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Stati Uniti – Immigrazione: no tu no!

di Melissa de Teffé dagli Stati Uniti, giornalista esperta di politica statunitense, accreditata per START InSight presso il Dipartimento di Stato

Il 21 marzo 2025 il Segretario di Stato Marco Rubio, ha annunciato l’inclusione nella lista nera americana dell’ex presidente argentina Cristina Fernández de Kirchner e dell’ex ministro della Pianificazione Julio De Vido per il loro coinvolgimento in gravi episodi di corruzione durante il periodo in cui hanno ricoperto cariche pubbliche.

Rubio ha affermato che Fernández de Kirchner e De Vido avrebbero sfruttato i rispettivi incarichi «per organizzare e trarre vantaggio economico da diversi schemi corruttivi legati agli appalti per opere pubbliche, sottraendo così milioni di dollari alle casse dello Stato argentino». Diversi tribunali argentini hanno già pronunciato condanne nei confronti dei due ex funzionari, compromettendo fortemente la fiducia degli argentini e degli investitori internazionali nelle prospettive economiche e politiche del Paese, senza però riuscire a incarcerarli per i crimini commessi.

Il provvedimento adottato impedisce a Fernández de Kirchner, De Vido e ai loro familiari diretti l’ingresso negli Stati Uniti. «Queste misure riaffermano il nostro impegno contro la corruzione globale, specialmente quando coinvolge alti livelli governativi», ha sottolineato Rubio, che ha poi aggiunto: «Continueremo a garantire che chi abusa del potere pubblico per vantaggi personali venga chiamato a rispondere delle proprie azioni».

Queste designazioni rientrano nelle misure previste dalla Sezione 7031(c) del “Department of State, Foreign Operations, and Related Programs Appropriations Act” del 2024, recentemente confermato anche per il 2025. Questa normativa, approvata dal Congresso l’anno scorso, obbliga il Segretario di Stato a segnalare pubblicamente o privatamente funzionari stranieri coinvolti in corruzione significativa o in gravi violazioni dei diritti umani, sulla base di informazioni attendibili raccolte dal Dipartimento di Stato. La decisione di rendere pubblica questa mossa rappresenta un avvertimento ad altri leader politici, come Maduro presidente del Venezuela e non riconosciuto dagli Stati Uniti. A seguito delle controverse elezioni presidenziali del luglio 2024, gli Stati Uniti hanno dichiarato di non riconoscere la legittimità del governo di Maduro. Il precedente Segretario di Stato, Antony Blinken, aveva già espresso “serie preoccupazioni” riguardo ai risultati elettorali. Il 10 gennaio 2025, in concomitanza con l’insediamento di Maduro per il suo terzo mandato gli Stati Uniti, insieme all’Unione Europea, al Regno Unito e al Canada, hanno imposto nuove sanzioni a funzionari venezuelani, mentre, il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti, ha aumentato la ricompensa per l’arresto di Maduro a 25 milioni di dollari. Il 18 marzo 2025, Rubio ha avvertito il governo venezuelano che, se non avesse accettato i voli di deportazione dei suoi cittadini dagli Stati Uniti, sarebbero state imposte “sanzioni severe ed escalation”. Questo avvertimento si inserisce negli sforzi dell’amministrazione Trump per deportare migranti senza status legale, colpevoli di crimini in territorio nordamericani e porre fine a un programma di residenza temporanea per 350.000 venezuelani.

Un dibattito democratico?

Queste azioni che vedono l’applicazione di una politica di frontiera a 360 gradi, dalla quale nemmeno ex presidenti sono esenti, vedi appunto Cristina Kirchner o Maduro, che ha addirittura una taglia sulla testa, coinvolgerà anche cittadini comuni di altri Paesi.

Ma coloro che credono che questa non sia più una democrazia, si mettano il cuore in pace; il sistema giudiziario funziona -bene o male a seconda delle opinioni- ma funziona. 

Il giudice federale James Boasberg lunedì 18 marzo, ha convocato un’udienza urgente dopo che l’amministrazione Trump si è rifiutata di far rientrare due aerei carichi di migranti ‘criminali’, già decollati il sabato precedente, nonostante un ordine temporaneo vietasse le espulsioni. Un terzo volo potrebbe essere partito successivamente all’ordine del giudice.

Titolo del New York Times

Il giudice Boasberg aveva emesso il sabato un ordine temporaneo per impedire all’amministrazione Trump di utilizzare la legge ‘Alien Enemies Act’ del 1789 per espellere migranti sospettati di appartenere alla gang criminale venezuelana “Tren de Aragua”. Tuttavia, i legali del Dipartimento di Giustizia hanno informato il giudice che due voli erano già in volo verso Honduras ed El Salvador al momento della decisione. Benché Boasberg avesse verbalmente ordinato ai voli di tornare indietro, tale direttiva non era stata inclusa formalmente nell’ordinanza scritta.

Durante l’udienza, Boasberg ha contestato al Dipartimento di Giustizia, la carenza di risposte chiare, definendolo un “gioco di potere”. Ha richiesto dettagli precisi sui voli, inclusi gli orari di partenza e arrivo, il numero di persone a bordo e le destinazioni finali. La Casa Bianca, tramite una dichiarazione ufficiale, sostiene che: «TdA (Tren de Aragua) sta perpetrando, tentando e minacciando un’invasione o incursione predatoria contro il territorio degli Stati Uniti. TdA sta conducendo azioni ostili e guerre irregolari contro gli Stati Uniti, direttamente o indirettamente sotto la direzione, clandestina o meno, del regime di Maduro in Venezuela».

Questa posizione è stata utilizzata per giustificare le espulsioni sotto l‘Alien Enemies Act, dichiarando i membri della TdA – pericolosi per la sicurezza nazionale.

Si aggiunga che questi individui sono comunque entrati negli Stati Uniti illegalmente, e che la posizione del giudice Boasberg appare fragile sotto due profili principali:

  1. Ingresso irregolare. Gli individui in questione non hanno seguito le procedure previste per un ingresso regolare nel paese. Se le loro motivazioni fossero state – ad esempio, una richiesta di asilo o immigrazione per motivi economici – avrebbero potuto presentare domanda attraverso i canali ufficiali o nei punti di ingresso autorizzati.
  2. Costi e carico giudiziario. L’amministrazione Trump ha giustificato l’invocazione dell’Alien Enemies Act anche con motivazioni di efficienza: i tribunali dell’immigrazione sono già sovraccarichi, con tempi d’attesa che superano anche i 18 mesi in diversi stati. In attesa del processo, la prassi corrente prevederebbe che i soggetti venissero rilasciati, con l’obbligo di presentarsi all’udienza fissata. Tuttavia, in molti casi si registra l’assenza all’udienza, cosa che rende difficile il rintracciamento e la successiva espulsione.

In questo contesto, la decisione di procedere con l’espulsione immediata – pur comportando dei costi – è considerata dall’amministrazione come la soluzione meno dannosa e più sicura, sia dal punto di vista economico che della sicurezza pubblica, nonostante vengano espresse critiche sulla legittimità e costituzionalità di queste espulsioni; gli esperti legali e gruppi per i diritti civili, sostengono che l’uso di poteri di emergenza in tempi di pace potrebbe violare i diritti costituzionali degli individui coinvolti. Ecco perché prima delle espulsioni, organizzazioni come Tren de Aragua sono state catalogate come terroristiche.


Foto di orythys da Pixabay

Il settore accademico 

Su un altro fronte, sempre molto divisivo, ci sono stati diversi casi riguardanti professori universitari associati a posizioni pro-Hamas o pro-Palestina, che hanno portato a sospensioni o licenziamenti. Ecco alcuni esempi:

  1. Katherine Franke: Professoressa di diritto alla Columbia University, è stata sospesa dopo aver criticato studenti ex membri delle Forze di Difesa Israeliane, accusandoli di danneggiare altri studenti. L’università ha ritenuto che i suoi commenti violassero le politiche interne.
  2. Maura Finkelstein: Professoressa associata al Muhlenberg College, è stata licenziata dopo aver condiviso un post del poeta palestinese Remi Kanazi, percepito come antisionista. Questo ha portato a lamentele da parte di studenti e docenti aprendo un’indagine federale.
  3. Russell J. Rickford: Professore alla Cornell University, ha descritto l’attacco di Hamas del 2023 come “esaltante” durante una manifestazione. Dopo le critiche ricevute, ha chiesto scusa e ha preso un congedo.
  4. Zareena Grewal: Professoressa alla Yale University, ha espresso su Twitter sostegno all’attacco di Hamas del 2023, affermando che i palestinesi hanno “ogni diritto di resistere con la lotta armata”. Le sue dichiarazioni hanno suscitato polemiche e hanno dato vita a una petizione per il suo licenziamento che ha raccolto oltre 55.000 firme.
  5. Jodi Dean: Professoressa al Hobart and William Smith Colleges, è stata sospesa dopo aver scritto un saggio in cui descriveva l’attacco di Hamas del 2023 come “esaltante”. La sospensione è stata revocata nel luglio 2024.

Nonostante queste situazioni coinvolgano professori con posizioni pro-Palestina o pro-Hamas, non tutti sono stati espulsi. Le conseguenze variano da sospensioni a licenziamenti, a seconda dei casi specifici e delle politiche delle rispettive istituzioni.

Recentemente, negli Stati Uniti, sono state espresse preoccupazioni riguardo all’indottrinamento di studenti americani verso posizioni filo-Hamas e antisraeliane. Diversi episodi in scuole e università hanno sollevato allarmi su possibili influenze ideologiche nelle istituzioni educative.

Ma guardando dall’esterno quanto accade ed è accaduto nelle università americane, l’impressione è che invece di proporre agli studenti momenti di dibattito, approfondimento, e comprensione sembra che ci sia piuttosto stato un vero e proprio indottrinamento. 

Un indottrinamento?

  • Un articolo del New York Post ha evidenziato come l’antisemitismo sia aumentato dove sembra che alcuni programmi educativi e insegnanti stiano diffondendo sentimenti antiebraici tra gli studenti.
  • In Virginia, una docente, figlia di un imam è stata accusata di aver insegnato odio antisraeliano agli studenti. Questo caso ha sollevato preoccupazioni riguardo all’influenza di attori esterni e attivisti nel settore dell’istruzione.
  • Shai Davidai è professore associato di psicologia alla Columbia University ed è di origine israeliana ed ebreo. In seguito alle manifestazioni pro-Palestina organizzate nel campus dopo il 7 ottobre 2024, Davidai ha espresso pubblicamente forti critiche verso l’università, accusandola di non condannare adeguatamente ciò che lui definisce episodi di odio e antisemitismo. In un’intervista ha detto chiaramente che “l’odio non scompare da solo” e che “l’estremismo va affrontato, altrimenti rimane”. Dopo aver chiesto spiegazioni a un amministratore universitario sul comportamento dell’ateneo, l’università ha deciso di vietargli temporaneamente l’accesso al campus, sostenendo che il suo atteggiamento rappresentasse una forma di molestia. Davidai, invece, ha giudicato questa decisione come una ritorsione per le sue posizioni pubbliche.
  • Joe Rogan, il noto conduttore di talk show, ha intervistato Tim Kennedy, Forze Speciali, (fra le mille attività nel 2021, ha aperto una scuola ad Austin, in Texas, chiamata Apogee che enfatizza l’apprendimento guidato dagli studenti attraverso discussioni socratiche e progetti basati su esperienze reali, per sintetizzare), e ambedue hanno evidenziato come la radicalizzazione nelle scuole americane possa portare gli studenti a simpatizzare con i terroristi a Gaza, e sottolineando come i professori abbiano l’opportunità di “radicalizzare” i propri studenti attraverso compiti e attività scolastiche.
  • Un professore associato ha criticato la leadership della Columbia e del Barnard College per aver permesso ad agitatori antisraeliani di causare disordini nei campus. Ha affermato che “abbiamo indottrinato gli studenti e loro non sono il problema. Il problema sono sempre stati i professori che li hanno indottrinati.”

