di Melissa de Teffè, dagli Stati Uniti – Giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense.
La Sveglia di Draghi dopo il discorso
di JD Vance
C’è qualcosa di
quasi tragico nel crescente divario transatlantico riguardo alle reali
dinamiche geopolitiche. Il Vicepresidente JD Vance, pronuncia un discorso che
potrebbe essere riassunto come un mix di nostalgia isolazionista e realismo
spietato, avvolto nella tipica spavalderia che sempre più caratterizza i
dibattiti della politica estera americana. Il suo messaggio? Gli Stati Uniti
sono stanchi di pagare il conto per la sicurezza dell’Europa mentre il
continente indugia e non si assume le proprie responsabilità. Ma ci siamo
dimenticati che già John F Kennedy sollecitò l’Europa a contribuire maggiormente
finanziariamente alla Nato. Durante una conferenza stampa disse: “Nel 1779,
prima che la Francia entrasse nella Guerra d’Indipendenza, qualcuno disse a
Benjamin Franklin- È un grande spettacolo quello che state mettendo in scena in
America,”e Franklin rispose: “Sì, ma il problema è che gli spettatori
non pagano.” – Oggi non siamo spettatori. Stiamo tutti contribuendo, siamo
tutti coinvolti, qui in questo paese, in questa comunità, nell’Europa
occidentale, nel mio stesso paese e in tutto il mondo, dove è nostra
responsabilità dare il massimo contributo. Grazie.” (JFK- 2 giugno,
1961 a Parigi).
Negli ultimi 30
anni, l’Europa ha accettato tutte le scelte politiche degli Stati Uniti, che la
riguardassero, i quali hanno sempre sostenuto il processo di adesione della
NATO. Questa strategia ha comportato l’integrazione di ex nazioni del blocco
orientale e di stati post-sovietici nell’alleanza, estendendo così l’influenza
della NATO verso est.
Nel 1997,
durante l’amministrazione Clinton, la NATO ha invitato Polonia, Ungheria e
Repubblica Ceca ad aderire, segnando la prima espansione dalla Guerra Fredda.
Questa decisione faceva parte di un più ampio sforzo per integrare i paesi
dell’Europa centrale e orientale nelle strutture politiche e di sicurezza
occidentali. Le successive inclusioni portano all’adesione di Bulgaria,
Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia nel 2004, seguita
da Albania e Croazia nel 2009, Montenegro nel 2017 e Macedonia del Nord nel
2020. L’idea teorica dietro a questo accorpamento era di voler ottenere
maggiore stabilità regionale e prevenire la rinascita dell’autoritarismo.
Tuttavia,
questa apertura verso est è stata un punto di contesa importante con la Russia,
che l’ha percepita come una minaccia alla propria sfera d’influenza e al suo
“benessere” fisiologico, (rammentiamo tutti la reazione di Kennedy quando
Krushev fece giungere i missili a testata nucleare a Cuba). Documenti
declassificati rivelano che i funzionari statunitensi erano consapevoli delle
preoccupazioni della Russia riguardo all’allargamento della NATO, riconoscendo
che ciò avrebbe potuto rappresentare una minaccia per la sicurezza russa. In
sintesi, negli ultimi tre decenni, la politica degli Stati Uniti è stata
determinante nell’espansione della NATO con l’obiettivo di mantenere una loro
egemonia regionale. Questa strategia, pur raggiungendo i suoi obiettivi, ha
anche contribuito ad accrescere le tensioni con la
Russia, evidenziando le complesse dinamiche delle relazioni internazionali nel
periodo post-Guerra Fredda.
Il conflitto
tra Russia e Ucraina è iniziato molto prima del 2022. Fu nel 2014,
che la Russia ha annesso la Crimea e ha sostenuto i movimenti
separatisti in Donetsk e Luhansk, dando il via a una guerra nell’Ucraina
orientale. Nonostante gli accordi di cessate il fuoco, i combattimenti non si sono
mai realmente fermati. La Russia ha continuato a fornire supporto militare e
logistico ai separatisti. Poi il conflitto è
escalato drammaticamente nel 2022, quando la Russia ha lanciato
un’invasione su larga scala, trasformando una crisi regionale in un
confronto globale.
Se il conflitto
tra Russia e Ucraina ha avuto inizio nel 2014, affondando però le sue radici
molto più indietro nel tempo, l’espansione della NATO verso est, avviata sotto
l’amministrazione Clinton, ha alimentato nella Russia la sindrome da “fortezza sotto
assedio” da alleanze militari occidentali. Questa doppia dinamica – la reazione
russa nei confronti dell’Ucraina e la crescente insofferenza verso la NATO – ha
creato la tempesta perfetta, trasformando un conflitto regionale latente in uno
scontro geopolitico di portata cruciale.
Il Presidente Vladimir Putin, prima
dell’invasione dell’Ucraina, in un discorso del 24 febbraio 2022, ha
dichiarato: “L’ulteriore espansione dell’infrastruttura della NATO e
l’inizio dello sviluppo militare nei territori dell’Ucraina sono per noi
inaccettabili.”
E l’Unione
Europea cosa ha fatto in tutti questo decennio 2014-2024? l’UE ha adottato un
approccio cauto, concentrandosi sugli sforzi diplomatici, sostenendo gli Accordi di Minsk nel tentativo di stabilire un cessate il fuoco e ridurre
le tensioni. Tuttavia, questi accordi non sono mai stati pienamente attuati e
il ruolo dell’UE è rimasto in gran parte reattivo piuttosto che proattivo. Dopo
l’annessione della Crimea, sono state imposte sanzioni economiche alla Russia,
seguite da ulteriori misure dopo l’invasione su larga scala del 2022. Tuttavia,
oltre alle risposte economiche e diplomatiche, l’invio di armi e aiuti umanitari
per 132 miliardi di euro e più, l’UE ha fatto ben poco per sviluppare una
strategia di sicurezza forte e indipendente, ma si è affidata principalmente
agli Stati Uniti che soprattutto durante l’amministrazione Biden è andata in
escalation militare, senza prevedere incontri diplomatici per cercare una
chiusura al conflitto.
Il Lamento
Europeo
Se dunque il
discorso di JD Vance per alcuni era prevedibile, ciò che è seguito non lo è
stato. La vera risposta, ma non tanto agli americani, quanto agli europei tutti,
sia venuta dall’ex presidente della BCE, nostro Primo Ministro e attuale
consulente del Parlamento europeo, Mario Draghi, che durante la Settimana parlamentare europea
2025, evento annuale dedicato alle sfide e alle opportunità dell’UE, in un
discorso al Parlamento, ha evidenziato la necessità di un’azione unitaria
veloce, chiara, sottolineando l’urgenza di investimenti strategici per
affrontare la concorrenza globale e promuovere una crescita sostenibile. Il suo
intervento, è stato più “gentile” di quello di Vance, e più digeribile per
l’orgoglioso club europeo, (è sempre più facile ascoltare le critiche da un
membro di famiglia che da altri). Draghi ha voluto spronare l’Europa affinché
abbandoni vecchi comportamenti burocratici e passivi con azioni che rafforzino
la propria posizione economica e geopolitica. Insomma un richiamo necessario
alla realtà per l’establishment europeo, ormai incancrenito e spesso
intrappolato in un ciclo di lamentele (come dimostrano le reazioni della
Germania e di altri paesi alle dichiarazioni di JD Vance), impegnato più in
rituali diplomatici privi di sostanza, mentre gli Stati Uniti, in meno di un
mese dall’insediamento della nuova presidenza, stanno rivoluzionando tutti gli
equilibri. È il momento di assumersi le proprie responsabilità, ma come disse
Churchill, “questo è il prezzo della grandezza”.
Da anni, i
leader europei osservano i mutamenti della politica statunitense con un misto
di inquietudine e frustrazione. Ogni cambio di amministrazione porta nuove
incertezze, eppure l’UE continua ad agire come se Washington, mamma Washington,
sia sempre lì pronta a consolarla, comprarle le sue eleganti invenzioni e a
regalarle qualche bonus quando in visita.
Seppure la NATO
rimane eccessivamente dipendente dal potere militare statunitense, e sebbene la
spesa per la difesa dell’UE sia in aumento, manca ancora una coerenza
strategica. Anche di fronte a crisi come quella ucraina, il processo
decisionale europeo è lento, frammentato e eccessivamente dipendente dalla
leadership americana.
JD Vance,
riflettendo l’ala più nazionalista e transazionale della politica statunitense,
ha semplicemente articolato ciò che molti a Washington—su entrambi i fronti
politici—pensano da tempo: l’Europa deve smetterla di aspettarsi che gli Stati
Uniti si facciano carico di tutto. Le sue parole riflettono un crescente
consenso bipartisan in America, secondo cui l’Europa deve agire o rischia di
essere messa da parte. Vance dice: “Accogliete ciò che il vostro popolo vi
dice, anche quando vi stupisca o anche quando non siete d’accordo. E se lo
farete, potrete affrontare il futuro con certezza e fiducia, sapendo che la
nazione è al vostro fianco. E questo, per me, è il grande miracolo della
democrazia.”
Quindi cosa vogliono gli elettori europei?
Il richiamo
all’azione di Draghi descrive la profonda inerzia politica che impedisce a
questa Unione di divenire un vero attore globale. Draghi ha ricordato al
Parlamento europeo che lamentarsi dell’imprevedibilità americana non è una
strategia. L’azione lo è.
Le parole
dell’ex Presidente del Consiglio dovrebbero servire come un momento di svolta.
Se l’Europa continua lungo il percorso della dipendenza passiva, rischia
l’irrilevanza in un mondo sempre più definito dalla forza e dal realismo
politico. Non basta più lamentarsi dei cambiamenti della politica americana,
l’Europa deve creare una propria visione strategica indipendente e coerente.
Ciò significa accelerare l’integrazione della difesa, investire nelle capacità
tecnologiche e industriali e avere la volontà di agire – anche quando il
consenso è difficile da raggiungere.
L’Europa
ascolterà questa volta? O il richiamo alla realtà di Draghi sarà solo un altro
avvertimento ignorato in una lunga storia di opportunità mancate? Concludo con
un detto americano: “If you can’t run with the big dogs, stay on
the porch” che tradotto sarebbe: “Se non puoi stare al gioco, è
meglio che stai a guardare.” –
Osserveranno gli europei le scelte russe, cinesi o americane
o diventeranno il quarto giocatore in questa partita di vita?
Le Filippine: un perno geopolitico nell’Indo-Pacifico e l’opportunità strategica per l’Italia
di Andrea Molle, dagli Stati Uniti.
Le Filippine, da tempo considerate
un attore geopolitico cruciale nel Sud-Est asiatico, si trovano sempre più al
centro della crescente competizione tra Stati Uniti e Cina. Mentre la “linea degli
undici tratti” porta avanti l’aggressiva politica estera di Beijin nel Mar
Cinese Meridionale e oltre, e Washington intensifica la sua strategia
indo-pacifica, Manila gioca un ruolo di primo piano nel plasmare le dinamiche
di sicurezza regionale. Per l’Italia, che tradizionalmente ha concentrato la
propria politica estera su Europa, Africa e Mediterraneo, l’evoluzione del
panorama indo-pacifico rappresenta un’opportunità per ridefinire il proprio
impegno globale attraverso una presenza più mirata, sia militare che civile,
nell’arcipelago filippino. La posizione strategica delle Filippine, situate
all’incrocio tra il Pacifico e il Mar Cinese Meridionale, le rende infatti un
alleato potenzialemtne prezioso sia per le potenze regionali che per quelle
globali. Situato al crocevia di importanti rotte commerciali marittime, il
paese funge da varco tra il Pacifico e i centri economici dell’Asia orientale.
Ancora più importante,
l’arcipelago offre vantaggi logistici e militari cruciali, in particolare nel
contrastare l’espansione territoriale aggressiva della Cina nelle acque contese
e la minaccia a Taiwan. Le rivendicazioni di Pechino sul Mar Cinese
Meridionale, comprese la costruzione di isole artificiali e l’interruzione di
diverse rotte di pesca, hanno direttamente minacciato la sovranità delle
Filippine. Nonostante una sentenza del tribunale internazionale nel 2016 abbia
invalidato le rivendicazioni cinesi, Beijin continua a perseguire i propri
interessi in modo aggressivo. In risposta, Manila ha rafforzato i suoi legami
di difesa con Washington, riaprendo basi strategiche alle forze statunitensi e
approfondendo la cooperazione in materia di sicurezza con partner regionali
come Giappone e Australia. Le Filippine hanno partecipato, ad esempio, a una
serie di esercitazioni navali internazionali con Stati Uniti, Australia,
Giappone e Francia. Queste manovre, condotte all’interno della Zona Economica
Esclusiva filippina, mirano a migliorare il coordinamento della difesa e
l’interoperabilità.
La Cina: obiezioni e interessi
La Cina ha espresso obiezioni a queste attività, considerandole destabilizzanti. Inoltre, Manila ha firmato un accordo di difesa con il Canada per rafforzare le esercitazioni militari congiunte, in linea con la sua strategia di consolidamento delle partnership di difesa nel contesto delle crescenti tensioni nel Mar Cinese Meridionale. Allo stesso tempo, le Filippine devono gestire un equilibrio molto delicato. Pur necessitando delle garanzie di sicurezza fornite dagli Stati Uniti, la loro interdipendenza economica con la Cina complica la situazione. Beijin rimane un partner commerciale chiave, una fonte primaria di investimenti e un attore influente nell’architettura economica della regione. Questa tensione tra sicurezza e interessi economici riflette la più ampia sfida che molte nazioni del Sud-Est asiatico affrontano nel navigare la rivalità tra Stati Uniti e Cina. Mentre le Filippine stanno rafforzando le loro collaborazioni in materia di difesa con gli Stati Uniti e altri alleati, continuano anche a mantenere un dialogo diplomatico con la Cina. Ad esempio, durante un recente incontro con il Primo Ministro cambogiano Hun Manet, il Presidente filippino Ferdinand Marcos Jr. ha espresso gratitudine per la grazia concessa a 13 donne filippine, evidenziando gli sforzi di Manila per mantenere relazioni positive all’interno della regione. Il rinnovato focus di Washington sull’Indo-Pacifico, in particolare attraverso iniziative come AUKUS, il Quad e il rafforzamento della cooperazione di sicurezza con i paesi ASEAN, mira a contrastare l’influenza crescente della Cina.
Gli Stati Uniti: la strategia di sicurezza regionale
Per gli Stati Uniti, le Filippine rappresentano un pilastro critico nella loro strategia di sicurezza regionale. L’Enhanced Defense Cooperation Agreement (EDCA) tra Manila e Washington facilita l’accesso americano a installazioni militari chiave, garantendo una presenza avanzata in grado di dissuadere le incursioni cinesi e rafforzare la sicurezza marittima. Inoltre, la crescente presenza militare statunitense nella regione funge da deterrente contro una potenziale escalation a Taiwan, una delle principali aree di tensione tra USA e Cina. La vicinanza delle Filippine a Taiwan le rende un hub logistico fondamentale in caso di conflitto, consolidando ulteriormente la loro importanza nella strategia americana.
