per la radicalizzazione. Questi accelerazionisti hanno anche utilizzato strategicamente algoritmi per indirizzare gli individui suscettibili al reclutamento. A differenza dei loro predecessori BBS negli anni ’80 e ’90, che rispecchiavano le comunità della vita reale, le piattaforme odierne sono caratterizzate dall’”economia dell’attenzione” e dalla “dipendenza dalla dopamina”. I post che non riescono ad attirare sufficiente attenzione vengono gradualmente eliminati dalle prime pagine per fare spazio a post particolarmente accattivanti, trasformando di fatto l’estremismo in una dipendenza chimica. Inoltre, la violenza dell’estrema sinistra e dell’estrema destra sono sempre più interconnesse, creando un classico “dilemma sulla sicurezza”. Queste caratteristiche amplificano ulteriormente la natura pericolosa di questo fenomeno e dovrebbero richiedere un monitoraggio e un intervento attivi.
La violenza stocastica è una tattica inquietante impiegata dagli estremisti politici, caratterizzata dalla sua natura imprevedibile e casuale. A differenza della violenza organizzata con obiettivi e obiettivi chiari, la violenza stocastica mira a creare un’atmosfera pervasiva di paura e incertezza colpendo apparentemente a caso. Questa strategia spesso coinvolge attori solitari o piccoli gruppi che compiono atti di violenza senza il coordinamento diretto di un’organizzazione più ampia, rendendo difficile per le autorità anticiparli o prevenirli. Gli autori del reato possono essere motivati da ideologie o rivendicazioni estreme, utilizzando la violenza come mezzo per diffondere il terrore e portare avanti la propria agenda. La violenza stocastica rappresenta una sfida significativa per gli sforzi antiterrorismo, poiché può essere difficile individuare e affrontare preventivamente la radicalizzazione alla base di tali attacchi. Inoltre, la sua natura imprevedibile amplifica l’impatto psicologico sulle comunità, alimentando paura e sfiducia e minando la coesione sociale. Affrontare la violenza stocastica richiede un approccio articolato che affronti non solo le preoccupazioni immediate in materia di sicurezza, ma anche i fattori sociali sottostanti che contribuiscono all’estremismo e alla radicalizzazione.
L’accelerazionismo militante è emerso come uno strumento per paesi stranieri ostili come la Russia e la Cina per seminare il caos e destabilizzare le nazioni occidentali dall’interno. Queste nazioni possono clandestinamente sostenere o manipolare gruppi estremisti che aderiscono a dottrine accelerazioniste per esacerbare le tensioni sociali esistenti e sfruttare le vulnerabilità dei sistemi democratici. Ad esempio, la Russia è stata accusata di utilizzare piattaforme online per amplificare narrazioni divisive e sostenere movimenti accelerazionisti di estrema destra in Europa e negli Stati Uniti, con l’obiettivo di minare la fiducia nelle istituzioni democratiche e favorire la discordia interna. Allo stesso modo, la Cina è stata coinvolta nel finanziamento e nella promozione di fazioni estremiste per sfruttare le faglie sociali nelle società occidentali, indebolendo così la loro coesione e influenza globale. Tale sfruttamento dell’accelerazionismo militante sottolinea la natura evolutiva della guerra asimmetrica, in cui attori non statali e ideologie marginali diventano strumenti nelle strategie geopolitiche di nazioni ostili. Nel complesso, Russia e Cina potrebbero sostenere i gruppi militanti accelerazionisti in Occidente come parte di una strategia multiforme per indebolire i loro avversari, sfidare i valori e le istituzioni occidentali e promuovere i propri interessi geopolitici sulla scena globale.
In conclusione, il rischio di un’accelerazione del terrorismo è chiaro e significativo mentre ci avviciniamo al 2024, e potrebbe addirittura aumentare ulteriormente nel periodo precedente alle elezioni presidenziali statunitensi o alle prossime elezioni europee. È probabile che individui scontenti e gruppi estremisti armati continuino a ricorrere alla violenza per scatenare una rivoluzione e impedire a quello che percepiscono come il Deep State di manipolare le elezioni nei propri interessi. L’attuale scontro di narrazioni contrastanti, presenti in quasi ogni aspetto del discorso politico, aggravato dalle divisioni partitiche e amplificato sui social media, continuerà a ostacolare gli sforzi dei governi nell’affrontare la minaccia del terrorismo interno. L’atmosfera attuale ricorda in modo allarmante il periodo precedente a eventi come gli “anni di piombo” o l’attentato di Oklahoma City. In quegli anni, la retorica estremista spingeva presunti patrioti o rivoluzionari, come Mario Moretti o Timothy McVeigh, a proteggere i loro concittadini da quello che vedevano come un governo corrotto sostenuto da una ricca élite. Oggi ci sono potenzialmente molti più individui con una propensione analoga, e non possiamo permetterci di aspettare un’altra serie di eventi tragici prima che venga intrapresa un’azione decisiva contro questa minaccia.
Andrea Molle, Ph.D., FRAS, Senior Research Fellow, Orange (California, Stati Uniti). Scienziato sociale quantitativo e computazionale. Dal 2012 è Assistant Professor di Scienze Politiche e Ricercatore associato all’Institute for the Study of Religion, Economics, and Society della Chapman University. Dal 2006 al 2008 è stato JSPS Fellow in Antropologia al Nanzan Institute for Religion and Culture (Nagoya, Giappone).
Abstract Fra il 2023 e il 2024 in vari paesi europei si è fatta strada una seria preoccupazione riguardo il coinvolgimento di teenagers e minorenni in reati legati al terrorismo e attività estremiste. Se a portare a termine attacchi e attentati sono ancora in gran parte uomini poco al di sotto dei 30 anni, la radicalizzazione online fa presa sui giovanissimi in maniera inedita, rappresentando una sfida tutt’altro che facile per chi opera nella prevenzione e nel contrasto.
La sera di sabato 2 marzo 2024 in un quartiere centrale di Zurigo un quindicenne svizzero di origini tunisine accoltella gravemente un ebreo ortodosso. Nelle ore successive all’attacco, emerge in rete un video preregistrato nel quale il ragazzo, che si definisce un “soldato del Califfato” e giura fedeltà allo Stato Islamico, dichiara di avere agito in risposta all’appello lanciato da quest’ultimo di colpire “gli ebrei, i cristiani e i loro alleati criminali”, e incita a sua volta altri a prendere l’iniziativa (1).
L’ evento si inserisce in un contesto globale che è stato segnato da un sensibile aumento dall’antisemitismo dopo il brutale attentato terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023, al quale Israele ha risposto mettendo Gaza a ferro e fuoco; una realtà che con il suo tragico carico di vittime civili ha alimentato tanto le narrative della sfera jihadista e degli estremismi più in generale, quanto la polarizzazione sociale che ha trovato sfogo, talvolta violento, nelle piazze, nelle università e su internet. Un clima dal forte potenziale di radicalizzazione e di mobilitazione, accentuato da un’intensa disinformazione, a cui sono esposti anche ragazzini al di sotto dei 15 anni.(2)
La Confederazione -già colpita nel 2020 da due attacchi all’arma bianca di matrice jihadista a Morges e a Lugano, che avevano in quell’occasione però visto passare all’azione un uomo e una donna adulti, scagliatisi contro vittime scelte a caso- si confronta improvvisamente con una tendenza che caratterizza ormai da qualche anno l’universo dell’estremismo violento e della radicalizzazione in Europa, e che consiste nel progressivo abbassamento dell’età di chi è coinvolto in questi fenomeni.
Nel 2021, le statistiche inglesi indicavano già un incremento rilevante negli arresti di ragazzi al di sotto dei 18 anni, sospettati di aver commesso reati legati al terrorismo, con una prevalenza della matrice di estrema destra (3). Le percentuali hanno continuato a salire toccando il picco finora più alto nel 2023, quando sul totale dei fermi -tra giovani e adulti- quasi il 19% riguardava teenagers non ancora 17enni (4).
L’attrattiva dei ragazzi e delle ragazze nei confronti del jihadismo è coerente con quanto avvenuto nel periodo che ha segnato la massima espansione territoriale dell’ISIS, attorno alla metà dello scorso decennio; anche allora il Vecchio Continente aveva visto numerosi adolescenti aderire alla narrativa e progettualità dello Stato Islamico, mettendosi in viaggio nel tentativo di raggiungere la Siria e l’Iraq; come la teenager inglese Shamima Begum, partita da Londra a 15 anni nel 2015 insieme a delle coetanee e oggi bloccata in Medioriente in uno dei campi di detenzione dove sono confinate le famiglie degli ex-combattenti. Il suo è divenuto un caso controverso ed emblematico, dopo che le autorità britanniche hanno deciso di privarla della nazionalità rendendola, di fatto, apolide, nonostante c’è chi ritenga che sia stata vittima di indottrinamento e forse anche di tratta (5).
Giovanissimi commisero violenze di natura jihadista dopo che l’ISIS, a partire dal 2014, iniziò ad incoraggiare i propri sostenitori rimasti nei rispettivi paesi di residenza ad attivarsi con i mezzi a disposizione, inaugurando anche la stagione dei cosiddetti “lupi solitari” -una definizione fuorviante, in ragione delle reti di contatti e relazioni che emergono nella maggior parte delle indagini-. Questa mossa strategica del Califfato ha cambiato in maniera permanente il modus operandi dei terroristi, valorizzando l’autonomia dei singoli e permettendo al gruppo terroristico, quando confrontato con difficoltà operative, di continuare a proiettare un’immagine di forza rivendicando azioni di ‘successo’ portate avanti dai propri simpatizzanti.
Uno studio sugli attentati di matrice islamista avvenuti in Europa fra il 2014 e il 2017 indicava che, tra attacchi riusciti e sventati, teenagers e ragazzini erano coinvolti in poco meno di un quarto degli eventi jihadisti; il fenomeno interessava soprattutto la Francia, la Germania e il Regno Unito (6).
Un evento simile a quello di Zurigo si era verificato, ad esempio, a Marseille nel 2016, quando un 15enne di etnia curda aveva attaccato un docente, anch’egli di religione ebraica, nei pressi dell’istituto scolastico dove insegnava.
Casi più recenti sono stati l’uccisione brutale, nel novembre del 2020 alle porte di Parigi, del Prof. Samuel Paty da parte di un 18enne russo di origine cecena, a seguito di una violenta campagna islamista via social che era stata scatenata nei giorni precedenti contro il docente; o quella di un insegnante in un liceo di Arras, nell’ottobre del 2023, ad opera di radicalizzato di 20 anni originario dell’Inguscezia. Dopo quest’ultimo attacco, il procuratore anti-terrorismo francese Jean -François Ricard dichiarò che negli ultimi tre anni (dal 2020, ndr) nel paese era stata riscontrata una crescente propensione, da parte dei giovanissimi, alla pianificazione di atti violenti (7).
Va specificato che gli attacchi portati a termine rimangono ancora in gran parte appannaggio degli adulti; dal database del centro d’analisi e ricerca START InSight, che traccia i profili degli jihadisti entrati in azione in Europa, emerge che l’età mediana di chi ha colpito l’Europa fra il 2014 ed oggi è di 26 anni: un dato che subisce variazioni -dai 24 anni registrati nel 2016 ai 30 anni del 2019-, e che nel 2023 indica l’età perfino in lieve risalita, attestandosi sui 28.5 anni.
Più in generale, emerge come il 7% dei terroristi avesse un’età inferiore ai 19 anni (con una riduzione progressiva dei minori!); il 38% un’età compresa tra i 19 e i 26 anni; il 41,5% tra i 27 e i 35 anni e infine, il 13,5% di età superiore ai 35 anni.
In precedenza, uno studio del 2019 della Scuola Universitaria per le Scienze Applicate di Zurigo (ZHAW), basato sulle informazioni disponibili relative a 130 diversi casi di natura jihadista di cui si era occupato il Servizio delle Attività Informative della Confederazione nel corso dei dieci anni precedenti, indicava che a radicalizzarsi al di sotto dei 20 anni era stato il 18% degli individui, mentre per i minorenni il dato – all’epoca piuttosto contenuto- scendeva al 6% (8).
Tuttavia nel Canton Vaud, dove è stato istituto nel 2018 un programma di prevenzione della radicalizzazione, più del 40% dei casi trattati riguarda minorenni (9). E recentemente, il capo dell’intelligence elvetica Christian Dussey ha dichiarato come la radicalizzazione di matrice jihadista dei minorenni tocchi oggi la Confederazione in proporzioni (addirittura) maggiori rispetto agli altri Stati europei (10). Poco dopo l’attacco di Zurigo, nella Svizzera francese e tedesca sono stati fermati altri sei ragazzi fra i 15 e i 18 anni, in contatto con coetanei in Germania, Francia e Belgio; alcuni, in questa rete, apparentemente intenzionati a portare avanti attacchi. Nei primi 9 mesi del 2024, la Polizia svizzera sarebbe intervenuta in 11 casi di giovani radicalizzati; è stato fermato anche un bambino di 11 anni.
L’esperto di terrorismo Peter Neumann ha segnalato che nel complesso, in Europa, dall’ottobre 2023, due terzi degli arresti hanno riguardato ragazzini fra i 13 e i 19 anni d’età (11).
In Inghilterra e Galles, fra l’aprile 2022 e il marzo 2023 più del 60% delle segnalazioni nell’ambito del programma di prevenzione Prevent -che impone a chi lavora nel settore pubblico, soprattutto la scuola, di comunicare i casi di sospetta radicalizzazione- riguardava individui fino ai 20 anni; il 31% non arrivava ai 14. Ma se la maggior parte dei casi trattati non ha poi richiesto ulteriori prese a carico- quasi la metà di quelli più seri era però rappresentata da ragazzini fra gli 11 e i 15 anni (12).
“Childhood Innocence? Mapping Trends in Teenage Terrorism Offenders”, uno studio pubblicato dall’International Centre for the Study of Radicalisation (ICSR) del King’s College di Londra, che ha preso in esame le attività di 43 minorenni condannati per reati collegati al terrorismo, sempre in Inghilterra e Galles, dal 2016 al 2023 (13), invita a non sottovalutare il ruolo dei ragazzi; sebbene nel periodo preso in considerazione nessun bambino sia riuscito a commettere un attentato e il reato più comune sia consistito nel possesso di materiale estremista, dalla ricerca emerge come un terzo sia stato condannato per la preparazione di atti di terrorismo, e come i ragazzi abbiano agito da “amplificatori” e “innovatori”, in grado di produrre materiali di propaganda, di reclutare altri e di pianificare attacchi. A fare deragliare i loro piani, potrebbero essere stati fattori legati all’età, come l’ingenuità e l’incapacità organizzativa.
Questa intraprendenza giovanile è un tratto comune del panorama estremista degli ultimi anni: nel 2020 si è scoperto che a capo della Feuerkrieg Division, un gruppo di estrema destra attivo solo online ma con intenti terroristici e con membri in vari paesi, dagli Stati Uniti alla Lituania, c’era un 13enne estone -ne aveva 11, al momento della fondazione nel 2018-. Alcuni teenagers che ne facevano parte pianificavano attivamente degli attentati (14).
Sempre nel marzo del 2024 In Inghilterra, un giovane anarchico di sinistra di 20 anni è stato condannato a 13 anni di carcere; fra le altre cose, pianificava di uccidere 50 persone e aveva dedicato un manuale di istruzioni su come costruire armi e bombe “ai disadattati, ai signori nessuno, agli anarchici e terroristi del passato e del futuro, che vogliono combattere per la libertà contro il governo” (15).
2. L’emancipazione dell’estremismo
Studi e indagini hanno analizzato come gruppi, movimenti e individui -in particolare jihadisti o appartenenti alla vasta galassia dell’estrema destra- abbiano saputo cogliere e sfruttare efficacemente le opportunità progressivamente offerte da Internet e dalle tecnologie in continua evoluzione per divulgare le proprie ideologie, avvicinare potenziali reclute e simpatizzanti, disseminare riviste e guide pratiche per aspiranti attentatori, adattando e diversificando la propria comunicazione anche in base al genere. Incluso l’impiego dell’intelligenza artificiale per elaborare rapidamente immagini e video di propaganda dal forte ed immediato impatto estetico ed emotivo che solo un decennio fa avrebbero richiesto il meticoloso apporto di un team e oggi possono anche essere realizzate da un’unica persona (16).