Le autorità:

  • Leo Terrell, consulente senior dell’assistente procuratore generale per i diritti civili, ha affermato che l’amministrazione Trump non tollererà l’antisemitismo nelle scuole. Ha sottolineato che il Dipartimento di Giustizia utilizzerà tutti gli strumenti a sua disposizione per fermare comportamenti antisemiti.

(Per un aggiornamento, v. https://www.arnoldporter.com/en/perspectives/advisories/2025/03/eo-14188-additional-measures-to-combat-anti-semitism)

Questi esempi illustrano le crescenti preoccupazioni riguardo all’influenza di ideologie filo-Hamas e antisraeliane nelle istituzioni educative americane.

Guardando la questione da una prospettiva ampia, a volo d’uccello, ciò che emerge è la profonda polarizzazione politica e spaccatura tra due fronti: da un lato, un presidente e un’amministrazione che proseguono nella direzione che ritengono più opportuna per dare forma  a un paese ‘in ordine’, rispettato e apprezzato per quello che può dare, in una convivenza pacifica generale, fra ebrei, musulmani o appartenenti a qualsiasi altra fede – “In God We Trust”; dall’altro lato, un’opposizione che sta reagendo talvolta con violenza e caos per imporre le proprie visioni e le proprie ragioni (vedi le proteste presso gli atenei che non hanno creato né occasioni di dialogo né momenti di apprendimento, o gli sfregi alla Tesla).   

In questo senso, poiché le elezioni dopotutto hanno decretato la vittoria di Trump, restano emblematiche le parole dello storico e filosofo Karl Popper: «La democrazia consiste proprio in questo: che non soltanto le opinioni della maggioranza, ma anche quelle delle minoranze siano rispettate. Purché le minoranze, da parte loro, non abusino della democrazia per distruggerla.»  



La Cina traccia la sua rotta, USA ed Europa cercano la via

di Melissa de Teffé dagli Stati Uniti, giornalista esperta di politica statunitense, accreditata per START InSight presso il Dipartimento di Stato.

Mentre l’attenzione internazionale è concentrata sulle scelte strategiche dell’Europa, indecisa tra riarmo e diplomazia, sulle conclusioni del meeting di Jeddah o sull’ennesima dichiarazione provocatoria di Donald Trump che monopolizza titoli e conferenze stampa, in Cina il Congresso Nazionale del Popolo approva silenziosamente il piano del governo, definendo così priorità economiche e obiettivi politici per il prossimo anno.

La Cina oggi è la seconda economia al mondo ed è l’unica potenza che possa controbilanciare il terremoto trumpiano. Purtroppo per chiunque voglia scrivere di Cina e capire come funziona e cosa succede dietro le quinte, è assai complicato, quasi come risolvere un crimine senza supporto tecnologico contemporaneo. Niente DNA!

Essendo un sistemo politico centralizzato e opaco nelle sue espressioni, leggendo il discorso di Xi Jinping prima e seguendo la conferenza stampa del Ministro Affari Esteri Wang Yi, possiamo quasi tracciare una linea che si andrà per forza a intersecare con gli Stati Uniti in termini favorevoli. Carta canta, e le finanze dello Stato, hanno ancora il predominio nelle scelte politiche.

Partiamo dal Presidente, che nel suo discorso ha enfatizzato la necessità di continuare a “modernizzare in stile cinese” il paese, come punto focale per il rilancio della Cina, e così promuovendo una sperata crescita economica intorno al 5% (la banca svizzera UBS ha dichiarato che invece sarà forse il 4%). “Questa crescita darà stabilità sociale e rinascita culturale, non tanto come sviluppo economico, ma piuttosto come un processo che integri equità sociale e sostenibilità ambientale” – differenziando quindi il percorso cinese dai modelli occidentali. Tuttavia, secondo l’Istituto Chatham House, la Cina affronta ostacoli significativi, dovuti a una crescita economica rallentata, una sfida demografica non indifferente, ossia l’invecchiamento della popolazione accoppiato a un record negativo di nascite oltre a una riduzione non indifferente della forza lavoro. “La triplice pressione della domanda in calo, dello shock dell’offerta e dell’indebolimento delle aspettative, insieme a numerosi rischi e pericoli nascosti che influenzano la stabilità sociale, (…) specialmente riguardo alla costruzione di uno stile di partito pulito e onesto e alla lotta alla corruzione, che continuano a presentare problemi ostinati e frequenti, (qui invece fa riferimento al grave problema di corruzione ai livelli più alti dell’esercito, nda); (…). Rafforzare la guida dell’opinione pubblica, creando un orientamento corretto che valorizzi il lavoro come fonte di ricchezza, l’impegno come base per ottenere risultati e la lotta costruttiva come via per raggiungere la felicità. Contrastare efficacemente idee malsane quali la svalutazione del lavoro, l’arricchirsi senza fatica, il godere passivamente dei risultati altrui e l’atteggiamento passivo di rinuncia e immobilismo, (qui si riferisce al grave problema posto dalla generazione Gen Z, peraltro non dissimile da quello che gli USA stanno vivendo, ossia l’incapacità di inserirsi nel mondo lavorativo di oggi, causato da una non volontà di adeguarsi alla realtà, nda); (…) Stimolare pienamente, così, la vitalità creativa dell’intera società.”

La conferenza stampa di Wang Yi è stata più illuminante, perché più diretta. Il ministro ha risposto in modo esaustivo a diverse domande, ne abbiamo estrapolate tre, che ci riguardano da vicino: la prima riguarda il rapporto della Cina con la Russia segue poi la visione cinese della diplomazia e infine come vedono “America First”.


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YI sulle relazioni Cina-Russia:

«Ogni anno mi vengono poste domande sulle relazioni Cina-Russia, sebbene ogni volta da prospettive diverse. Ciò che voglio sottolineare è che, indipendentemente da come evolva il panorama internazionale, la logica storica dell’amicizia tra Cina e Russia non cambierà, e la sua forza trainante interna non diminuirà. Basandosi su profonde riflessioni ed esperienze storiche, Cina e Russia hanno deciso di forgiare una duratura amicizia di buon vicinato, condurre un coordinamento strategico completo e perseguire una cooperazione reciprocamente vantaggiosa in cui tutti vincono, poiché questo serve al meglio gli interessi fondamentali dei due popoli e corrisponde alla tendenza dei nostri tempi. I due paesi hanno individuato un percorso di non alleanza, non conflitto e non ostilità verso alcuna terza parte nello sviluppo delle loro relazioni. È uno sforzo pionieristico nel creare un nuovo modello di relazioni tra grandi potenze e costituisce un ottimo esempio per i rapporti tra paesi vicini. Una relazione Cina-Russia matura, resiliente e stabile non sarà influenzata da alcun cambiamento degli eventi, e men che meno soggetta a interferenze da parte di terzi; essa rappresenta una costante in un mondo turbolento, non una variabile nei giochi geopolitici.

Lo scorso anno ha segnato il 75° anniversario delle relazioni diplomatiche tra Cina e Russia. Il presidente Xi Jinping e il presidente Vladimir Putin si sono incontrati faccia a faccia per tre volte, guidando congiuntamente il partenariato strategico globale Cina-Russia per il coordinamento nella nuova era verso una nuova fase storica. Quest’anno ricorrerà l’80° anniversario della vittoria nella Seconda Guerra Mondiale. All’epoca, Cina e Russia combatterono coraggiosamente rispettivamente nei principali teatri di guerra dell’Asia e dell’Europa. Entrambe le nazioni compirono enormi sacrifici e diedero contributi storici decisivi per la vittoria nella Guerra mondiale antifascista. Le due parti coglieranno l’occasione di questa commemorazione congiunta per promuovere una corretta interpretazione storica della Seconda guerra mondiale, difendere i risultati raggiunti, sostenere il sistema internazionale centrato sulle Nazioni Unite e promuovere un ordine internazionale più giusto ed equo.

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Rispondendo a una domanda sul ruolo diplomatico della Cina:

Yj: “Viviamo in un mondo in continuo cambiamento e turbolento, dove la certezza sta diventando una risorsa scarsa. Le scelte dei paesi, in particolare delle grandi potenze, determineranno la traiettoria dei nostri tempi e daranno forma al futuro del mondo. La diplomazia cinese sarà sempre dalla parte giusta della storia e dalla parte del progresso umano. La Cina fornirà certezza a questo mondo incerto e sarà una forza determinata a difendere i suoi interessi nazionali. Il popolo cinese ha una gloriosa tradizione di rinnovamento continuo, non provocheremo mai, né ci lasceremo intimidire dalle provocazioni. Continueremo ad ampliare i nostri partenariati globali basati sull’uguaglianza, sull’apertura e sulla cooperazione, affrontando attivamente i problemi globali con un approccio cinese e scrivendo un nuovo capitolo per il Sud globale nella sua ricerca di unità e forza.

Dimostreremo con i fatti che la strada dello sviluppo pacifico è luminosa e garantisce un progresso stabile e sostenibile; tale strada dovrebbe essere scelta da tutti i paesi. Saremo una forza progressista per l’equità e la giustizia internazionali, difendendo il vero multilateralismo, avendo ben presente il futuro dell’umanità e il benessere dei popoli, promuovendo una governance globale basata su consultazioni estese, contributi congiunti e benefici condivisi. Rispetteremo gli scopi e i principi della Carta delle Nazioni Unite e costruiremo un consenso più ampio per un ordine mondiale multipolare, equo e ordinato. La Cina sarà una forza costruttiva per lo sviluppo comune del mondo, continuando ad ampliare l’apertura di alto livello e condividendo con tutti i paesi le vaste opportunità della modernizzazione cinese, tutelando il sistema multilaterale di libero commercio, promuovendo una cooperazione internazionale aperta, inclusiva e non discriminatoria e favorendo una globalizzazione economica inclusiva e vantaggiosa per tutti.

Alla domanda invece riguardo alla politica statunitense di Trump “America First”, Wang Ji ha risposto: “Il presidente Trump ha adottato una politica basata sul principio “America First” dopo il suo ritorno alla Casa Bianca, a meno di due mesi dall’inizio del suo mandato. Ha parlato di ritirarsi da organizzazioni e trattati internazionali, di sospendere gli aiuti (USAID) degli Stati Uniti a paesi esteri e ha minacciato alleati tradizionali. Pensate che ciò sia vantaggioso per lo sviluppo della Cina? Queste scelte rappresentano un’opportunità strategica per la Cina per assumere un ruolo più rilevante negli affari internazionali e rimodellare lo scenario globale? – (si chiede lui ad alta voce) – Questa è una domanda molto pungente, ma sono pronto a condividere il mio punto di vista. Ci sono oltre 190 paesi nel mondo. Se tutti ponessero il proprio paese al primo posto e fossero ossessionati dalla ricerca di una posizione di forza, il mondo tornerebbe sotto il dominio della legge della giungla. I paesi più piccoli e più deboli ne soffrirebbero per primi, e le norme e l’ordine internazionale subirebbero un duro colpo. Alla conferenza di Parigi oltre cento anni fa, i cinesi posero una domanda che rimbomba nei secoli: è il giusto a prevalere sulla forza, o è la forza a determinare ciò che è giusto?