L’Italia: economia, commercio e difesa
Ma che dire dell’Italia? L’Italia, in quanto media potenza europea, ha tradizionalmente mantenuto una presenza limitata nell’Indo-Pacifico. Tuttavia, data la crescente rilevanza globale della regione e i legami sempre più stretti con Washington, Roma dovrebbe riconsiderare il proprio coinvolgimento strategico. Mentre Francia e Regno Unito hanno già rafforzato la loro presenza navale ed economica nell’Indo-Pacifico, l’Italia deve ancora definire pienamente il proprio ruolo. Gli interessi economici italiani si allineano con la necessità di un Indo-Pacifico stabile e basato su regole chiare. La regione rappresenta un mercato cruciale per le esportazioni italiane, tra cui tecnologia della difesa, attrezzature marittime e infrastrutture.
Rafforzare i legami
economici e di sicurezza con le Filippine potrebbe fornire un punto d’accesso
strategico per un coinvolgimento più ampio nell’ASEAN, dove l’Italia detiene lo
status di osservatore. Sul fronte della sicurezza, l’Italia potrebbe potenziare
la cooperazione navale con le Filippine partecipando a esercitazioni marittime
congiunte, fornendo addestramento alla guardia costiera e supportando gli
sforzi regionali per mantenere la libertà di navigazione. Inoltre, l’avanzata
industria della difesa italiana potrebbe contribuire alla modernizzazione delle
capacità militari filippine.
Dal punto di vista
diplomatico, l’Italia dovrebbe sfruttare le proprie partnership all’interno
dell’UE per promuovere una strategia europea più coerente nell’Indo-Pacifico,
assicurandosi che l’Europa rimanga un attore rilevante nell’equilibrio
geopolitico della regione. Sostenere i meccanismi di sicurezza guidati
dall’ASEAN e promuovere il rispetto del diritto internazionale, in particolare
della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS),
rafforzerebbe ulteriormente il ruolo dell’Italia come attore costruttivo. In
conclusione, l’importanza geopolitica delle Filippine nell’Indo-Pacifico è
indiscutibile. Mentre gli Stati Uniti si muovono per contrastare l’assertività
crescente della Cina, Manila si trova al centro di una competizione strategica
che plasmerà il futuro dell’ordine globale. Per l’Italia, un coinvolgimento più
proattivo nell’Indo-Pacifico—soprattutto attraverso un rafforzamento dei legami
con le Filippine—rappresenta un’opportunità per diversificare la propria
politica estera e affermarsi come attore rilevante in una delle regioni più
dinamiche del mondo.
Approfondendo i legami
economici, di sicurezza e diplomatici, l’Italia può contribuire a un
Indo-Pacifico più stabile e basato sulle regole, ampliando al contempo il
proprio ruolo strategico in un mondo sempre più multipolare.
I pericoli di una guerra tra Israele e Giordania
di Andrea Molle, dagli Stati Uniti.
Una guerra tra Israele e
Giordania rimane uno scenario improbabile ma potenzialmente catastrofico. Dal
trattato di pace del 1994, i due Paesi hanno mantenuto una cooperazione
diplomatica e di sicurezza, rendendo un conflitto armato poco realistico.
Tuttavia, il Medio Oriente è una regione dove le tensioni possono degenerare
rapidamente, e in caso di guerra, le conseguenze sarebbero profonde, andando
ben oltre il campo di battaglia e ridisegnando gli equilibri regionali e
globali.
Dal punto di vista
militare, Israele detiene un vantaggio schiacciante. La sua forza aerea
all’avanguardia, i sofisticati sistemi di difesa missilistica e le capacità di
guerra cibernetica lo rendono una delle potenze militari più avanzate al mondo.
L’esercito giordano, pur essendo professionale e ben addestrato, non ha la
potenza offensiva e il livello tecnologico necessari per sostenere una guerra
prolungata contro Israele. Sebbene il territorio montuoso della Giordania possa
offrire qualche vantaggio difensivo, le sue principali città e infrastrutture
sarebbero altamente vulnerabili agli attacchi aerei israeliani. D’altra parte, le
città israeliane come Tel Aviv e Gerusalemme sarebbero nel raggio d’azione dei
missili giordani, ma la difesa missilistica israeliana, come l’Iron Dome,
riuscirebbe probabilmente a neutralizzare gran parte della minaccia.
Se una guerra dovesse
scoppiare sotto un’amministrazione statunitense guidata da Donald Trump, lo
scenario geopolitico cambierebbe radicalmente. Trump ha dimostrato in passato
un sostegno incondizionato a Israele, spostando l’ambasciata americana a
Gerusalemme e riconoscendo la sovranità israeliana sulle Alture del Golan. In
caso di conflitto, Washington si schiererebbe quasi certamente con Israele,
fornendo supporto militare, bloccando iniziative diplomatiche per moderarne le
azioni e facendo pressione sulla Giordania affinché de-escalasse rapidamente.
Questa posizione potrebbe incoraggiare la leadership israeliana a proseguire le
operazioni belliche senza cercare una soluzione negoziata immediata,
prolungando così il conflitto. Allo stesso tempo, tale politica alienerebbe
ulteriormente gli alleati arabi come Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti,
mettendoli in una posizione difficile: da un lato il sostegno diplomatico alla
Giordania, dall’altro la necessità di preservare le proprie relazioni con
Israele.
Le conseguenze economiche
di un tale conflitto sarebbero devastanti. La Giordania, già dipendente dagli
aiuti esteri e dalla cooperazione economica con Israele, subirebbe danni
enormi, con la distruzione delle infrastrutture e il collasso del commercio.
Israele, pur avendo un’economia più solida, vedrebbe comunque una forte
instabilità nei mercati, un crollo del turismo e possibili interruzioni nei
settori tecnologico e della difesa. Se il conflitto si espandesse, le
ripercussioni si farebbero sentire anche sul mercato globale del petrolio,
causando un’impennata dei prezzi e nuove turbolenze economiche. Oltre agli
effetti militari ed economici, uno degli aspetti più preoccupanti di un
conflitto tra Israele e Giordania sarebbe la recrudescenza del terrorismo
internazionale.
La storia ha dimostrato
come la guerra e l’instabilità in Medio Oriente rappresentino un terreno
fertile per i gruppi jihadisti, e una guerra tra questi due Paesi potrebbe
aprire la strada a nuove offensive terroristiche. L’ISIS-K, già in espansione,
potrebbe approfittare del caos per rafforzarsi e lanciare attacchi sia in
Israele che in Giordania, utilizzando il conflitto come strumento di propaganda
e reclutamento.
Inoltre, il rischio di
attentati in Europa, negli Stati Uniti e in altri Paesi occidentali
aumenterebbe, alimentato dalla radicalizzazione generata dal conflitto.
L’eventualità di una nuova ondata di terrorismo globale costringerebbe i
governi a rivedere le loro strategie di sicurezza e a destinare ingenti risorse
alla lotta contro il jihadismo. Gli esiti possibili di un tale conflitto sono
diversi. Uno scenario relativamente contenuto potrebbe portare a un cessate il
fuoco mediato dagli Stati Uniti o da potenze regionali come l’Arabia Saudita e
l’Egitto.
Tuttavia, se la guerra si
prolungasse e altri attori esterni, come l’Iran, Hezbollah e le fazioni
palestinesi, vi prendessero parte, il rischio di una più ampia escalation
regionale diventerebbe concreto. La Giordania stessa potrebbe affrontare un
periodo di grave instabilità politica, con il regime hashemita indebolito dal
conflitto e minacciato da proteste interne o persino da un colpo di stato. Nel
peggiore dei casi, la guerra potrebbe segnare l’inizio di una nuova era di caos
nel Medio Oriente, rafforzando le organizzazioni estremiste e ridefinendo le
alleanze regionali. Alla fine, una guerra tra Israele e Giordania sarebbe
disastrosa per entrambi i Paesi e per l’intera regione.
I costi strategici,
economici e di sicurezza supererebbero di gran lunga qualsiasi possibile
vantaggio, rendendo un conflitto su vasta scala altamente improbabile.
Tuttavia, la storia ha dimostrato che errori di calcolo politici, provocazioni
esterne o cambiamenti nelle alleanze possono portare nazioni apparentemente
stabili verso la guerra. Anche se un conflitto aperto tra Israele e Giordania
resta poco plausibile, il rischio di tensioni al confine, scontri indiretti e
crisi diplomatiche non deve essere sottovalutato. L’unica vera soluzione rimane
il dialogo e l’impegno diplomatico, perché l’alternativa—a un conflitto dalle
conseguenze imprevedibili e devastanti—sarebbe una tragedia per l’intero Medio
Oriente.
Semper supra: la sesta Forza Armata statunitense
di Melissa de Teffè, dagli Stati Uniti – Giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense.
“Il diritto di resistenza è
un diritto di difesa, ma non implica l’uso della violenza, bensì la possibilità
di opporsi all’abuso di potere con strumenti legali e pacifici. – e i leader
della terra devono affrontare il compito più difficile che ci sia, ossia quello
di evitare una guerra nucleare, mentre cercano di preservare la libertà è
necessario introdurre programmi di disarmo”
Questa una mia sintesi di quanto detto da Norberto Bobbio e da Robert Kennedy
dove ambo enfatizzano l’importanza della difesa dei diritti attraverso mezzi
legittimi e non violenti, mantenendo il rispetto per l’ordine e la giustizia,
sono concetti che purtroppo non riescono ancora a trovare applicazione. La
corsa agli armamenti rimane la scelta primaria di quasi tutti i presidenti
americani. Questa corsa però, porta sempre in seno una minaccia evidente,
sottraendo economie vitali ad altro. Durante
l’epoca reaganiana, gli Stati Uniti volevano installare missili nucleari lungo
la linea divisioria tra Europa occidentale e l’URSS. Il presidente stesso era
finito sulla copertina del Times con “The Evil Empire” riferendosi all’ex
Unione Sovietica; numerose erano le
manifestazioni contro quest’idea, considerando che erano trascorsi solo 4
decenni dalla fine della seconda guerra mondiale, e i nonni, ancora vivi o
sopravvisuti, ci raccontavano, a tavola la domenica dei drammi della guerra. L’Eruopa
era quindi ancora una volta il terreno di battaglia. Ma Reagan, sapeva che non
sarebbe riuscito a installare i missili lungo la linea divisoria tra i paesei
dell’est e dell’ ovest europeo. Fu per merito di esperti come il Generale
Abrahamson, se Reagan riuscì a mettere in ginocchio il suo nemico numero
uno, grazie all’idea di creare una corsa
agli armamenti “spaziale”, con il “Progetto SDI” – Space Defence Initiative.
Reagan immaginava una strategia di difesa in grado di intercettare e
distruggere i missili balistici intercontinentali (ICBM) durante le diverse
fasi del loro volo, inclusi il lancio, la fase intermedia e quella finale.
L’SDI era ambizioso, incorporava tecnologie avanzate come stazioni spaziali
laser, piattaforme missilistiche a terra e sofisticati sensori per rilevare e
tracciare le minacce. Sicuramente lasciò tutti sbalorditi, militari e non. Sembrava
che Star Wars fosse una realtà imminente.
L’SDI ebbe un impatto duraturo
sulla politica della difesa statunitense e sulle relazioni internazionali, stimolando
investimenti significativi nella ricerca e nello sviluppo di tecnologie per la
difesa missilistica, alcune delle quali gettarono le basi per i futuri sistemi.
Inoltre, l’SDI influenzò le negoziazioni sul controllo degli armamenti, in
particolare con l’Unione Sovietica. Forzò la creazione di osservatori
diplomatico-militari per capire fin dove si sarebbe spinta questa nuova
iniziativa. Seppur da civile, ebbi l’occasione di vederla da vicino.
La decisione di Reagan nel 1983
scatenò di conseguenza, una nuova corsa agli armamenti con l’Unione Sovietica, (la
Cina di Deng Xiaoping era troppo impegnata nell’ammodernamento interno) mettendo
sotto pressione l’economia sovietica in modo significativo. L’URSS, già in
difficoltà economiche e militari, faticava a tenere il passo con le tecnologie
avanzate degli Stati Uniti. L’SDI fu visto come una minaccia per il deterrente
nucleare sovietico, e costrinse l’URSS a sviluppare contromisure, ma le
difficoltà tecniche e i costi elevati, la resero consapevole di non poter
competere in un’ulteriore escalation militare. Così l’URSS firma il Trattato INF (Intermediate-Range
Nuclear Forces Treaty), nel 1987 con gli gli Stati Uniti. Il trattato
mirava a eliminare tutte le armi nucleari e convenzionali di raggio intermedio,
cioè missili con una gittata compresa tra 500 e 5.500 chilometri, dai
rispettivi arsenali. L’accordo fu una tappa importante nella distensione della
Guerra Fredda, in quanto contribuì a ridurre il rischio di conflitti nucleari
in Europa e a diminuire la presenza di armi nucleari a corto e medio raggio.
Entrambe le superpotenze si impegnarono a distruggere i missili in questione,
con verifiche reciproche per garantire il rispetto del trattato.
Dopo 32 anni, nel dicembre del 2019,
il presidente Trump firma il National Defense Authorization Act, creando
ufficialmente la United States Space Force, il sesto ramo delle forze
armate degli Stati Uniti. Questo passo riconosce lo spazio come un dominio
critico per la sicurezza nazionale, con l’obiettivo di migliorare le capacità
del paese nelle operazioni spaziali.
La creazione della Space Force
rappresenta una pietra miliare significativa, da quando fu creata l’Air Force
nel lontanto 1947. La mission di questo
nuova forza militare, ha il compito di organizzare, addestrare e fornire
equipaggiamento ai professionisti dello spazio per proteggere gli interessi del
paese e dei suoi alleati nello spazio. Già
durante la campagna elettorale, Trump aveva detto che avrebbe creato una Space
National Guard a supporto della Space Force, squadre specializzate nella
gestione dei dati satellitari, per garantire il mantenimento della superiorità
tecnologica. Oggi invece, in conferenza stampa, Trump ha annunciato di voler istituire
un sistema di difesa missilistica di nuova generazione, ispirato all’Iron Dome
israeliano*, chiamata “Iron Dome for America”, che ha
l’obiettivo di proteggere gli Stati Uniti da minacce aeree. Il Segretario alla
Difesa Pete Hegseth ha sottolineato una rapida implementazione, in linea
con la promessa elettorale di Trump di sviluppare uno scudo di difesa
missilistica all’avanguardia, costruito internamente.
Anche se l’iniziativa “Iron
Dome for America” si concentra sul miglioramento delle capacità di difesa
missilistica, non si tratta di un nuovo ramo militare simile all’Iniziativa di
Difesa Strategica proposta durante l’amministrazione del presidente Ronald
Reagan. Invece, rappresenta un’espansione delle infrastrutture di difesa
esistenti per rafforzare la sicurezza nazionale contro le minacce emergenti.
L’annuncio di Trump di voler
sviluppare una versione americana, con l’obiettivo di migliorare le capacità di
difesa missilistica degli Stati Uniti esemplifica la serietà delle minacce che
questo paese ha vissuto negli ultimi anni. Purtroppo per la scrivente non è
dato sapere esattamente la gravità di queste, ma sono intuibili da un paio di
brevi affermazioni fatte da Pam Bondi, Procuratore di Stato per la Florida, durante
l’audizione presso il Comitato Giudiziario del Senato, per la sua conferma a Procuratore Generale
degli Stati Uniti.
Questi sviluppi evidenziano il
crescente riconoscimento dello spazio come una componente vitale della
strategia di difesa nazionale statunitense.