Ad emergere è la consapevolezza di come, nel corso del tempo, siano cambiati in modo sostanziale sia il modo di produrre, consumare e condividere propaganda, che le identità di chi è coinvolto in queste attività. L’entrata in scena dei social media attorno alla metà degli anni 2000, in particolare, ha favorito la rapida diffusione e l’acceso a materiale di natura estremista, e permesso di creare relazioni e interagire continuamente, al punto che, si legge in un saggio del ricercatore Jacob Ware su questo tema, “il processo di radicalizzazione si insinuava ora in ogni aspetto della vita di un soggetto, e il radicalizzatore poteva proiettare la propria influenza in un salotto o una camera da letto” (17).
Ware spiega che oggi siamo ormai confrontati con la terza generazione influenzata dalla radicalizzazione online; una generazione in cui gli individui non solo agiscono in autonomia, ma promuovono sé stessi e le proprie azioni.
I gruppi terroristici (quelli con una solida gerarchia interna) sono meno rilevanti, mentre le ideologie sono fluide. Già nel rapporto #ReaCT2022 Michael Krona, riferendosi al contesto jihadista, indicava l’esistenza di sostenitori online meno inclini a legarsi ad una singola organizzazione, che “formano delle nuove entità, promuovono interpretazioni ideologiche più ampie, costruendo i loro propri brand, piuttosto che rafforzare scrupolosamente il marchio dello Stato Islamico” (18). Oggi la produzione di propaganda e narrativa estremista -ma anche l’incitamento all’azione- non sono più una prerogativa dei media legati ai movimenti terroristici, ma un’operazione a cui partecipa una larga base di adepti e militanti in contatto fra loro. Un reticolato che può estendersi da un continente all’altro.
Come racconta un’inchiesta internazionale realizzata nel 2022 da giornalisti infiltratisi in una rete di teenagers neo-nazisti, il vantaggio di questo network -ma lo stesso principio vale in altri casi- consiste nella sua struttura lasca, mobile, che fa perno sulla partecipazione di singoli individui sparsi per il mondo: “tutto ciò di cui hanno bisogno è un computer, un cellulare e una camera da letto. E tutto ciò che hanno in comune è la loro ideologia e il loro odio: nei confronti degli ebrei, delle figure politiche, dei giornalisti” (19).
Quest’immagine dell’adolescente radicalizzato chiuso nella propria stanza si ripropone, quindi; ma la camera può essere più simile a una cabina di regia, che a un rifugio in cui si isola un ragazzino vulnerabile esposto alle trame di malintenzionati. Il già menzionato studio inglese sui minorenni condannati per terrorismo, sottolinea la necessità di superare lo stereotipo associato ai bambini, che li considera una mera “pedina” nelle mani degli adulti; se attivi in un contesto estremista online protetti dall’anonimato, il “peso” e l’effetto, per esempio, delle loro azioni e dei loro posts, è identico a quello di tutti gli altri.
I ‘combattenti’ virtuali, oggi nativi digitali, dimostrano un forte potenziale nell’assicurare una continua promozione delle idee estremiste -una campagna mediatica pro-ISIS blandisce ed esorta specificamente questi “eserciti di una persona” e “mujaheddin di Internet” a non demordere (20). La capacità di impiegare in modo selettivo i diversi social media e le app di messaggistica criptate per comunicare, scambiarsi informazioni, incoraggiarsi a vicenda, discutere di violenze, attacchi e obiettivi, e l’abilità nel migrare di piattaforma in piattaforma per sfuggire alla scure delle big tech e delle operazioni congiunte di Polizia intese a liberare Internet dai contenuti di natura terroristica, li rendono un asset difficile da contrastare.
In sintesi, l’epoca attuale è caratterizzata da un estremismo ‘emancipato’, diffuso e de-centralizzato che si fonda sulla ‘libera iniziativa’; un ecosistema in cui “ognuno può essere rimpiazzato” (21) e tutti gli attentatori possono diventare fonte di ispirazione per altri; che si tratti di Brenton Tarrant, estremista di destra che nel 2019, a 28 anni, a Christchurch, in Nuova Zelanda, ha attaccato due moschee uccidendo oltre 50 persone; che si tratti di Elliott Rodger che a 22 anni in California, nel 2014, ha commesso una strage in nome dell’ideologia misogina ed è oggi celebrato dagli incel violenti, o ancora che si tratti del quindicenne svizzero autore dell’accoltellamento di Zurigo, il cui gesto viene esaltato dagli accoliti dello Stato Islamico. Alcuni giorni dopo l’attacco, ricercatori del Counter Extremism Project hanno individuato sei profili di TikTok che celebravano lo jihadista svizzero (22).
3. La radicalizzazione della violenza
Nel corso del 2024, analisti e media hanno talvolta fatto riferimento all’espressione ‘TikTok-jihad’ o ‘terrorismo TikTok’ per definire il contesto nel quale avviene l’avvicinamento dei teenager all’estremismo; social, piattaforme di gioco e chat criptate finiscono spesso sul banco degli imputati e vengono considerati oggi strumenti principali di radicalizzazione. Non si tratta tuttavia di semplici ‘canali’ attraverso i quali viene diffuso un messaggio indirizzato a potenziali nuove leve; queste piattaforme offrono spazi di condivisione, socializzazione, visibilità e partecipazione: termini e concetti importanti per comprendere una realtà che non consiste (più) solo in un galassia di ideologie politico-religiose violente, ma che è anche costituita da subculture generate e animate dagli stessi ragazzi (quella incel, ad esempio, o quella dell’accelerazionismo militante); in altre parole, da comunità / collettività che si riconoscono in propri valori, norme comportamentali, codici linguistici ed estetici. Nel periodo adolescenziale, che è caratterizzato dalla ricerca di un’identità e di un posto nel mondo, ma talvolta anche da sentimenti di ribellione, da fragilità personali che possono derivare da contrasti in famiglia, o violenze quali il bullismo e il razzismo, il senso di appartenenza a un gruppo di riferimento assume un ruolo non secondario.
Analisti e intelligence sottolineano già da qualche anno, come problematiche di natura psicologica e adesione alla violenza, prima ancora che all’ideologia, rappresentino tendenze ormai consolidate. La voglia di rivalsa, di acquisire potere nelle relazioni sociali, di protagonismo e di sfogo alle frustrazioni personali (23), vengono oggi considerate motivazioni sufficienti nel contribuire alla radicalizzazione dei ragazzi, una radicalizzazione in cui la percezione di torti subiti può sovrapporsi a battaglie socio-politiche. Tutti questi fattori, sommati a un ‘clima’ virtuale caratterizzato da algoritmi che premiano contenuti provocatori e dalla banalizzazione dell’odio attraverso, ad esempio, la produzione e condivisione di memes, contribuiscono ad abbassare la soglia di adesione all’estremismo (violento e non). In uno scenario così complesso e in continua evoluzione, è molto difficile essere in grado di valutare i rischi posti dagli individui radicalizzati nel mondo reale, soprattutto se minorenni. Pur nella consapevolezza che la radicalizzazione è un percorso personale non irreversibile, e che non conduce necessariamente verso il terrorismo. (24)
Chiara Sulmoni, BA, MA, Presidente e Coordinatrice editoriale di START InSight, Lugano, (Svizzera) ha conseguito un BA e un MA in Italian Studies c/o UCL (University College London) e un MA in Near and Middle Eastern Studies c/o SOAS (School of Oriental and African Studies, London). Giornalista e producer, ha lavorato alla realizzazione di documentari e reportage per la radio / TV in particolare su temi legati al mondo arabo e islamico, Afghanistan e Pakistan, conflitti, radicalizzazione di matrice islamista. Dal 17 aprile 2019, è Co-Direttore di ReaCT – Osservatorio nazionale sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo (Roma-Milano-Lugano). Dal 2023, è Presidente e Coordinatrice dell’Associazione PRIME – Prevenzione Informazione e Mediazione (Lugano).
Note 1) In Video Uploaded To Internet, Teenage Stabber Of Jew In Zürich Swears Allegiance To Islamic State (ISIS), Calls On Muslims To Target Jews And Christians Everywhere, MEMRI, Special Dispatch No. 11166, 4 March 2024. In https://www.memri.org/reports/video-uploadedinternet-teenage-stabber-jew-z%C3%BCrich-swearsallegiance-islamic-state-isis 2) Symonds, Tom, Gaza war creating a radicalisation moment, senior UK police officer says, BBC News , 19th January 2024. In https://www.bbc.com/news/uk-68035172 3) Counter- Terrorism Policing, Upward trend in children arrested for terrorism offences, News, 9th June 2022. In https:// www.counterterrorism.police.uk/upward-trend-inchildren-arrested-for-terrorism-offences/ 4) Counter-Terrorism Policing, Number of young people arrested for terrorism offences hits record high, News, 15th March 2024. In: https://www.counterterrorism.police.uk/ number-of-young-people-arrested-for-terrorism-offenceshits-record-high/ 5) Sabbagh, D., Shamima Begum a victim of trafficking when she left Britain for Syria, court told, The Guardian, 24th October 2023. In: https://www.theguardian.com/uk-news/2023/ oct/24/shamima-begum-victim-of-trafficking-when-sheleft-uk-for-syria-court-told 6) Simcox, R., European Islamist Plots and Attacks Since 2014— and How the U.S. Can Help Prevent Them, The Heritage Foundation, Backgrounder No. 3236, 1st August 2017. See also: Bourebka, M., Overlooked and underrated? The role of youth and women in preventing violent extremism, CIDOB, Notes internationals, 240, 11/2020: “In the European context, as of 2016, the fastest-growing age group amongst the radicalised individuals in Europe was 12- to 17-year-olds” 7) de la Ruffie, E., Attentat: des mineurs radicalisés, «un phénomène nouveau» et «inquiétant», selon le procureur anti-terroriste, Le Journal du Dimanche, 7 Novembre 2023. In: https:// www.lejdd.fr/societe/attentat-des-mineurs-radicalises-unphenomene-nouveau-et-inquietant-selon-le-procureurantiterroriste-139493 8) Sulmoni, C., Radicalizzazione jihadista e prevenzione. Aggiornamenti dalla Svizzera, START InSight www.startinsight.eu. 9) Comment le groupe Etat islamique courtise les mineurs sur les plateformes de jeux vidéo, RTS, 27 Mai 2024 https:// www.rts.ch/info/suisse/2024/article/comment-le-groupe -etat-islamique-courtise-les-mineurs-sur-les-plateformes-dejeux-video-28516132.html. 10) Rhyn, L., und Knellwolf, T., Die Schweiz hat überdurchschnittlich viele Fälle radikalisierter Jugendlicher, Tages Anzeiger, 22 August 2024. In: https:// www.tagesanzeiger.ch/geheimdienst-chef-sieht-sicherheitder-schweiz-in-gefahr-665955949850. 11) Ernst, A., Terrorismus in Europa: Es gibt genügend Hinweise, dass sich etwas Grösseres ankündigt, NZZ, 23 August 2024. In: https://www.nzz.ch/international/terrorismusin-europa-die-tik-tok-generation-peter-r-neumannld.1844746 12) Individuals referred to and supported through the Prevent Programme, April 2022 to March 2023. Home Office Official Statistics, 14th December 2023. In: https://www.gov.uk/ government/statistics/individuals-referred-to-prevent/ individuals-referred-to-and-supported-through-the-preventprogramme-april-2022-to-march-2023#demographics 13) Rose, H., and Vale, G., “Childhood Innocence? Mapping Trends in Teenage Terrorism Offenders”, ICSR, London, 2023. 14) Nabert, A., Brause, C., Bender, B., Robins-Early, N., Death Weapons, Inside a Teenage Terrorist Network, Politico, 27th July 2022. In: https://www.politico.eu/article/ inside-teenage-terrorist-network-europe-death-weapons/ 15) Gardham, D., Jacob Graham: Left-wing anarchist jailed for 13 years over terror offences after declaring he wanted to kill at least 50 people, Sky News, 19th March 2024 https:// news.sky.com/story/jacob-graham-left-wing-anarchistjailed-for-13-years-over-terror-offences-after-declaring-hewanted-to-kill-at-least-50-people-13097584 16) Katz, R., SITE Special Report: Extremist Movements are Thriving as AI Tech Proliferates, SITE Intelligence Group, 16th May 2024 https://ent.siteintelgroup.com/Articlesand-Analysis/extremist-movements-are-thriving-as-ai-tech -proliferates.html 17) Ware, J., The Third Generation of Online Radicalization, Program on Extremism, George Washington University, 16th June 2023. In: https://extremism.gwu.edu/thirdgeneration-online-radicalization 18) Krona, M., Le comunità jihadiste online costruiscono i loro brand ed espandono l’universo terrorista creando nuove entità, #ReaCT2022, Rapporto sul Terrorismo e il Radicalismo in Europa, N.3, Anno 3, ed. START InSight (Lugano). In. https://www.startinsight.eu/react2022-n-3-anno-3/ 19) Nabert, A., Brause, C., Bender, B., Robins-Early, N., Death Weapons, Inside a Teenage Terrorist Network, Politico, 27th July 2022. In: https://www.politico.eu/article/ inside-teenage-terrorist-network-europe-death-weapons/ 20) Pro-Islamic State (ISIS) Social Media Campaign Calling For ‘Media Jihad’ Expands To TikTok, Jihad and Terrorism Threat Monitor, MEMRI, 22nd June 2023 https:// www.memri.org/jttm/pro-islamic-state-isis-social-mediacampaign-calling-media-jihad-expands-tiktok 21) See: Death Weapons 22) Extremist Content Online: Pro-ISIS TikTok Users Celebrate Accused Attacker In Zurich Stabbing, Counter Extremism Project, 11 March 2024. In: https:// www.counterextremism.com/press/extremist-contentonline-pro-isis-tiktok-users-celebrate-accused-attackerzurich-stabbing 23) IS recruitment is not portrayed as violent enlistment for a political-religious cause but as a platform for venting frustrations with parents, teachers and society. It offers an outlet for their mundane lives and a chance at dubious “15 minutes of fame”, in: Avrahami, Z., TikTok jihad: Online radicalization threat looms over Europe, Ynetnews.com, 10th August 2024 https:// www.ynetnews.com/article/ rjgiduh9c 24) “Minorenni radicalizzati, ma non per forza terroristi”, RSI Info, 6 settembre 2024 https://www.rsi.ch/info/ticinogrigioni-e-insubria/%E2%80%9CMinorenni-radicalizzatima-non-per-forza-terroristi%E2%80%9D–2246363.html
Il terrorismo jihadista in Europa e le dinamiche mediterranee: evoluzione storica, sociale e operativa in un’era di cambiamenti globali.
di Claudio Bertolotti, Direttore, START InSight estratto da #ReaCT2024 – Rapporto sul terrorismo e il radicalismo in Europa
AbstractQuesto articolo indaga il terrorismo oltre le definizioni tradizionali, esaminando la sua evoluzione all’interno dei confini dell’Europa geografica, enfatizzando le radici storiche, le motivazioni individuali e collettive, e l’adattamento operativo, condividendo le ragioni alla base di una ormai necessaria revisione della stessa definizione di terrorismo, da intendersi come effetto della violenza, piuttosto che mera azione organizzata per fini politici. Analizzando i dati forniti dal data base START InSight, l’articolo si concentra sui Paesi dell’Unione europea costantemente interessati dalle traiettorie del jihadismo e dalle conseguenti sfide per la sicurezza collettiva, contribuendo al dibattito accademico con una prospettiva multidimensionale sul terrorismo, considerandone gli aspetti storici, socio-politici e culturali.
KeywordsJihadism, blocco funzionale
1. Il terrorismo come fenomeno politico e sociale che si evolve con il tempo e con il mutare delle dinamiche di competizione tra individue, gruppi, stati.