Foto di Natilyn Hicks Photography su Unsplash

La Nuova Cina rimane fermamente dalla parte della giustizia internazionale e si oppone risolutamente alla politica della forza e all’egemonia. La storia della Germania dovrebbe andare avanti, non indietro. Una grande nazione deve onorare i propri obblighi internazionali e adempiere alle proprie responsabilità, senza mettere gli interessi egoistici prima dei principi, e ancor meno usare il proprio potere per intimidire i più deboli. In Occidente si dice che “non esistono amici eterni, ma solo interessi permanenti”. Tuttavia, in Cina crediamo che gli amici debbano essere permanenti e che dobbiamo perseguire interessi comuni.

Con una profonda comprensione delle tendenze storiche della nostra epoca, il presidente Xi Jinping ha proposto la costruzione di una comunità dal futuro condiviso per l’umanità, invitando tutti i paesi a superare divergenze e differenze, proteggere insieme il nostro unico pianeta e sviluppare insieme il villaggio globale come nostra casa comune. Questa grande visione riflette non solo la nobile tradizione della civiltà cinese secondo cui il mondo appartiene a tutti, ma anche l’impegno internazionalista dei comunisti cinesi. Ci permette di considerare il benessere dell’intera umanità, proprio come avere una visione d’insieme delle montagne che sembrano piccole quando siamo in cima a una vetta, come descritto in un antico poema cinese.

Siamo lieti di vedere che sempre più paesi si sono uniti alla causa della costruzione di una comunità dal futuro condiviso per l’umanità. Oltre 100 paesi sostengono le iniziative globali di sviluppo, sicurezza e civiltà proposte dalla Cina, e più di tre quarti dei paesi nel mondo hanno aderito alla famiglia della cooperazione “Belt and Road”. La storia dimostrerà che il vero vincitore è colui che tiene conto degli interessi di tutti, e che una comunità con un futuro condiviso per l’umanità garantirà che il mondo appartenga a tutti e che ognuno possa avere un futuro luminoso.”

Conclusioni:

La Cina emerge chiaramente come un interlocutore strategico inevitabile, capace di influenzare profondamente gli equilibri globali, specialmente in un momento in cui le scelte statunitensi sembrano orientarsi verso un ritorno all’isolazionismo. L’Europa, mentre cerca di definire una propria identità e autonomia strategica, non può permettersi di sottovalutare la complessità della realtà cinese, che unisce ambiziosi obiettivi economici distanti dalle tradizioni europee di qualità e bellezza. La visione cinese di uno sviluppo “in stile cinese”, orientato all’equità sociale e (forse) alla sostenibilità ambientale, (non dimentichiamo le 100 città cinesi vuote), rappresenta sempre un interlocutore interessante e danaroso anche se un concorrente nella definizione di modelli economici e sociali assai lontani. La Cina, nonostante gli ambiziosi piani di crescita e modernizzazione, deve confrontarsi con ostacoli significativi come il rallentamento economico, l’invecchiamento della popolazione, la diminuzione della forza lavoro e il difficile equilibrio tra controllo statale e dinamiche di mercato. Gli Stati Uniti, d’altra parte, si trovano di fronte a sfide interne di diversa natura, tra cui un elevato indebitamento pubblico, un’inflazione con rischio di recessione e l’incertezza sulla riuscita e sostenibilità del nuovo modello economico.

Per l’Europa, questo scenario rappresenta un’occasione per rafforzare la propria autonomia strategica, evitando di dipendere troppo da queste due superpotenze. Dunque, la sfida è duplice: collaborare con la Cina per affrontare sfide comuni di ordine globale, mantenendo però ferme le proprie posizioni su valori e diritti umani, e al contempo evitare che il vuoto strategico lasciato da un’America più isolazionista venga colmato unilateralmente da una Cina determinata ad affermare il suo modello. In sintesi, per l’Europa è fondamentale costruire una strategia coerente, capace di dialogare con Pechino senza rinunciare alle proprie prerogative politiche, economiche e culturali.


Trump: pressioni sull’Iran per colpire la Cina.

di Claudio Bertolotti.

L’amministrazione Trump ha deciso di intensificare la propria politica di massima pressione nei confronti dell’Iran, colpendo direttamente il settore petrolifero e le relative infrastrutture logistiche. Le recenti azioni statunitensi mirano a ridurre significativamente le esportazioni iraniane di petrolio, specialmente verso la Cina, per limitare il finanziamento delle attività destabilizzanti del regime iraniano in Medio Oriente.
Il Dipartimento di Stato ha imposto nuove sanzioni contro tre società che hanno facilitato trasferimenti illeciti di petrolio iraniano mediante operazioni navali ship-to-ship (STS) svolte al largo dei porti nel Sud-est asiatico. Contemporaneamente, sono state individuate tre navi utilizzate per queste operazioni, dichiarandole beni soggetti a blocco. Queste misure puntano a bloccare il flusso finanziario che consente a Teheran di sostenere i suoi programmi nucleari e missilistici, oltre al sostegno ai gruppi terroristici regionali.
Parallelamente, il Dipartimento del Tesoro ha colpito direttamente il Ministro del Petrolio iraniano, Mohsen Paknejad, figura chiave nelle operazioni petrolifere iraniane, accusato di usare le risorse energetiche nazionali a favore delle attività illecite del regime. Sono state inoltre sanzionate diverse compagnie coinvolte nel trasporto e nella vendita del petrolio iraniano, soprattutto verso la Cina.
Le società colpite dalle sanzioni hanno operato con navi registrate in vari Paesi, nascondendo l’origine reale del petrolio trasportato, disattivando o manipolando i sistemi di identificazione automatica (AIS) per eludere i controlli internazionali. Tra queste società vi sono la PT. Bintang Samudra Utama (Bintang), la Shipload Maritime Pte. Ltd. e la PT. Gianira Adhinusa Senatama (Gianira), che hanno rispettivamente gestito le navi CELEBES, MALILI e MARINA VISION. Queste navi sono state coinvolte in un’importante operazione di trasferimento STS di petrolio iraniano il 25 dicembre 2024 nei pressi di Nipa, in Indonesia.
Gli analisti sottolineano che questa strategia riflette una consolidata tattica statunitense, volta non solo a bloccare le principali entrate economiche di Teheran ma anche a scoraggiare società e stati terzi dal collaborare direttamente o indirettamente con il regime iraniano. Questo genere di sanzioni genera un forte effetto dissuasivo, aumentando i costi e i rischi per gli operatori internazionali che cercano di aggirare le restrizioni imposte dagli USA.
Sul piano economico e strategico, questa ulteriore stretta punta dunque ad azzerare progressivamente le entrate petrolifere dell’Iran, indebolendo la capacità del regime di finanziare sia le proprie forze armate convenzionali sia le reti di milizie e gruppi affiliati, considerati da Washington come fattori principali di instabilità regionale.
È prevedibile che l’intensificazione delle sanzioni porti a un ulteriore aumento della tensione internazionale, ribadendo però la determinazione dell’amministrazione Trump a proseguire con la politica di massima pressione, con l’obiettivo finale di costringere l’Iran a rivedere le proprie strategie regionali e le proprie ambizioni nucleari e missilistiche.


La sponda inesistente?

di Melissa de Teffè, dagli Stati Uniti – Giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense.

La Sveglia di Draghi dopo il discorso di JD Vance

C’è qualcosa di quasi tragico nel crescente divario transatlantico riguardo alle reali dinamiche geopolitiche. Il Vicepresidente JD Vance, pronuncia un discorso che potrebbe essere riassunto come un mix di nostalgia isolazionista e realismo spietato, avvolto nella tipica spavalderia che sempre più caratterizza i dibattiti della politica estera americana. Il suo messaggio? Gli Stati Uniti sono stanchi di pagare il conto per la sicurezza dell’Europa mentre il continente indugia e non si assume le proprie responsabilità. Ma ci siamo dimenticati che già John F Kennedy   sollecitò  l’Europa a contribuire maggiormente finanziariamente alla Nato. Durante una conferenza stampa disse: “Nel 1779, prima che la Francia entrasse nella Guerra d’Indipendenza, qualcuno disse a Benjamin Franklin- È un grande spettacolo quello che state mettendo in scena in America,”e Franklin rispose: “Sì, ma il problema è che gli spettatori non pagano.” – Oggi non siamo spettatori. Stiamo tutti contribuendo, siamo tutti coinvolti, qui in questo paese, in questa comunità, nell’Europa occidentale, nel mio stesso paese e in tutto il mondo, dove è nostra responsabilità dare il massimo contributo. Grazie.” (JFK- 2 giugno, 1961 a Parigi).

Negli ultimi 30 anni, l’Europa ha accettato tutte le scelte politiche degli Stati Uniti, che la riguardassero, i quali hanno sempre sostenuto il processo di adesione della NATO. Questa strategia ha comportato l’integrazione di ex nazioni del blocco orientale e di stati post-sovietici nell’alleanza, estendendo così l’influenza della NATO verso est.

Nel 1997, durante l’amministrazione Clinton, la NATO ha invitato Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca ad aderire, segnando la prima espansione dalla Guerra Fredda. Questa decisione faceva parte di un più ampio sforzo per integrare i paesi dell’Europa centrale e orientale nelle strutture politiche e di sicurezza occidentali. Le successive inclusioni portano all’adesione di Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia nel 2004, seguita da Albania e Croazia nel 2009, Montenegro nel 2017 e Macedonia del Nord nel 2020. L’idea teorica dietro a questo accorpamento era di voler ottenere maggiore stabilità regionale e prevenire la rinascita dell’autoritarismo.

Tuttavia, questa apertura verso est è stata un punto di contesa importante con la Russia, che l’ha percepita come una minaccia alla propria sfera d’influenza e al suo “benessere” fisiologico, (rammentiamo tutti la reazione di Kennedy quando Krushev fece giungere i missili a testata nucleare a Cuba). Documenti declassificati rivelano che i funzionari statunitensi erano consapevoli delle preoccupazioni della Russia riguardo all’allargamento della NATO, riconoscendo che ciò avrebbe potuto rappresentare una minaccia per la sicurezza russa. In sintesi, negli ultimi tre decenni, la politica degli Stati Uniti è stata determinante nell’espansione della NATO con l’obiettivo di mantenere una loro egemonia regionale. Questa strategia, pur raggiungendo i suoi obiettivi, ha anche contribuito ad accrescere le tensioni con la Russia, evidenziando le complesse dinamiche delle relazioni internazionali nel periodo post-Guerra Fredda.

Il conflitto tra Russia e Ucraina è iniziato molto prima del 2022. Fu nel 2014, che la Russia ha annesso la Crimea e ha sostenuto i movimenti separatisti in Donetsk e Luhansk, dando il via a una guerra nell’Ucraina orientale. Nonostante gli accordi di cessate il fuoco, i combattimenti non si sono mai realmente fermati. La Russia ha continuato a fornire supporto militare e logistico ai separatisti. Poi il conflitto è  escalato drammaticamente nel 2022, quando la Russia ha lanciato un’invasione su larga scala, trasformando una crisi regionale in un confronto globale.

Se il conflitto tra Russia e Ucraina ha avuto inizio nel 2014, affondando però le sue radici molto più indietro nel tempo, l’espansione della NATO verso est, avviata sotto l’amministrazione Clinton, ha alimentato nella Russia la sindrome da “fortezza sotto assedio” da alleanze militari occidentali. Questa doppia dinamica – la reazione russa nei confronti dell’Ucraina e la crescente insofferenza verso la NATO – ha creato la tempesta perfetta, trasformando un conflitto regionale latente in uno scontro geopolitico di portata cruciale.

 Il Presidente Vladimir Putin, prima dell’invasione dell’Ucraina, in un discorso del 24 febbraio 2022, ha dichiarato: “L’ulteriore espansione dell’infrastruttura della NATO e l’inizio dello sviluppo militare nei territori dell’Ucraina sono per noi inaccettabili.”