*L’Iron Dome (cupola di ferro) è
un sistema avanzato di difesa aerea sviluppato da Israele per intercettare e
distruggere missili a corto raggio e proiettili di artiglieria che minacciano
le aree popolate. Da quando è stato attivato nel 2011, è stato fondamentale per
proteggere i civili israeliani da varie minacce missilistiche. Sviluppato con
il supporto degli Stati Uniti, l’Iron Dome è composto da tre componenti
principali:
Radar di rilevamento e tracciamento: Identifica le minacce in arrivo.
Gestione della battaglia e controllo delle armi Valuta la minaccia e determina la necessità di intercettazione.
Unità di lancio missili: Lancia missili intercettori per neutralizzare la minaccia. Quando un razzo viene rilevato, il sistema calcola la sua traiettoria per determinare se atterrerà in un’area popolata. In tal caso, lancia un missile intercettore per distruggere la minaccia in volo.
Il discorso di Trump: una lettura approfondita.
di Melissa de Teffè dagli Stati Uniti – Giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense.
Ho
vissuto diversi anni a Washington, DC e ho avuto modo di toccare con mano la
difficoltà di scrivere un discorso politico per non parlare di quello
presidenziale per l’inaugurazione. Se avete mai visto la serie televisiva West
Wing, se ne percepisce la fatica.
Di solito non è mai una sola mano a scrivere, ma un team, e quello di ieri è stato un “second best” ossia è stato sicuramente fatto molto bene, ma, ad oggi, nessuno è ancora riuscito a superare i discorsi di Kennedy, come quello per l’insediamento nel 1961 dove persino noi di oltreoceano ne ricordiamo la famosa frase: “non chiedere cosa può fare il tuo paese per te, ma cosa tu puoi fare per il tuo paese”.
A questo secondo giro di boa, per un uomo che è stato umiliato, deriso, perseguitato e criticato mondialmente, Trump ha sicuramente dimostrato, nonostante l’età, che si può ancora imparare, capire e cambiare. Sia Trump come JFK sono e vengono da famiglie di imprenditori, ma a differenza di John, e non Joe il padre, aveva quella generazione di differenza che gli permise di vestire le sue parole di grazia, di eleganza, un po’ come quando ci si cambia dal vestito da lavoro a quello per il ballo di fine anno. Trump, come Joe, ha avuto otto anni! Sono tanti, sia per capire che per decidere d’imparare. Ha avuto l’umiltà di lasciare che vestissero il suo programma con quelle parole eleganti, vicine alla cultura americana che avrebbero regalato fiducia, speranza, coraggio, unità, senza deturpare ai suoi occhi, il suo stile John Wayne.
Vediamo:
As we gather today, our government confronts a crisis of trust
Mentre ci riuniamo oggi, il nostro governo affronta una crisi di fiducia.
“As we gather today, our government confronts a crisis of trust.” La parola chiave è trust. Il leit motif americano è In God we Trust. La sfiducia nazionale sulle politiche in generale ha cause diverse che noi in Italia conosciamo molto bene: promesse, promesse, promesse, ma nulla di mantenuto. La generosità di Biden con l’Inflation Redaction Act, Job Act, e la creazione dell’app per gli immigrati per prendere appuntamenti con i funzionari dell’immigrazione, è stata tradita dai risultati, dove gli americani si sono trovati dopo quattro anni più poveri, deflagrata di diritti, case e beni.
Quindi partire parlando di fiducia sottolinea, da un lato, il modo diretto di parlare di un uomo d’affari ma, dall’altro, lo veste culturalmente di sostanza storica andando alle origini religiose, così:
Sunlight is pouring over the entire world, and America has the chance to seize this opportunity like never before.
Il sole splende su tutto il mondo e l’America ha la possibiltà di cogliere questa opportunità mai come adesso. Ecco il primo riferimento biblico, (Giovanni 8:12; Matteo 5:14-16; Salmo 36: 9 e altri).
Qualsiasi
persona di successo ci racconterebbe con semplicità che per arrivare e ottenere
quello che ha, è passato attraverso le forche caudine, si è sporcata le mani,
ha perso mille battaglie prima di raggiungere la mèta. Ma riconosce che le
possibilità di farcela ci sono e sono concrete come la certezza che il sole
sorge su tutti buoni o cattivi tutti i giorni, non è altro che il dovere di
qualsiasi leader di spronare i sudditi e avere speranza. Guardate il sole, è
alto e noi possiamo vedere le cose diversamente e cambiarle, perchè possiamo.
“Abbiamo un sistema sanitario pubblico che non funziona
nei momenti di disastro, eppure si spendono più soldi per esso che in qualsiasi
altro paese nel mondo. E abbiamo un sistema educativo che insegna ai nostri
bambini a vergognarsi di se stessi, in molti casi a odiare il nostro paese
nonostante l’amore che cerchiamo disperatamente di offrire loro.”
Con pochissime parole tocca due delle cause primarie di bancarotta americana: i costi sanitari e i costi per l’educazione. I primi sono dovuti soprattutto dall’ingordigia delle case farmaceutiche che, come chi produce armi, si sono arricchiti senza limiti.
Per
quanto riguarda l’educazione, lo sbaglio iniziale fu commesso dal governo
federale che offrì alle università di garantire i prestiti per gli studenti in
modo che potessero pagare le loro tasse universitarie. Così le università
perdendo qualsiasi senso morale, decisero di aumentare le tasse universitarie
visto appunto che il governo federale avrebbe garantito i prestiti. A causa di
questa politica, oggi il debito complessivo è di 1,7 trilioni di dollari.
Tra inflazione e debiti negli ultimi 10/15 anni c’è stata un’erosione importante della classe media. Il potere d’acquisto della casa è sceso, mentre i prezzi sono aumentati.
La
maggior parte della classe media americana non riesce ad essere proprietaria
della propria casa e mediamente il 50% di questo ceto ha un lascito non superiore
ai 10.000 dollari sempre che non abbia (molto probabile) debiti con le carte di
credito.
“Oggi è il Giorno di Martin Luther King e in suo onore — questo sarà un grande onore — ci sforzeremo insieme per rendere il suo sogno una realtà. Faremo sì che il suo sogno diventi realtà.”
Contrariamente a quanto gli è stato imputato dalla stampa, Trump non è mai stato nè maschilista, nè razzista, nè contro l’omosessualità. Ci sono tantissime testimonianze negli anni che lo dimostrano: da donazioni a gruppi di colore, all’aver assunto come capo cantiere nel 1979 una donna! Trump è il frutto dell’America meritocratica. Ecco perchè ha cancellato le quote d’ammissione a posti di lavoro federali. Il privato può continuare liberamente a fare le proprie selezioni. D’altra parte aiutare affinchè tutti abbiano una chance non sempre dà i risultati sperati. Quanto sono state dibattute le quote rosa in Italia? Eppure Elli Shlein e il nostro Presidente del Consiglio, mi pare, si siano conquistate i loro posti da sole.
Tornando al sogno di Martin Luther King, a Trump la guerra non interessa. Ci sono troppi problemi interni per perdere tempo e spendere soldi che non hanno alcun ritorno, soprattutto se si è obbligati a guerreggiare quelle degli altri.
Per quanto riguarda i dazi e rapporti esteri in generale, il rapporto di Trump è molto semplice e potrebbe essere riassunto da un antico detto di diritto romano: “do ut des”. Se sei corretto con me, lo sarò anche io. Guardando l’Unione Europea è difficile, non dargli torto, visto che di unione abbiamo molto poco. Anzi forse questo schiaffo sarà l’opportunità per noi europei di decidere la nostra identità seguendo fatti più concreti e non negoziando singolarmente ogni posizione. In relazione al Messico, così come in relazione ai paesi del centro America, inclusi Venezuela e Colombia, il discorso cambia. Così come noi europei abbiamo lasciato e continuiamo a lasciare milioni di euro alla Turchia di Erdogan per arginare l’arrivo dal Medio Oriente (vedi Siria), dall’Asia (Afghanistan) o dall’Africa profughi ed immigrati, così gli Stati Uniti hanno elargito somme importanti anche al Messico, affinchè facesse da barrage all’invasione di milioni di persone. Non è stato così.
Con Panama invece la situazione è sia economica che strategica. Il controllo del canale è principalmente nelle mani di società cinesi, una situazione che, seppur diversa, richiama alla mente quella del 1962, quando Khrushchev tentò di inviare missili balistici a Cuba, costringendo Kennedy a reagire con forza. Oggi, seppur il contesto sia diverso, Trump non vuole trovarsi nella situazione d’essere ricattato nel caso il canale venga chiuso per volere cinese. Molti non sanno che la Cina, da anni, è responsabile di gravi spionaggi industriali e attacchi interni agli Stati Uniti. In tale quadro, Trump non solo chiede una riduzione dei costi di passaggio del canale, lievitati negli anni, ma, giustamente, anche garanzie di libertà di navigazione.
Trump vuole quello che vogliamo tutti, essere libero d’agire con i suoi beni e rendere il suo paese indipendente soprattutto dal punto di vista manifatturiero. Da decenni la manifattura americana non esiste più, ma al più si assembla qui o a Juarez, in Messico, di fronte a El Paso, Texas. Tutto è prodotto altrove, soprattutto in Cina, il tasto più dolente di questa economia.
I will end the practice of catch and release
Metterò fine alla pratica del prendere e rilasciare.
La politica del “prendere e rilasciare” è stata usata per descrivere la pratica dell’arrestare gli immigrati illegali, per poi rilasciarli aspettando la loro comparizione in tribunale davanti al giudice per perorare la richiesta di asilo, non necessariamente politico. Essendo il numero di illegali, entrati nel territorio, esorbitante, spesso la data per fare richiesta di asilo in tribunale era lontana almeno un anno. Questo ha dato, nel frattempo, agli immigrati illegali la possibilità di radicarsi nel territorio se non addirittura sparire nel nulla, senza presentarsi alle autorità. Trump invece vuole istituire l’approccio del “catch and deport” (prendere e trasferire). Ciò comporterebbe la detenzione dell’illegale fino al completamento dell’udienza. La politica del “catch and release” è stata oggetto di infiniti dibattiti, pro e contro, per i costi, i posti limitati nelle carceri, mentre altri ritengono che indebolisca le leggi sull’immigrazione e la sicurezza nazionale. Vedremo.
A coronamento di questa inversione, Trump ha invocato una legge del 1798 l’Alien Enemies Act (Legge sugli Stranieri Nemici – faceva parte di una serie di leggi conosciute come gli Alien and Sedition Acts, – Leggi sugli Stranieri e la Sedizione – approvate dal Congresso durante la presidenza di John Adams, la legge conferiva specificamente al presidente l’autorità di trattenere o deportare qualsiasi cittadino maschio di una nazione ostile durante i periodi di guerra. Adottata durante un periodo di crescenti tensioni tra gli Stati Uniti e la Francia, noto come la Quasi-Guerra, fu promulgata grazie alle forti pressioni dei Federalisti particolarmente preoccupati per i diversi atti di spionaggio e ingerenze di potenze straniere negli affari interni). Si riferisce all’ipotesi di immigrazione illegale programmata dalla Cina, e da altri paesi come l’Iran che avrebbero inviato fondamentalisti musulmani o cellule terroristiche per ora dormienti, spie e assassini con il compito di infiltrarsi nelle società, minando la sicurezza e la stabilità, raccogliendo informazioni sensibili, e preparando il terreno per future destabilizzazioni politiche e sociali.
Questa
citazione durante il discorso evidenzia non solo la preparazione di Trump, che
probabilmente non era a conoscenza di questa normativa, ma anche che si sia
organizzato con team di lavoro altamente qualificato che lo supporta
attivamente.
Arriviamo
quindi alla parte centrale del discorso dedicato all’economia. La strategia,
anche questa semplice e chiara è di risparmiare soldi all’estero, chiedere
quindi ai paesi Nato, cosa già per altro nota, di pagare ognuno le sue quote,
di chiudere le guerre, soprattutto quella Ukraina dove ormai è di dominio
pubblico che gli oligarchi si stanno vendendo le armi “donate” dagli americani
e di conseguenza, per soldi, sovvenzionando terroristi e mercato nero;
abbassare il tasso d’inflazione causato secondo lui dall’alto costo energetico.
Drill, Baby drill
Trivelliamo!
Da qui la frase: “Drill, Baby drill, – trivelliamo!” , che gli permetterebbe di mettere in crisi immediatamente la Russia e l’Iran, dandogli subito una leva negoziale efficacissima con ambo, sia per il fronte ucraino che quello Israeliano. Infine sovvenzionando attraverso benefici di imposte la creazione di manifatture americane a iniziare ovviamente dal mercato più importante: quello automobilistico. Ecco quindi creazione di posti di lavoro, sovvenzioni per start up e tanto altro.
Men are men and women are women.
Gli uomini sono uomini e le donne sono donne.
“Men are men and women are women”. Citiamo la frase, ma solo per dovere di cronaca.
Infine, per concludere, rispondo indirettamente a tutti quelli che si meravigliano del fatto che accanto a Trump ci fossero tutti gli imprenditori più importanti e innovativi degli USA. I soldi non hanno colore politico, ma solo opportunità, e mi viene spontaneo pensare se qualcuno di voi o chi per voi nel momento clout della propria vita non abbia sfoggiato il meglio di sè, o in suo possesso. Ognuno di quei notabili rappresenta un gioiello di famiglia che vale moltissimo e contrariamente alla mentalità italiana, sempre divisionista, gli americani lavorano in team.
Non mi sorprenderebbe sapere che Bill Gates abbia parlato con Trump di carne bovina o di produzione agricola (è il più grande proprietario americano di terreni agricoli, ranch e foreste, per un ammontare di 112 mila ettari in 19 Stati). Non sarei stupita se Besos, il maggior esperto di logistica fosse incaricato di migliorare lo stato pietoso in cui versano le Poste americane. D’altra parte, seppur sia imprevedibile, Trump è un uomo che dice quello pensa e dice quello che fa e che farà. Gli obbiettivi sono tantissimi, ma il carrozzone burocratico degli Stati è difficile da spezzare, iniziando proprio dal’FBI, il cui direttore ha già detto che vorrebbe trasformare il palazzo a Washington, in un museo e spedire tutti i suoi 7000 impiegati sul territorio a cacciare criminali. “D’altra parte questo è il loro lavoro!” ha detto Kash Patel.
Trump 2025: tra sostenibilità finanziaria interna e una politica estera assertiva.
di Melissa de Teffè dagli Stati Uniti – Giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense.
Il 7 gennaio 2025, Donald Trump ha tenuto la sua prima conferenza stampa ufficiale, segando così l’inizio del suo secondo mandato presidenziale. L’incontro con i giornalisti si è svolto presso la sua residenza di Mar-a-Lago, in Florida, e ha offerto uno spunto sulle principali priorità politiche che intende perseguire, sia sul fronte interno che internazionale. Ha volutamente aspettato il 7, perché il 6 gennaio, è il giorno in cui tradizionalmente avviene la certificazione dei risultati delle elezioni presidenziali, rito fondamentale della democrazia americana: il Congresso degli Stati Uniti, riunito in sessione congiunta, conferma ufficialmente i risultati del Collegio Elettorale. Questa prassi, sancita dalla Costituzione degli Stati Uniti e regolata dal “Electoral Count Act” del 1887, vede il vicepresidente presiedere l’incontro, dichiarando ufficialmente il vincitore delle elezioni presidenziali. Sebbene il processo sia di solito una formalità, ci sono stati episodi storici che hanno segnato questa data, come le contestazioni del 2001 e gli eventi tragici del 2021.