Il terrorismo attuale, ponendo le proprie radici nella profondità di un’evoluzione storica molto complessa, rappresenta una minaccia ideologica diffusa. E la minaccia del terrorismo jihadista è oggi particolarmente rilevante, collegata alle dinamiche storiche, conflittuali, delle relazioni internazionali e della competizione in Medio Oriente, in Africa e alla violenza discendente dalla lettura radicale dell’Islam; una dinamica conflittuale che oggi si associa sempre più spesso alla ricerca di identità di gruppi e individui attraverso l’opposizione culturale di una componente non marginale degli immigrati maghrebini di seconda e terza generazione in Europa. E parliamo di una galassia jihadista frammentata e caratterizzata da diverse ideologie e approcci pratici, tanto da indurre una riflessione sul concetto di terrorismo contemporaneo che si impone come fenomeno sociale molto diverso dai terrorismi che lo hanno preceduto.
Una necessaria riflessione che ci invita a riflettere sull’opportunità di un cambio di paradigma nella stessa definizione di terrorismo, non più da intendere come azione volta ad ottenere risultati politici attraverso la violenza, dunque nelle intenzioni. Bensì come effetto della violenza applicata: è terrorismo la manifestazione di violenza, privo di un’organizzazione alle spalle. È terrorismo nella manifestazione, non nell’organizzazione.
All’interno della stessa galassia jihadista, il terrorismo si impone come strumento di lotta, di resistenza e di prevaricazione, e lo fa con diversi gradi e modelli di violenza: da quella individuale, a quella organizzata, a quella ispirata e ancora al terrorismo insurrezionale che ben abbiamo conosciuto in Afghanistan e in Iraq e, in parte, stiamo osservando nelle sue prime manifestazioni nella Striscia di Gaza dove l’esercito israeliano si confronta con il gruppo Hamas (Bertolotti, 2024).
E proprio l’esperienza afghana, che l’Autore del presente articolo ha avuto modo di studiare da vicino per molti anni, a cui si è sommata l’ondata di violenza conseguente all’appello di Hamas a colpire Israele e i suoi alleati, hanno svolto un ruolo determinante nella ripresa di un terrorismo ispirato ed emulativo a livello globale, che si basa sull’esperienza vittoriosa dei talebani contro l’Occidente, da un lato, e, dall’altro, sulla rabbia veicolata attraverso la strategia comunicativa di Hamas che trova in alcune minoranze ideologizzate occidentali una cassa di risonanza che sovrappone, confondendola, l’agenda violenta e terrorista di Hamas alla legittima istanza palestinese. Eventi sul piano delle Relazioni internazionali che, attraverso la retorica jihadista, sono sfruttati per dimostrare la bontà e la fondatezza del jihad, e dunque del terrorismo come strumento di lotta, di vittoria, di giustizia.
E oggi, dopo e insieme all’Afghanistan, all’Iraq e alla Striscia di Gaza, a svolgere questo ruolo di spinta ideologica e coinvolgimento di massa, sono le dinamiche conflittuali in Medioriente e il terrorismo mediaticamente amplificato di Hamas; da questo discendono le manifestazioni emulative di violenza che il terrorismo ai danni di Israele ha in parte provocato e potrebbe sempre più provocare in Europa come nei paesi del Nord Africa, dell’Africa subsahariana e del Sahel.
2. Trend e dinamiche: calano i numeri, ma la minaccia del terrorismo persiste- un’analisi degli attacchi dal 2014 al 2023.
Guardando agli ultimi cinque anni, da un punto di vista quantitativo l’incidenza degli attacchi terroristici di matrice jihadista si presenta lineare, con una percettibile diminuzione registrata negli ultimi anni, attestandosi ai livelli pre-fenomeno Isis/Stato islamico. Dal 2019 al 2024 sono stati registrati nell’Unione Europea, nel Regno Unito e in Svizzera 92 attacchi (12 sia nel 2023 che nel 2024 – dati al 30 settembre 2024), di successo e fallimentari: 99 quelli rilevati nel precedente periodo 2014-2018 (12 nel 2015).
Sulla scia dei grandi eventi terroristici in Europa nel nome del gruppo Stato islamico, e successivamente in verosimile relazione con gli elementi galvanizzanti conseguenti alla presa del potere talebano in Afghanistan e all’appello del gruppo Hamas, sono stati registrate 206 azioni in nome del jihad dal 2014 al 2024, delle quali 70 esplicitamente rivendicate dallo Stato islamico: 249 i terroristi che vi hanno preso parte (di cui 7 donne, 73 morti in azione), 446 le vittime decedute e 2.558 i feriti (database START InSight).
Sia nel 2023 che nel 2024 sono state registrate 12 azioni jihadiste, in lieve flessione rispetto ai 18 attacchi annuali registrati nel 2022 e 2021, ma con un aumento significativo di azioni di tipo “emulativo”, ossia ispirate da altri attacchi nei giorni precedenti, che ha portato il dato ad attestarsi sui livelli elevati degli anni precedenti: dal 17% del totale di azioni emulative nel 2022 al 58% nel 2023 (erano il 56% nel 2021). Il 2023 ha inoltre confermato un trend ormai consolidato nell’evoluzione del fenomeno, con una sostanzialmente esclusiva predominanza di azioni individuali, non organizzate, in genere improvvisate, che hanno progressivamente sostituito le azioni strutturate e coordinate caratterizzanti il “campo di battaglia” urbano europeo del periodo 2015-2017 (il totale delle azioni nel 2023 e il 97% delle azioni registrate l’anno precedente).
Aumenta l’uso di coltelli e armi improvvisate I terroristi usano sempre più spesso coltelli per una serie di motivi, legati a fattori pratici, ideologici e strategici:
– Facilità di accesso: i coltelli sono facilmente reperibili e non richiedono competenze tecniche avanzate per essere utilizzati. A differenza delle armi da fuoco o degli esplosivi, che possono richiedere una certa logistica o competenze tecniche, i coltelli sono comuni in ogni casa o negozio.
– Discrezione: un coltello può essere portato facilmente senza destare sospetti, a differenza di altre armi più vistose o pericolose. Questo consente di avvicinarsi alle vittime o ai luoghi di attacco senza essere notati immediatamente.
– Effetto di terrore: gli attacchi con coltelli, spesso condotti in spazi pubblici o affollati, hanno un forte impatto psicologico sulla popolazione. La natura ravvicinata e brutale di un attacco con un’arma da taglio amplifica la paura tra i presenti e nei media, creando un forte effetto simbolico.
– Attacchi individuali: negli ultimi anni, molte organizzazioni terroristiche hanno incoraggiato attacchi individuali o “lupi solitari”. Gli attacchi con coltelli sono ideali per questo tipo di azioni, poiché richiedono una pianificazione minima e possono essere condotti da una sola persona, senza la necessità di una rete organizzativa complessa.
– Controllo delle armi: in molti Paesi, le leggi sulle armi da fuoco sono molto severe, rendendo difficile ottenere pistole o fucili. I coltelli, invece, sono meno regolamentati e possono essere acquistati legalmente quasi ovunque.
– Modello d’ispirazione: attacchi con coltelli di successo, come quelli avvenuti in diverse città europee negli ultimi anni, hanno ispirato altri estremisti a replicare questo tipo di azione, seguendo la narrativa che si tratti di un mezzo efficace e relativamente semplice per diffondere terrore. In sintesi, l’uso crescente di coltelli da parte dei terroristi è legato alla loro accessibilità, alla facilità d’uso, alla discrezione e all’efficacia nel creare panico e paura tra la popolazione (Molle, 2024).
3. Il profilo dei terroristi “europei”
Il terrorismo jihadista è un fenomeno a partecipazione prevalentemente maschile: su 295 attentatori il 97% sono di genere maschile (10 le donne); contrariamente al 2020, quando 3 attentatrici presero parte ad azioni terroristiche, il triennio 2021-2023 non ha visto la loro partecipazione diretta.
I terroristi (uomini e donne) identificati i cui dati anagrafici sono stati resi noti hanno un’età mediana di 26 anni: un dato che varia nel corso del tempo (dai 24 nel 2016, ai 30 nel 2019), registrando un aumento dell’età nell’ultimo periodo analizzato che ci consegnando un dato di 28,5 anni nel 2023. Lo studio del profilo dei 200 soggetti di cui abbiamo informazioni anagrafiche sufficienti ha consentito di definire un quadro molto interessante da cui emerge un dato del 7% di terroristi di età inferiore ai 19 anni (con una riduzione dei minori con il trascorrere del tempo), il 38% ha un’età compresa tra i 19 e i 26, il 41,5% tra i 27 e i 35 e, infine, il 13,5% è di età superiore ai 35 anni. Dati che confermerebbero un aumento dell’età media nel corso del tempo nella fascia 19-35 anni a fronte di una riduzione dei minori coinvolti in attacchi terroristici nello stesso periodi di tempo.
Il 93% dei soggetti che hanno portato a compimento un atto terroristico, di cui abbiamo informazioni complete, sono stati portati a termine da “immigrati” (prima, seconda e terza generazione), sia regolari che irregolari. Dei 155 su 237 terroristi analizzati attraverso il database START InSight, il 45% sono immigrati regolari di prima generazione; 28% sono discendenti di immigrati (seconda o terza generazione); gli immigrati irregolari sono il 26%: un dato, quest’ultimo, in crescita che passa al 25% nel 2020, raddoppia con un dato del 50% nel 2021 e cresce fino al 67% nel 2023, con ciò indicando un cambio significativo nella natura dei terroristi tra i quali aumenta la presenza di attentatori di prima generazione (complessivamente il 71% del totale di terroristi). Significativa è anche il dato riferito al 7% di cittadini di origine europea convertiti all’Islam (un dato in lieve flessione rispetto alla media degli anni precedenti). Complessivamente il 73% dei terroristi sono regolarmente residenti in Europa, mentre il ruolo degli immigrati irregolari si impone con un rapporto di circa 1 ogni 4 terroristi (il rapporto era 1:6 fino al 2020). Nel 4% degli episodi è stata riscontrata la presenza di bambini/minori (7) tra gli attaccanti, un dato che ha registrato una diminuzione.
La dimensione etno-nazionale dei terroristi in Europa Il fenomeno della radicalizzazione jihadista in Europa affligge maggiormente alcuni gruppi nazionali ed etnici specifici. Vi è un chiaro rapporto di proporzionalità tra i principali gruppi di immigrati e i terroristi, evidenziato dalla nazionalità dei terroristi o delle loro famiglie di origine, che rispecchia la dimensione delle comunità straniere in Europa. In particolare, prevale l’origine maghrebina: i gruppi etno-nazionali principalmente afflitti dall’adesione jihadista sono quelli marocchino (in particolare in Francia, Belgio, Spagna e Italia) e algerino (in Francia). Il fenomeno della radicalizzazione è stato particolarmente evidente in Belgio e Francia, dove comunità numerose di origine marocchina e algerina hanno visto un numero elevato di giovani aderire a gruppi jihadisti. In Francia, ad esempio, una parte significativa dei terroristi coinvolti negli attentati recenti proveniva da famiglie di origine algerina e marocchina, riflettendo la presenza storica e la dimensione di queste comunità nel paese (Bertolotti, 2023).
Recidivi e terroristi già noti all’intelligence Il ruolo dei recidivi è cresciuto con il trascorrere del tempo, e in conseguenze del loro rilascio dopo periodi di detenzione recentemente conclusi. Si tratta di individui già condannati per terrorismo che hanno portato a compimento azioni violente a fine pena detentiva e, in alcuni casi, anche all’interno delle strutture penitenziarie. Un dato che ci consegna un trend caratterizzato dal 3% di recidivi nel totale dei terroristi che hanno colpito nel 2018 (1 caso), al 7% (2) nel 2019, al 27% (6) nel 2020, al 25% (3) nel 2023. Questa situazione conferma la pericolosità sociale di individui che, seppur incarcerati, ritardano l’attuazione di azioni terroristiche. Questo fenomeno suggerisce un incremento della probabilità di attacchi terroristici nei prossimi anni, parallelamente al rilascio di molti detenuti per reati di terrorismo.
START InSight ha evidenziato una tendenza rilevante riguardo le azioni terroristiche compiute da individui già noti alle forze dell’ordine o ai servizi di intelligence europei. Nel 2021, questi casi rappresentavano il 44% del totale, mentre nel 2020 erano il 54%. Questo è un incremento significativo rispetto al 10% registrato nel 2019 e al 17% nel 2018. Un dato che, riferito al 2023, è cresciuto stabilizzandosi al 75%, di fatto confermando le ragioni di preoccupazione delle istituzioni deputate a contrasto del fenomeno violento. I soggetti con precedenti detentivi (anche per reati non associati al terrorismo) nel 2021 hanno confermato una certa stabilità nella partecipazione ad azioni terroristiche da parte di individui con un pregresso carcerario con un dato del 23% nel 2021, in lieve calo rispetto all’anno precedente (33% nel 2020) ma in linea con quello del 2019 (23% nel 2019, 28% nel 2018 e 12% nel 2017); un’evidenza che, pur a fronte di un dato riferito al 2023 decisamente inferiore (8%) confermerebbe l’ipotesi che identifica i luoghi detentivi come spazi di potenziale radicalizzazione e adesione al terrorismo.
4. Quale la reale capacità distruttiva del terrorismo?
Per comprendere il fenomeno del terrorismo in modo realistico, è fondamentale analizzarlo su tre livelli distinti: strategico, operativo e tattico. La strategia riguarda l’utilizzo delle risorse per raggiungere gli obiettivi di lungo termine della guerra. La tattica si concentra sull’uso delle forze in combattimento per ottenere vittorie specifiche in battaglia. Il livello operativo funge da collegamento tra i due, coordinando azioni tattiche per raggiungere gli obiettivi strategici. Questa sintesi, nella sua essenza, sottolinea l’importanza dell’impiego degli uomini nella condotta di azioni militari.
Il successo a livello strategico è marginale Diminuisce – passando dal 16% al 13% – il successo strategico delle azioni terroristiche, ossia l’ottenimento di risultati impattanti sul piano strutturale: blocco del traffico aereo/ferroviario nazionale e/o internazionale, mobilitazione delle forze armate, interventi legislativi di ampia portata. Un dato che è comunque da considerare come elevato, considerando il limitato sforzo organizzativo e finanziario da parte dei gruppi, o dei singoli attentatori terroristi. L’andamento nel corso degli anni è stato discontinuo, ma ha messo in evidenza una progressiva riduzione complessiva in termini di capacità ed efficacia: 75% di successo strategico nel 2014, 42% nel 2015, 17% nel 2016, 28% nel 2017, 4% nel 2018, 5% nel 2019, 12% nel 2020 e 6% nel 2021; dal 2022 il successo strategico non viene più ottenuto dagli attacchi terroristici; di fatto confermando un consolidato processo di normalizzazione del terrorismo.
Il trend dell’attenzione mediatica verso gli attacchi terroristici è in calo. A livello strategico, gli attacchi hanno ricevuto l’attenzione dei media internazionali nel 75% dei casi e il 95% a livello nazionale. Le operazioni organizzate dai commando e dai team-raid hanno ottenuto una copertura mediatica completa. Questo successo mediatico ha significativamente influenzato la campagna di reclutamento di aspiranti martiri o combattenti jihadisti, con un picco di reclutamento durante i periodi di maggiore intensità di azioni terroristiche (2016-2017). Tuttavia, l’effetto amplificatore dei media sul reclutamento tende a diminuire nel tempo per due principali motivi: in primo luogo, c’è stata una prevalenza di azioni a “bassa intensità” rispetto a quelle ad “alta intensità”, che sono diminuite, mentre le azioni a bassa e media intensità sono aumentate notevolmente dal 2017 al 2021, pur a fronte di un aumento significativo delle azioni a media intensità nel 2023. In secondo luogo, il pubblico è diventato gradualmente meno sensibile emotivamente alla violenza del terrorismo, specialmente per quanto riguarda gli eventi a bassa e “media intensità”.