E l’Unione Europea cosa ha fatto in tutti questo decennio 2014-2024? l’UE ha adottato un approccio cauto, concentrandosi sugli sforzi diplomatici, sostenendo gli Accordi di Minsk nel tentativo di stabilire un cessate il fuoco e ridurre le tensioni. Tuttavia, questi accordi non sono mai stati pienamente attuati e il ruolo dell’UE è rimasto in gran parte reattivo piuttosto che proattivo. Dopo l’annessione della Crimea, sono state imposte sanzioni economiche alla Russia, seguite da ulteriori misure dopo l’invasione su larga scala del 2022. Tuttavia, oltre alle risposte economiche e diplomatiche, l’invio di armi e aiuti umanitari per 132 miliardi di euro e più, l’UE ha fatto ben poco per sviluppare una strategia di sicurezza forte e indipendente, ma si è affidata principalmente agli Stati Uniti che soprattutto durante l’amministrazione Biden è andata in escalation militare, senza prevedere incontri diplomatici per cercare una chiusura al conflitto.

Il Lamento Europeo

Se dunque il discorso di JD Vance per alcuni era prevedibile, ciò che è seguito non lo è stato. La vera risposta, ma non tanto agli americani, quanto agli europei tutti, è venuta dall’ex-Presidente della BCE, ex-Presidente del Consiglio italiano e attuale consulente del Parlamento europeo, Mario Draghi, che durante la Settimana parlamentare europea 2025, evento annuale dedicato alle sfide e alle opportunità dell’UE, in un discorso al Parlamento, ha evidenziato la necessità di un’azione unitaria veloce, chiara, sottolineando l’urgenza di investimenti strategici per affrontare la concorrenza globale e promuovere una crescita sostenibile. Il suo intervento, è stato più “gentile” di quello di Vance, e più digeribile per l’orgoglioso club europeo, (è sempre più facile ascoltare le critiche da un membro di famiglia che da altri). Draghi ha voluto spronare l’Europa affinché abbandoni vecchi comportamenti burocratici e passivi con azioni che rafforzino la propria posizione economica e geopolitica. Insomma un richiamo necessario alla realtà per l’establishment europeo, ormai incancrenito e spesso intrappolato in un ciclo di lamentele (come dimostrano le reazioni della Germania e di altri paesi alle dichiarazioni di JD Vance), impegnato più in rituali diplomatici privi di sostanza, mentre gli Stati Uniti, in meno di un mese dall’insediamento della nuova presidenza, stanno rivoluzionando tutti gli equilibri. È il momento di assumersi le proprie responsabilità, ma come disse Churchill, “questo è il prezzo della grandezza”.

Da anni, i leader europei osservano i mutamenti della politica statunitense con un misto di inquietudine e frustrazione. Ogni cambio di amministrazione porta nuove incertezze, eppure l’UE continua ad agire come se Washington, mamma Washington, sia sempre lì pronta a consolarla, comprarle le sue eleganti invenzioni e a regalarle qualche bonus quando in visita.

Seppure la NATO rimane eccessivamente dipendente dal potere militare statunitense, e sebbene la spesa per la difesa dell’UE sia in aumento, manca ancora una coerenza strategica. Anche di fronte a crisi come quella ucraina, il processo decisionale europeo è lento, frammentato e eccessivamente dipendente dalla leadership americana.

JD Vance, riflettendo l’ala più nazionalista e transazionale della politica statunitense, ha semplicemente articolato ciò che molti a Washington—su entrambi i fronti politici—pensano da tempo: l’Europa deve smetterla di aspettarsi che gli Stati Uniti si facciano carico di tutto. Le sue parole riflettono un crescente consenso bipartisan in America, secondo cui l’Europa deve agire o rischia di essere messa da parte. Vance dice: “Accogliete ciò che il vostro popolo vi dice, anche quando vi stupisca o anche quando non siete d’accordo. E se lo farete, potrete affrontare il futuro con certezza e fiducia, sapendo che la nazione è al vostro fianco. E questo, per me, è il grande miracolo della democrazia.”

Quindi cosa vogliono gli elettori europei?

Il richiamo all’azione di Draghi descrive la profonda inerzia politica che impedisce a questa Unione di divenire un vero attore globale. Draghi ha ricordato al Parlamento europeo che lamentarsi dell’imprevedibilità americana non è una strategia. L’azione lo è.

Le parole dell’ex Presidente del Consiglio dovrebbero servire come un momento di svolta. Se l’Europa continua lungo il percorso della dipendenza passiva, rischia l’irrilevanza in un mondo sempre più definito dalla forza e dal realismo politico. Non basta più lamentarsi dei cambiamenti della politica americana, l’Europa deve creare una propria visione strategica indipendente e coerente. Ciò significa accelerare l’integrazione della difesa, investire nelle capacità tecnologiche e industriali e avere la volontà di agire – anche quando il consenso è difficile da raggiungere.

L’Europa ascolterà questa volta? O il richiamo alla realtà di Draghi sarà solo un altro avvertimento ignorato in una lunga storia di opportunità mancate? Concludo con un detto americano: “If you can’t run with the big dogs, stay on the porch” che tradotto sarebbe: “Se non puoi stare al gioco, è meglio che stai a guardare.” –  Osserveranno gli europei le scelte russe, cinesi o americane o diventeranno il quarto giocatore in questa partita di vita?


Le Filippine: un perno geopolitico nell’Indo-Pacifico e l’opportunità strategica per l’Italia

di Andrea Molle, dagli Stati Uniti.

Le Filippine, da tempo considerate un attore geopolitico cruciale nel Sud-Est asiatico, si trovano sempre più al centro della crescente competizione tra Stati Uniti e Cina. Mentre la “linea degli undici tratti” porta avanti l’aggressiva politica estera di Beijin nel Mar Cinese Meridionale e oltre, e Washington intensifica la sua strategia indo-pacifica, Manila gioca un ruolo di primo piano nel plasmare le dinamiche di sicurezza regionale. Per l’Italia, che tradizionalmente ha concentrato la propria politica estera su Europa, Africa e Mediterraneo, l’evoluzione del panorama indo-pacifico rappresenta un’opportunità per ridefinire il proprio impegno globale attraverso una presenza più mirata, sia militare che civile, nell’arcipelago filippino. La posizione strategica delle Filippine, situate all’incrocio tra il Pacifico e il Mar Cinese Meridionale, le rende infatti un alleato potenzialemtne prezioso sia per le potenze regionali che per quelle globali. Situato al crocevia di importanti rotte commerciali marittime, il paese funge da varco tra il Pacifico e i centri economici dell’Asia orientale.

Ancora più importante, l’arcipelago offre vantaggi logistici e militari cruciali, in particolare nel contrastare l’espansione territoriale aggressiva della Cina nelle acque contese e la minaccia a Taiwan. Le rivendicazioni di Pechino sul Mar Cinese Meridionale, comprese la costruzione di isole artificiali e l’interruzione di diverse rotte di pesca, hanno direttamente minacciato la sovranità delle Filippine. Nonostante una sentenza del tribunale internazionale nel 2016 abbia invalidato le rivendicazioni cinesi, Beijin continua a perseguire i propri interessi in modo aggressivo. In risposta, Manila ha rafforzato i suoi legami di difesa con Washington, riaprendo basi strategiche alle forze statunitensi e approfondendo la cooperazione in materia di sicurezza con partner regionali come Giappone e Australia. Le Filippine hanno partecipato, ad esempio, a una serie di esercitazioni navali internazionali con Stati Uniti, Australia, Giappone e Francia. Queste manovre, condotte all’interno della Zona Economica Esclusiva filippina, mirano a migliorare il coordinamento della difesa e l’interoperabilità.

La Cina: obiezioni e interessi

La Cina ha espresso obiezioni a queste attività, considerandole destabilizzanti. Inoltre, Manila ha firmato un accordo di difesa con il Canada per rafforzare le esercitazioni militari congiunte, in linea con la sua strategia di consolidamento delle partnership di difesa nel contesto delle crescenti tensioni nel Mar Cinese Meridionale. Allo stesso tempo, le Filippine devono gestire un equilibrio molto delicato. Pur necessitando delle garanzie di sicurezza fornite dagli Stati Uniti, la loro interdipendenza economica con la Cina complica la situazione. Beijin rimane un partner commerciale chiave, una fonte primaria di investimenti e un attore influente nell’architettura economica della regione. Questa tensione tra sicurezza e interessi economici riflette la più ampia sfida che molte nazioni del Sud-Est asiatico affrontano nel navigare la rivalità tra Stati Uniti e Cina. Mentre le Filippine stanno rafforzando le loro collaborazioni in materia di difesa con gli Stati Uniti e altri alleati, continuano anche a mantenere un dialogo diplomatico con la Cina. Ad esempio, durante un recente incontro con il Primo Ministro cambogiano Hun Manet, il Presidente filippino Ferdinand Marcos Jr. ha espresso gratitudine per la grazia concessa a 13 donne filippine, evidenziando gli sforzi di Manila per mantenere relazioni positive all’interno della regione. Il rinnovato focus di Washington sull’Indo-Pacifico, in particolare attraverso iniziative come AUKUS, il Quad e il rafforzamento della cooperazione di sicurezza con i paesi ASEAN, mira a contrastare l’influenza crescente della Cina.

Gli Stati Uniti: la strategia di sicurezza regionale

Per gli Stati Uniti, le Filippine rappresentano un pilastro critico nella loro strategia di sicurezza regionale. L’Enhanced Defense Cooperation Agreement (EDCA) tra Manila e Washington facilita l’accesso americano a installazioni militari chiave, garantendo una presenza avanzata in grado di dissuadere le incursioni cinesi e rafforzare la sicurezza marittima. Inoltre, la crescente presenza militare statunitense nella regione funge da deterrente contro una potenziale escalation a Taiwan, una delle principali aree di tensione tra USA e Cina. La vicinanza delle Filippine a Taiwan le rende un hub logistico fondamentale in caso di conflitto, consolidando ulteriormente la loro importanza nella strategia americana.

L’Italia: economia, commercio e difesa

Ma che dire dell’Italia? L’Italia, in quanto media potenza europea, ha tradizionalmente mantenuto una presenza limitata nell’Indo-Pacifico. Tuttavia, data la crescente rilevanza globale della regione e i legami sempre più stretti con Washington, Roma dovrebbe riconsiderare il proprio coinvolgimento strategico. Mentre Francia e Regno Unito hanno già rafforzato la loro presenza navale ed economica nell’Indo-Pacifico, l’Italia deve ancora definire pienamente il proprio ruolo. Gli interessi economici italiani si allineano con la necessità di un Indo-Pacifico stabile e basato su regole chiare. La regione rappresenta un mercato cruciale per le esportazioni italiane, tra cui tecnologia della difesa, attrezzature marittime e infrastrutture.

Rafforzare i legami economici e di sicurezza con le Filippine potrebbe fornire un punto d’accesso strategico per un coinvolgimento più ampio nell’ASEAN, dove l’Italia detiene lo status di osservatore. Sul fronte della sicurezza, l’Italia potrebbe potenziare la cooperazione navale con le Filippine partecipando a esercitazioni marittime congiunte, fornendo addestramento alla guardia costiera e supportando gli sforzi regionali per mantenere la libertà di navigazione. Inoltre, l’avanzata industria della difesa italiana potrebbe contribuire alla modernizzazione delle capacità militari filippine.