Nel 2001, il 6
gennaio fu teatro di una delle sessioni più controverse della storia recente
degli Stati Uniti. Le elezioni presidenziali del 2000, che videro sfidarsi George W. Bush e Al Gore, erano state segnate da un acceso contenzioso sul voto in
Florida. Dopo una serie di riconteggi e decisioni legali, la Corte Suprema
aveva sancito la vittoria di Bush, ma il risultato fu messo in discussione da
alcuni membri del Congresso, che tentarono di bloccare la certificazione dei
voti. Nonostante le obiezioni, la certificazione avvenne, portando Bush alla
presidenza. Non ci soffermeremo a ricordare gli episodi di quattro anni fa, ma
sicuramente questi eventi hanno segnato un momento di forte crisi democratica,
dove gli Stati Uniti hanno sofferto pesantemente per la violenza causata dalle
divisioni politiche.
Durante l’incontro
con i giornalisti, a Mar-a-Lago, il presidente eletto ha annunciato una serie
di nuove politiche interne che segneranno il suo secondo mandato. Ecco le
principali novità emerse:
Investimenti in
infrastrutture tecnologiche: Trump ha
dichiarato che il suo governo investirà 20 miliardi di dollari nella
costruzione di nuovi data center in tutto il paese, con l’obiettivo di
rafforzare l’infrastruttura tecnologica nazionale. Questo progetto, secondo
Trump, è fondamentale per la competitività degli Stati Uniti nel contesto
globale. Il finanziamento proviene da una partnership con il miliardario degli
Emirati Arabi Uniti, Hussain Sajwani, leader di DAMAC Properties.
PoliticheFiscali: Le nuove politiche fiscali, prevedono un
piano di incentivi per stimolare gli investimenti nel settore privato e per
sostenere la crescita economica. Le principali misure fiscali annunciate
comprendono:
Riduzione delle
tasse sulle imprese: Trump ha confermato
la sua intenzione di abbassare ulteriormente le imposte sulle società, mirando
a stimolare l’attività economica e ad aumentare gli investimenti aziendali. Le
riduzioni fiscali proposte mirano a incentivare le imprese a reinvestire i
propri profitti, a espandere le loro operazioni e ad assumere nuovi lavoratori.
Queste politiche sono dirette a sostenere la competitività delle imprese
americane sul piano internazionale, riducendo la pressione fiscale e offrendo
maggiore liquidità alle aziende per incentivare l’innovazione e la crescita.
Credito
d’imposta per investimenti in tecnologie avanzate: Il piano fiscale proposto include un credito d’imposta
per le imprese che investono in nuove tecnologie, come l’intelligenza
artificiale, la blockchain e la tecnologia dei dati. L’obiettivo è sostenere
l’adozione e lo sviluppo di tecnologie emergenti che potrebbero migliorare
l’efficienza produttiva e stimolare la crescita nei settori tecnologici e
industriali.
Incentivi per le
start-up e le piccole imprese:
Trump ha annunciato una serie di misure pensate per favorire la crescita delle
start-up e delle piccole imprese, che costituiscono una parte fondamentale
dell’economia americana. Tra queste, la proposta include sgravi fiscali per le
piccole imprese che investono in ricerca e sviluppo (R&S) o che operano in
settori strategici come l’energia pulita e le infrastrutture. Inoltre, ha
suggerito di semplificare la burocrazia fiscale per le piccole imprese, riducendo
i costi e accelerando i processi per la creazione e la gestione di nuove
attività.
Detrazioni
fiscali per l’innovazione e l’espansione delle capacità produttive: Trump ha presentato incentivi fiscali per le aziende
che investono nell’espansione delle loro capacità produttive in patria,
riducendo la delocalizzazione delle attività economiche all’estero. In
particolare, le aziende che ristrutturano o ampliano impianti di produzione
negli Stati Uniti potrebbero beneficiare di detrazioni fiscali significative, promuovendo
così la creazione di posti di lavoro locali e l’aumento della capacità
produttiva interna.
Incentivi per la
ricerca e sviluppo (R&S): Un
altro aspetto fondamentale del piano fiscale riguarda l’introduzione di
incentivi per le imprese che investono in R&S, con lo scopo di stimolare
l’innovazione tecnologica e scientifica. Trump ha enfatizzato la necessità di
potenziare la leadership tecnologica degli Stati Uniti a livello globale,
sostenendo che l’innovazione è un motore essenziale per la crescita economica e
la creazione di posti di lavoro.
Riforma del
sistema delle imposte sul reddito personale: Oltre agli incentivi per le imprese, Trump ha discusso anche di una
riforma fiscale che prevede una riduzione delle imposte sul reddito delle
famiglie e degli individui. L’obiettivo è mettere più denaro nelle tasche dei
cittadini, aumentando il potere d’acquisto e incentivando i consumi. Ciò,
secondo Trump, contribuirà ad alimentare la crescita economica e a stimolare
l’economia in generale.
In sintesi, le politiche
fiscali annunciate mirano a stimolare gli investimenti, promuovere la crescita
economica e migliorare la competitività delle imprese americane, attraverso una
riduzione delle imposte, incentivi per l’innovazione e il rafforzamento del
settore produttivo domestico. Il piano appare fortemente orientato a favorire
il settore privato e le piccole e medie imprese, con un focus particolare sul
rafforzamento dell’industria tecnologica e produttiva americana.
Trump ha ribadito
l’intenzione di ridurre ulteriormente le tasse per le imprese sottolineando che
l’obiettivo della sua amministrazione è creare un ambiente favorevole alla
crescita economica e all’occupazione, sostenendo la prosperità americana.
Politiche di
sicurezza interna: Il presidente ha
annunciato nuove misure per rafforzare la sicurezza nazionale, tra cui
l’introduzione di nuove leggi per combattere il crimine e il terrorismo. Ha
promesso di potenziare la protezione dei confini e migliorare le politiche di
contrasto alla criminalità, puntando a una gestione più efficace delle risorse
destinate alla sicurezza interna.
Sostegno ai
lavoratori americani: Trump ha dichiarato
che il suo governo promuoverà politiche di sostegno ai lavoratori americani, in
particolare quelli che operano nei settori più colpiti dalla globalizzazione,
come la manifattura. Ha promesso di aumentare gli investimenti in programmi di
formazione professionale e reinserimento lavorativo, per dare nuove opportunità
ai cittadini statunitensi.
Legge sulla
sicurezza energetica: Una delle
principali iniziative di Trump è stata la presentazione di una nuova legge per
la sicurezza energetica, che mira ad aumentare la produzione di energia negli
Stati Uniti, ridurre la dipendenza dalle importazioni e promuovere l’uso di
risorse rinnovabili senza compromettere la competitività delle industrie
americane.
Riforma del
sistema sanitario: Trump ha indicato
la riforma del sistema sanitario come una priorità per il suo secondo mandato.
Ha promesso di lavorare per abbassare i costi delle cure sanitarie e migliorare
l’accesso ai servizi per i cittadini, senza aumentare le tasse o espandere il
sistema pubblico. Vogliamo far presente che negli Stati Uniti, le spese mediche
rappresentano una delle principali cause di fallimento finanziario per le famiglie.
Secondo uno studio condotto dall’Università di Harvard, il 62% di tutti i
fallimenti personali è attribuibile a spese mediche. Inoltre, un’indagine della società di analisi
Gallup, in collaborazione con West Health, ha rivelato che il 13% degli americani
ha riferito di aver avuto un amico o un familiare deceduto negli ultimi cinque
anni a causa dell’impossibilità di pagare le cure mediche. Questi dati
evidenziano le gravi difficoltà finanziarie che molte famiglie americane
affrontano a causa dei costi elevati delle cure sanitarie, nonostante
l’esistenza di forme di assicurazione sanitaria.
Politiche di immigrazione: Il
presidente ha annunciato nuove misure per fermare l’immigrazione illegale,
concentrandosi sul rafforzamento dei controlli ai confini e sulla costruzione
di nuove barriere di sicurezza. Ha ribadito la sua posizione a favore di una
politica di immigrazione più severa e ha sottolineato la necessità di un
sistema di asilo che protegga gli interessi americani.
Riforma delle
leggi sul crimine: Trump ha promesso
di affrontare con fermezza la criminalità nelle città americane, proponendo
nuove leggi che rafforzano le pene per i crimini violenti e incoraggiano le
forze dell’ordine ad adottare politiche più dure. Ha sottolineato l’importanza
di mantenere l’ordine pubblico e la sicurezza nelle aree urbane.
Queste dichiarazioni
segnalano un programma interno che punta a rafforzare l’economia, la sicurezza
e la stabilità sociale, continuando sulla scia delle politiche promosse durante
il suo primo mandato.
Se per la politica interna le idee che ha dichiarato trovano il plauso generale visto le condizioni disastrose economico-sociali in cui versano la maggior parte delle grandi metropoli del paese, i punti che qui elenchiamo di politica estera ci lasciano sicuramente sorpresi.
“Trumpland”. Copyright Daily Wire Ben Shapiro show.
Ecco quanto esposto:
Ripresa del
controllo del Canale di Panama e della Groenlandia: Trump ha espresso l’intenzione di riprendere il
controllo strategico di entrambe le aree, considerandole cruciali per la
sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Ha anche suggerito che l’uso della forza
militare potrebbe essere una possibilità per raggiungere questi obiettivi, se
necessario.
Panama – L’allora presidente
Jimmy Carter, nel 1977 firmò il trattato che avrebbe portato alla
restituzione del Canale di Panama allo Stato panamense. Il trattato, noto come
i Trattati di Panama, fu un accordo storico che stabilì un piano per trasferire
il controllo del canale dal governo degli Stati Uniti al Panama entro il 31
dicembre 1999. Questo accordo segnò una svolta significativa nella politica
estera americana, poiché per decenni gli Stati Uniti avevano controllato il
Canale. La restituzione fu vista come un
atto di buona volontà, ma anche come una necessità di adattarsi a un mondo
post-bellico dove gli Stati Uniti non avrebbero più esercitato un controllo
egemone su tutte le risorse strategiche nella regione. L’accordo con
Carter fu visto come un passo importante
verso la riconciliazione con i paesi latinoamericani e un tentativo di
migliorare l’immagine degli Stati Uniti nella regione, ma sollevò dibattiti
interni sulla sicurezza nazionale e sulle implicazioni geostrategiche di tale
scelta. Carter difese la sua decisione come un passo verso la normalizzazione
delle relazioni con l’America Latina, promuovendo una politica di cooperazione
e rispetto reciproco. Il processo di
trasferimento fu completato con successo nel 1999, durante l’amministrazione di
Bill Clinton, segnando la fine di
più di 80 anni di dominio statunitense. Il Canale di Panama è attualmente
gestito da due società di Hong Kong, che ne amministrano l’ingresso e l’uscita,
esercitando un controllo significativo su una delle vie navigabili più
importanti al mondo. Si stima che oltre il 10% delle navi transatlantiche siano
di proprietà o gestite dagli Stati Uniti, un dato che riflette l’importanza
strategica di questa rotta per l’economia statunitense. Per questo motivo,
Donald Trump ha manifestato il desiderio che il Canale di Panama ritorni sotto
il controllo diretto degli Stati Uniti, considerandolo cruciale per la
sicurezza e la supremazia commerciale del paese. La gestione da parte di entità
estere, in particolare da aziende cinesi, ha sollevato preoccupazioni in merito
alla sicurezza e all’influenza geopolitica nella regione.
Il Golfo del
Messico potrebbe essere rinominato
“Golfo dell’America”. Trump ha criticato il Messico per la sua scarsa
collaborazione durante la presidenza Biden, accusandolo di permettere che il
suo territorio fosse attraversato da un’enorme immigrazione verso gli Stati
Uniti. Inoltre, ha promesso di imporre pesanti dazi su Messico e Canada come
risposta a questa situazione. Tuttavia, non ha specificato come intende
realizzare il cambiamento del nome. Il corpo d’acqua è stato conosciuto con
molti nomi, ma gli esploratori e i cartografi europei hanno utilizzato il nome
“Golfo del Messico” per almeno 400 anni. Esistono meccanismi
ufficiali per rinominare luoghi riconosciuti dal governo federale. Tuttavia, se
il cambiamento di nome a livello federale diventa ufficiale, non significa che
anche altri paesi lo riconosceranno. Il U.S. Board on Geographic Names è
un organismo federale interagenzia responsabile di mantenere l’uso uniforme dei
nomi geografici all’interno del governo federale, operando sotto la direzione del
segretario dell’Interno. Il Foreign Names Committee è incaricato di
standardizzare i nomi dei luoghi esteri e include rappresentanti da agenzie
federali, tra cui esperti in geografia e cartografia. I membri vengono nominati
ogni due anni. Nel 2020, il comitato ha discusso se rinominare il Golfo Persico
in “Golfo Arabo”, una questione controversa tra i paesi arabi. L’Iran
ha sempre insistito affinché fosse chiamato “Golfo Persico”, mentre
le nazioni arabe preferivano il termine “Golfo Arabo”. Il comitato ha
stabilito che “Golfo Persico” rimane appropriato in base alle sue
politiche di usare nomi convenzionali e diffusi, ma ha aggiunto che l’uso di
“Golfo Arabo” è accettabile nelle comunicazioni informali con partner
militari e governativi arabi nella regione.
Groenlandia –
Già nel primo mandato, Trump aveva espresso l’intenzione di riprendere il
controllo della Groenlandia, un’area che riveste una grande importanza
geopolitica. La Groenlandia è situata nel cuore dell’Artico, una regione sempre
più rilevante per le sue risorse naturali, come il petrolio, il gas e le terre
rare, oltre ad avere una posizione strategica per il controllo delle rotte
marittime e per la difesa militare. È del 2019, l’offerta di Trump al governo
danese per l’acquisto della Groenlandia, suo territorio. Oltre alle notevoli
risorse naturali questo paese ricopre un valore importantissimo come punto
d’appoggio strategico nell’Artico, un’area di crescente rivalità tra potenze
mondiali, in particolare gli Stati Uniti, la Russia e la Cina. Sebbene
l’offerta fosse stata rifiutata dalla Danimarca, la Groenlandia continua ad
essere vista dagli Stati Uniti come una “porta” per l’Artico, un’area
di grande interesse militare ed economico, specialmente con l’aumento della
navigazione commerciale nell’Artico a causa del cambiamento climatico e dello
scioglimento dei ghiacci. Trump ha quindi ribadito l’importanza della
Groenlandia nel contesto della sua politica estera, indicando che il suo
controllo potrebbe garantire maggiore sicurezza.
Posizione sulla
Russia e l’Ucraina: Siamo più che
consapevoli della frase trumpiana “se fossi stato io presidente questa guerra
non avrebbe avuto modo di essere”, perciò ci aspettavamo esattamente quanto
ancora reiterato che la sua amministrazione difenderà sempre i suoi alleati
europei, ma nonostante le dure critiche alla Russia, Trump ha anche suggerito
la possibilità di dialogare con Mosca per trovare una soluzione diplomatica
alla crisi ucraina. Ha dichiarato che sarebbe disposto a negoziare direttamente
con il presidente russo Vladimir Putin per raggiungere un accordo che protegga
gli interessi degli Stati Uniti e dei suoi alleati, ma senza compromettere la
sicurezza dell’Ucraina..