Sebbene il livello tattico susciti preoccupazione, non è la priorità per il terrorismo. Partendo dal presupposto che l’obiettivo delle azioni sia provocare la morte del nemico (con le forze di sicurezza come bersaglio nel 35% dei casi), questo è stato raggiunto in media nel 50% dei casi tra il 2004 e il 2023. Tuttavia, l’ampio intervallo di tempo influisce significativamente sul margine di errore. L’analisi del periodo 2014-2023 mostra una tendenza al peggioramento degli effetti desiderati dai terroristi, con una prevalenza di attacchi a bassa intensità e un aumento delle azioni fallimentari, almeno fino al 2022, quando il successo tattico si stabilizza al 33%, coerentemente con i dati del 2016. Il 2023 è in controtendenza.
I dati degli ultimi sei anni evidenziano che nel 2016, il successo tattico è stato ottenuto nel 31% dei casi, con un 6% di atti fallimentari. Nel 2017, il successo è salito al 40%, con un tasso di fallimento del 20%. Nel 2018, il successo è sceso al 33%, mentre gli attacchi falliti sono raddoppiati al 42%. Nel 2019, il successo è ulteriormente calato al 25% per poi risalire al 33% nel 2020-2022. Questo andamento, che può essere interpretato come un duplice effetto della riduzione della capacità operativa dei terroristi e della maggiore reattività delle forze di sicurezza europee, ci consegna però un dato riferito al 2023 pari al 50% di azioni in grado di ottenere un successo tattico, ossia la morte di almeno un obiettivo.
Il vero successo è a livello operativo: il “blocco funzionale” Anche quando un attacco terroristico non riesce, produce comunque un risultato significativo: impegna pesantemente le forze armate e di polizia, distraendole dalle loro normali attività o impedendo loro di intervenire a favore della collettività. Inoltre, può interrompere o sovraccaricare i servizi sanitari, limitare, rallentare, deviare o fermare la mobilità urbana, aerea e navale, e ostacolare il regolare svolgimento delle attività quotidiane, commerciali e professionali, danneggiando le comunità colpite. Questo riduce efficacemente il vantaggio tecnologico e il potenziale operativo, nonché la capacità di resilienza. In generale, infligge danni diretti e indiretti, indipendentemente dalla capacità di provocare vittime. La limitazione della libertà dei cittadini è un risultato misurabile ottenuto attraverso queste azioni.
In sostanza, il successo del terrorismo, anche senza causare vittime, risiede nell’imporre costi economici e sociali alla collettività e nel condizionare i comportamenti nel tempo in relazione alle misure di sicurezza o limitazioni imposte dalle autorità politiche e di pubblica sicurezza. Questo fenomeno è noto come “blocco funzionale”. Nonostante la capacità operativa del terrorismo sia sempre più ridotta, il “blocco funzionale” rimane uno dei risultati più importanti ottenuti dai terroristi, indipendentemente dal successo tattico (uccisione di almeno un obiettivo). Dal 2004 a oggi, il terrorismo ha dimostrato di essere efficace nel conseguire il “blocco funzionale” nell’80% dei casi, con un picco del 92% nel 2020 e dell’89% nel 2021. Questo risultato impressionante, ottenuto con risorse limitate, conferma il vantaggioso rapporto costo-beneficio a favore del terrorismo, pur a fronte di una rilevata perdita progressiva di capacità che ha visto diminuire l’ottenimento del “blocco funzionale”, sceso al 78% nel 2022 e al 67% nel 2023.
5. La capacità di reclutamento e le strategie operative
Il gruppo Stato islamico, persa la sua capacità territoriale in Siria e Iraq (2013-2017), non ha più la forza di inviare i propri terroristi sul suolo europeo a causa della perdita della capacità di proiezione operativa diretta all’esterno; al contrario, il gruppo non avrebbe perso la potenzialità attrattiva, con ciò dimostrando di aver saputo sviluppare una capacità di reclutamento indiretto basato sul riconoscimento “postumo” degli individui che portano a compimento azioni terroristiche individuali di successo. Per queste ragioni la minaccia rimane significativa, proprio grazie alla presenza e all’azione di attori isolati, spesso improvvisati e spinti dall’emulazione e senza un legame diretto con l’organizzazione.
Mentre il gruppo dello Stato Islamico continua a imporsi su un piano ideologico come la principale minaccia jihadista, in particolare sfruttando il controllo territoriale e le disponibilità finanziarie del proprio franchise afghano Stato islamico Khorasan, è però assodato come sia incapace di riproporre il travolgente richiamo che ebbe il “califfato” nel periodo 2014-2017, poiché sarebbero venuti meno il vantaggio della novità, e di conseguenza l’appeal, che ne costituiva il punto di forza, in particolare nei confronti dei più giovani. Inoltre, sia dal punto di vista legislativo che sul piano operativo, l’Unione europea ha saputo ridurre in maniera rilevante le proprie vulnerabilità, sebbene con maggiore prevalenza in termini di contrasto al terrorismo rispetto all’azione preventiva.
Permangono, nel complesso segnali di preoccupazione legati agli effetti emulativi e alla “chiamata alla guerra” connessa a eventi sul piano internazionale in grado di indurre singoli soggetti ad agire in nome del jihad: l’evento più importante nel 2021, che ha dato e continuerà a dare un impulso agli effetti del jihad transnazionale è stata la vittoria dei talebani in Afghanistan che, da un lato ha alimentato la variegata propaganda jihadista attraverso il messaggio della “vittoria come risultato della lotta continua” e, dall’altro lato, ha dato vita a una forma di competizione dei “jihad” tra gruppi impegnati in forme di lotta e resistenza esclusivamente locali e chi, come lo Stato islamico, recepisce e propone il jihad esclusivamente come strumento di lotta a oltranza a livello globale. In tale dinamica competitiva si sono inserite le azioni associate alla guerra IsraeleHamas e all’appello jihadista a colpire attraverso azioni di violenza, in cui gli adepti dello Stato islamico e i musulmani votati alla causa di Hamas si sono contesi i successi sul campo di battaglia e la conseguente attenzione mediatica.
In tale quadro complessivo e in continua evoluzione, dobbiamo continuare a prestare attenzione alla forza jihadista nel continente africano, in particolare le aree dell’Africa sub-sahariana, il Sahel, il Corno d’Africa e, ancora, il Ruanda e il Mozambico, al fine di contrastare l’emergere in questo continente di nuovi “califfati” o “wilayat” che potrebbero minacciare direttamente l’Europa.
Nella prolifica propaganda jihadista, lo Stato Islamico si vanta della propria diffusione nel continente africano, in un rapporto di competizione collaborativa con il proprio franchise afghano, e pone in evidenza come l’obiettivo di contrastare la presenza e la diffusione del cristianesimo porterà il gruppo a espandersi in altre aree del continente. Se altrove, come nel Maghreb, nel Mashreq e in Afghanistan l’attività dello Stato islamico è incentrata sulla lotta settaria intra-musulmana, in Africa la sua presenza si è ormai impone come parte di un conflitto tra musulmani e cristiani, rafforzata da una propaganda che insiste sulla necessità di fermare la conversione dei musulmani al cristianesimo attuata attraverso i “missionari” e “il pretesto” degli aiuti umanitari. In tale quadro si inseriscono le violenze, i rapimenti e le uccisioni di religiosi missionari, attacchi contro le Organizzazioni non governative (Ong) e le missioni internazionali, dal Burkina Faso al Congo e, ancora, gli attacchi alle comunità cristiane.
6. Dal Nord Africa al Sahel: uno sguardo al terrorismo “mediterraneo”
Guardando al nord Africa, la regione continua ad affrontare le minacce di gruppi terroristici affiliati ad alQa’ida nel Maghreb islamico (AQIM); lo Stato Islamico; e i combattenti terroristi stranieri (FTF) che si sono recati in Iraq o in Siria. Il ritorno inosservato di questi reduci nei loro paesi d’origine dopo la sconfitta territoriale dello Stato islamico pone ulteriori sfide alla sicurezza. Inoltre, negli ultimi anni, attori solitari e piccole cellule hanno compiuto una serie di attacchi mortali in diversi Stati nordafricani e si sono dimostrati difficili da individuare.
Il Sahel sta diventando un nuovo centro del terrorismo jihadista, con un aumento significativo delle vittime in questa regione nel 2023, ma nel complesso, l’area MENA (Medio Oriente e Nord Africa) ha visto una diminuzione del 42% delle vittime negli ultimi tre anni. Il Nord Africa in particolare sta assistendo a una costante riduzione della violenza estremista, riportando il numero di attacchi violenti ai livelli pre-IS. Nel 2022, il Nord Africa ha registrato una diminuzione di 14 volte delle vittime rispetto al 2015, con il Marocco classificato come il paese più sicuro nella regione, mentre l’Egitto è tra i paesi più colpiti dal terrorismo. La Libia, l’Algeria e la Tunisia si collocano tra i due estremi con un impatto medio-basso del terrorismo.
Il Sahel e il Maghreb sono fortemente connessi politicamente, economicamente e in termini di sicurezza. La presenza di gruppi terroristici che sfruttano tensioni etniche, sfide climatiche e mancanza di servizi pubblici ha trasformato questa regione in un centro di attività jihadiste, con il rischio di diffondere la minaccia terroristica verso altre aree. L’instabilità nel Sahel ha già influenzato l’Africa occidentale e i paesi costieri del Golfo di Guinea, dove gruppi affiliati ad al-Qaeda sono attivi. Questa situazione potrebbe anche coinvolgere il Nord Africa, mettendo a rischio i progressi ottenuti in materia di prevenzione, antiterrorismo e de-radicalizzazione in alcuni paesi della regione.
Ora, guardando ai paesi del nord africa come paesi di emigrazione, ancora di più, come paesi di transito dei flussi migratori verso l’Europa, si pone la questione della possibile contaminazione jihadista o del suo trasferimento. Un ragionamento che impone di osservare l’evoluzione di un fenomeno in fase di evidente consolidamento e che trova nell’area mediterranea quella che è a tutti gli effetti un’inesauribile linfa vitale.
Claudio Bertolotti, è Dottore di ricerca (Ph.D.), Direttore Esecutivo di START, è stato dal 2014 al 2023 ricercatore senior presso “5+5 Defense Initiative”. Laureato in Storia contemporanea e specializzato in Sociologia dell’Islam, ha conseguito un dottorato in Sociologia e Scienza politica, con un focus sulle Relazioni Internazionali. Dal 17 aprile 2019 è Direttore Esecutivo di ReaCT – Osservatorio nazionale sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo (Roma-Milano-Lugano). Dal 30 settembre 2021 è membro del Comitato per i diritti umani e civili presso il Consiglio della Regione Piemonte. È autore, tra gli altri, di Gaza Underground: la guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas. Storia, strategie, tattiche, guerra cognitiva e intelligenza artificiale (START InSight, 2024), Immigrazione e terrorismo (START InSight, 2020), Afghanistan contemporaneo. Dentro la guerra più lunga (CASD, 2019), Shahid. Analisi del terrorismo suicida in Afghanistan (FrancoAngeli ed. 2010).
Bibliografia Bertolotti, C. (2024), Gaza Underground: la guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas. Storia, strategie, tattiche, guerra cognitiva e intelligenza artificiale, START InSight ed., Lugano. Bertolotti, C. (2023), L’evoluzione del terrorismo in Europa: terrorismo di sinistra, destra, anarchico, individuale, e il ruolo degli immigrati nel terrorismo jihadista all’interno dell’Unione Europea (Analisi di correlazione e regressione), in #ReaCT2023, 4° Rapporto sul Terrorismo e il Radicalismo in Europa, START InSight ed., Lugano, ISBN 978-88-322-94-18-7, ISSN 2813-1037 (print), ISSN 2813-1045 (online)
Pubblicato il Rapporto #ReaCT2024 sul terrorismo e il radicalismo in Europa
Introduzione di Claudio Bertolotti, Direttore dell’Osservatorio ReaCT
In qualità di Direttore dell’Osservatorio sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo (ReaCT), sono lieto, oltreché onorato, di presentare per il quinto anno consecutivo il nostro annuale prodotto di ricerca e analisi sul terrorismo e il radicalismo in Europa. Nel solco tracciato dai precedenti quattro numeri, #ReaCT2024 – 5° Rapporto sul radicalismo e il terrorismo in Europa è frutto dell’impegno e della costanza di ricercatori, accademici, professionisti che, con differenti approcci, metodi e punti di osservazione, collocandosi su un piano trasversale e multidisciplinare teso a definire le origini, le ragioni, i punti di forza e le vulnerabilità di un fenomeno poliedrico che la tradizionale metodologia analitica non è più in grado di collocare all’interno di definizioni che non siano meramente didascaliche o formali. È ormai consolidata l’evoluzione dei fenomeni di devianza sociale – così come anticipammo in maniera dettagliata e approfondita all’inizio del nostro percorso di ricerca ed editoriale a partire dal 2020 – che progressivamente si sovrappongono o si associano ai fenomeni di violenza radicale, sempre più a partecipazione individuale, emulativa con una rilevante ambizione “spettacolare”, rientranti in sfere ideologiche o identitarie dal crescente carattere “compartimentato”.
Il rapporto, coerentemente con il percorso sin qui tracciato, si propone come combinazione unica di rivista scientifica e volume collettivo, con contributi di vari autori, ricercatori e collaboratori che hanno dedicato il loro tempo, la loro esperienza e le loro conoscenze. A loro, indistintamente, va la gratitudine del board di ReaCT e mia personale, per il prezioso contributo di ricerca sul campo e per i loro immani sforzi intellettuali. Voglio altresì ringraziare il Ministero della Difesa italiano per aver confermato la stima e la fiducia nell’Osservatorio che dirigo concedendo il patrocinio agli eventi di presentazione del rapporto.
Quali risultati ci consegna la ricerca continua dell’Osservatorio?
Guardando agli ultimi cinque anni, nel più ampio contesto di un’evoluzione storica e operativa, da un punto di vista quantitativo l’incidenza degli attacchi terroristici di matrice jihadista si presenta lineare, con una percettibile diminuzione registrata negli ultimi anni, attestandosi ai livelli pre-fenomeno Isis/Stato islamico. Dal 2019 al 2023 sono stati registrati nell’Unione Europea, nel Regno Unito e in Svizzera 92 attacchi (12 sia nel 2023 che nel 2024 – dati al 30 settembre 2024), di successo e fallimentari: 99 quelli rilevati nel precedente periodo 2014-2018 (12 nel 2015). Sulla scia dei grandi eventi terroristici in Europa nel nome del gruppo Stato islamico, e successivamente in verosimile relazione con gli elementi galvanizzanti conseguenti alla presa del potere talebano in Afghanistan e all’appello del gruppo palestinese Hamas associato alla guerra contro Israele, sono stati registrate 194 azioni in nome del jihad dal 2014 al 2023, delle quali 70 esplicitamente rivendicate dallo Stato islamico. Nel 2023 sono state registrate 12 azioni jihadiste, coerenti con i dati del 2024 ma in lieve flessione rispetto ai 18 attacchi annuali del 2022 e 2021, e con un aumento significativo di azioni di tipo “emulativo”, ossia ispirate da altri attacchi nei giorni precedenti, che ha portato il dato ad attestarsi sui livelli elevati degli anni precedenti. Il 2023 e il 2024 hanno inoltre confermato un trend ormai consolidato nell’evoluzione del fenomeno, con una sostanzialmente esclusiva predominanza di azioni individuali, non organizzate, in genere improvvisate.