Dal punto di vista diplomatico, l’Italia dovrebbe sfruttare le proprie partnership all’interno dell’UE per promuovere una strategia europea più coerente nell’Indo-Pacifico, assicurandosi che l’Europa rimanga un attore rilevante nell’equilibrio geopolitico della regione. Sostenere i meccanismi di sicurezza guidati dall’ASEAN e promuovere il rispetto del diritto internazionale, in particolare della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS), rafforzerebbe ulteriormente il ruolo dell’Italia come attore costruttivo. In conclusione, l’importanza geopolitica delle Filippine nell’Indo-Pacifico è indiscutibile. Mentre gli Stati Uniti si muovono per contrastare l’assertività crescente della Cina, Manila si trova al centro di una competizione strategica che plasmerà il futuro dell’ordine globale. Per l’Italia, un coinvolgimento più proattivo nell’Indo-Pacifico—soprattutto attraverso un rafforzamento dei legami con le Filippine—rappresenta un’opportunità per diversificare la propria politica estera e affermarsi come attore rilevante in una delle regioni più dinamiche del mondo.

Approfondendo i legami economici, di sicurezza e diplomatici, l’Italia può contribuire a un Indo-Pacifico più stabile e basato sulle regole, ampliando al contempo il proprio ruolo strategico in un mondo sempre più multipolare.


I pericoli di una guerra tra Israele e Giordania

di Andrea Molle, dagli Stati Uniti.

Una guerra tra Israele e Giordania rimane uno scenario improbabile ma potenzialmente catastrofico. Dal trattato di pace del 1994, i due Paesi hanno mantenuto una cooperazione diplomatica e di sicurezza, rendendo un conflitto armato poco realistico. Tuttavia, il Medio Oriente è una regione dove le tensioni possono degenerare rapidamente, e in caso di guerra, le conseguenze sarebbero profonde, andando ben oltre il campo di battaglia e ridisegnando gli equilibri regionali e globali.

Dal punto di vista militare, Israele detiene un vantaggio schiacciante. La sua forza aerea all’avanguardia, i sofisticati sistemi di difesa missilistica e le capacità di guerra cibernetica lo rendono una delle potenze militari più avanzate al mondo. L’esercito giordano, pur essendo professionale e ben addestrato, non ha la potenza offensiva e il livello tecnologico necessari per sostenere una guerra prolungata contro Israele. Sebbene il territorio montuoso della Giordania possa offrire qualche vantaggio difensivo, le sue principali città e infrastrutture sarebbero altamente vulnerabili agli attacchi aerei israeliani. D’altra parte, le città israeliane come Tel Aviv e Gerusalemme sarebbero nel raggio d’azione dei missili giordani, ma la difesa missilistica israeliana, come l’Iron Dome, riuscirebbe probabilmente a neutralizzare gran parte della minaccia.

Se una guerra dovesse scoppiare sotto un’amministrazione statunitense guidata da Donald Trump, lo scenario geopolitico cambierebbe radicalmente. Trump ha dimostrato in passato un sostegno incondizionato a Israele, spostando l’ambasciata americana a Gerusalemme e riconoscendo la sovranità israeliana sulle Alture del Golan. In caso di conflitto, Washington si schiererebbe quasi certamente con Israele, fornendo supporto militare, bloccando iniziative diplomatiche per moderarne le azioni e facendo pressione sulla Giordania affinché de-escalasse rapidamente. Questa posizione potrebbe incoraggiare la leadership israeliana a proseguire le operazioni belliche senza cercare una soluzione negoziata immediata, prolungando così il conflitto. Allo stesso tempo, tale politica alienerebbe ulteriormente gli alleati arabi come Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, mettendoli in una posizione difficile: da un lato il sostegno diplomatico alla Giordania, dall’altro la necessità di preservare le proprie relazioni con Israele.

Le conseguenze economiche di un tale conflitto sarebbero devastanti. La Giordania, già dipendente dagli aiuti esteri e dalla cooperazione economica con Israele, subirebbe danni enormi, con la distruzione delle infrastrutture e il collasso del commercio. Israele, pur avendo un’economia più solida, vedrebbe comunque una forte instabilità nei mercati, un crollo del turismo e possibili interruzioni nei settori tecnologico e della difesa. Se il conflitto si espandesse, le ripercussioni si farebbero sentire anche sul mercato globale del petrolio, causando un’impennata dei prezzi e nuove turbolenze economiche. Oltre agli effetti militari ed economici, uno degli aspetti più preoccupanti di un conflitto tra Israele e Giordania sarebbe la recrudescenza del terrorismo internazionale.

La storia ha dimostrato come la guerra e l’instabilità in Medio Oriente rappresentino un terreno fertile per i gruppi jihadisti, e una guerra tra questi due Paesi potrebbe aprire la strada a nuove offensive terroristiche. L’ISIS-K, già in espansione, potrebbe approfittare del caos per rafforzarsi e lanciare attacchi sia in Israele che in Giordania, utilizzando il conflitto come strumento di propaganda e reclutamento.

Inoltre, il rischio di attentati in Europa, negli Stati Uniti e in altri Paesi occidentali aumenterebbe, alimentato dalla radicalizzazione generata dal conflitto. L’eventualità di una nuova ondata di terrorismo globale costringerebbe i governi a rivedere le loro strategie di sicurezza e a destinare ingenti risorse alla lotta contro il jihadismo. Gli esiti possibili di un tale conflitto sono diversi. Uno scenario relativamente contenuto potrebbe portare a un cessate il fuoco mediato dagli Stati Uniti o da potenze regionali come l’Arabia Saudita e l’Egitto.

Tuttavia, se la guerra si prolungasse e altri attori esterni, come l’Iran, Hezbollah e le fazioni palestinesi, vi prendessero parte, il rischio di una più ampia escalation regionale diventerebbe concreto. La Giordania stessa potrebbe affrontare un periodo di grave instabilità politica, con il regime hashemita indebolito dal conflitto e minacciato da proteste interne o persino da un colpo di stato. Nel peggiore dei casi, la guerra potrebbe segnare l’inizio di una nuova era di caos nel Medio Oriente, rafforzando le organizzazioni estremiste e ridefinendo le alleanze regionali. Alla fine, una guerra tra Israele e Giordania sarebbe disastrosa per entrambi i Paesi e per l’intera regione.

I costi strategici, economici e di sicurezza supererebbero di gran lunga qualsiasi possibile vantaggio, rendendo un conflitto su vasta scala altamente improbabile. Tuttavia, la storia ha dimostrato che errori di calcolo politici, provocazioni esterne o cambiamenti nelle alleanze possono portare nazioni apparentemente stabili verso la guerra. Anche se un conflitto aperto tra Israele e Giordania resta poco plausibile, il rischio di tensioni al confine, scontri indiretti e crisi diplomatiche non deve essere sottovalutato. L’unica vera soluzione rimane il dialogo e l’impegno diplomatico, perché l’alternativa—a un conflitto dalle conseguenze imprevedibili e devastanti—sarebbe una tragedia per l’intero Medio Oriente.


Semper supra: la sesta Forza Armata statunitense

di Melissa de Teffè, dagli Stati Uniti – Giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense.

“Il diritto di resistenza è un diritto di difesa, ma non implica l’uso della violenza, bensì la possibilità di opporsi all’abuso di potere con strumenti legali e pacifici. – e i leader della terra devono affrontare il compito più difficile che ci sia, ossia quello di evitare una guerra nucleare, mentre cercano di preservare la libertà è necessario introdurre programmi di disarmo”
Questa una mia sintesi di quanto detto da Norberto Bobbio e da Robert Kennedy dove ambo enfatizzano l’importanza della difesa dei diritti attraverso mezzi legittimi e non violenti, mantenendo il rispetto per l’ordine e la giustizia, sono concetti che purtroppo non riescono ancora a trovare applicazione. La corsa agli armamenti rimane la scelta primaria di quasi tutti i presidenti americani. Questa corsa però, porta sempre in seno una minaccia evidente, sottraendo economie vitali ad altro.  Durante l’epoca reaganiana, gli Stati Uniti volevano installare missili nucleari lungo la linea divisioria tra Europa occidentale e l’URSS. Il presidente stesso era finito sulla copertina del Times con “The Evil Empire” riferendosi all’ex Unione Sovietica; numerose erano  le manifestazioni contro quest’idea, considerando che erano trascorsi solo 4 decenni dalla fine della seconda guerra mondiale, e i nonni, ancora vivi o sopravvisuti, ci raccontavano, a tavola la domenica dei drammi della guerra. L’Eruopa era quindi ancora una volta il terreno di battaglia. Ma Reagan, sapeva che non sarebbe riuscito a installare i missili lungo la linea divisoria tra i paesei dell’est e dell’ ovest europeo. Fu per merito di esperti come il Generale Abrahamson, se Reagan riuscì a mettere in ginocchio il suo nemico numero uno,  grazie all’idea di creare una corsa agli armamenti “spaziale”, con il “Progetto SDI” – Space Defence Initiative. Reagan immaginava una strategia di difesa in grado di intercettare e distruggere i missili balistici intercontinentali (ICBM) durante le diverse fasi del loro volo, inclusi il lancio, la fase intermedia e quella finale. L’SDI era ambizioso, incorporava tecnologie avanzate come stazioni spaziali laser, piattaforme missilistiche a terra e sofisticati sensori per rilevare e tracciare le minacce. Sicuramente lasciò tutti sbalorditi, militari e non. Sembrava che Star Wars fosse una realtà imminente.

L’SDI ebbe un impatto duraturo sulla politica della difesa statunitense e sulle relazioni internazionali, stimolando investimenti significativi nella ricerca e nello sviluppo di tecnologie per la difesa missilistica, alcune delle quali gettarono le basi per i futuri sistemi. Inoltre, l’SDI influenzò le negoziazioni sul controllo degli armamenti, in particolare con l’Unione Sovietica. Forzò la creazione di osservatori diplomatico-militari per capire fin dove si sarebbe spinta questa nuova iniziativa. Seppur da civile, ebbi l’occasione di vederla da vicino.

La decisione di Reagan nel 1983 scatenò di conseguenza, una nuova corsa agli armamenti con l’Unione Sovietica, (la Cina di Deng Xiaoping era troppo impegnata nell’ammodernamento interno) mettendo sotto pressione l’economia sovietica in modo significativo. L’URSS, già in difficoltà economiche e militari, faticava a tenere il passo con le tecnologie avanzate degli Stati Uniti. L’SDI fu visto come una minaccia per il deterrente nucleare sovietico, e costrinse l’URSS a sviluppare contromisure, ma le difficoltà tecniche e i costi elevati, la resero consapevole di non poter competere in un’ulteriore escalation militare.  Così l’URSS firma il Trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty), nel 1987 con gli gli Stati Uniti. Il trattato mirava a eliminare tutte le armi nucleari e convenzionali di raggio intermedio, cioè missili con una gittata compresa tra 500 e 5.500 chilometri, dai rispettivi arsenali. L’accordo fu una tappa importante nella distensione della Guerra Fredda, in quanto contribuì a ridurre il rischio di conflitti nucleari in Europa e a diminuire la presenza di armi nucleari a corto e medio raggio. Entrambe le superpotenze si impegnarono a distruggere i missili in questione, con verifiche reciproche per garantire il rispetto del trattato.

Dopo 32 anni, nel dicembre del 2019, il presidente Trump firma il National Defense Authorization Act, creando ufficialmente la United States Space Force, il sesto ramo delle forze armate degli Stati Uniti. Questo passo riconosce lo spazio come un dominio critico per la sicurezza nazionale, con l’obiettivo di migliorare le capacità del paese nelle operazioni spaziali.