Minacce contro
Hamas e il Medio Oriente: Sul fronte
mediorientale, Trump ha messo in guardia Hamas, contro le possibili conseguenze
se gli ostaggi non fossero rilasciati entro il suo insediamento. Ha minacciato
azioni drammatiche e severe, avvertendo che “in Medio Oriente scoppierà
l’inferno” se gli ostaggi non venissero liberati.
Iniziative in
Asia e difesa degli alleati: Trump ha
ribadito la necessità di proteggere gli alleati americani in Asia, come Taiwan
e Giappone, di fronte a potenziali minacce cinesi. Ha proposto un rafforzamento
della presenza militare negli alleati strategici asiatici per prevenire
l’espansione cinese nella regione.
Politica nei
confronti dell’Iran: Trump ha confermato
la sua posizione dura contro l’Iran, sostenendo che non consentirà a Teheran di
acquisire armi nucleari. Ha promesso di ripristinare le sanzioni economiche e
di mantenere una politica di “massima pressione” sul regime iraniano.
Per quanto riguarda il triangolo esplosivo Iran, USA-Italia, siamo tutti in attesa di capire
quanto cederanno gli Stati Uniti e quanto funzioneranno le minacce atlantiche.
Relazioni con
l’Unione Europea e altre potenze mondiali: Trump ha enfatizzato la sua intenzione di mantenere forti legami con le
principali potenze mondiali, ma ha anche messo in chiaro che gli Stati Uniti
non avrebbero più tollerato comportamenti “ingannevoli” o politiche
economiche svantaggiose per il paese.
Queste dichiarazioni
dipingono un quadro che si concentra principalmene sulle necessità interne del
paese che sono molte. In questi ultimi due mesi infatti JoeBiden ha firmato
protezione degli interessi nazionali, l’assertività nei confronti di potenze
straniere e la difesa dei legami strategici degli Stati Uniti a livello
globale.
Ma “sleepy Joe”,
negli ultimi tre mesi, ha firmato diversi ordini esecutivi che hanno comportato
significativi impegni finanziari da parte del governo federale, in contrasto
con quanto Elon Musk e Vivek Ramaswamy dovrebbero “fare”,
ossia alleggerire il carrozzone burocratico.
Perciò questi
provvedimenti, pur essendo mirati a specifici settori o situazioni,
contribuiscono ad aumentare le spese federali, riducendo così la disponibilità
di fondi per altre priorità governative. Tale allocazione delle risorse
potrebbe limitare la capacità dell’amministrazione successiva di finanziare
nuove iniziative o affrontare altre esigenze urgenti, obbligando il ricorso a
misure fiscali aggiuntive o a un aumento del debito pubblico. Chissà se Trump
riuscirà a risollevare quest’America soffocata da una forte inflazione, ma
soprattutto le ridia la voglia di fare che tutti abbiamo conosciuto nel tempo.
Per ora sembra dai toni e dalle scelte un John
Wayne contemporaneo alla conquista del West. Forse ha ragione?
Terrorismo a 10 anni da Charlie Hebdo, con Claudio Bertolotti, Sky tg24
MDHM nell’era digitale: il doppio volto dell’Intelligenza Artificiale tra minaccia e soluzione per la democrazia.
La
diffusione di informazioni false, fuorvianti o manipolate – riassunta
nell’acronimo MDHM (misinformation, disinformation, malinformation e hate
speech) – rappresenta una delle sfide più critiche dell’era digitale, con
conseguenze profonde sulla coesione sociale, la stabilità politica e la
sicurezza globale. Questo studio analizza le caratteristiche distintive di
ciascun fenomeno e il loro impatto interconnesso, evidenziando come alimentino
l’erosione della fiducia nelle istituzioni, la polarizzazione sociale e
l’instabilità politica.
L’intelligenza
artificiale emerge come una risorsa cruciale per contrastare il MDHM, offrendo
strumenti avanzati per il rilevamento di contenuti manipolati e il monitoraggio
delle reti di disinformazione. Tuttavia, la stessa tecnologia alimenta nuove
minacce, come la creazione di deepfake e la generazione di contenuti
automatizzati che amplificano la portata e la sofisticazione della
disinformazione. Questo paradosso evidenzia la necessità di un uso etico e
strategico delle tecnologie emergenti.
Il lavoro propone un approccio multidimensionale per affrontare il MDHM, articolato su tre direttrici principali: l’educazione critica, con programmi scolastici e campagne pubbliche per rafforzare l’alfabetizzazione mediatica; la regolamentazione delle piattaforme digitali, mirata a bilanciare la rimozione dei contenuti dannosi con la tutela della libertà di espressione; la collaborazione globale, per garantire una risposta coordinata a una minaccia transnazionale.
In
conclusione, l’articolo sottolinea l’importanza di un impegno concertato tra
governi, aziende tecnologiche e società civile per mitigare gli effetti
destabilizzanti del MDHM e preservare la democrazia, la sicurezza e la fiducia
nelle informazioni.
Definizioni
e Distinzioni
La
diffusione di informazioni false, fuorvianti o manipolate costituisce una delle
sfide più complesse e pericolose dell’era digitale, con ripercussioni
significative sull’equilibrio sociale, politico e culturale. I fenomeni noti
come misinformation,disinformation, malinformatione hate speech,
sintetizzati nell’acronimo MDHM, rappresentano
manifestazioni distinte ma strettamente interconnesse di questa problematica.
Una comprensione approfondita delle loro specificità è imprescindibile per
sviluppare strategie efficaci volte a contenere e contrastare le minacce che
tali fenomeni pongono alla coesione sociale e alla stabilità delle istituzioni.
Misinformation:
Informazioni false diffuse senza l’intenzione di causare danno. Ad esempio, la
condivisione involontaria di notizie non verificate sui social media.
Disinformation:
Informazioni deliberatamente create per ingannare, danneggiare o manipolare
individui, gruppi sociali, organizzazioni o nazioni. Un esempio è la diffusione
intenzionale di notizie false per influenzare l’opinione pubblica o
destabilizzare istituzioni.
Malinformation:
informazioni basate su fatti reali, ma utilizzate fuori contesto per fuorviare,
causare danno o manipolare. Ad esempio, la divulgazione di dati personali con
l’intento di danneggiare la reputazione di qualcuno.
Hate
Speech: espressioni che incitano all’odio contro individui o gruppi
basati su caratteristiche come razza, religione, etnia, genere o orientamento
sessuale. Questo tipo di discorso può fomentare violenza e discriminazione.
Impatto sulla Società
La diffusione di misinformation, disinformation,
malinformation
e hate
speech rappresenta una sfida cruciale per la stabilità delle società
moderne. Questi fenomeni, potenziati dalla rapidità e dalla portata globale dei
media digitali, hanno conseguenze significative che si manifestano in vari
ambiti sociali, politici e culturali. Tra i principali effetti troviamo
l’erosione della fiducia nelle istituzioni, la polarizzazione sociale e
l’acuirsi delle minacce alla sicurezza.
Erosione della
Fiducia
L’informazione falsa o manipolata rappresenta un
attacco diretto alla credibilità delle istituzioni pubbliche, dei media e persino della comunità
scientifica. Quando le persone vengono sommerse da un flusso costante di
notizie contraddittorie o palesemente mendaci, il risultato inevitabile è una
crisi di fiducia generalizzata. Nessuna fonte viene risparmiata dal dubbio,
nemmeno i giornalisti più autorevoli o gli organismi governativi più
trasparenti. Questo processo mina le fondamenta della società e alimenta un
clima di incertezza che, a lungo andare, può trasformarsi in alienazione.
Un esempio emblematico si osserva nel contesto del
processo democratico, dove la disinformazione colpisce con particolare
intensità. Le campagne di manipolazione delle informazioni, mirate a diffondere
falsità sulle procedure di voto o sui candidati, hanno un effetto devastante
sull’integrità elettorale. Ciò non solo alimenta il sospetto e la sfiducia
nelle istituzioni democratiche, ma crea anche un senso di disillusione tra i cittadini,
allontanandoli ulteriormente dalla partecipazione attiva.
Le conseguenze diventano ancora più evidenti nella
gestione delle crisi globali. Durante la pandemia da COVID-19, l’ondata di
teorie del complotto e la diffusione di cure non verificate hanno rappresentato
un ostacolo significativo per gli sforzi della salute pubblica. La
disinformazione ha alimentato paure infondate e diffidenza verso i vaccini,
rallentando la risposta globale alla crisi e aumentando la diffusione del
virus.
Ma questa erosione della fiducia non si ferma al
singolo individuo. Le sue ripercussioni si estendono a tutta la società,
frammentandola. I legami sociali, già indeboliti da divisioni preesistenti,
diventano ancora più vulnerabili alla manipolazione. E così, si crea un terreno
fertile per ulteriori conflitti e instabilità, in cui le istituzioni si trovano
sempre più isolate, mentre cresce il rischio di una società incapace di reagire
a sfide collettive.
Polarizzazione
Sociale
Le campagne di disinformazione trovano terreno fertile
nelle divisioni già esistenti all’interno della società, sfruttandole con
l’obiettivo di amplificarle e renderle insormontabili. Questi fenomeni,
alimentati da strategie mirate e potenziati dalle piattaforme digitali,
intensificano il conflitto sociale e compromettono la possibilità di dialogo,
lasciando spazio a una polarizzazione sempre più marcata.
L’amplificazione delle divisioni è forse il risultato
più visibile della disinformazione. La manipolazione delle informazioni viene
utilizzata per radicalizzare le opinioni politiche, culturali o religiose,
costruendo una narrazione di contrapposizione tra un “noi” e un
“loro”. Nei contesti di tensioni etniche, per esempio, la
malinformation, diffusa con l’intento di distorcere eventi storici o di
strumentalizzare questioni politiche attuali, accentua le differenze percepite
tra gruppi sociali. Questi contrasti, spesso già esistenti, vengono esasperati
fino a cristallizzarsi in conflitti identitari difficili da sanare.
A ciò si aggiunge l’effetto delle cosiddette
“bolle informative”, create dagli algoritmi delle piattaforme
digitali. Questi sistemi, progettati per massimizzare l’engagement degli
utenti, propongono contenuti che rafforzano le loro opinioni preesistenti,
limitandone l’esposizione a prospettive alternative. Questo fenomeno, noto come
“filtro bolla”, non solo solidifica pregiudizi, ma isola gli individui
all’interno di una realtà mediatica che si nutre di conferme continue,
impedendo la comprensione di punti di vista differenti.
La polarizzazione, alimentata dal MDHM, non si ferma
però al piano ideologico. In molti casi, la radicalizzazione delle opinioni si
traduce in azioni concrete: proteste, scontri tra gruppi e, nei casi più
estremi, conflitti armati. Guerre civili e crisi sociali sono spesso il culmine
di una spirale di divisione che parte dalle narrative divisive diffuse
attraverso disinformazione e hate speech.
In definitiva, la polarizzazione generata dal MDHM non
danneggia solo il dialogo sociale, ma mina anche le fondamenta della coesione
collettiva. In un tale contesto, risulta impossibile trovare soluzioni
condivise a problemi comuni. Ciò che rimane è un clima di conflittualità
permanente, dove il “noi contro loro” sostituisce qualsiasi tentativo
di collaborazione, rendendo la società più fragile e vulnerabile.
Minaccia alla
Sicurezza
Nei contesti di conflitto, il MDHM si rivela un’arma
potente e pericolosa, capace di destabilizzare società e istituzioni con
implicazioni devastanti per la sicurezza collettiva e individuale. La
disinformazione, insieme al discorso d’odio, alimenta un ciclo di violenza e
instabilità politica, minacciando la pace e compromettendo i diritti umani. Gli
esempi concreti di come queste dinamiche si manifestano non solo illustrano la
gravità del problema, ma evidenziano anche l’urgenza di risposte efficaci.
La propaganda
e la destabilizzazione costituiscono uno degli utilizzi più insidiosi
della disinformazione. Stati e gruppi non statali sfruttano queste pratiche
come strumenti di guerra ibrida, mirati a indebolire il morale delle
popolazioni avversarie e a fomentare divisioni interne. In scenari geopolitici
recenti, la diffusione di informazioni false ha generato confusione e panico,
rallentando la capacità di risposta delle istituzioni. Questa strategia,
pianificata e sistematica, non si limita a disorientare l’opinione pubblica ma
colpisce direttamente il cuore della coesione sociale.
Il discorso
d’odio, amplificato dalle piattaforme digitali, è spesso un precursore
di violenze di massa. Ne è tragico esempio il genocidio dei Rohingya in
Myanmar, preceduto da una campagna di odio online che ha progressivamente deumanizzato
questa minoranza etnica, preparandone il terreno per persecuzioni e massacri.
Questi episodi dimostrano come lo hate
speech, una volta radicato, possa tradursi in azioni violente e
sistematiche, con conseguenze irreparabili per le comunità coinvolte.
Anche sul piano individuale, gli effetti del MDHM sono
profondamente distruttivi. Fenomeni come il doxxing – la divulgazione pubblica di informazioni personali con
intenti malevoli – mettono a rischio diretto la sicurezza fisica e psicologica
delle vittime. Questo tipo di attacco non solo espone le persone a minacce e
aggressioni, ma amplifica un senso di vulnerabilità che si estende ben oltre il
singolo episodio, minando la fiducia nel sistema stesso.
L’impatto cumulativo di queste dinamiche mina la stabilità
sociale nel suo complesso, creando fratture profonde che richiedono risposte
immediate e coordinate. Affrontare il MDHM non è solo una questione di difesa
contro la disinformazione, ma un passo essenziale per preservare la pace,
proteggere i diritti umani e garantire la sicurezza globale in un’epoca sempre
più interconnessa e vulnerabile.
Strategie di Mitigazione
La
lotta contro il fenomeno MDHM richiede una risposta articolata e coordinata,
capace di affrontare le diverse sfaccettature del problema. Dato l’impatto
complesso e devastante che questi fenomeni hanno sulla società, le strategie di
mitigazione devono essere sviluppate con un approccio multidimensionale,
combinando educazione, collaborazione tra i diversi attori e un quadro
normativo adeguato.
Educazione e
Consapevolezza
La prima e più efficace linea di difesa contro il
fenomeno MDHM risiede nell’educazione e nella promozione di una diffusa
alfabetizzazione mediatica. In un contesto globale in cui le informazioni
circolano con una rapidità senza precedenti e spesso senza un adeguato
controllo, la capacità dei cittadini di identificare e analizzare criticamente
i contenuti che consumano diventa una competenza indispensabile. Solo
attraverso una maggiore consapevolezza sarà possibile arginare gli effetti
negativi della disinformazione e costruire una società più resiliente.
Il pensiero critico
rappresenta la base di questa strategia. I cittadini devono essere messi nelle
condizioni di distinguere le informazioni affidabili dai contenuti falsi o
manipolati. Questo processo richiede l’adozione di strumenti educativi che
insegnino come verificare le fonti, identificare segnali di manipolazione e
analizzare il contesto delle notizie. È un impegno che va oltre la semplice
formazione: si tratta di creare una cultura della verifica e del dubbio
costruttivo, elementi essenziali per contrastare la manipolazione informativa.