Il Rapporto, dopo la disamina storica e quantitativa del fenomeno terroristico, approfondisce poi il tema dello Stato Islamico Khorasan e la possibile minaccia rivolta all’Europa con particolare attenzione al jihad di ritorno dal Sahel al Nord Africa. Allargando il campo di osservazione, #ReaCT2024 si concentra sulle variabili del terrorismo e i caratteri delle manifestazioni antisistema rilevando la necessità di analizzare un fenomeno estremamente dinamico in funzione degli spazi di azione e, su un piano paradigmatico, di procedere urgentemente verso una nuova e condivisa definizione di terrorismo poiché da questa discendono gli strumenti legislativi e giudiziari di prevenzione e contrasto del fenomeno. Altro tema approfondito è quello del “terrorismo solitario” inteso come fenomeno molteplice e puntiforme grazie al ruolo giocato dai social network, dalle dinamiche collettive, dai cluster e dalle ondate e comunità online, a cui si associa l’evoluzione di forme di estremismi “giovani, autonomi ed emancipati”.
In tale contesto in costante evoluzione si inseriscono i fenomeni di radicalizzazione ed estremismo negli ecosistemi digitali fra nuove tecnologie e intelligenza artificiale, i discorsi d’odio digitali come precursori della violenza estremista che apre all’ipotesi suggestiva del “caos armato” a cui il Rapporto dedica un’ampia analisi con un focus sull’accelerazionismo militante, dall’estrema sinistra all’estrema destra.
Sul piano della prevenzione, ampio spazio viene dedicato all’analisi sulla RAN (Radicalization Awareness Network), attraverso un bilancio approfondito su successi, limiti e fallimenti in termini di policy e pratiche, ponendo l’accento sulla vexata quaestio: i radicali torneranno mai a de-radicalizzarsi?
Ampio spazio viene poi dedicato all’insorgere di nuovi estremismi portatori di istanze anti-democratiche, per poi invitare i lettori a riflettere sull’evoluzione dei fenomeni attraverso due casi studio specifici: il primo sulla prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo violento attraverso il contributo delle forze di sicurezza in Portogallo; il secondo sulla sistematica discriminazione di genere in Afghanistan sotto il governo islamista dei talebani, teorizzando la sistematicità di un’apartheid di genere. In conclusione, anche il contributo di quest’anno ha voluto confermare l’ambizione dell’Osservatorio di essere testimonianza della forza e della dedizione della nostra comunità di studiosi e operatori nella lotta in corso contro l’evolvere dei fenomeni di devianza sociale violenta, dei radicalismi e dei terrorismi. Auspico, in qualità di Direttore dell’Osservatorio, che i risultati e le suggestioni contenute in questo Rapporto contribuiscano sempre più a una migliore comprensione dell’evoluzione della minaccia dei terrorismi in Europa e servano come appello all’azione per tutti i soggetti interessati a lavorare insieme ai fini della prevenzione e del contrasto agli estremismi violenti.
Grazie ancora a tutti gli Autori che, con il loro encomiabile lavoro, hanno contribuito ancora una volta alla realizzazione di #ReaCT2024. Un ringraziamento speciale va, come sempre, a START InSight, che ha consentito la pubblicazione e la distribuzione internazionale del nostro rapporto annuale. Infine, un doveroso ricordo al nostro amico Marco Cochi, ricercatore serio e capace, prematuramente scomparso.
Radicalizzati a 11 anni. È possibile?
Dopo la segnalazione di un caso nella Svizzera francese, il Presidente di START InSight Chiara Sulmoni ha parlato del tema con i servizi info della Radiotelevisione svizzera di lingua italiana.
Intervista a cura della giornalista Francesca Calcagno, SEIDISERA, 6 settembre 2024 (approfondimento radio)
Hamas è strutturata su una serie di organi direttivi che svolgono varie funzioni politiche, militari e sociali. L’autorità in capo, responsabile dell’agenda politica e strategica del movimento, appartiene al consiglio della shura di Hamas, l’organo di leadership al vertice della catena organizzativa di comando,[1] che opera in esilio. Tuttavia, le operazioni quotidiane del gruppo rientrano nell’ambito del bureau politico, così come le operazioni militari fanno capo più specificamente al braccio militare del gruppo, le brigate Izz ad-Din al-Qassam, organo che gode di un alto grado di autonomia operativa.[2] I comitati locali gestiscono le questioni di base a Gaza e in Cisgiordania.
Quali sono i leader più importanti di Hamas a cui Israele dà la caccia? Tre i soggetti chiave del movimento: Khaled Meshaal, ex capo politico del movimento e ora capo ufficio politico estero, Yahya Sinwar, capo dell’ala militare di Hamas e Ismail Haniyeh, capo dell’ufficio politico del gruppo a Gaza, ucciso da Israele il 30 luglio 2024 in Iran, nella sua residenza di Teheran, a seguito di un probabile raid aereo con droni.
Storia, pregresso e ruolo politico di Ismail
Haniyeh
Ismail Haniyeh[3], conosciuto anche come Isma’il Haniyyah e Ismail Haniya, assurse al ruolo di primo ministro dell’Anp in seguito alla vittoria elettorale di Hamas del 2006; dopo i violenti scontri tra fazioni con la rivale Fatah, che portarono alla dissoluzione del governo e all’istituzione di un’amministrazione autonoma guidata da Hamas nella Striscia di Gaza, Haniyeh assunse il ruolo di leader del governo de facto nella Striscia (2007-14) e, nel 2017, fu scelto per sostituire Khaled Meshaal come capo dell’ufficio politico.
Figlio di genitori arabi palestinesi sfollati dal loro villaggio vicino ad Ashqelon (in quello che oggi è Israele) nel 1948, Haniyeh nacque nel 1962 nel campo profughi di Al-Shati’, Striscia di Gaza, dove trascorse i primi anni della sua vita. Come per la maggior parte dei minori rifugiati, Haniyeh fu educato nelle scuole gestite dall’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (Unrwa). Nel 1981 si iscrisse all’Università islamica di Gaza, dove studiò letteratura araba e iniziò l’attivismo politico studentesco, guidando un’associazione islamista affiliata ai Fratelli Musulmani. Quando Hamas si formò, nel 1988 Haniyeh era tra i suoi membri fondatori più giovani, avendo sviluppato stretti legami con il leader spirituale del gruppo, lo sceicco Ahmed Yassin. Haniyeh fu arrestato dalle autorità israeliane nel 1988 e imprigionato per sei mesi per la sua partecipazione alla Prima intifada. Arrestato di nuovo nel 1989, rimase in prigione fino a quando Israele lo deportò nel sud del Libano nel 1992 insieme a circa quattrocento altri islamisti. Tornò poi a Gaza nel 1993, in seguito agli accordi di Oslo, e fu nominato decano dell’Università islamica.
Il ruolo di leadership di Haniyeh in Hamas si radicò nel 1997, quando fu nominato segretario personale di Yassin, divenendone uno stretto confidente. I due furono bersaglio di un primo fallito tentativo di assassinio da parte di Israele nel 2003; una seconda operazione mirata israeliana portò alla morte di Yassin pochi mesi dopo. Nel 2006 Hamas partecipò alle elezioni legislative palestinesi, con Haniyeh in testa alla lista. Il gruppo ottenne la maggioranza dei seggi in parlamento e Haniyeh divenne primo ministro dell’Anp. La comunità internazionale reagì alla leadership di Hamas congelando gli aiuti all’Autorità Palestinese, con ciò mettendo a dura prova l’organo di governo. Nel giugno 2007, dopo mesi di tensione e un violento conflitto armato tra le fazioni, il presidente Mahmoud Abbas del partito Fatah destituì Haniyeh e ne sciolse il governo. La conseguenza fu l’istituzione di un governo autonomo guidato da Hamas nella Striscia di Gaza, con Haniyeh a capo della compagine governativa. Poco dopo, Israele attuò un pacchetto di sanzioni e restrizioni alla Striscia di Gaza, con il supporto e la collaborazione dell’Egitto.
Nel gennaio 2008 un attacco con decine di razzi venne lanciato dalla Striscia di Gaza verso Israele; come pronta risposta Israele intensificò il suo blocco. Ciononostante, Hamas mantenne il controllo della Striscia di Gaza e il suo governo oscillò tra occasionali successi politici e battute d’arresto. Per quanto riguarda l’ottenimento di concessioni da Israele, Hamas ottenne il rilascio di oltre mille prigionieri palestinesi detenuti da Israele in cambio del soldato israeliano rapito Gilad Shalit. Un altro successo presentato all’opinione pubblica palestinese fu la performance di Hamas nella guerra contro Israele nell’estate del 2014 sebbene, a causa del blocco, le condizioni di vita all’interno della Striscia stessero progressivamente peggiorando. Nel frattempo, ci furono una serie di tentativi di riconciliazione tra Hamas nella Striscia di Gaza e l’Autorità Palestinese guidata da Fatah in Cisgiordania. In uno di questi tentativi, nel 2014, il governo di Hamas si dimise formalmente per far posto a un governo di unità nazionale con Fatah. Così facendo, Haniyeh rinunciò al suo incarico di primo ministro pur mantenendo quello di capo politico locale, fino a quando non venne sostituito da Yahya Sinwar nel 2017. Dopo pochi mesi, Haniyeh venne eletto capo dell’ufficio politico di Hamas, in sostituzione di Khaled Meshaal.
Nel dicembre 2019 Haniyeh lasciò la Striscia
di Gaza, trasferendosi all’estero, tra Turchia e Qatar, facilitando la sua capacità di rappresentare Hamas
all’estero. Tra le sue visite più importanti si citano il funerale di
Qassem Soleimani, un alto comandante del Corpo delle guardie rivoluzionarie
islamiche iraniane (Irgc) ucciso da un attacco di droni statunitensi nel gennaio 2020, l’insediamento del presidente
iraniano Ebrahim Raisi nell’agosto 2021 e il suo funerale il 23 maggio 2024.
Nello stesso anno, mentre le truppe statunitensi si ritiravano
dall’Afghanistan, Haniyeh chiamò il capo dell’ufficio politico e negoziatore
dei talebani, Abdul Ghani Baradar, per congratularsi con lui per il successo
nell’aver posto termine all’occupazione statunitense nel Paese. Nell’ottobre
2022 Haniyeh incontrò il presidente siriano Bashar al-Assad; quello fu il primo
incontro tra i leader di Hamas e
della Siria dalla rottura all’inizio della guerra civile nel 2011. In un raid israeliano a Gaza, il 10
aprile 2024, morirono tre dei suoi figli; un altro era morto in un precedente
attacco israeliano il 17 ottobre 2023.
Mahmoud Zahar: il
possibile sostituto di Ismail Haniyeh
La decisione di nominare il nuovo capo politico di Hamas spetta al consiglio della shura del movimento. Molto dipenderà dai nuovi equilibri politici determinati dal peso della rinforzata leadership militare che guida le brigate di HamasIzz ad-Din al-Qassam nella Striscia di Gaza.
Mahmoud Zahar è considerato uno dei leader più importanti di Hamas e membro della leadership politica del movimento: è uno dei principali candidati a sostituire Ismail Haniyeh. Frequentò la scuola a Gaza e l’università al Cairo, per poi lavorare come medico a Gaza e Khan Younis, fino a quando le autorità israeliane lo licenziarono in relazione al suo ruolo politico. Detenuto nelle carceri israeliane nel 1988, nel 1992 fu tra i deportati da Israele nella terra di nessuno, in Libano, dove vi trascorse un anno. Con la vittoria di Hamas alle elezioni del 2006, Zahar entrò a far parte del Ministero degli Affari Esteri nel nuovo governo del primo ministro Ismail Haniyeh.[4] Israele tentò di eliminarlo nel 2003, quando un aereo bombardò la sua casa nella città di Gaza. Sopravvisse all’attacco, nel quale però morì il figlio maggiore, Khaled. Il suo secondo figlio, Hossam, che era un membro delle brigate Izz ad-Din al-Qassam, venne ucciso in un successivo attacco aereo a Gaza nel 2008.
[1] Berti B. (2013), Armed Political
Organizations: From Conflict to Integration, Johns Hopkins University Press.
[2] Hroub K. (2010), Hamas: A
Beginner’s Guide, London: Pluto Press.
[3] C. Bertolotti (2024),
Gaza Underground: la guerra sotterranea e
urbana tra Israele e Hamas: Storia, strategie, tattiche, guerra cognitiva e
intelligenza artificiale, START InSight ed., Lugano, pp. 40-44.
[4] C. Bertolotti (2024),
Gaza Underground: la guerra sotterranea e
urbana tra Israele e Hamas: Storia, strategie, tattiche, guerra cognitiva e
intelligenza artificiale, START InSight ed., Lugano, p. 40-44.
IL RAN: ieri, oggi e domani. La rete europea per le pratiche di prevenzione e l’Italia: un bilancio tra luci ed ombre
di Luca Guglielminetti, RAN Ambassador for Italy
QUESTO ARTICOLO APPARIRÀ NEL RAPPORTO #REACT2024 SUL TERRORISMO E IL RADICALISMO IN EUROPA, ATTUALMENTE IN CORSO DI LAVORAZIONE. VIENE QUI ANTICIPATO IN OCCASIONE DELLA CHIUSURA DELLE ATTIVITÀ DEL RADICALISATION AWARENESS NETWORK (RAN).
Quest’anno terminerà l’attività del “Radicalisation Awareness Network – RAN”, la rete europea per le pratiche di prevenzione istituita nel 2011 della DG Home della Commissione Europea, che sarà sostituito dall’ “EU Knowledge Hub on Prevention of Radicalisation”. È quindi tempo per un bilancio di questa esperienza, in particolare nel nostro paese, e di aprire un dibattito sul futuro e il consolidamento di queste politiche e pratiche atte a prevenire e contrastare la radicalizzazione che porta all’estremismo violento e al terrorismo (P/CVE). Politiche e pratiche che implicano una impegnativa e fattiva collaborazione tra attori, ambiti e approcci diversi, come quelli della sicurezza e della resilienza, della repressione e della costruzione di fiducia, della segretezza e della trasparenza, della giustizia retributiva e di quella riparativa, delle istituzioni statali e della società civile, delle autorità nazionali e di quelle locali, dei mass-media e dell’accademia, degli ex terroristi e delle vittime. Esemplificativi binomi che già singolarmente rappresentano delle sfide tutt’altro che risolte e che talvolta, in tutta Europa, hanno indotto dispute, anche aspre, verso queste politiche e pratiche. Tuttavia, almeno le pratiche di P/CVE, sono ormai sedimentate anche in Italia. Il punto è se in futuro si riuscirà a passare dall’attuale stato di frammentazione a quello di una loro valorizzazione strategica.
1. COSA È IL RAN
Poiché l’Italia, come vedremo nel secondo
capitolo, è uno di pochissimi Stati Membri dell’Unione Europea (EU) a non aver
adottato una strategia o una legislazione nazionale in materia di P/CVE, è
opportuno iniziare presentando cosa sia e come funzioni il Radicalisation
Awareness Network (RAN), a beneficio di chi non lo conoscesse[1].
Il Radicalization Awareness Network, in breve
RAN, è una rete europea orientata alla pratica per la prevenzione dei fenomeni
di estremismo violento e terrorismo con oltre 6.000 partecipanti. Il RAN è stato
lanciato nel 2011 dalla Commissione Europea ed è da questa finanziata al 100%.
Dal punto di vista organizzativo, ha sede presso il Dipartimento per la
Migrazione e gli Affari Interni (DG HOME) della Commissione Europea, ma la sua
attività è implementata e coordinata, per conto della Commissione EU, da un
consorzio che ogni 4 anni è stato rinnovato con gara d’appalto.