La creazione della Space Force rappresenta una pietra miliare significativa, da quando fu creata l’Air Force nel lontanto 1947.  La mission di questo nuova forza militare, ha il compito di organizzare, addestrare e fornire equipaggiamento ai professionisti dello spazio per proteggere gli interessi del paese e dei suoi alleati nello spazio. Già durante la campagna elettorale, Trump aveva detto che avrebbe creato una Space National Guard a supporto della Space Force, squadre specializzate nella gestione dei dati satellitari, per garantire il mantenimento della superiorità tecnologica. Oggi invece, in conferenza stampa, Trump ha annunciato di voler istituire un sistema di difesa missilistica di nuova generazione, ispirato all’Iron Dome israeliano*, chiamata “Iron Dome for America”, che ha l’obiettivo di proteggere gli Stati Uniti da minacce aeree. Il Segretario alla Difesa Pete Hegseth ha sottolineato una rapida implementazione, in linea con la promessa elettorale di Trump di sviluppare uno scudo di difesa missilistica all’avanguardia, costruito internamente.

Anche se l’iniziativa “Iron Dome for America” si concentra sul miglioramento delle capacità di difesa missilistica, non si tratta di un nuovo ramo militare simile all’Iniziativa di Difesa Strategica proposta durante l’amministrazione del presidente Ronald Reagan. Invece, rappresenta un’espansione delle infrastrutture di difesa esistenti per rafforzare la sicurezza nazionale contro le minacce emergenti.

L’annuncio di Trump di voler sviluppare una versione americana, con l’obiettivo di migliorare le capacità di difesa missilistica degli Stati Uniti esemplifica la serietà delle minacce che questo paese ha vissuto negli ultimi anni. Purtroppo per la scrivente non è dato sapere esattamente la gravità di queste, ma sono intuibili da un paio di brevi affermazioni fatte da Pam Bondi, Procuratore di Stato per la Florida, durante l’audizione presso il Comitato Giudiziario del Senato,  per la sua conferma a Procuratore Generale degli Stati Uniti.

Questi sviluppi evidenziano il crescente riconoscimento dello spazio come una componente vitale della strategia di difesa nazionale statunitense.

*L’Iron Dome (cupola di ferro) è un sistema avanzato di difesa aerea sviluppato da Israele per intercettare e distruggere missili a corto raggio e proiettili di artiglieria che minacciano le aree popolate. Da quando è stato attivato nel 2011, è stato fondamentale per proteggere i civili israeliani da varie minacce missilistiche. Sviluppato con il supporto degli Stati Uniti, l’Iron Dome è composto da tre componenti principali:

  1. Radar di rilevamento e tracciamento: Identifica le minacce in arrivo.
  2. Gestione della battaglia e controllo delle armi Valuta la minaccia e determina la necessità di intercettazione.
  3. Unità di lancio missili: Lancia missili intercettori per neutralizzare la minaccia. Quando un razzo viene rilevato, il sistema calcola la sua traiettoria per determinare se atterrerà in un’area popolata. In tal caso, lancia un missile intercettore per distruggere la minaccia in volo.

Il discorso di Trump: una lettura approfondita.

di Melissa de Teffè dagli Stati Uniti – Giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense.

Ho vissuto diversi anni a Washington, DC e ho avuto modo di toccare con mano la difficoltà di scrivere un discorso politico per non parlare di quello presidenziale per l’inaugurazione. Se avete mai visto la serie televisiva West Wing, se ne percepisce la fatica.

Di solito non è mai una sola mano a scrivere, ma un team, e quello di ieri è stato un “second best” ossia è stato sicuramente fatto molto bene, ma, ad oggi, nessuno è ancora riuscito a superare i discorsi di Kennedy, come quello per l’insediamento nel 1961 dove persino noi di oltreoceano ne ricordiamo la famosa frase: “non chiedere cosa può fare il tuo paese per te, ma cosa tu puoi fare per il tuo paese”.

A questo secondo giro di boa, per un uomo che è stato umiliato, deriso, perseguitato e criticato mondialmente, Trump ha sicuramente dimostrato, nonostante l’età, che si può ancora imparare, capire e cambiare. Sia Trump come JFK sono e vengono da famiglie di imprenditori, ma a differenza di John, e non Joe il padre, aveva quella generazione di differenza che gli permise di vestire le sue parole di grazia, di eleganza, un po’ come quando ci si cambia dal vestito da lavoro a quello per il ballo di fine anno. Trump, come Joe, ha avuto otto anni! Sono tanti, sia per capire che per decidere d’imparare. Ha avuto l’umiltà di lasciare che vestissero il suo programma con quelle parole eleganti, vicine alla cultura americana che avrebbero regalato fiducia, speranza, coraggio, unità, senza deturpare ai suoi occhi, il suo stile John Wayne.

Vediamo:

As we gather today, our government confronts a crisis of trust

Mentre ci riuniamo oggi, il nostro governo affronta una crisi di fiducia.

“As we gather today, our government confronts a crisis of trust.” La parola chiave è trust. Il leit motif americano è In God we Trust. La sfiducia nazionale sulle politiche in generale  ha cause diverse che noi in Italia conosciamo molto bene: promesse, promesse, promesse, ma nulla di mantenuto. La generosità di Biden con l’Inflation Redaction Act, Job Act, e la creazione dell’app per gli immigrati per prendere appuntamenti con i funzionari dell’immigrazione, è stata tradita dai risultati, dove gli americani si sono trovati dopo quattro anni più poveri, deflagrata di diritti, case e beni.

Quindi partire parlando di fiducia sottolinea, da un lato, il modo diretto di parlare di un uomo d’affari ma, dall’altro, lo veste culturalmente di sostanza storica andando alle origini religiose, così:

Sunlight is pouring over the entire world, and America has the chance to seize this opportunity like never before.

Il sole splende su tutto il mondo e l’America ha la possibiltà di cogliere questa opportunità mai come adesso. Ecco il primo riferimento biblico, (Giovanni 8:12; Matteo 5:14-16; Salmo 36: 9 e altri).

Qualsiasi persona di successo ci racconterebbe con semplicità che per arrivare e ottenere quello che ha, è passato attraverso le forche caudine, si è sporcata le mani, ha perso mille battaglie prima di raggiungere la mèta. Ma riconosce che le possibilità di farcela ci sono e sono concrete come la certezza che il sole sorge su tutti buoni o cattivi tutti i giorni, non è altro che il dovere di qualsiasi leader di spronare i sudditi e avere speranza. Guardate il sole, è alto e noi possiamo vedere le cose diversamente e cambiarle, perchè possiamo.

  • “Abbiamo un sistema sanitario pubblico che non funziona nei momenti di disastro, eppure si spendono più soldi per esso che in qualsiasi altro paese nel mondo. E abbiamo un sistema educativo che insegna ai nostri bambini a vergognarsi di se stessi, in molti casi a odiare il nostro paese nonostante l’amore che cerchiamo disperatamente di offrire loro.”

Con pochissime parole tocca due delle cause primarie di bancarotta americana: i costi sanitari e i costi per l’educazione. I primi sono dovuti soprattutto dall’ingordigia delle case farmaceutiche che, come chi produce armi, si sono arricchiti senza limiti.

Per quanto riguarda l’educazione, lo sbaglio iniziale fu commesso dal governo federale che offrì alle università di garantire i prestiti per gli studenti in modo che potessero pagare le loro tasse universitarie. Così le università perdendo qualsiasi senso morale, decisero di aumentare le tasse universitarie visto appunto che il governo federale avrebbe garantito i prestiti. A causa di questa politica, oggi il debito complessivo è di 1,7 trilioni di dollari.

Tra inflazione e debiti negli ultimi 10/15 anni c’è stata un’erosione importante della classe media. Il potere d’acquisto della casa è sceso, mentre i prezzi sono aumentati.


La maggior parte della classe media americana non riesce ad essere proprietaria della propria casa e mediamente il 50% di questo ceto ha un lascito non superiore ai 10.000 dollari sempre che non abbia (molto probabile) debiti con le carte di credito.

  • “Oggi è il Giorno di Martin Luther King e in suo onore — questo sarà un grande onore — ci sforzeremo insieme per rendere il suo sogno una realtà. Faremo sì che il suo sogno diventi realtà.”

Contrariamente a quanto gli è stato imputato dalla stampa, Trump non è mai stato nè maschilista, nè razzista, nè contro l’omosessualità. Ci sono tantissime testimonianze negli anni che lo dimostrano: da donazioni a gruppi di colore, all’aver assunto come capo cantiere nel 1979 una donna! Trump è il frutto dell’America meritocratica. Ecco perchè ha cancellato le quote d’ammissione a posti di lavoro federali. Il privato può continuare liberamente a fare le proprie selezioni. D’altra parte aiutare affinchè tutti abbiano una chance non sempre dà i risultati sperati. Quanto sono state dibattute le quote rosa in Italia? Eppure Elli Shlein e il nostro Presidente del Consiglio, mi pare, si siano conquistate i loro posti da sole.

Tornando al sogno di Martin Luther King, a Trump la guerra non interessa. Ci sono troppi problemi interni per perdere tempo e spendere soldi che non hanno alcun ritorno, soprattutto se si è obbligati a guerreggiare quelle degli altri.

Per quanto riguarda i dazi e rapporti esteri in generale, il rapporto di Trump è molto semplice e potrebbe essere riassunto da un antico detto di diritto romano: “do ut des”. Se sei corretto con me, lo sarò anche io. Guardando l’Unione Europea è difficile, non dargli torto, visto che di unione abbiamo molto poco. Anzi forse questo schiaffo sarà l’opportunità per noi europei di decidere la nostra identità seguendo fatti più concreti e non negoziando singolarmente ogni posizione. In relazione al Messico, così come in relazione ai paesi del centro America, inclusi Venezuela e Colombia, il discorso cambia. Così come noi europei abbiamo lasciato e continuiamo a lasciare milioni di euro alla Turchia di Erdogan per arginare l’arrivo dal Medio Oriente (vedi Siria), dall’Asia (Afghanistan) o dall’Africa profughi ed immigrati, così gli Stati Uniti hanno elargito somme importanti anche al Messico, affinchè facesse da barrage all’invasione di milioni di persone. Non è stato così.

Con Panama invece la situazione è sia economica che strategica. Il controllo del canale è principalmente nelle mani di società cinesi, una situazione che, seppur diversa, richiama alla mente quella del 1962, quando Khrushchev tentò di inviare missili balistici a Cuba, costringendo Kennedy a reagire con forza. Oggi, seppur il contesto sia diverso, Trump non vuole trovarsi nella situazione d’essere ricattato nel caso il canale venga chiuso per volere cinese. Molti non sanno che la Cina, da anni, è responsabile di gravi spionaggi industriali e attacchi interni agli Stati Uniti. In tale quadro, Trump non solo chiede una riduzione dei costi di passaggio del canale, lievitati negli anni, ma, giustamente, anche garanzie di libertà di navigazione.

Trump vuole quello che vogliamo tutti, essere libero d’agire con i suoi beni e rendere il suo paese indipendente soprattutto dal punto di vista manifatturiero. Da decenni la manifattura americana non esiste più, ma al più si assembla qui o a Juarez, in Messico, di fronte a El Paso, Texas. Tutto è prodotto altrove, soprattutto in Cina, il tasto più dolente di questa economia.

I will end the practice of catch and release

Metterò fine alla pratica del prendere e rilasciare.

La politica del “prendere e rilasciare” è stata usata per descrivere la pratica dell’arrestare gli immigrati illegali, per poi rilasciarli aspettando la loro comparizione in tribunale davanti al giudice per perorare la richiesta di asilo, non necessariamente politico. Essendo il numero di illegali, entrati nel territorio, esorbitante, spesso la data  per fare richiesta di asilo in tribunale era lontana almeno un anno. Questo ha dato, nel frattempo, agli immigrati illegali la possibilità di radicarsi nel territorio se non addirittura sparire nel nulla, senza presentarsi alle autorità. Trump invece vuole istituire l’approccio del “catch and deport” (prendere e trasferire). Ciò comporterebbe la detenzione dell’illegale fino al completamento dell’udienza. La politica del “catch and release” è stata oggetto di infiniti dibattiti, pro e contro, per i costi, i posti limitati nelle carceri, mentre altri ritengono che indebolisca le leggi sull’immigrazione e la sicurezza nazionale. Vedremo.