Un ruolo cruciale in questa battaglia è giocato dalla formazione scolastica. Le scuole
devono diventare il luogo privilegiato per l’insegnamento dell’alfabetizzazione
mediatica, preparando le nuove generazioni a navigare consapevolmente nel
complesso panorama digitale. L’integrazione di questi insegnamenti nei
programmi educativi non può più essere considerata un’opzione, ma una
necessità. Attraverso laboratori pratici, analisi di casi reali e simulazioni,
i giovani possono sviluppare le competenze necessarie per riconoscere contenuti
manipolati e comprendere le implicazioni della diffusione di informazioni
false.
Tuttavia, l’educazione non deve limitarsi ai giovani.
Anche gli adulti, spesso più esposti e vulnerabili alla disinformazione, devono
essere coinvolti attraverso campagne di
sensibilizzazione pubblica. Queste iniziative, veicolate sia attraverso
i media tradizionali che digitali, devono illustrare le tecniche più comuni
utilizzate per diffondere contenuti falsi, sottolineando le conseguenze
negative di tali fenomeni per la società. Un cittadino informato, consapevole
dei rischi e capace di riconoscerli, diventa un elemento di forza nella lotta
contro la disinformazione.
Investire nell’educazione e nella sensibilizzazione
non è solo una misura preventiva, ma un pilastro fondamentale per contrastare
il MDHM. Una popolazione dotata di strumenti critici è meno suscettibile alle
manipolazioni, contribuendo così a rafforzare la coesione sociale e la
stabilità delle istituzioni democratiche. Questo percorso, pur richiedendo un
impegno costante e coordinato, rappresenta una delle risposte più efficaci a
una delle minacce più insidiose del nostro tempo.
Collaborazione
Intersettoriale
La complessità del fenomeno MDHM è tale che nessun
singolo attore può affrontarlo efficacemente da solo. È una sfida globale che
richiede una risposta collettiva e coordinata, in cui governi, organizzazioni
non governative, aziende tecnologiche e società civile collaborano per
sviluppare strategie condivise. Solo attraverso un impegno sinergico è
possibile arginare gli effetti destabilizzanti di questa minaccia.
Le istituzioni
governative devono assumere un ruolo guida. I governi sono chiamati a
creare regolamentazioni efficaci e ambienti sicuri per lo scambio di
informazioni, garantendo che queste misure bilancino due aspetti fondamentali:
la lotta contro i contenuti dannosi e la protezione della libertà di
espressione. Un eccesso di controllo rischierebbe infatti di scivolare nella
censura, minando i principi democratici che si intendono tutelare. L’approccio
deve essere trasparente, mirato e in grado di adattarsi all’evoluzione delle
tecnologie e delle dinamiche di disinformazione.
Le aziende
tecnologiche, in particolare i social
media, giocano un ruolo centrale in questa sfida. Hanno una responsabilità
significativa nel contrastare la diffusione del MDHM, essendo i principali
veicoli attraverso cui queste dinamiche si propagano. Devono investire nello
sviluppo di algoritmi avanzati, capaci di identificare e rimuovere i contenuti
dannosi in modo tempestivo ed efficace. Tuttavia, l’efficacia degli interventi
non può venire a scapito della libertà degli utenti di esprimersi. La
trasparenza nei criteri di moderazione, nella gestione dei dati e nei meccanismi
di segnalazione è fondamentale per mantenere la fiducia degli utenti e
prevenire abusi.
Accanto a questi attori, le organizzazioni non governative (ONG) e la società civile svolgono
un ruolo di intermediazione. Le ONG possono fungere da ponte tra istituzioni e
cittadini, offrendo informazioni verificate e affidabili, monitorando i
fenomeni di disinformazione e promuovendo iniziative di sensibilizzazione.
Queste organizzazioni hanno anche la capacità di operare a livello locale,
comprendendo meglio le dinamiche specifiche di determinate comunità e adattando
le strategie di contrasto alle loro esigenze.
Infine, è imprescindibile favorire partnership pubbliche e private. La
collaborazione tra settori pubblico e privato è essenziale per condividere
risorse, conoscenze e strumenti tecnologici utili a combattere il MDHM. In
particolare, le aziende possono offrire soluzioni innovative, mentre i governi
possono fornire il quadro normativo e il supporto necessario per implementarle.
Questa sinergia permette di affrontare la disinformazione con un approccio più
ampio e integrato, combinando competenze tecniche, capacità di monitoraggio e
intervento.
La risposta al MDHM non può dunque essere frammentata
né limitata a un singolo settore. Solo attraverso una collaborazione
trasversale e globale sarà possibile mitigare le conseguenze di questi
fenomeni, proteggendo le istituzioni, i cittadini e la società nel suo insieme.
Ruolo delle Tecnologie
Avanzate e Artificial Intelligence (AI) nel Contesto del MDHM
Le
tecnologie emergenti, in particolare l’intelligenza artificiale (IA), svolgono
un ruolo cruciale nel contesto di misinformation,
disinformation, malinformation e hate speech.
L’AI rappresenta un’arma a doppio taglio: da un lato, offre strumenti potenti
per individuare e contrastare la diffusione di contenuti dannosi; dall’altro,
alimenta nuove minacce, rendendo più sofisticati e difficili da rilevare gli
strumenti di disinformazione.
Rilevamento
Automatico
L’intelligenza artificiale ha rivoluzionato il modo in
cui affrontiamo il fenomeno della disinformazione, introducendo sistemi
avanzati di rilevamento capaci di identificare rapidamente contenuti falsi o
dannosi. In un panorama digitale in cui il volume di dati generato
quotidianamente è immenso, il monitoraggio umano non è più sufficiente. Gli
strumenti basati sull’AI si rivelano quindi essenziali per gestire questa
complessità, offrendo risposte tempestive e precise.
Tra le innovazioni più rilevanti troviamo gli algoritmi di machine learning, che rappresentano il cuore dei sistemi di
rilevamento automatico. Questi algoritmi, attraverso tecniche di apprendimento
automatico, analizzano enormi quantità di dati alla ricerca di schemi che
possano indicare la presenza di contenuti manipolati o falsi. Addestrati su
dataset contenenti esempi di disinformazione già identificati, questi sistemi
sono in grado di riconoscere caratteristiche comuni, come l’uso di titoli
sensazionalistici, un linguaggio emotivamente carico o la presenza di immagini
alterate. L’efficacia di tali strumenti risiede nella loro capacità di
adattarsi a nuovi modelli di manipolazione, migliorando costantemente le
proprie performance.
Un altro ambito cruciale è quello della verifica delle fonti. Strumenti basati
su AI possono confrontare le informazioni che circolano online con fonti
affidabili, identificando discrepanze e facilitando il lavoro dei fact-checker. In questo modo, la
tecnologia accelera i tempi di verifica, permettendo di contrastare in maniera
più efficiente la diffusione di contenuti falsi prima che raggiungano un
pubblico vasto.
L’AI è anche fondamentale per contrastare una delle
minacce più sofisticate: i deepfake, di cui più oltre
tratteremo. Grazie a tecniche avanzate, è possibile analizzare video e immagini
manipolati, individuando anomalie nei movimenti facciali, nella
sincronizzazione delle labbra o nella qualità complessiva del contenuto visivo.
Aziende come Adobe e Microsoft stanno sviluppando strumenti dedicati alla
verifica dell’autenticità dei contenuti visivi, offrendo una risposta concreta
a una tecnologia che può facilmente essere sfruttata per scopi malevoli.
Il monitoraggio
del linguaggio d’odio è un altro fronte in cui l’AI dimostra il suo
valore. Attraverso algoritmi di elaborazione del linguaggio naturale (NLP), è
possibile analizzare i testi in tempo reale per identificare espressioni di hate speech. Questi sistemi non solo
categorizzano i contenuti, ma assegnano priorità agli interventi, garantendo
una risposta rapida ed efficace ai casi più gravi. In un contesto in cui il
discorso d’odio può rapidamente degenerare in violenza reale, la capacità di
intervenire tempestivamente è cruciale.
Infine, l’intelligenza artificiale è in grado di rilevare
e analizzare reti di disinformazione. Attraverso l’analisi delle
interazioni social, l’AI può individuare schemi che suggeriscono campagne
coordinate, come la diffusione simultanea di messaggi simili da account
collegati. Questa funzione è particolarmente utile per smascherare operazioni
orchestrate, sia a livello politico che sociale, che mirano a destabilizzare la
fiducia pubblica o a manipolare l’opinione delle persone.
In definitiva, l’intelligenza artificiale rappresenta
uno strumento indispensabile per affrontare il fenomeno della disinformazione e
dell’hate speech. Tuttavia, come ogni
tecnologia, richiede un uso etico e responsabile. Solo attraverso
un’implementazione trasparente e mirata sarà possibile sfruttare appieno il
potenziale dell’AI per proteggere l’integrità delle informazioni e la coesione
sociale.
Generazione di
Contenuti
L’intelligenza artificiale, se da un lato rappresenta
una risorsa preziosa per contrastare la disinformazione, dall’altro
contribuisce a rendere il fenomeno MDHM ancora più pericoloso, fornendo
strumenti per la creazione di contenuti falsi e manipolati con livelli di
sofisticazione senza precedenti. È proprio questa ambivalenza che rende l’IA
una tecnologia tanto potente quanto insidiosa.
Un esempio emblematico è rappresentato dai citati deepfake,
prodotti grazie a tecnologie basate su reti generative avversarie (GAN). Questi
strumenti permettono di creare video e immagini estremamente realistici, in cui
persone possono essere mostrate mentre affermano o compiono azioni mai
avvenute. I deepfake compromettono
gravemente la fiducia nelle informazioni visive, un tempo considerate una prova
tangibile della realtà. Ma non si fermano qui: la loro diffusione può essere
utilizzata per campagne di diffamazione, per manipolare l’opinione pubblica o
per destabilizzare contesti politici già fragili. La capacità di creare realtà
alternative visive rappresenta una minaccia diretta alla credibilità delle
fonti visive e alla coesione sociale.
Parallelamente, i testi generati automaticamente da modelli di linguaggio avanzati,
come GPT, hanno aperto nuove frontiere nella disinformazione. Questi sistemi
sono in grado di produrre articoli, commenti e post sui social media che
appaiono del tutto autentici, rendendo estremamente difficile distinguere i
contenuti generati da una macchina da quelli scritti da una persona reale. Non
a caso, tali strumenti vengono già sfruttati per alimentare botnet, reti automatizzate che
diffondono narrazioni polarizzanti o completamente false, spesso con l’obiettivo
di manipolare opinioni e alimentare conflitti sociali.
Un ulteriore aspetto cruciale è rappresentato dalla scalabilità della disinformazione.
L’automazione garantita dall’AI consente la creazione e la diffusione di
contenuti falsi su larga scala, amplificandone in modo esponenziale l’impatto.
Ad esempio, un singolo attore malevolo, sfruttando questi strumenti, può
generare migliaia di varianti di un messaggio falso, complicando ulteriormente
il compito dei sistemi di rilevamento. In pochi istanti, contenuti manipolati
possono essere diffusi a livello globale, raggiungendo milioni di persone prima
che si possa intervenire.
Infine, l’AI offre strumenti per la mimetizzazione dei contenuti, che
rendono i messaggi manipolati ancora più difficili da individuare. Algoritmi
avanzati consentono di apportare modifiche minime ma strategiche a testi o
immagini, eludendo così i sistemi di monitoraggio tradizionali. Questa capacità
di adattamento rappresenta una sfida continua per gli sviluppatori di strumenti
di contrasto, che devono aggiornarsi costantemente per stare al passo con le
nuove tecniche di manipolazione.
In definitiva, l’intelligenza artificiale, nella sua
capacità di generare contenuti altamente sofisticati, rappresenta un’arma a
doppio taglio nel panorama del MDHM. Se non regolamentata e utilizzata in modo
etico, rischia di accelerare la diffusione della disinformazione, minando
ulteriormente la fiducia pubblica nelle informazioni e destabilizzando la
società. È indispensabile affrontare questa minaccia con consapevolezza e
strumenti adeguati, combinando innovazione tecnologica e principi etici per
limitare gli effetti di questa pericolosa evoluzione.
Sfide e Opportunità
L’impiego
dell’intelligenza artificiale nella lotta contro il fenomeno del MDHM
rappresenta una delle frontiere più promettenti ma anche più complesse dell’era
digitale. Sebbene l’IA offra opportunità straordinarie per contrastare la
diffusione di informazioni dannose, essa pone anche sfide significative,
evidenziando la necessità di un approccio etico e strategico.
Le
Opportunità Offerte dall’IA
Tra
i vantaggi più rilevanti, spicca la capacità
dell’AI di analizzare dati in tempo reale. Grazie a questa caratteristica,
è possibile anticipare le campagne di disinformazione, identificandone i
segnali prima che si diffondano su larga scala. Questo permette di ridurre
l’impatto di tali fenomeni, intervenendo tempestivamente per arginare i danni.
Un
altro aspetto fondamentale è l’impiego di strumenti avanzati per certificare l’autenticità dei contenuti.
Tecnologie sviluppate da organizzazioni leader nel settore consentono di
verificare l’origine e l’integrità dei dati digitali, restituendo fiducia agli
utenti. In un contesto in cui la manipolazione visiva e testuale è sempre più
sofisticata, queste soluzioni rappresentano un baluardo essenziale contro il
caos informativo.
L’AI
contribuisce inoltre a snellire le attività di fact-checking.
L’automazione delle verifiche consente di ridurre il carico di lavoro umano,
velocizzando la risposta alla diffusione di contenuti falsi. Questo non solo
migliora l’efficienza, ma permette anche di concentrare le risorse umane su
casi particolarmente complessi o delicati.
Le
Sfide dell’AI nella Lotta al MDHM
Tuttavia,
le stesse tecnologie che offrono queste opportunità possono essere sfruttate
per scopi malevoli. Gli strumenti utilizzati per combattere la disinformazione
possono essere manipolati per aumentare la
sofisticazione degli attacchi, creando contenuti ancora più
difficili da rilevare. È un paradosso che sottolinea l’importanza di un
controllo rigoroso e di un uso responsabile di queste tecnologie.
La
difficoltà nel distinguere tra contenuti autentici e manipolati
rappresenta un’altra sfida cruciale. Man mano che le tecniche di
disinformazione evolvono, anche gli algoritmi devono essere costantemente
aggiornati per mantenere la loro efficacia. Questo richiede non solo
investimenti tecnologici, ma anche una collaborazione continua tra esperti di
diversi settori.
Infine,
è impossibile ignorare i bias insiti nei modelli di AI,
che possono portare a errori significativi. Algoritmi mal progettati o
addestrati su dataset non rappresentativi rischiano di rimuovere contenuti
legittimi o, al contrario, di non individuare alcune forme di disinformazione.
Questi errori non solo compromettono l’efficacia delle operazioni, ma possono
minare la fiducia nel sistema stesso.
Conclusione
L’intelligenza
artificiale è una risorsa strategica nella lotta contro misinformation, disinformation,
malinformation e hate speech, ma rappresenta anche una sfida complessa. La sua
ambivalenza come strumento di difesa e al contempo di attacco richiede un uso
consapevole e responsabile. Mentre da un lato offre soluzioni innovative per
rilevare e contrastare contenuti manipolati, dall’altro consente la creazione
di disinformazione sempre più sofisticata, amplificando il rischio per la
stabilità sociale e istituzionale.
Il
MDHM non è un fenomeno isolato o temporaneo, ma una minaccia sistemica che mina
le fondamenta della coesione sociale e della sicurezza globale. La sua
proliferazione alimenta un circolo vizioso in cui l’erosione della fiducia, la
polarizzazione sociale e le minacce alla sicurezza si rafforzano
reciprocamente. Quando la disinformazione contamina il flusso informativo, la
fiducia nelle istituzioni, nei media e persino nella scienza si sgretola.