Lo scopo delle varie attività e offerte dal RAN è quello di creare reti e scambiare informazioni tra esperti provenienti da diversi settori della pratica di prevenzione e da diversi paesi per prevenire e combattere l’estremismo violento. L’obiettivo è raccogliere conoscenze empiriche e pratiche, insieme a nuove scoperte scientifiche, e renderle disponibili agli operatori professionali, attraverso i seguenti nove gruppi di lavoro:
• Comunicazione e narrazioni (RAN C&N) è focalizzato sugli sviluppi e le tendenze nella comunicazione estremista online e offline, nonché sui modi per contrastarle
• Gioventù ed educazione (RAN Y&E) è incentrato sul rafforzamento degli insegnanti e del settore dell’istruzione nella gestione della radicalizzazione
• Riabilitazione (RAN REHABILITATION) si concentra sui programmi di deradicalizzazione e di uscita, nonché sui servizi di risocializzazione all’interno e all’esterno del carcere
• Famiglie, comunità e assistenza sociale (RAN FC&S) affronta il modo migliore per sostenere i giovani, le famiglie e i gruppi etnici o religiosi che si trovano ad affrontare la radicalizzazione o che potrebbero essere particolarmente vulnerabili
• Autorità Locali (RAN LOCAL) è focalizzato sullo scambio di approcci e strategie che coinvolgono diversi attori locali che perseguono il coordinamento della prevenzione nella sicurezza urbana
• Carcere (RAN PRISONS) è incentrato sull’analisi dell’impatto dei sistemi carcerari, dei programmi di reinserimento e d’intervento mirati ai terroristi condannati
• Polizia e forze dell’ordine (RAN POL) identifica approcci di polizia efficaci, tra cui la formazione, l’uso dei social media e la creazione di fiducia e approcci basati sulle relazioni per lavorare con famiglie, comunità, ambienti e quartieri
• Vittime/sopravvissuti al terrorismo (RAN VoT) mantiene una rete di vittime del terrorismo interessate alle attività di P/CVE e organizza la Giornata europea della memoria e del ricordo delle vittime del terrorismo l’11 marzo di ogni anno
• Salute mentale (RAN HEALTH) sensibilizza gli operatori sanitari e sociali sul loro ruolo nell’identificazione e nel sostegno delle persone a rischio di radicalizzazione
La partecipazione ai gruppi di lavoro funziona
attraverso pubblici bandi ai quali gli interessati possono candidarsi e la loro
selezione avviene sulla base della competenza, dell’esperienza operativa e del
paese d’origine. Gli incontri sono sempre interattivi, orientati all’esempio,
all’esperienza e alla pratica. Dopo ogni incontro vengono pubblicati i
cosiddetti documenti conclusivi con i risultati principali.
Il RAN pubblica non solo i risultati degli incontri ma anche paper che forniscono informazioni sulle novità della ricerca e delle politiche sui temi della radicalizzazione, dell’estremismo, del terrorismo e della prevenzione. In questo modo divulga le conoscenze pratiche, anche attraverso una collezione di pratiche nei vari paesi europei, agli esperti ed operatori, coinvolti o meno nella rete, aiutandoli a migliorare il proprio lavoro.
I focus tematici principali della rete e gli
argomenti dei gruppi di lavoro sono sviluppati nel Comitato di Pilotaggio del
RAN in combinazione con sondaggi online inviati ai partecipanti e alla
all’incontro plenario annuale del RAN.
Nel corso del tempo si sono aggiunte ulteriori
articolazione della rete: nel 2016 “RAN Young”, dedicato giovani europei
coinvolti delle attività di prevenzione; il “Poll of Experts” per la scrittura
dei “RAN papers” e la revisione delle pratiche collezionate; il programma CSEP
indirizzato a finanziare campagne di comunicazione della società civile per
contrastare le propagande estremiste. Nel 2021, è stata creata una seconda
sezione della rete, “RAN Policy Support”, dedicata principalmente ai decisori
politici e ai responsabili negli Stati membri, differenziandosi da “RAN
Practitioners” che ha mantenuto la pregressa natura di rete di operatori
professionali che lavorano sul campo. Inoltre, sempre nel 2021, una ulteriore
articolazione è costituita da “RAN in the Western Balkans” con l’obiettivo di
sostenere la prevenzione della radicalizzazione in una regione particolarmente
vulnerabile. Infine, sono stati nominati dei “RAN Ambassador”, per alimentare
la conoscenza della rete negli Stati Membri della UE.
Anche la comunicazione del RAN si è sviluppata nel tempo. Dal solo sito web di presentazione con i gruppi di lavoro, i paper e la raccolta di “Inspiring Practices”, si sono aggiunti via via i canali sui principali social network, la newsletter, i video e i podcast, le infografiche, i webinar e una rivista trimestrale, “RAN Spotlight”, che in ogni numero presenta un argomento diverso.
2. IL RAN E L’ITALIA: EVOLUZIONI E PRIME VALUTAZIONI
Questa seconda parte è in gran parte in forma
di testimonianza perché il sottoscritto si è trovato, come unico italiano, ad
aver seguito il RAN fin dalla sua fase di progettazione, quando cioè la DG HOME
stava svolgendo incontri con gli stakeholders nella prima metà del 2011. Ero allora parte interessata allo sviluppo di
questa nuova rete in quando, nei cinque anni precedenti, avevo seguito i lavori
di un’altra rete promossa dalla Commissione Europea: quella delle associazioni
delle vittime del terrorismo (NAVT)[2].
Nel 2005 le strategie europee di lotta al
terrorismo iniziarono a inserire in agenda il tema della radicalizzazione
violenta e la sua prevenzione. Queste strategie, e in particolare il Programma
di Stoccolma per il periodo 2010-2014[3],
pur riconoscendo che le azioni contro la radicalizzazione e il terrorismo
rientrano principalmente nelle competenze e le responsabilità degli Stati
membri dell’Unione europea, rilevava l’importanza e il valore aggiunto sia di
creare una struttura a livello Europeo, sia di sviluppare un ruolo attivo della
società civile, delle comunità e amministrazioni locali. Tale struttura prese
la forma del RAN che nel settembre 2011 a Bruxelles fu pubblicamente lanciata
alla presenza della Commissaria europea per gli affari interni, Cecilia
Malmström. Era l’anno dell’incerta Primavera araba, ma in sala era ancora forte
l’eco delle stragi di Anders Breivik a Oslo e sull’isola di Utøya.
Nell’occasione fu subito chiaro il principale
iato esistente tra paesi europei nell’approccio culturale alla sicurezza. I
paesi nordici puntavano sul fatto di prevenire che un individuo giungesse a
forme di devianza sociale che lo portasse a diventare un criminale; mentre nei
paesi del sud Europa, come il nostro, l’approccio era incentrato sul fatto di
prevenire che un certo crimine avvenisse. Fu il Regno Unito e le politiche del
suo programma “Prevent”[4],
maturato in seguito agli attentati di Londra del 7 luglio 2005, a fornire alla
Commissione Europea il know-how per un approccio ‘olistico’ che integrasse la
prevenzione della radicalizzazione con la prevenzione dell’atto terroristico.
PRIMO CICLIO: 2012-2015
Nel corso del primo ciclo del RAN, tra il 2012
e il 2015, coordinai, con un collega francese[5],
il gruppo di lavoro sulla “voce delle vittime del terrorismo”, partecipando
anche agli incontri del Comitato di Pilotaggio, a quelli di altri gruppi di
lavoro, alle plenarie annuali e alle due Conferenze di alto livello che allora
la DG HOME organizzava per promuovere i risultati del RAN ai decisori politici
degli Stati membri della Ue.
Nel corso del primo Comitato di Pilotaggio del
RAN, fummo informati che la Commissione Europea avrebbe inserito il tema della
prevenzione della radicalizzazione in pressoché tutti i sui programmi e bandi a
progetto: da quelli educativi e culturali, a quelli di ricerca e sviluppo, da
quelli su sicurezza e giustizia, a quelli per la cittadinanza e la promozione
sociale.
Una prima valutazione giunge da questa scelta
che fu veramente strategica perché, almeno in Italia, da quel periodo in poi,
le opportunità di finanziamento dei bandi europei portò il tema della
prevenzione della radicalizzazione all’attenzione di università, di autorità
nazionali e locali, e delle organizzazioni della società civile, con una
modalità forse più efficace del RAN[6].
L’aspetto certamente più innovativo del RAN fu
il suo modus operandi. L’intento della Commissione era quello di far delineare
le politiche e le pratiche in materia di P/CVE agli operatori che lavorano sui
terreni della prevenzione, tramite i “RAN paper” e la collezione di pratiche
del RAN, per poi promuoverli ai vertici politici degli Stati membri in
occasione delle conferenze “High Level”. Un circolo virtuoso dal basso verso
l’alto per ottimizzare l’efficacia di politiche e pratiche di cui beneficiarono
molto paesi europei che in quegli anni si andarono dotando di strategie
nazionali in materia di P/CVE.
Il numero di partecipanti italiani al RAN era
allora di poche decine, a fronte dei 2000 raggiuti nel primo ciclo in tutta la
Ue. Del resto, in quel periodo, lo stesso termine radicalizzazione,
nell’accezione qui utilizzata[7],
era riservato agli addetti del comparto sicurezza, ma completamente alieno ai
mezzi di comunicazione italiani, così come ai nostri decisori politici. Ciò nonostante, in occasione del seminario
finale del primo progetto italiano di prevenzione nelle scuole,
“Counter-narrative to Counter-terrorism (C4C)”, che organizzai a Torino del
Novembre 2014[8], con gli
italiani del RAN provammo a gettare le basi di un “RAN Italia”, stilando un
documento e aprendo interlocuzioni con il Ministero della Giustizia, il cui
Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria aveva avviato da qualche anno l’attività di formazione
del personale penitenziario in tema di radicalizzazione[9].
Il RAN allora offriva, infatti, assistenza e supporto agli Stati Membri della
Ue per la creazione di reti nazionali sul tema, dietro semplice richiesta via
email di un ministero. Quell’email non fu mai inviata.
SECONDO CICLIO: 2016-2019
Il secondo ciclo del RAN, tra il 2016 e il 2020,
sembrò aprire una svolta per l’Italia. Il conflitto siro-irakeno stava
raggiungendo il culmine di ripercussioni anche sul terreno europeo, a partire
dall’attentato alla redazione di Charlie Hebdo e poi, al suo declino, avrebbe
lasciato il gravoso problema dei foreign-fighters e le loro famiglie di ritorno
in Europa.
L’eco dell’attentato parigino del 7 gennaio
2015 aprì anche in Italia il tema della prevenzione della radicalizzazione e
per la prima volta mi capitò di rilasciare un’intervista sul RAN e i
finanziamenti europei relativi. Non penso sia causale il fatto che sia stato il
quotidiano cattolico Avvenire a prendere l’iniziativa[10].
Allora non coordinavo più un gruppo di lavoro, ma ero entrato nel Pool di
esperti del RAN e il titolo, annunciato dall’occhiello “Gli esperti
denunciano”, era: “La Rete Ue anti-radicalismo. Ma l’Italia è in ritardo”[11].
Nell’intervista sottolineai come nel nostro paese il terrorismo restasse una
questione solo securitaria di polizia ed intelligence, senza aprirsi all’uso
del “soft power” delle politiche europee di P/CVE. Seguirono altre interviste e
interventi sui media nazionali, ma questa prima mi condusse a Stefano Dambruoso,
a sua volta intervisto nello stesso articolo.
L’allora ex magistrato di prestigio
internazionale per la sua inchiesta su al Qaeda in Europa già prima dell’11
Settembre, e parlamentare al lavoro sul nuovo decreto antiterrorismo – poi convertito
nella legge 17 aprile 2015, n. 43 – era convito sostenitore che, insieme all’inasprimento
penale, servisse far seguire anche il lavoro educativo di prevenzione della
radicalizzazione. Convincimento che ebbe esito in una proposta di legge
intitolata “Misure per la prevenzione della radicalizzazione e dell’estremismo
jihadista”[12], di cui
fu primo firmatario insieme all’on. Andrea Manciulli.
Nell’estate del 2016 iniziarono
parallelamente, da una parte, la discussione e poi le audizioni della proposta
di legge Dambruoso-Manciulli alla commissione Affari Costituzionali della
Camera; e dell’altra, ad agosto, fu istituita, promossa dall’allora Sottosegretario
agli Interni, Marco Minniti, una commissione di studio indipendente sul fenomeno
della radicalizzazione jihadista presieduta da Lorenzo Vidino, cioè il primo
ricercatore ad aver lavorato sulla dimensione italiana del fenomeno jihadista[13].
Ho avuto occasione di collaborare con entrambe
le commissioni e quindi osservare gli eventi da vicino. L’inizio del 2017 si
aprì – il 5 gennaio – con la conferenza stampa da Palazzo Chigi del nuovo
presidente del Consiglio dei Ministri, Paolo Gentiloni, del ministro agli Interni
Minniti e da Lorenzo Vidino che presentarono il risultato dei lavori della
Commissione. Il paradosso di quell’operazione è che non ci furono documenti
pubblici. La relazione finale della Commissione, che contiene, nella sua
seconda parte operativa e per la prima volta in italiano, la descrizione dettagliata
delle politiche e degli approcci promosse dal RAN, comprese le poche attività
svolte a livello locale dai suoi membri italiani, viene secretata e, i giorni
seguenti, venne distribuito per i giornalisti solo un breve sunto assai generico.
Si giunse così al paradosso che, mentre la Camera dei Deputati nei mesi a
venire avrebbe discusso e approvato una proposta di legge in materia, il
documento governativo che avrebbe potuto informare i parlamentari
sull’argomento fu loro precluso, essendo stato fatto divieto ai membri della
Commissione Vidino di distribuirla a chicchessia, poiché, nella sua prima
parte, conteneva dati ministeriali riservati.
Come noto, la proposta di legge
Dambruoso-Manciulli fu approvato solo alla Camera dei Deputati e la fine di
quella legislatura avvenne poco prima della sua approvazione al Senato. Nella
legislatura successiva (2018-2022), il testo riproposto a prima firma dell’on.
Fiano nel 2018 – poi unificato ad analoga proposta a firma dell’on. Perego di
Cremnago nel testo unificato: “Misure per la prevenzione dei fenomeni eversivi
di radicalizzazione violenta, inclusi i fenomeni di radicalizzazione e di
diffusione dell’estremismo violento di matrice jihadista (A.C. 243-3357-A)[14]
– non ebbe miglior fortuna.
L’esito delle vicende legate a queste proposte
di legge è stato quello di rendere l’Italia uno dei pochissimi paesi europei
senza una legislazione nazionale o una strategia in materia di prevenzione della
radicalizzazione. Tuttavia, il dibattito intorno a quel tentativo si è fin da
subito posto, tra gli addetti ai lavori, in termini di merito. La proposta di
legge aveva dei limiti, a partire dal parziale recepimento dei risultati della
Commissione Vidino, che inducevano alcuni, tra i quali il sottoscritto, a
domandarsi se la sua approvazione fosse utile o meno. Uno dei limiti principali
era il fatto che il testo fosse focalizzato solo sulla radicalizzazione di
matrice jihadista[15].
Il secondo che avesse comunque un impianto securitario che ancorava le attività
al Ministero degli Interni e alle Prefetture in sede locale; quando, in quasi
tutta Europa, il perno operativo delle attività di P/CVE più efficaci erano le
autorità locali, a partire dal famoso modello della città danese di Aarhus, per
passare alle “safety-house” delle città olandesi, o ai centri di prevenzione
dei lander tedeschi e quelli cittadini di Belgio e Regno Unito. Fu da questa
considerazione, e dall’impasse nel 2014 di avviare una rete nazionale (“RAN
Italia”) con i ministeri, che nel 2016 ebbero origine i tentativi di avviare
delle reti di prevenzione locali nelle città di Torino, Milano ed Udine da
parte dei partecipanti italiani del RAN. Delle tre città solo a Torino, dopo
alcuni anni di incontri informali tra amministrazione cittadina, forze
dell’ordine, amministrazione penitenziaria e organizzazioni della società civile,
si giunse nel 2020 all’istituzione di un Tavolo di lavoro sulla prevenzione degli
estremismi violenti e all’approvazione di linee guida operative[16]
che seguivano gli approcci del RAN.
I quegli anni l’attenzione sui temi si diffuse,
come già sottolineato, grazie soprattutto ai progetti europei, condotti o
partecipati da partner italiani, nei vari ambiti di prevenzione della
radicalizzazione: dalle scuole alle carceri; dai settori della sicurezza urbana,
a quelli della resilienza delle comunità religiose; dallo sviluppo di campagne
di comunicazione contro la propaganda on line, a quello delle competenze alla
cittadinanza delle nuove generazioni. L’esito di questi progetti europei, oltre
a un moltiplicarsi di convegni, seminari e pubblicazioni anche in lingua
italiana[17], è
stato un’ampia attività di formazione verso i tutti settori coinvolti nel
fenomeno: le polizie locali, i docenti delle scuole, gli attivisti e i
volontari del terzo settore, gli operatori penitenziari, i garanti dei diritti
dei detenuti, le guide spirituali religiose.