A coronamento di questa inversione, Trump ha invocato una legge del 1798 l’Alien Enemies Act (Legge sugli Stranieri Nemici –  faceva parte di una serie di leggi conosciute come gli Alien and Sedition Acts, – Leggi sugli Stranieri e la Sedizione –  approvate dal Congresso durante la presidenza di John Adams, la legge conferiva specificamente al presidente l’autorità di trattenere o deportare qualsiasi cittadino maschio di una nazione ostile durante i periodi di guerra. Adottata durante un periodo di crescenti tensioni tra gli Stati Uniti e la Francia, noto come la Quasi-Guerra, fu promulgata grazie alle forti pressioni dei Federalisti particolarmente preoccupati per i diversi atti di spionaggio e ingerenze di potenze straniere negli affari interni). Si riferisce all’ipotesi di immigrazione illegale programmata dalla Cina, e da altri paesi come l’Iran che avrebbero inviato fondamentalisti musulmani o cellule terroristiche per ora dormienti, spie e assassini con il compito di infiltrarsi nelle società, minando la sicurezza e la stabilità, raccogliendo informazioni sensibili, e preparando il terreno per future destabilizzazioni politiche e sociali.

Questa citazione durante il discorso evidenzia non solo la preparazione di Trump, che probabilmente non era a conoscenza di questa normativa, ma anche che si sia organizzato con team di lavoro altamente qualificato che lo supporta attivamente.

Arriviamo quindi alla parte centrale del discorso dedicato all’economia. La strategia, anche questa semplice e chiara è di risparmiare soldi all’estero, chiedere quindi ai paesi Nato, cosa già per altro nota, di pagare ognuno le sue quote, di chiudere le guerre, soprattutto quella Ukraina dove ormai è di dominio pubblico che gli oligarchi si stanno vendendo le armi “donate” dagli americani e di conseguenza, per soldi, sovvenzionando terroristi e mercato nero; abbassare il tasso d’inflazione causato secondo lui dall’alto costo energetico.


Drill, Baby drill

Trivelliamo!

Da qui la frase: “Drill, Baby drill, – trivelliamo!” , che gli permetterebbe di mettere in crisi immediatamente la Russia e l’Iran, dandogli subito una leva negoziale efficacissima con ambo, sia per il fronte ucraino che quello Israeliano. Infine sovvenzionando attraverso benefici di imposte la creazione di manifatture americane a iniziare ovviamente dal mercato più importante: quello automobilistico. Ecco quindi creazione di posti di lavoro, sovvenzioni per start up e tanto altro.


Men are men and women are women.

Gli uomini sono uomini e le donne sono donne.

“Men are men and women are women”. Citiamo la frase, ma solo per dovere di cronaca.

Infine, per concludere, rispondo indirettamente a tutti quelli che si meravigliano del fatto che accanto a Trump ci fossero tutti gli imprenditori più importanti e innovativi degli USA. I soldi non hanno colore politico, ma solo opportunità, e mi viene spontaneo pensare se qualcuno di voi o chi per voi nel momento clout della propria vita non abbia sfoggiato il meglio di sè, o in suo possesso. Ognuno di quei notabili rappresenta un gioiello di famiglia che vale moltissimo e contrariamente alla mentalità italiana, sempre divisionista, gli americani lavorano in team.

Non mi sorprenderebbe sapere che Bill Gates abbia parlato con Trump di carne bovina o di produzione agricola (è il più grande proprietario americano di terreni agricoli, ranch e foreste, per un ammontare di 112 mila ettari in 19 Stati). Non sarei stupita se Besos, il maggior esperto di logistica fosse incaricato di migliorare lo stato pietoso in cui versano le Poste americane. D’altra parte, seppur sia imprevedibile, Trump è un uomo che dice quello pensa e dice quello che fa e che farà. Gli obbiettivi sono tantissimi, ma il carrozzone burocratico degli Stati è difficile da spezzare, iniziando proprio dal’FBI, il cui direttore ha già detto che vorrebbe trasformare il palazzo a Washington, in un museo e spedire tutti i suoi 7000 impiegati sul territorio a cacciare criminali. “D’altra parte questo è il loro lavoro!” ha detto Kash Patel.


Trump 2025: tra sostenibilità finanziaria interna e una politica estera assertiva.

di Melissa de Teffè dagli Stati Uniti – Giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense.

Il 7 gennaio 2025, Donald Trump ha tenuto la sua prima conferenza stampa ufficiale, segando così l’inizio del suo secondo mandato presidenziale. L’incontro con i giornalisti si è svolto presso la sua residenza di Mar-a-Lago, in Florida, e ha offerto uno spunto sulle principali priorità politiche che intende perseguire, sia sul fronte interno che internazionale. Ha volutamente aspettato il 7, perché il 6 gennaio, è il giorno in cui tradizionalmente avviene la certificazione dei risultati delle elezioni presidenziali, rito fondamentale della democrazia americana: il Congresso degli Stati Uniti, riunito in sessione congiunta, conferma ufficialmente i risultati del Collegio Elettorale. Questa prassi, sancita dalla Costituzione degli Stati Uniti e regolata dal “Electoral Count Act” del 1887, vede il vicepresidente presiedere l’incontro, dichiarando ufficialmente il vincitore delle elezioni presidenziali. Sebbene il processo sia di solito una formalità, ci sono stati episodi storici che hanno segnato questa data, come le contestazioni del 2001 e gli eventi tragici del 2021.

Nel 2001, il 6 gennaio fu teatro di una delle sessioni più controverse della storia recente degli Stati Uniti. Le elezioni presidenziali del 2000, che videro sfidarsi George W. Bush e Al Gore, erano state segnate da un acceso contenzioso sul voto in Florida. Dopo una serie di riconteggi e decisioni legali, la Corte Suprema aveva sancito la vittoria di Bush, ma il risultato fu messo in discussione da alcuni membri del Congresso, che tentarono di bloccare la certificazione dei voti. Nonostante le obiezioni, la certificazione avvenne, portando Bush alla presidenza. Non ci soffermeremo a ricordare gli episodi di quattro anni fa, ma sicuramente questi eventi hanno segnato un momento di forte crisi democratica, dove gli Stati Uniti hanno sofferto pesantemente per la violenza causata dalle divisioni politiche.

Durante l’incontro con i giornalisti, a Mar-a-Lago, il presidente eletto ha annunciato una serie di nuove politiche interne che segneranno il suo secondo mandato. Ecco le principali novità emerse:

  1. Investimenti in infrastrutture tecnologiche: Trump ha dichiarato che il suo governo investirà 20 miliardi di dollari nella costruzione di nuovi data center in tutto il paese, con l’obiettivo di rafforzare l’infrastruttura tecnologica nazionale. Questo progetto, secondo Trump, è fondamentale per la competitività degli Stati Uniti nel contesto globale. Il finanziamento proviene da una partnership con il miliardario degli Emirati Arabi Uniti, Hussain Sajwani, leader di DAMAC Properties.
  2. Politiche Fiscali: Le nuove politiche fiscali, prevedono un piano di incentivi per stimolare gli investimenti nel settore privato e per sostenere la crescita economica. Le principali misure fiscali annunciate comprendono:
    1. Riduzione delle tasse sulle imprese: Trump ha confermato la sua intenzione di abbassare ulteriormente le imposte sulle società, mirando a stimolare l’attività economica e ad aumentare gli investimenti aziendali. Le riduzioni fiscali proposte mirano a incentivare le imprese a reinvestire i propri profitti, a espandere le loro operazioni e ad assumere nuovi lavoratori. Queste politiche sono dirette a sostenere la competitività delle imprese americane sul piano internazionale, riducendo la pressione fiscale e offrendo maggiore liquidità alle aziende per incentivare l’innovazione e la crescita.
    1. Credito d’imposta per investimenti in tecnologie avanzate: Il piano fiscale proposto include un credito d’imposta per le imprese che investono in nuove tecnologie, come l’intelligenza artificiale, la blockchain e la tecnologia dei dati. L’obiettivo è sostenere l’adozione e lo sviluppo di tecnologie emergenti che potrebbero migliorare l’efficienza produttiva e stimolare la crescita nei settori tecnologici e industriali.
    1. Incentivi per le start-up e le piccole imprese: Trump ha annunciato una serie di misure pensate per favorire la crescita delle start-up e delle piccole imprese, che costituiscono una parte fondamentale dell’economia americana. Tra queste, la proposta include sgravi fiscali per le piccole imprese che investono in ricerca e sviluppo (R&S) o che operano in settori strategici come l’energia pulita e le infrastrutture. Inoltre, ha suggerito di semplificare la burocrazia fiscale per le piccole imprese, riducendo i costi e accelerando i processi per la creazione e la gestione di nuove attività.
    1. Detrazioni fiscali per l’innovazione e l’espansione delle capacità produttive: Trump ha presentato incentivi fiscali per le aziende che investono nell’espansione delle loro capacità produttive in patria, riducendo la delocalizzazione delle attività economiche all’estero. In particolare, le aziende che ristrutturano o ampliano impianti di produzione negli Stati Uniti potrebbero beneficiare di detrazioni fiscali significative, promuovendo così la creazione di posti di lavoro locali e l’aumento della capacità produttiva interna.
    1. Incentivi per la ricerca e sviluppo (R&S): Un altro aspetto fondamentale del piano fiscale riguarda l’introduzione di incentivi per le imprese che investono in R&S, con lo scopo di stimolare l’innovazione tecnologica e scientifica. Trump ha enfatizzato la necessità di potenziare la leadership tecnologica degli Stati Uniti a livello globale, sostenendo che l’innovazione è un motore essenziale per la crescita economica e la creazione di posti di lavoro.
    1. Riforma del sistema delle imposte sul reddito personale: Oltre agli incentivi per le imprese, Trump ha discusso anche di una riforma fiscale che prevede una riduzione delle imposte sul reddito delle famiglie e degli individui. L’obiettivo è mettere più denaro nelle tasche dei cittadini, aumentando il potere d’acquisto e incentivando i consumi. Ciò, secondo Trump, contribuirà ad alimentare la crescita economica e a stimolare l’economia in generale.

In sintesi, le politiche fiscali annunciate mirano a stimolare gli investimenti, promuovere la crescita economica e migliorare la competitività delle imprese americane, attraverso una riduzione delle imposte, incentivi per l’innovazione e il rafforzamento del settore produttivo domestico. Il piano appare fortemente orientato a favorire il settore privato e le piccole e medie imprese, con un focus particolare sul rafforzamento dell’industria tecnologica e produttiva americana.

Trump ha ribadito l’intenzione di ridurre ulteriormente le tasse per le imprese sottolineando che l’obiettivo della sua amministrazione è creare un ambiente favorevole alla crescita economica e all’occupazione, sostenendo la prosperità americana.