Questo fenomeno non solo genera alienazione e incertezza, ma riduce la capacità
dei cittadini di partecipare attivamente alla vita democratica.
La
polarizzazione sociale, amplificata dalla manipolazione delle informazioni, è
un effetto diretto di questa dinamica. Narrativi divisivi e contenuti
polarizzanti, spinti da algoritmi che privilegiano l’engagement a scapito
dell’accuratezza, frammentano il tessuto sociale e rendono impossibile il
dialogo. In un clima di contrapposizione “noi contro loro”, le
divisioni politiche, culturali ed etniche si trasformano in barriere
insormontabili.
A
livello di sicurezza, il MDHM rappresenta una minaccia globale. Le campagne di
disinformazione orchestrate da stati o gruppi non statali destabilizzano intere
regioni, fomentano violenze e alimentano conflitti armati. L’uso del hate
speech come strumento di deumanizzazione ha dimostrato il suo potenziale
distruttivo in numerosi contesti, contribuendo a un clima di vulnerabilità
collettiva e individuale.
Affrontare
questa sfida richiede un approccio integrato che combini educazione, regolamentazione
e cooperazione globale.
Promuovere
l’educazione critica: l’alfabetizzazione mediatica deve essere
una priorità. Educare i cittadini a riconoscere e contrastare la
disinformazione è il primo passo per costruire una società resiliente.
Programmi educativi e campagne di sensibilizzazione devono dotare le persone
degli strumenti necessari per navigare nel complesso panorama informativo.
Rafforzare
la regolamentazione delle piattaforme digitali: le aziende
tecnologiche non possono più essere semplici spettatori. È indispensabile che
adottino standard chiari e trasparenti per la gestione dei contenuti dannosi,
garantendo al contempo il rispetto della libertà di espressione. Una
supervisione indipendente può assicurare l’equilibrio tra sicurezza e diritti
fondamentali.
Incentivare
la collaborazione globale: la natura transnazionale del MDHM
richiede una risposta coordinata. Governi, aziende private e organizzazioni
internazionali devono lavorare insieme per condividere risorse, sviluppare
tecnologie innovative e contrastare le campagne di disinformazione su scala
globale.
Solo
attraverso un’azione concertata sarà possibile mitigare gli effetti devastanti
del MDHM e costruire una società più resiliente e informata. Il futuro della
democrazia, della coesione sociale e della sicurezza dipende dalla capacità
collettiva di affrontare questa minaccia con determinazione, lungimiranza e
responsabilità.
Abstract Fra il 2023 e il 2024 in vari paesi europei si è fatta strada una seria preoccupazione riguardo il coinvolgimento di teenagers e minorenni in reati legati al terrorismo e attività estremiste. Se a portare a termine attacchi e attentati sono ancora in gran parte uomini poco al di sotto dei 30 anni, la radicalizzazione online fa presa sui giovanissimi in maniera inedita, rappresentando una sfida tutt’altro che facile per chi opera nella prevenzione e nel contrasto.
La sera di sabato 2 marzo 2024 in un quartiere centrale di Zurigo un quindicenne svizzero di origini tunisine accoltella gravemente un ebreo ortodosso. Nelle ore successive all’attacco, emerge in rete un video preregistrato nel quale il ragazzo, che si definisce un “soldato del Califfato” e giura fedeltà allo Stato Islamico, dichiara di avere agito in risposta all’appello lanciato da quest’ultimo di colpire “gli ebrei, i cristiani e i loro alleati criminali”, e incita a sua volta altri a prendere l’iniziativa (1).
L’ evento si inserisce in un contesto globale che è stato segnato da un sensibile aumento dall’antisemitismo dopo il brutale attentato terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023, al quale Israele ha risposto mettendo Gaza a ferro e fuoco; una realtà che con il suo tragico carico di vittime civili ha alimentato tanto le narrative della sfera jihadista e degli estremismi più in generale, quanto la polarizzazione sociale che ha trovato sfogo, talvolta violento, nelle piazze, nelle università e su internet. Un clima dal forte potenziale di radicalizzazione e di mobilitazione, accentuato da un’intensa disinformazione, a cui sono esposti anche ragazzini al di sotto dei 15 anni.(2)
La Confederazione -già colpita nel 2020 da due attacchi all’arma bianca di matrice jihadista a Morges e a Lugano, che avevano in quell’occasione però visto passare all’azione un uomo e una donna adulti, scagliatisi contro vittime scelte a caso- si confronta improvvisamente con una tendenza che caratterizza ormai da qualche anno l’universo dell’estremismo violento e della radicalizzazione in Europa, e che consiste nel progressivo abbassamento dell’età di chi è coinvolto in questi fenomeni.
Nel 2021, le statistiche inglesi indicavano già un incremento rilevante negli arresti di ragazzi al di sotto dei 18 anni, sospettati di aver commesso reati legati al terrorismo, con una prevalenza della matrice di estrema destra (3). Le percentuali hanno continuato a salire toccando il picco finora più alto nel 2023, quando sul totale dei fermi -tra giovani e adulti- quasi il 19% riguardava teenagers non ancora 17enni (4).
L’attrattiva dei ragazzi e delle ragazze nei confronti del jihadismo è coerente con quanto avvenuto nel periodo che ha segnato la massima espansione territoriale dell’ISIS, attorno alla metà dello scorso decennio; anche allora il Vecchio Continente aveva visto numerosi adolescenti aderire alla narrativa e progettualità dello Stato Islamico, mettendosi in viaggio nel tentativo di raggiungere la Siria e l’Iraq; come la teenager inglese Shamima Begum, partita da Londra a 15 anni nel 2015 insieme a delle coetanee e oggi bloccata in Medioriente in uno dei campi di detenzione dove sono confinate le famiglie degli ex-combattenti. Il suo è divenuto un caso controverso ed emblematico, dopo che le autorità britanniche hanno deciso di privarla della nazionalità rendendola, di fatto, apolide, nonostante c’è chi ritenga che sia stata vittima di indottrinamento e forse anche di tratta (5).
Giovanissimi commisero violenze di natura jihadista dopo che l’ISIS, a partire dal 2014, iniziò ad incoraggiare i propri sostenitori rimasti nei rispettivi paesi di residenza ad attivarsi con i mezzi a disposizione, inaugurando anche la stagione dei cosiddetti “lupi solitari” -una definizione fuorviante, in ragione delle reti di contatti e relazioni che emergono nella maggior parte delle indagini-. Questa mossa strategica del Califfato ha cambiato in maniera permanente il modus operandi dei terroristi, valorizzando l’autonomia dei singoli e permettendo al gruppo terroristico, quando confrontato con difficoltà operative, di continuare a proiettare un’immagine di forza rivendicando azioni di ‘successo’ portate avanti dai propri simpatizzanti.
Uno studio sugli attentati di matrice islamista avvenuti in Europa fra il 2014 e il 2017 indicava che, tra attacchi riusciti e sventati, teenagers e ragazzini erano coinvolti in poco meno di un quarto degli eventi jihadisti; il fenomeno interessava soprattutto la Francia, la Germania e il Regno Unito (6).
Un evento simile a quello di Zurigo si era verificato, ad esempio, a Marseille nel 2016, quando un 15enne di etnia curda aveva attaccato un docente, anch’egli di religione ebraica, nei pressi dell’istituto scolastico dove insegnava.
Casi più recenti sono stati l’uccisione brutale, nel novembre del 2020 alle porte di Parigi, del Prof. Samuel Paty da parte di un 18enne russo di origine cecena, a seguito di una violenta campagna islamista via social che era stata scatenata nei giorni precedenti contro il docente; o quella di un insegnante in un liceo di Arras, nell’ottobre del 2023, ad opera di radicalizzato di 20 anni originario dell’Inguscezia. Dopo quest’ultimo attacco, il procuratore anti-terrorismo francese Jean -François Ricard dichiarò che negli ultimi tre anni (dal 2020, ndr) nel paese era stata riscontrata una crescente propensione, da parte dei giovanissimi, alla pianificazione di atti violenti (7).
Va specificato che gli attacchi portati a termine rimangono ancora in gran parte appannaggio degli adulti; dal database del centro d’analisi e ricerca START InSight, che traccia i profili degli jihadisti entrati in azione in Europa, emerge che l’età mediana di chi ha colpito l’Europa fra il 2014 ed oggi è di 26 anni: un dato che subisce variazioni -dai 24 anni registrati nel 2016 ai 30 anni del 2019-, e che nel 2023 indica l’età perfino in lieve risalita, attestandosi sui 28.5 anni.
Più in generale, emerge come il 7% dei terroristi avesse un’età inferiore ai 19 anni (con una riduzione progressiva dei minori!); il 38% un’età compresa tra i 19 e i 26 anni; il 41,5% tra i 27 e i 35 anni e infine, il 13,5% di età superiore ai 35 anni.
In precedenza, uno studio del 2019 della Scuola Universitaria per le Scienze Applicate di Zurigo (ZHAW), basato sulle informazioni disponibili relative a 130 diversi casi di natura jihadista di cui si era occupato il Servizio delle Attività Informative della Confederazione nel corso dei dieci anni precedenti, indicava che a radicalizzarsi al di sotto dei 20 anni era stato il 18% degli individui, mentre per i minorenni il dato – all’epoca piuttosto contenuto- scendeva al 6% (8).
Tuttavia nel Canton Vaud, dove è stato istituto nel 2018 un programma di prevenzione della radicalizzazione, più del 40% dei casi trattati riguarda minorenni (9). E recentemente, il capo dell’intelligence elvetica Christian Dussey ha dichiarato come la radicalizzazione di matrice jihadista dei minorenni tocchi oggi la Confederazione in proporzioni (addirittura) maggiori rispetto agli altri Stati europei (10). Poco dopo l’attacco di Zurigo, nella Svizzera francese e tedesca sono stati fermati altri sei ragazzi fra i 15 e i 18 anni, in contatto con coetanei in Germania, Francia e Belgio; alcuni, in questa rete, apparentemente intenzionati a portare avanti attacchi. Nei primi 9 mesi del 2024, la Polizia svizzera sarebbe intervenuta in 11 casi di giovani radicalizzati; è stato fermato anche un bambino di 11 anni.
L’esperto di terrorismo Peter Neumann ha segnalato che nel complesso, in Europa, dall’ottobre 2023, due terzi degli arresti hanno riguardato ragazzini fra i 13 e i 19 anni d’età (11).
In Inghilterra e Galles, fra l’aprile 2022 e il marzo 2023 più del 60% delle segnalazioni nell’ambito del programma di prevenzione Prevent -che impone a chi lavora nel settore pubblico, soprattutto la scuola, di comunicare i casi di sospetta radicalizzazione- riguardava individui fino ai 20 anni; il 31% non arrivava ai 14. Ma se la maggior parte dei casi trattati non ha poi richiesto ulteriori prese a carico- quasi la metà di quelli più seri era però rappresentata da ragazzini fra gli 11 e i 15 anni (12).
“Childhood Innocence? Mapping Trends in Teenage Terrorism Offenders”, uno studio pubblicato dall’International Centre for the Study of Radicalisation (ICSR) del King’s College di Londra, che ha preso in esame le attività di 43 minorenni condannati per reati collegati al terrorismo, sempre in Inghilterra e Galles, dal 2016 al 2023 (13), invita a non sottovalutare il ruolo dei ragazzi; sebbene nel periodo preso in considerazione nessun bambino sia riuscito a commettere un attentato e il reato più comune sia consistito nel possesso di materiale estremista, dalla ricerca emerge come un terzo sia stato condannato per la preparazione di atti di terrorismo, e come i ragazzi abbiano agito da “amplificatori” e “innovatori”, in grado di produrre materiali di propaganda, di reclutare altri e di pianificare attacchi. A fare deragliare i loro piani, potrebbero essere stati fattori legati all’età, come l’ingenuità e l’incapacità organizzativa.
Questa intraprendenza giovanile è un tratto comune del panorama estremista degli ultimi anni: nel 2020 si è scoperto che a capo della Feuerkrieg Division, un gruppo di estrema destra attivo solo online ma con intenti terroristici e con membri in vari paesi, dagli Stati Uniti alla Lituania, c’era un 13enne estone -ne aveva 11, al momento della fondazione nel 2018-. Alcuni teenagers che ne facevano parte pianificavano attivamente degli attentati (14).
Sempre nel marzo del 2024 In Inghilterra, un giovane anarchico di sinistra di 20 anni è stato condannato a 13 anni di carcere; fra le altre cose, pianificava di uccidere 50 persone e aveva dedicato un manuale di istruzioni su come costruire armi e bombe “ai disadattati, ai signori nessuno, agli anarchici e terroristi del passato e del futuro, che vogliono combattere per la libertà contro il governo” (15).
2. L’emancipazione dell’estremismo
Studi e indagini hanno analizzato come gruppi, movimenti e individui -in particolare jihadisti o appartenenti alla vasta galassia dell’estrema destra- abbiano saputo cogliere e sfruttare efficacemente le opportunità progressivamente offerte da Internet e dalle tecnologie in continua evoluzione per divulgare le proprie ideologie, avvicinare potenziali reclute e simpatizzanti, disseminare riviste e guide pratiche per aspiranti attentatori, adattando e diversificando la propria comunicazione anche in base al genere. Incluso l’impiego dell’intelligenza artificiale per elaborare rapidamente immagini e video di propaganda dal forte ed immediato impatto estetico ed emotivo che solo un decennio fa avrebbero richiesto il meticoloso apporto di un team e oggi possono anche essere realizzate da un’unica persona (16).
Ad emergere è la consapevolezza di come, nel corso del tempo, siano cambiati in modo sostanziale sia il modo di produrre, consumare e condividere propaganda, che le identità di chi è coinvolto in queste attività. L’entrata in scena dei social media attorno alla metà degli anni 2000, in particolare, ha favorito la rapida diffusione e l’acceso a materiale di natura estremista, e permesso di creare relazioni e interagire continuamente, al punto che, si legge in un saggio del ricercatore Jacob Ware su questo tema, “il processo di radicalizzazione si insinuava ora in ogni aspetto della vita di un soggetto, e il radicalizzatore poteva proiettare la propria influenza in un salotto o una camera da letto” (17).
Ware spiega che oggi siamo ormai confrontati con la terza generazione influenzata dalla radicalizzazione online; una generazione in cui gli individui non solo agiscono in autonomia, ma promuovono sé stessi e le proprie azioni.
I gruppi terroristici (quelli con una solida gerarchia interna) sono meno rilevanti, mentre le ideologie sono fluide. Già nel rapporto #ReaCT2022 Michael Krona, riferendosi al contesto jihadista, indicava l’esistenza di sostenitori online meno inclini a legarsi ad una singola organizzazione, che “formano delle nuove entità, promuovono interpretazioni ideologiche più ampie, costruendo i loro propri brand, piuttosto che rafforzare scrupolosamente il marchio dello Stato Islamico” (18). Oggi la produzione di propaganda e narrativa estremista -ma anche l’incitamento all’azione- non sono più una prerogativa dei media legati ai movimenti terroristici, ma un’operazione a cui partecipa una larga base di adepti e militanti in contatto fra loro. Un reticolato che può estendersi da un continente all’altro.