Ci fu poi un incremento significativo di
partecipanti italiani al RAN e quando nel 2016 viene lanciato “RAN Young”, il
sottoscritto può segnalare decine di giovani italiani interessati a parteciparvi.
Anche l’ambito accademico italiano sviluppò un
interesse per il tema sempre più ampio. Nascono alla fine dello scorso decennio
due master universitari a Bergamo e Bari focalizzati sui fenomeni di terrorismo
e radicalizzazione[18].
Sia i progetti europei del programma Horizon che quello del Ministero
dell’Istruzione, dell’università e della ricerca, come PriMED[19],
avvicinano decine di professori e ricercatori di diverse discipline alle
riflessioni e alle pratiche di prevenzione e contrasto della radicalizzazione.
TERZO CICLIO: 2020-2023
Il terzo ciclo del RAN, tra il 2020 e il 2023,
è stato caratterizzato principalmente dallo sviluppo degli strumenti di
comunicazione esterna del RAN e dalla creazione del secondo ramo dedicato al
supporto ai decisori politici. Naturalmente sono entrati in agenda i nuovi temi
legati alle forme di radicalizzazioni connesse alla pandemia da Covid19 e le
relative derive estremiste, populiste e antisistema dalle cornici ideologiche
sempre più fluide.
Il numero di partecipanti, anche italiani, è continuato
a crescere, ma molti incontri si svolgevano ormai a distanza via “call-conference”,
con una minore efficacia in termini di networking. Inoltre, la separazione
troppo netta tra le attività dell’ambito operativo (“RAN Practitioners”) e
quello politico (“RAN Policy Support”) creava uno iato di comunicazione e
coordinazione piuttosto controproducente. In questo quadro è significativo il
cortocircuito verificatosi con l’introduzione nel 2020 dei “RAN Ambassadors”
per alcuni Stati membri. Selezionati, come il sottoscritto per l’Italia, tra i “practitioners”
per diffondere i risultati del RAN, ma inabilitati a mantenere relazioni con il
contesto politico-istituzionale nel proprio paese.
Infine, l’esempio torinese del Tavolo di lavoro e delle Linee guida per un approccio locale alla P/CVE, ufficializzato nel 2020, non diventerà mai operativo per mancanza di fondi.
3.VALUTAZIONI FINALI E PROSPETTIVE
UN KNOW-HOW A RISCHIO
Abbiamo visto come le politiche europee in
materia di prevenzione e contrasto all’estremismo violento abbiano avuto due
strumenti principali: il RAN e i programmi con i loro bandi di finanziamento a
progetti.
Oltre quanto già evidenziato in termini di
ricadute sul nostro paese, vanno considerate e valutati ancora alcuni aspetti
cruciali relativi allo scarso impatto che i progetti europei hanno avuto in
Italia. Infatti, il profluvio di fondi sul tema nei vari programmi europei ha
certamente permesso una buona disseminazione delle tematiche di P/CVE tra i
vari stakeholders italiani. Tuttavia, lo scarso impatto dei risultati espressi
dalla maggior parte di tali progetti si presta a diverse valutazioni a più
livelli. In generale, il limite maggiore alla possibilità di produrre un
impatto duraturo, risiede sicuramente nel vulnus creato dall’assenza di
legislazione o strategie nazionali. Infatti, come evidenziato fin del 2019[20],
il carattere pilota delle esperienze e dei risultati pratici o teorici dei
progetti europei in Italia restava tale perché non si potevano evolvere, come
un’economia di scala, in politiche e programmi di sistema. Quanto, allora, resta
come dato inconfutabile è il fatto che la formazione di centinaia di operatori
e ricercatori italiani nei vari ambiti della P/CVE, durante lo scorso decennio,
sia un know-how che rischia di restare in gran parte svilito, privo di
prospettive e valorizzazione.
IL MONDO CATTOLICO
Il ruolo del mondo cattolico italiano e il suo
interesse per la P/CVE, a cui ho accennato in merio alla mia prima intervista
sul RAN ad Avvenire, merita una valutazione particolare perché esso ha sempre
svolto un ruolo nelle vicende di terrorismo fin dagli anni di piombo, seppur
sottotraccia e poco studiato[21].
Come avevo potuto osservare durante la mia quindicennale collaborazione con
l’associazionismo delle vittime del terrorismo, la chiesa e il mondo cattolico
si erano sostanzialmente disinteressata a loro, con l’eccezione del Cardinal
Martini, per oltre trent’anni, per concentrarsi sulla salvezza dei terroristi,
cioè sul loro percorso riabilitativo passato per la riforma Gozzini e la cosiddetta
‘legislatura premiale’. Un percorso che di fatto anticipava il concetto di
deradicalizzazione, come osserva Dambruoso: “…è bene precisare che il primo
timido tentativo di formalizzare il concetto giuridico di deradicalizzazione
risale alla legge 18 febbraio 1987, n. 34, incentrata sulla disciplina delle
condotte di dissociazione dal terrorismo, definite all’articolo 1 come «il
comportamento di chi, imputato o condannato per reati aventi finalità di
terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale, ha definitivamente
abbandonato l’organizzazione o il movimento terroristico o eversivo cui ha
appartenuto, tenendo congiuntamente le seguenti condotte: ammissione delle
attività effettivamente svolte, comportamenti oggettivamente e univocamente
incompatibili con il permanere del vincolo associativo, ripudio della violenza
come metodo di lotta politica»”[22].
Come è risultato poi chiaro dalla prime ricerche
scientifiche in merito, l’interesse all’uscita degli anni di piombo fu centrale
per il mondo cattolico «per promuovere il disimpegno dal terrorismo e
nell’influenzare le politiche pubbliche in questo settore»[23],
così come completo il disinteresse per le vittime[24].
Nel 2016 la situazione era decisamente
cambiata. Il primo decennio del XXI secolo aveva sancito la centralità alle
vittime del terrorismo nel discorso pubblico. Il Presidente della Repubblica,
Giorgio Napolitano, aveva favorito un compromesso tra le vittime del terrorismo
rosso e nero, intorno alla figura di Aldo Moro e la data del 9 Maggio, per
celebrare il Giorno della Memoria[25].
Inoltre, nel 2015 era uscito, con vasta eco, il Libro dell’incontro[26]:
il resoconto dell’esperienza del gruppo composto da vittime, ex terroristi e
mediatori, patrocinata dalla chiesa e dall’università cattolica milanese, che
diventerà il testo d’innesto all’introduzione della giustizia riparativa in
Italia, fino alla recente riforma Cartabia in materia di mediazione penale[27].
Questo sintetico excursus ritengo spieghi come
il fatto che le vittime del terrorismo siano state le prime a introdurre in
Italia delle attività esplicitamente indirizzate alla prevenzione della
radicalizzazione violenta[28],
abbiano attirato l’interesse del mondo cattolico. Dai terroristi dissociatisi
dalla lotta armata che si riabilitavano e ‘deradicalizzavano’ attraverso
l’impegno sociale nelle organizzazioni del volontariato cattolico, e non solo,
dalla metà degli ’80 del XX secolo, si stava integrando un paradigma nei quali
erano presenti anche le vittime che si impegnavano sul terreno educativo per
prevenire il formarsi di nuovi terroristi e che dialogavano con gli ‘ex’ per
provare a riparare e restaurare relazioni riumanizzate e pacificate[29].
Inoltre, tra i molti progetti che ho potuto
osservare o analizzare da vicino, non posso qui non citare quella ‘best
practice’ nella prevenzione secondaria – indirizzato ai detenuti mussulmani nella
Casa circondariale “Dozza” di Bologna – intitolata “Diritti, Doveri,
Solidarietà”. Ideata da Ignazio De Francesco – monaco della Piccola Famiglia
dell’Annunziata e fine islamologo, con l’appoggio dell’Assemblea legislativa
della regione Emilia-Romagna e del Garante dei detenuti[30]
– è probabilmente quando di meglio il mondo cattolico abbia espresso in termini
progettuali nelle pratiche di P/CVE nello scorso decennio[31].
POLITICHE FRAMMENTATE
Occorre ora precisare cosa abbia inteso nello
scrivere mancanza di una strategia nazionale di P/CVE. Al netto del fallito
percorso della proposta di legge Dambruoso-Manciulli, nel 2017, presentando alla
stampa la relazione della sua commissione, Lorenzo Vidino dichiarava che: «la
comunità dell’antiterrorismo ha capito che un approccio basato solo sulla
repressione non è più sufficiente», occorre affiancargli «strumenti di
prevenzione, misure soft che vanno a prevenire processi di radicalizzazione in
fase embrionale»[32]. Parole
che non rimasero senza conseguenze.
Se non una vera e propria strategia, almeno dal
2016 furono attivate alcune iniziative istituzionali lungo tre linee
d’intervento: quella delle contro-narrative, quella educativa nelle scuole e
quella di deradicalizzazione di singoli soggetti. Al netto dell’attività del Ministero
della Giustizia, e il suo Dipartimento d’Amministrazione Penitenziaria (DAP),
che continuava a implementare le attività di formazione del personale
penitenziario, da una parte, e ad affinare gli strumenti di valutazione del
rischio radicalizzazione nella popolazione incarcerata, dall’altra, come nei
progetti europei “Rasmorad” e “Train Training”, si sono potute osservare le
seguenti iniziative:
1) quelle
della RAI, come del resto prevedeva la proposta di legge, che ha prodotto una
serie di servizi di approfondimento relati al mondo islamico e carcerario, con
una funzione di contro-narrativa verso il vittimismo della propaganda jihadista[33];
2) quelle dell’Ufficio Regionale Scolastico
della Lombardia che, con il programma di formazione verso gli insegnati e gli
studenti dei poli scolastici di quella regione oggi intitolato “Educazione alle
differenze nell’ottica della prevenzione e contrasto ad ogni forma di
estremismo violento”, dal 2016 a oggi ha sistematicamente implementato con
continuità nelle scuole tale attività di prevenzione primaria[34];
3) quelle di deradicalizzazione, cioè di prevenzione terziaria, che sono state presentate nel numero speciale sul tema del 2018, della rivista dell’intelligence italiana Gnosis, con i primi due casi italiani a Bari e a Trieste, che prefigurano una forma di collaborazione tra l’organo istituzionale preposto all’“Analisi Strategica Antiterrorismo”, il C.A.S.A., e due realtà della società civile: la cooperativa sociale Exit e l’università di Bari.
Sicuramente, sul delicato terreno della deradicalizzazione, ci sono state altre iniziative con esiti incerti o inconclusi, in particolare quelle verso soggetti detenuti nei circuiti di alta sicurezza. Inoltre, nel quado della prevenzione primaria, l’amministrazione penitenziaria si è distinta con l’iniziativa pilota d’introduzione degli imam nelle carceri italiane per garantire il culto ai detenuti mussulmani e così prevenendo un pretesto di vittimizzazione che poteva portare questi a radicalizzarsi. L’accordo tra il DAP e UCOII del 2015[35], e la collaborazione con altre comunità islamiche italiane, è un buon esempio di prevenzione primaria e del carattere frammentato delle iniziative istituzionali messe in campo negli ultimi anni. Il limite, in questo caso, non è costituito tanto dall’assenza di strategie di P/CVE, quanto dall’assenza di una intesa tra lo Stato italiano e le comunità islamiche che definisca un ampio quadro di diritti e doveri reciproci, come avviene per le altre comunità religiose; e di rispetto dei diritti minimi previsti dalla Convezione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) nelle carceri italiane[36].
L’APPROCCIO MULTIAGENZIA E LA SOCIETÀ CIVILE
Si può aggiungere che nel corso di questa
fioritura di pratiche di P/CVE in Italia, tra quelle europee, quelle nazionali
e quelle locali, tra quelle promosse da enti istituzionale e quelle promosse
dalla società civile, ci siano state forme di competizione o di mancata
collaborazione che hanno non solo contribuito a creare un quadro frammentato,
ma soprattutto hanno limitato quello che nelle politiche europee del RAN viene
chiamato approccio multi-agenzia. Cioè una collaborazione fattiva tra gli
stakeholder che, in queste pratiche, afferiscono ad ambiti diversi, così come
diversi sono gli approcci utilizzati e, pure, le loro competenze e
responsabilità. Mentre la comunità dell’antiterrorismo ha una lunga e
sedimentata collaborazione tra i suoi elementi (governo, forze dell’ordine,
intelligence, magistratura e amministrazioni penitenziarie); l’attività di
prevenzione della radicalizzazione determina un setting multi-agenzia allargato
ai sistemi educativi formali e informali, il welfare pubblico e privato, le comunità
e le autorità locali. L’intento della proposta di legge italiana, infatti, per
usare le parole di Dambruoso, era quello: «di trovare una risposta al
terrorismo che coniughi misure repressive e un approccio preventivo di
collaborazione con attori della società civile e con le comunità di riferimento»[37].
Il ruolo delle società civile nelle pratiche
di P/CVE è stato uno dei fulcri delle politiche del RAN e, non a caso, la
grande maggioranza dei circa 150 partecipanti italiani ai lavori del RAN è
sempre giunta dal terzo settore[38],
erede di quelle organizzazioni caritatevoli del volontariato cattolico che, fin
dal XIX secolo, in Italia si prendevano cura della marginalità sociale
provocata della nascente industrializzazione. Un ruolo, quello delle
organizzazioni della società civile, focalizzato su una cura della devianza
sociale basata sulla (ri)costruzione di relazioni sociali fiduciarie[39].
Così, soprattutto intorno alla prevenzione
terziaria di un fenomeno come il processo di radicalizzazione violenta che ha
come esito reati di terrorismo, il setting allargato multi-agenzia può ben riflettere
visioni e funzioni non facilmente conciliabili: come quelle tra le esigenze delle
autorità statali competenti a prevenire gli attacchi terroristici attraverso il
sistema penale e repressivo, da una parte; e quelle della società civile e delle
istituzioni socio-educative competenti alla riabilitazione dell’ex terrorista –
la funzione costituzionalmente definita ‘rieducativa’ della pena, e quanto
nell’ambito della P/CVE è stato definito di volta in volta
‘deradicalizzazione’, ‘disimpegno’ o ‘uscita’ – dall’altra.
Si può quindi dire che l’approccio
multi-agenzia delle politiche e pratiche promosse dal RAN sottende
implicitamente un lungo elenco di sfide, che ripercorre le dicotomie presenti
nella storia della criminologia, della giurisprudenza e, in ultima analisi, di
tutte le scienze umane in merito alla riformabilità o meno dalla natura umana,
la possibilità o meno che questa possa essere preventivamente educata o ex-post
redenta. Alle quali si aggiungono le sfide relative al delicato equilibrio tra i
doveri di repressione e controllo della sicurezza dello Stato, da una parte, e le
libertà e i diritti civili degli individui, dei gruppi o dei movimenti sociali,
dall’altra.
Il passaggio quest’anno dal RAN al “EU
Knowledge Hub on Prevention of Radicalisation”, sicuramente manterrà l’approccio
multi-agenzia e mi pare capire, dalla documentazione disponibile, che tra i
suoi intenti più rilevanti ci sia quello di saldare gli ambiti degli operatori
professioni con quello dei decisori politici e della ricerca scientifica, le
cui pregresse separazioni ha probabilmente nuociuto all’efficacia del RAN. In
ogni caso, quest’anno si aprirà una fase nuova in Europa verso la quale gli
stakeholder italiani sono chiamati a riflettere e confrontarsi.