  • Politiche di sicurezza interna: Il presidente ha annunciato nuove misure per rafforzare la sicurezza nazionale, tra cui l’introduzione di nuove leggi per combattere il crimine e il terrorismo. Ha promesso di potenziare la protezione dei confini e migliorare le politiche di contrasto alla criminalità, puntando a una gestione più efficace delle risorse destinate alla sicurezza interna.
  • Sostegno ai lavoratori americani: Trump ha dichiarato che il suo governo promuoverà politiche di sostegno ai lavoratori americani, in particolare quelli che operano nei settori più colpiti dalla globalizzazione, come la manifattura. Ha promesso di aumentare gli investimenti in programmi di formazione professionale e reinserimento lavorativo, per dare nuove opportunità ai cittadini statunitensi.
  • Legge sulla sicurezza energetica: Una delle principali iniziative di Trump è stata la presentazione di una nuova legge per la sicurezza energetica, che mira ad aumentare la produzione di energia negli Stati Uniti, ridurre la dipendenza dalle importazioni e promuovere l’uso di risorse rinnovabili senza compromettere la competitività delle industrie americane.
  • Riforma del sistema sanitario: Trump ha indicato la riforma del sistema sanitario come una priorità per il suo secondo mandato. Ha promesso di lavorare per abbassare i costi delle cure sanitarie e migliorare l’accesso ai servizi per i cittadini, senza aumentare le tasse o espandere il sistema pubblico. Vogliamo far presente che negli Stati Uniti, le spese mediche rappresentano una delle principali cause di fallimento finanziario per le famiglie. Secondo uno studio condotto dall’Università di Harvard, il 62% di tutti i fallimenti personali è attribuibile a spese mediche.  Inoltre, un’indagine della società di analisi Gallup, in collaborazione con West Health, ha rivelato che il 13% degli americani ha riferito di aver avuto un amico o un familiare deceduto negli ultimi cinque anni a causa dell’impossibilità di pagare le cure mediche. Questi dati evidenziano le gravi difficoltà finanziarie che molte famiglie americane affrontano a causa dei costi elevati delle cure sanitarie, nonostante l’esistenza di forme di assicurazione sanitaria.
  •  Politiche di immigrazione: Il presidente ha annunciato nuove misure per fermare l’immigrazione illegale, concentrandosi sul rafforzamento dei controlli ai confini e sulla costruzione di nuove barriere di sicurezza. Ha ribadito la sua posizione a favore di una politica di immigrazione più severa e ha sottolineato la necessità di un sistema di asilo che protegga gli interessi americani.
  • Riforma delle leggi sul crimine: Trump ha promesso di affrontare con fermezza la criminalità nelle città americane, proponendo nuove leggi che rafforzano le pene per i crimini violenti e incoraggiano le forze dell’ordine ad adottare politiche più dure. Ha sottolineato l’importanza di mantenere l’ordine pubblico e la sicurezza nelle aree urbane.

Queste dichiarazioni segnalano un programma interno che punta a rafforzare l’economia, la sicurezza e la stabilità sociale, continuando sulla scia delle politiche promosse durante il suo primo mandato.

Se per la politica interna le idee che ha dichiarato trovano il plauso generale visto le condizioni disastrose economico-sociali in cui versano la maggior parte delle grandi metropoli del paese, i punti che qui elenchiamo di politica estera ci lasciano sicuramente sorpresi.

“Trumpland”. Copyright Daily Wire Ben Shapiro show.

Ecco quanto esposto:

  1. Ripresa del controllo del Canale di Panama e della Groenlandia: Trump ha espresso l’intenzione di riprendere il controllo strategico di entrambe le aree, considerandole cruciali per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Ha anche suggerito che l’uso della forza militare potrebbe essere una possibilità per raggiungere questi obiettivi, se necessario.
    1. Panama – L’allora presidente  Jimmy Carter, nel 1977  firmò il trattato che avrebbe portato alla restituzione del Canale di Panama allo Stato panamense. Il trattato, noto come i Trattati di Panama, fu un accordo storico che stabilì un piano per trasferire il controllo del canale dal governo degli Stati Uniti al Panama entro il 31 dicembre 1999. Questo accordo segnò una svolta significativa nella politica estera americana, poiché per decenni gli Stati Uniti avevano controllato il Canale. La restituzione  fu vista come un atto di buona volontà, ma anche come una necessità di adattarsi a un mondo post-bellico dove gli Stati Uniti non avrebbero più esercitato un controllo egemone su tutte le risorse strategiche nella regione. L’accordo con Carter  fu visto come un passo importante verso la riconciliazione con i paesi latinoamericani e un tentativo di migliorare l’immagine degli Stati Uniti nella regione, ma sollevò dibattiti interni sulla sicurezza nazionale e sulle implicazioni geostrategiche di tale scelta. Carter difese la sua decisione come un passo verso la normalizzazione delle relazioni con l’America Latina, promuovendo una politica di cooperazione e rispetto reciproco.  Il processo di trasferimento fu completato con successo nel 1999, durante l’amministrazione di Bill Clinton, segnando la fine di più di 80 anni di dominio statunitense. Il Canale di Panama è attualmente gestito da due società di Hong Kong, che ne amministrano l’ingresso e l’uscita, esercitando un controllo significativo su una delle vie navigabili più importanti al mondo. Si stima che oltre il 10% delle navi transatlantiche siano di proprietà o gestite dagli Stati Uniti, un dato che riflette l’importanza strategica di questa rotta per l’economia statunitense. Per questo motivo, Donald Trump ha manifestato il desiderio che il Canale di Panama ritorni sotto il controllo diretto degli Stati Uniti, considerandolo cruciale per la sicurezza e la supremazia commerciale del paese. La gestione da parte di entità estere, in particolare da aziende cinesi, ha sollevato preoccupazioni in merito alla sicurezza e all’influenza geopolitica nella regione.
    1. Il Golfo del Messico potrebbe essere rinominato “Golfo dell’America”. Trump ha criticato il Messico per la sua scarsa collaborazione durante la presidenza Biden, accusandolo di permettere che il suo territorio fosse attraversato da un’enorme immigrazione verso gli Stati Uniti. Inoltre, ha promesso di imporre pesanti dazi su Messico e Canada come risposta a questa situazione. Tuttavia, non ha specificato come intende realizzare il cambiamento del nome. Il corpo d’acqua è stato conosciuto con molti nomi, ma gli esploratori e i cartografi europei hanno utilizzato il nome “Golfo del Messico” per almeno 400 anni. Esistono meccanismi ufficiali per rinominare luoghi riconosciuti dal governo federale. Tuttavia, se il cambiamento di nome a livello federale diventa ufficiale, non significa che anche altri paesi lo riconosceranno. Il U.S. Board on Geographic Names è un organismo federale interagenzia responsabile di mantenere l’uso uniforme dei nomi geografici all’interno del governo federale, operando sotto la direzione del segretario dell’Interno. Il Foreign Names Committee è incaricato di standardizzare i nomi dei luoghi esteri e include rappresentanti da agenzie federali, tra cui esperti in geografia e cartografia. I membri vengono nominati ogni due anni. Nel 2020, il comitato ha discusso se rinominare il Golfo Persico in “Golfo Arabo”, una questione controversa tra i paesi arabi. L’Iran ha sempre insistito affinché fosse chiamato “Golfo Persico”, mentre le nazioni arabe preferivano il termine “Golfo Arabo”. Il comitato ha stabilito che “Golfo Persico” rimane appropriato in base alle sue politiche di usare nomi convenzionali e diffusi, ma ha aggiunto che l’uso di “Golfo Arabo” è accettabile nelle comunicazioni informali con partner militari e governativi arabi nella regione.
    1. Groenlandia – Già nel primo mandato, Trump aveva espresso l’intenzione di riprendere il controllo della Groenlandia, un’area che riveste una grande importanza geopolitica. La Groenlandia è situata nel cuore dell’Artico, una regione sempre più rilevante per le sue risorse naturali, come il petrolio, il gas e le terre rare, oltre ad avere una posizione strategica per il controllo delle rotte marittime e per la difesa militare. È del 2019, l’offerta di Trump al governo danese per l’acquisto della Groenlandia, suo territorio. Oltre alle notevoli risorse naturali questo paese ricopre un valore importantissimo come punto d’appoggio strategico nell’Artico, un’area di crescente rivalità tra potenze mondiali, in particolare gli Stati Uniti, la Russia e la Cina. Sebbene l’offerta fosse stata rifiutata dalla Danimarca, la Groenlandia continua ad essere vista dagli Stati Uniti come una “porta” per l’Artico, un’area di grande interesse militare ed economico, specialmente con l’aumento della navigazione commerciale nell’Artico a causa del cambiamento climatico e dello scioglimento dei ghiacci. Trump ha quindi ribadito l’importanza della Groenlandia nel contesto della sua politica estera, indicando che il suo controllo potrebbe garantire maggiore sicurezza.
  2. Posizione sulla Russia e l’Ucraina: Siamo più che consapevoli della frase trumpiana “se fossi stato io presidente questa guerra non avrebbe avuto modo di essere”, perciò ci aspettavamo esattamente quanto ancora reiterato che la sua amministrazione difenderà sempre i suoi alleati europei, ma nonostante le dure critiche alla Russia, Trump ha anche suggerito la possibilità di dialogare con Mosca per trovare una soluzione diplomatica alla crisi ucraina. Ha dichiarato che sarebbe disposto a negoziare direttamente con il presidente russo Vladimir Putin per raggiungere un accordo che protegga gli interessi degli Stati Uniti e dei suoi alleati, ma senza compromettere la sicurezza dell’Ucraina..
  3. Minacce contro Hamas e il Medio Oriente: Sul fronte mediorientale, Trump ha messo in guardia Hamas, contro le possibili conseguenze se gli ostaggi non fossero rilasciati entro il suo insediamento. Ha minacciato azioni drammatiche e severe, avvertendo che “in Medio Oriente scoppierà l’inferno” se gli ostaggi non venissero liberati.
  4. Iniziative in Asia e difesa degli alleati: Trump ha ribadito la necessità di proteggere gli alleati americani in Asia, come Taiwan e Giappone, di fronte a potenziali minacce cinesi. Ha proposto un rafforzamento della presenza militare negli alleati strategici asiatici per prevenire l’espansione cinese nella regione.
  5. Politica nei confronti dell’Iran: Trump ha confermato la sua posizione dura contro l’Iran, sostenendo che non consentirà a Teheran di acquisire armi nucleari. Ha promesso di ripristinare le sanzioni economiche e di mantenere una politica di “massima pressione” sul regime iraniano. Per quanto riguarda il triangolo esplosivo Iran,  USA-Italia, siamo tutti in attesa di capire quanto cederanno gli Stati Uniti e quanto funzioneranno le minacce atlantiche.
  6. Relazioni con l’Unione Europea e altre potenze mondiali: Trump ha enfatizzato la sua intenzione di mantenere forti legami con le principali potenze mondiali, ma ha anche messo in chiaro che gli Stati Uniti non avrebbero più tollerato comportamenti “ingannevoli” o politiche economiche svantaggiose per il paese.

Queste dichiarazioni dipingono un quadro che si concentra principalmene sulle necessità interne del paese che sono molte. In questi ultimi due mesi infatti Joe Biden ha firmato protezione degli interessi nazionali, l’assertività nei confronti di potenze straniere e la difesa dei legami strategici degli Stati Uniti a livello globale.

Ma “sleepy Joe”, negli ultimi tre mesi, ha firmato diversi ordini esecutivi che hanno comportato significativi impegni finanziari da parte del governo federale, in contrasto con quanto Elon Musk e Vivek Ramaswamy dovrebbero “fare”, ossia alleggerire il carrozzone burocratico.  

Perciò questi provvedimenti, pur essendo mirati a specifici settori o situazioni, contribuiscono ad aumentare le spese federali, riducendo così la disponibilità di fondi per altre priorità governative. Tale allocazione delle risorse potrebbe limitare la capacità dell’amministrazione successiva di finanziare nuove iniziative o affrontare altre esigenze urgenti, obbligando il ricorso a misure fiscali aggiuntive o a un aumento del debito pubblico. Chissà se Trump riuscirà a risollevare quest’America soffocata da una forte inflazione, ma soprattutto le ridia la voglia di fare che tutti abbiamo conosciuto nel tempo. Per ora sembra dai toni e dalle scelte un John Wayne contemporaneo alla conquista del West. Forse ha ragione?


Terrorismo a 10 anni da Charlie Hebdo, con Claudio Bertolotti, Sky tg24