Come racconta un’inchiesta internazionale realizzata nel 2022 da giornalisti infiltratisi in una rete di teenagers neo-nazisti, il vantaggio di questo network -ma lo stesso principio vale in altri casi- consiste nella sua struttura lasca, mobile, che fa perno sulla partecipazione di singoli individui sparsi per il mondo: “tutto ciò di cui hanno bisogno è un computer, un cellulare e una camera da letto. E tutto ciò che hanno in comune è la loro ideologia e il loro odio: nei confronti degli ebrei, delle figure politiche, dei giornalisti” (19).
Quest’immagine dell’adolescente radicalizzato chiuso nella propria stanza si ripropone, quindi; ma la camera può essere più simile a una cabina di regia, che a un rifugio in cui si isola un ragazzino vulnerabile esposto alle trame di malintenzionati. Il già menzionato studio inglese sui minorenni condannati per terrorismo, sottolinea la necessità di superare lo stereotipo associato ai bambini, che li considera una mera “pedina” nelle mani degli adulti; se attivi in un contesto estremista online protetti dall’anonimato, il “peso” e l’effetto, per esempio, delle loro azioni e dei loro posts, è identico a quello di tutti gli altri.
I ‘combattenti’ virtuali, oggi nativi digitali, dimostrano un forte potenziale nell’assicurare una continua promozione delle idee estremiste -una campagna mediatica pro-ISIS blandisce ed esorta specificamente questi “eserciti di una persona” e “mujaheddin di Internet” a non demordere (20). La capacità di impiegare in modo selettivo i diversi social media e le app di messaggistica criptate per comunicare, scambiarsi informazioni, incoraggiarsi a vicenda, discutere di violenze, attacchi e obiettivi, e l’abilità nel migrare di piattaforma in piattaforma per sfuggire alla scure delle big tech e delle operazioni congiunte di Polizia intese a liberare Internet dai contenuti di natura terroristica, li rendono un asset difficile da contrastare.
In sintesi, l’epoca attuale è caratterizzata da un estremismo ‘emancipato’, diffuso e de-centralizzato che si fonda sulla ‘libera iniziativa’; un ecosistema in cui “ognuno può essere rimpiazzato” (21) e tutti gli attentatori possono diventare fonte di ispirazione per altri; che si tratti di Brenton Tarrant, estremista di destra che nel 2019, a 28 anni, a Christchurch, in Nuova Zelanda, ha attaccato due moschee uccidendo oltre 50 persone; che si tratti di Elliott Rodger che a 22 anni in California, nel 2014, ha commesso una strage in nome dell’ideologia misogina ed è oggi celebrato dagli incel violenti, o ancora che si tratti del quindicenne svizzero autore dell’accoltellamento di Zurigo, il cui gesto viene esaltato dagli accoliti dello Stato Islamico. Alcuni giorni dopo l’attacco, ricercatori del Counter Extremism Project hanno individuato sei profili di TikTok che celebravano lo jihadista svizzero (22).
3. La radicalizzazione della violenza
Nel corso del 2024, analisti e media hanno talvolta fatto riferimento all’espressione ‘TikTok-jihad’ o ‘terrorismo TikTok’ per definire il contesto nel quale avviene l’avvicinamento dei teenager all’estremismo; social, piattaforme di gioco e chat criptate finiscono spesso sul banco degli imputati e vengono considerati oggi strumenti principali di radicalizzazione. Non si tratta tuttavia di semplici ‘canali’ attraverso i quali viene diffuso un messaggio indirizzato a potenziali nuove leve; queste piattaforme offrono spazi di condivisione, socializzazione, visibilità e partecipazione: termini e concetti importanti per comprendere una realtà che non consiste (più) solo in un galassia di ideologie politico-religiose violente, ma che è anche costituita da subculture generate e animate dagli stessi ragazzi (quella incel, ad esempio, o quella dell’accelerazionismo militante); in altre parole, da comunità / collettività che si riconoscono in propri valori, norme comportamentali, codici linguistici ed estetici. Nel periodo adolescenziale, che è caratterizzato dalla ricerca di un’identità e di un posto nel mondo, ma talvolta anche da sentimenti di ribellione, da fragilità personali che possono derivare da contrasti in famiglia, o violenze quali il bullismo e il razzismo, il senso di appartenenza a un gruppo di riferimento assume un ruolo non secondario.
Analisti e intelligence sottolineano già da qualche anno, come problematiche di natura psicologica e adesione alla violenza, prima ancora che all’ideologia, rappresentino tendenze ormai consolidate. La voglia di rivalsa, di acquisire potere nelle relazioni sociali, di protagonismo e di sfogo alle frustrazioni personali (23), vengono oggi considerate motivazioni sufficienti nel contribuire alla radicalizzazione dei ragazzi, una radicalizzazione in cui la percezione di torti subiti può sovrapporsi a battaglie socio-politiche. Tutti questi fattori, sommati a un ‘clima’ virtuale caratterizzato da algoritmi che premiano contenuti provocatori e dalla banalizzazione dell’odio attraverso, ad esempio, la produzione e condivisione di memes, contribuiscono ad abbassare la soglia di adesione all’estremismo (violento e non). In uno scenario così complesso e in continua evoluzione, è molto difficile essere in grado di valutare i rischi posti dagli individui radicalizzati nel mondo reale, soprattutto se minorenni. Pur nella consapevolezza che la radicalizzazione è un percorso personale non irreversibile, e che non conduce necessariamente verso il terrorismo. (24)
Chiara Sulmoni, BA, MA, Presidente e Coordinatrice editoriale di START InSight, Lugano, (Svizzera) ha conseguito un BA e un MA in Italian Studies c/o UCL (University College London) e un MA in Near and Middle Eastern Studies c/o SOAS (School of Oriental and African Studies, London). Giornalista e producer, ha lavorato alla realizzazione di documentari e reportage per la radio / TV in particolare su temi legati al mondo arabo e islamico, Afghanistan e Pakistan, conflitti, radicalizzazione di matrice islamista. Dal 17 aprile 2019, è Co-Direttore di ReaCT – Osservatorio nazionale sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo (Roma-Milano-Lugano). Dal 2023, è Presidente e Coordinatrice dell’Associazione PRIME – Prevenzione Informazione e Mediazione (Lugano).
Note 1) In Video Uploaded To Internet, Teenage Stabber Of Jew In Zürich Swears Allegiance To Islamic State (ISIS), Calls On Muslims To Target Jews And Christians Everywhere, MEMRI, Special Dispatch No. 11166, 4 March 2024. In https://www.memri.org/reports/video-uploadedinternet-teenage-stabber-jew-z%C3%BCrich-swearsallegiance-islamic-state-isis 2) Symonds, Tom, Gaza war creating a radicalisation moment, senior UK police officer says, BBC News , 19th January 2024. In https://www.bbc.com/news/uk-68035172 3) Counter- Terrorism Policing, Upward trend in children arrested for terrorism offences, News, 9th June 2022. In https:// www.counterterrorism.police.uk/upward-trend-inchildren-arrested-for-terrorism-offences/ 4) Counter-Terrorism Policing, Number of young people arrested for terrorism offences hits record high, News, 15th March 2024. In: https://www.counterterrorism.police.uk/ number-of-young-people-arrested-for-terrorism-offenceshits-record-high/ 5) Sabbagh, D., Shamima Begum a victim of trafficking when she left Britain for Syria, court told, The Guardian, 24th October 2023. In: https://www.theguardian.com/uk-news/2023/ oct/24/shamima-begum-victim-of-trafficking-when-sheleft-uk-for-syria-court-told 6) Simcox, R., European Islamist Plots and Attacks Since 2014— and How the U.S. Can Help Prevent Them, The Heritage Foundation, Backgrounder No. 3236, 1st August 2017. See also: Bourebka, M., Overlooked and underrated? The role of youth and women in preventing violent extremism, CIDOB, Notes internationals, 240, 11/2020: “In the European context, as of 2016, the fastest-growing age group amongst the radicalised individuals in Europe was 12- to 17-year-olds” 7) de la Ruffie, E., Attentat: des mineurs radicalisés, «un phénomène nouveau» et «inquiétant», selon le procureur anti-terroriste, Le Journal du Dimanche, 7 Novembre 2023. In: https:// www.lejdd.fr/societe/attentat-des-mineurs-radicalises-unphenomene-nouveau-et-inquietant-selon-le-procureurantiterroriste-139493 8) Sulmoni, C., Radicalizzazione jihadista e prevenzione. Aggiornamenti dalla Svizzera, START InSight www.startinsight.eu. 9) Comment le groupe Etat islamique courtise les mineurs sur les plateformes de jeux vidéo, RTS, 27 Mai 2024 https:// www.rts.ch/info/suisse/2024/article/comment-le-groupe -etat-islamique-courtise-les-mineurs-sur-les-plateformes-dejeux-video-28516132.html. 10) Rhyn, L., und Knellwolf, T., Die Schweiz hat überdurchschnittlich viele Fälle radikalisierter Jugendlicher, Tages Anzeiger, 22 August 2024. In: https:// www.tagesanzeiger.ch/geheimdienst-chef-sieht-sicherheitder-schweiz-in-gefahr-665955949850. 11) Ernst, A., Terrorismus in Europa: Es gibt genügend Hinweise, dass sich etwas Grösseres ankündigt, NZZ, 23 August 2024. In: https://www.nzz.ch/international/terrorismusin-europa-die-tik-tok-generation-peter-r-neumannld.1844746 12) Individuals referred to and supported through the Prevent Programme, April 2022 to March 2023. Home Office Official Statistics, 14th December 2023. In: https://www.gov.uk/ government/statistics/individuals-referred-to-prevent/ individuals-referred-to-and-supported-through-the-preventprogramme-april-2022-to-march-2023#demographics 13) Rose, H., and Vale, G., “Childhood Innocence? Mapping Trends in Teenage Terrorism Offenders”, ICSR, London, 2023. 14) Nabert, A., Brause, C., Bender, B., Robins-Early, N., Death Weapons, Inside a Teenage Terrorist Network, Politico, 27th July 2022. In: https://www.politico.eu/article/ inside-teenage-terrorist-network-europe-death-weapons/ 15) Gardham, D., Jacob Graham: Left-wing anarchist jailed for 13 years over terror offences after declaring he wanted to kill at least 50 people, Sky News, 19th March 2024 https:// news.sky.com/story/jacob-graham-left-wing-anarchistjailed-for-13-years-over-terror-offences-after-declaring-hewanted-to-kill-at-least-50-people-13097584 16) Katz, R., SITE Special Report: Extremist Movements are Thriving as AI Tech Proliferates, SITE Intelligence Group, 16th May 2024 https://ent.siteintelgroup.com/Articlesand-Analysis/extremist-movements-are-thriving-as-ai-tech -proliferates.html 17) Ware, J., The Third Generation of Online Radicalization, Program on Extremism, George Washington University, 16th June 2023. In: https://extremism.gwu.edu/thirdgeneration-online-radicalization 18) Krona, M., Le comunità jihadiste online costruiscono i loro brand ed espandono l’universo terrorista creando nuove entità, #ReaCT2022, Rapporto sul Terrorismo e il Radicalismo in Europa, N.3, Anno 3, ed. START InSight (Lugano). In. https://www.startinsight.eu/react2022-n-3-anno-3/ 19) Nabert, A., Brause, C., Bender, B., Robins-Early, N., Death Weapons, Inside a Teenage Terrorist Network, Politico, 27th July 2022. In: https://www.politico.eu/article/ inside-teenage-terrorist-network-europe-death-weapons/ 20) Pro-Islamic State (ISIS) Social Media Campaign Calling For ‘Media Jihad’ Expands To TikTok, Jihad and Terrorism Threat Monitor, MEMRI, 22nd June 2023 https:// www.memri.org/jttm/pro-islamic-state-isis-social-mediacampaign-calling-media-jihad-expands-tiktok 21) See: Death Weapons 22) Extremist Content Online: Pro-ISIS TikTok Users Celebrate Accused Attacker In Zurich Stabbing, Counter Extremism Project, 11 March 2024. In: https:// www.counterextremism.com/press/extremist-contentonline-pro-isis-tiktok-users-celebrate-accused-attackerzurich-stabbing 23) IS recruitment is not portrayed as violent enlistment for a political-religious cause but as a platform for venting frustrations with parents, teachers and society. It offers an outlet for their mundane lives and a chance at dubious “15 minutes of fame”, in: Avrahami, Z., TikTok jihad: Online radicalization threat looms over Europe, Ynetnews.com, 10th August 2024 https:// www.ynetnews.com/article/ rjgiduh9c 24) “Minorenni radicalizzati, ma non per forza terroristi”, RSI Info, 6 settembre 2024 https://www.rsi.ch/info/ticinogrigioni-e-insubria/%E2%80%9CMinorenni-radicalizzatima-non-per-forza-terroristi%E2%80%9D–2246363.html
L’attacco di Israele a Hezbollah: tra politica e strategia militare
di Claudio Bertolotti.
Sul piano politico-strategico Israele persegue l’obiettivo di distruggere l’asse della resistenza, che è la prima minaccia che incombe su Israele (forse non più). Una scelta che determinerà, in primis, una ridefinizione degli equilibri in Medioriente, con una progressiva erosione della minaccia attraverso l’indebolimento o la disarticolazione irreversibile dei suoi attori di prossimità (Hamas, Hezbollah, Ansar-Allah yemeniti, milizie sciite irachene, Siria). Aspetto prioritario rimane il proseguimento del processo di normalizzazione dei rapporti con i paesi arabi avviato con gli “Accordi di Abramo”, sponsorizzato dagli Stati Uniti che, sebbene rallentato dal conflitto in atto, rimane la priorità condivisa da Washington, Gerusalemme e Riad.
Sul piano strategico-militare l’azione contro Hezbollah ha un intento preventivo a un’eventuale minaccia simultanea da parte del cd. “Asse della Resistenza” guidato da Teheran che metterebbe in crisi il sistema contraereo Iron Dome israeliano in conseguenza della saturazione della capacità di risposta (più attacchi rispetto alla capacità di reazione israeliana). Questo coerentemente con la visione israeliana che percepisce la minaccia iraniana come esistenziale e adotta un approccio preventivo.
Scelte, quella politica e quella militare, che concretizzano l’approccio teorico e di prontezza operativa definito nei documenti di “Strategia per la sicurezza nazionale” e la “Dottrina strategica militare”.
Con la serie di azioni a danno di Hezbollah, Israele è
riuscito a scardinare non tanto la sostanza di un’alleanza, ma la sua illusione
di potenza e deterrenza. L’Iran ormai è nudo, è debole, e i suoi alleati
pregiati, da Hamas e Hezbollah sono stati drasticamente ridimensionati sia sul
piano politico (uccisioni targeting) sia militare. Hamas è ormai ridotto ai
minimi termini militarmente parlando, Hezbollah è privo di capacita di comando,
controllo e comunicazione, e questo dimostra come la retorica iraniana sia
ormai stata smentita dai fatti.
E la preoccupazione di Teheran aumenta con l’avvicinarsi
delle elezioni statunitensi. Oggi gli Stati Uniti sostengono senza sé e senza
ma Gerusalemme. E se è comprensibile una certa ritrosia dell’amministrazione
democratica a un’intensificazione dello scontro regionale (a cui Washington non
farebbe comunque mancare il proprio appoggio), un’eventuale vittoria
repubblicana di fatto rafforzerebbe la linea politica israeliana già
consolidata.
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