Per concludere. La lezione del RAN è in
qualche modo erede della ‘exit strategy’ italiana dagli anni di piombo. Se
allora la fase repressiva di inasprimento penale fu seguita da quella premiale
di riabilitazione[40],
la sfida sottesa alla proposta del RAN è quella di costruire un percorso non
diviso in fasi successive, ma parallele e concomitanti, attraverso le quali
provare a costruire un equilibrio tra necessità dicotomiche. Un’antinomia o un gioco
cooperativo[41] che è
certamente una sfida da accettare se si vuol valorizzare il patrimonio di
esperienze e di know-how italiano cresciuto nel nostro paese in questi anni,
per giungere a una strategia, magari flessibile, ma non più frammentata. Non
dimentichiamo mai che tali politiche e pratiche hanno al centro la coesione
delle comunità e la convivenza pacifica del nostro tessuto sociale. Inoltre,
scommettere sulla prevenzione è anche economicamente più sostenibile che non gestire
future emergenze con lunghe e tragiche conseguenze.
[1] Per approfondire quanto segue, si veda il sito web del RAN, https://home-affairs.ec.europa.eu/networks/radicalisation-awareness-network-ran_en
[2] Tale network era nato a seguito di quello che resta il maggior
attentato terrorista sul suolo europeo a Madrid l’11 marzo 2004 e
dell’attenzione che seguì da parte delle istituzioni europee verso le vittime
del terrorismo, in particolare quella dell’allora Commissario europeo alla
Giustizia, Libertà e Sicurezza, Franco Frattini.
[3] Si veda il capitolo “4.5. Terrorismo” del programma: https://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:C:2010:115:0001:0038:it:PDF
[4] Parte integrata della sua strategia per contrastare il terrorismo
(CONTEST). Si vedano le varie versioni di CONTEST a partire dal 2011: https://www.gov.uk/government/publications/counter-terrorism-strategy-contest
[5] Guillaume Denoix de Saint Marc, in rappresentanza delle due associazioni
l’italiana AIVITER e la francese AfVT.
[6] Lo scarso impatto del RAN in Italia di quel periodo è addebitabile
all’allora debole comunicazione esterna del RAN, ma anche della scarsa
attenzione dei vertici ministeriali italiani inviatati alle “High Level
Conference”.
[7] Termine che in verità è sempre rimasto oggetto
di dispute sul significato. Qui è inteso come processo
cognitivo/comportamentale e sottende (anche se omesso) l’aggettivazione
“violenta”.
[8] Si vedano articoli, relazioni e materiali del progetto C4C promosso da
AIVITER qui: https://hommerevolte2.blogspot.com/search/label/C4C e qui https://www.vittimeterrorismo.it/?s=C4C
[9] Nella dimensione formativa del suo personale penitenziario e nel
monitoraggio del proselitismo tra la popolazione carceraria. Si veda: Cascini
F. (2012). Il Fenomeno del proselitismo in carcere con riferimento ai
detenuti stranieri di culto islamico, in “La radicalizzazione del
terrorismo islamico. Elementi per uno studio del fenomeno di proselitismo in
carcere”, Quaderni ISSP n. 9 (giugno 2012)
[10] Sul tema torno nella parte nelle conclusioni del cap.3 sul mondo
cattolico.
[11] Si veda il testo dell’articolo di Avvenire del 15 gennaio 2015 a firma
Vincenzo R. Spagnolo qui: https://hommerevolte2.blogspot.com/2015/01/europa-ed-italia-di-fronte-al.html
[12] Proposta di Legge 3558 presentata il 26 gennaio 2016.
[13] Vidino L. (2014). Il jihadismo autoctono in Italia. Nascita,
sviluppo e dinamiche di radicalizzazione. ISPI
[14] Si veda il Dossier n° 301/2 – Elementi per l’esame in Assemblea 14
marzo 2022: https://documenti.camera.it/leg18/dossier/pdf/AC0367b.pdf
[15] Lo stesso programma ‘Prevent’ fu ampiamente criticato e dibattuto nel
Regno Unito in quegli anni per la scelta di limitarsi ad affrontare la sola
radicalizzazione jihadista, e fu quindi revisionato per includere altre forme
di estremismo violento. Si veda ad es. l’articolo di Luciano Pollichieni su
Limes del 2017: https://www.limesonline.com/limesplus/la-miopia-dell-antiterrorismo-di-sua-maesta-14681306/
[16] Si vedano le “Linee Guida del Tavolo di lavoro multi-agenzia della
Città di Torino per la prevenzione degli estremismi violenti” elaborata dal
Comitato scientifico istituito dalla città di Torino nel 2018 e approvate dal
consiglio comunale nel 2020: http://www.comune.torino.it/cittagora/wp-content/uploads/2020/07/Linee-guida-istituzione-tavolo.pdf
[17] Si veda la raccolta di testi dal sottoscritto per gli operatori
italiani del RAN: https://drive.google.com/drive/folders/0Bz7ceziVCVmBV0ZkQUJuNU5YMXc?resourcekey=0-A5HTj1-XheJgKyXqOn0pCQ&usp=drive_link
[18] Rispettivamente diretti dal Prof. Michele Brunelli e dalla Prof.ssa
Sabrina Martucci.
[20] Berardinelli D., Guglielminetti L.
(2018). Preventing Violent Radicalisation: The Italian Case Paradox. In
“7th International Conference on Multidisciplinary Perspectives in the
Quasi-Coercive Treatment of Offenders (SPECTO)”, pp 28-33, Filodiritto
Publisher
[22] Dambruoso S. (2018). Prevenzione e repressione. La via italiana nel
contrasto alla radicalizzazione jihadista. In «Gnosis», speciale
Deradicalizzazione, edito dall’AISI.
[24] Si vedano in particolare: Galfré M. (2014). La guerra è finita:
L’Italia e l’uscita dal terrorismo 1980-1987. Bari: Laterza; e Guglielminetti
L. (2017). La percezione sociale delle vittime del terrorismo. In
“Rassegna Italiana di Criminologia” (RIC), n. 4, pp. 269-276
[25] In questo caso un percorso parallelo con quanto occorreva nelle
politiche europee dopo l’attentato di Madrid del 2004, che porterà l’11 Marzo
ad assurgere a giornata europea del ricordo delle vittime del terrorismo.
[26] Bertagna G., Ceretti A., Mazzucato C. (2015), Il libro
dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto.
Milano: Il Saggiatore.
[27] Tra le novità introdotte con il d. lgs. 10 ottobre 2022, n.150, di
attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134 (c.d. “riforma Cartabia”) si
segnala in particolare l’introduzione di una disciplina organica della
giustizia riparativa, contenuta negli artt. 42-67.
[28] Per un quadro esaustivo di quelle attività si veda: Guglielminetti L.
(2018). P/CVE, lavorare coi giovani e le vittime del terrorismo: esperienze,
criticità e prospettive in Italia. In “The Prevention of Radicalisation of Young
People”, European Project “YEIP”
[29] Per un’analisi storica e dettaglia si veda Bull A. (2018). Reconciliation through Agonistic
Engagement? Victims and Former Perpetrators in Dialogue in Italy Several
Decades after Terrorism. In “Victimhood and Acknowledgement”, De Gruyter
[30] Si veda la descrizione e i due volumi sul progetto qui: https://www.assemblea.emr.it/garante-detenuti/iniziative/progetti/diritti-doveri-solidarieta/diritti-doveri-solidarieta
[31] Per la sua valorizzazione in ambito formativo si veda: Guglielminetti,
L. (a cura di) (2019). Stato di diritto e prevenzione dell’estremismo
violento: tra politiche e pratiche nei ristretti orizzonti italiani.
Progetto “FAIR”, Ravenna: Fondazione Nuovo Villaggio del Fanciullo
[32] Spagnolo R. V. (2017). Terrorismo. «Rischio di
radicalizzazione sul web e nelle carceri», Avvenire del 5 Gennaio 2017
[33] Significativa in questo senso la collaborazione dell’allora Direttrice
della Direzione Editoriale per l’Offerta Informativa della RAI, Monica
Maggioni, con l’ISPI che cura nel 2015 il volume Twitter e jihad: la
comunicazione dell’Isis.
[34] Si veda la convenzione tra Regione Lombardia e Ufficio Scolastico
Regionale https://usr.istruzionelombardia.gov.it/wp-content/uploads/2023/11/m_pi.AOODRLO.REGISTRO-UFFICIALEU.0005448.10-03-2022-5.pdf
[35] “Protocollo d’intesa per favorire l’accesso di mediatori culturali e
di ministri di culto negli istituti penitenziari”, sottoscritto il 5 novembre
2015, tra il ministero della Giustizia, Dipartimento dell’amministrazione
penitenziaria e l’Unione delle comunità ed organizzazioni islamiche in Italia
(UCOII)
[36] Ravagnani L., Romano C. A.
(2017). Il radicalismo estremo in carcere: una ricerca empirica.
In “Rassegna
Italiana di Criminologia” (RIC), n. 4,
pp. 277-296. Si veda anche Guglielminetti, L. (2019). Ibid.
[38] Dati ricavati del database dei partecipanti al RAN: https://home-affairs.ec.europa.eu/networks/radicalisation-awareness-network-ran/participant-database_en
[39] Si veda il mio contributo nel precedente numero di #REACT 2023 n.4 –
Anno 4. Il ruolo delle organizzazioni della società civile nella prevenzione
e nel contrasto all’estremismo violento. p. 37-38.
[41] Definizione dal teorico della teoria dei giochi, il matematico
statunitense John Nash, citato da De Mutiis C. (2018). Caso di studio. Verso
una strategia italiana di prevenzione della radicalizzazione: una sfida globale
che si vince a livello locale. Edito dalla Scuola dell’amministrazione
dell’Interno.
Giovani e radicalizzazione alla trasmissione ‘Millevoci’ della Rete Uno (RSI)
Il 14 maggio 2023 nel corso della trasmissione ‘Millevoci’ (Rete Uno, RSI) condotta da Isabella Visetti e Natascia Bandecchi, si è parlato di giovani e radicalizzazione.
Ospite in studio: Chiara Sulmoni (presidente di START InSight e dell’Associazione PRIME – Prevenzione Informazione e Mediazione, Lugano)
Tra i temi discussi: algoritmi e radicalizzazione nel mondo virtuale e reale, le tendenze attuali dell’estremismo, teenager e minorenni, gli elementi che entrano in gioco nei processi di radicalizzazione, guerre, conflitti e il contesto globale, la risposta di Stati e organismi internazionali, il contributo della ricerca e la prevenzione.
Aumentano i casi di terrorismo in Svizzera e i minorenni implicati
Nel 2023 sono aumentati del 50% i procedimenti per terrorismo aperti dal Ministero Pubblico della Confederazione. A preoccupare le autorità, anche l’abbassamento dell’età di chi è coinvolto.
L’intervento di Chiara Sulmoni, presidente di START InSight al TG della Radiotelevisione Svizzera
Il 2023 a livello europeo ha segnato un aumento della mobilitazione di matrice jihadista. La Svizzera è parte di questo contesto. L’attacco di Zurigo del 2 marzo, quando un 15enne ha accoltellato un ebreo ortodosso in un quartiere del centro, ha avuto un’eco internazionale e frequentemente si riscontrano ramificazioni nelle inchieste europee, che portano alla Svizzera.
Si consolida inoltre la tendenza che vede minorenni e teenager implicati in pianificazione di attentati. La Polizia anti-terrorismo inglese già nel 2021 segnalava un aumento dei casi di minorenni implicati nelle indagini, anche minori di 15 anni. Minorenni sono entrati in azione in Francia, in passato. Gli analisti invitano a non sottovalutare il ruolo dei minorenni, oggi iperconnessi anche a livello transnazionale e autonomi sia per ciò che concerne la pianificazione di attacchi, la produzione e distribuzione di propaganda e il reclutamento.
Le scuole possono e devono fare prevenzione prima che si instauri in processo di radicalizzazione, lavorando dal profilo educativo sul pensiero critico, i valori della diversità e dell’integrazione, ma i docenti devono anche conoscere i contesti delle galassie estremiste, sapere individuare eventuali segnali di disagio e di rischio e a chi rivolgersi e segnalare, poiché non è la scuola a dover risolvere queste problematiche.
Terrorismo: lo Stato islamico e i campionati di calcio.
di Claudio Bertolotti. Dall’intervista di Giampaolo Musumeci per Radio 24 – Nessun Luogo è Lontano del 9 aprile 2024.
Il Cairo, 9 apr. (Adnkronos) – Il sedicente Stato Islamico, tornato a spaventare l’Europa dopo l’attentato a Mosca, ha minacciato di lanciare un attacco contro i quattro stadi in cui da stasera si disputeranno i quarti di finale di Champions League. Al-Azaim, uno degli organi di propaganda dell’Isis, ha confermato queste intenzioni pubblicando l’immagine dei quattro stadi in cui si disputeranno le partite di andata – il Parco dei Principi di Parigi, il Santiago Bernabeu di Madrid, il Metropolitan sempre di Madrid e l’Emirates di Londra – accompagnata dalla didascalia “Uccideteli tutti”.
Una necessaria premessa: l’esperienza dell’ISIS, così come l’abbiamo conosciuta in Iraq e Siria si è conclusa nel giugno 2014 con la proclamazione del Califfato da parte di al-Baghdadi e l’istituzione dello Stato islamico. L’ISIS non esiste più, al suo posto lo Stato islamico dunque. Non è una precisazione da poco, perché segna l’avvio dell’epoca post-territoriale del movimento, quella che stiamo osservando e subendo oggi, sia in Occidente, sia in Medioriente come dimostra la forza sempre più manifesta di questo gruppo in particolare in Siria e Afghanistan.
Quanto seria è questa minaccia? Ricordiamo una allerta simile il 30 marzo in Germania.
Un primo aspetto. In questo caso, come nella maggior parte degli episodi, non è lo Stato islamico ma i suoi gruppi affiliati a chiamare alla lotta. E quella attuale sembra non tanto una avvisaglia quanto un appello a colpire, e dunque non una minaccia diretta. Anche perchè, come ci ha dimostrato la storia recente dello Stato islamico e dei suoi affiliati in franchise, quando il gruppo colpisce lo fa senza preavvertire – di fatto sfruttando l’effetto sorpresa per ottenere il massimo dei risultati. Quanto accaduto in Russia ne è una conferma. Però, e questo è il secondo aspetto, coerentemente con gli attacchi degli ultimi anni, attribuiti o rivendicati dallo Stato islamico, è l’appello a colpire che viene colto da singoli soggetti, o più raramente da parte di piccoli gruppi, spesso disorganizzati o scarsamente organizzati, che costituisce la forza propulsiva del gruppo che, di norma e per evidente opportunità, rivendica solamente quelli di successo, una minima parte, non citando quelli invece più numerosi che si concludono con un risultato fallimentare.
Dopo l’attentato a Mosca, queste minacce e l’arresto ieri a Roma di un tajiko ex miliziano Isis, ci sono a tuo parere le condizioni per capire quale sia la strategia dell’Isis? Sta rialzando la testa? Riacquisendo forza?
Lo Stato islamico sta rialzando la testa, e lo sta facendo in maniera dirompente ed efficace, riportandoci sul piano emotivo e del terrore ai terribili anni 2015-2017 quando l’Europa fu travolta da una serie di eventi dirompenti, a loro volta in grado di riportare le emozioni agli attacchi dial-Qa’idain Europa del 2004, a Madrid e a Londra. Oggi è sufficiente guardare alla Siria, dove si pensava – complici anche i riflettori mediatici rivolti altrove – che lo Stato islamico fosse stato sconfitto: non è così. Al contrario, l’aumento progressivo di attacchi dello Stato islamico, gli assalti continui e ripetuti alle carceri per liberare i combattenti detenuti dal regime siriano, la capacità di colpire sostanzialmente ovunque. È un campanello d’allarme che suona molto forte e che anticipa una nuova ondata che si autoalimenta: dalla retorica della vittoria talebana in Afghanistan, alla competizione con i talebani, all’aumentare degli affiliati, singoli e gruppi dal Medioriente al Sud-Est asiatico, fino all’Europa. Non uno Stato islamico ex-novo, ma è un fenomeno che si sta risvegliando.
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