La
diffusione di informazioni false, fuorvianti o manipolate – riassunta
nell’acronimo MDHM (misinformation, disinformation, malinformation e hate
speech) – rappresenta una delle sfide più critiche dell’era digitale, con
conseguenze profonde sulla coesione sociale, la stabilità politica e la
sicurezza globale. Questo studio analizza le caratteristiche distintive di
ciascun fenomeno e il loro impatto interconnesso, evidenziando come alimentino
l’erosione della fiducia nelle istituzioni, la polarizzazione sociale e
l’instabilità politica.
L’intelligenza
artificiale emerge come una risorsa cruciale per contrastare il MDHM, offrendo
strumenti avanzati per il rilevamento di contenuti manipolati e il monitoraggio
delle reti di disinformazione. Tuttavia, la stessa tecnologia alimenta nuove
minacce, come la creazione di deepfake e la generazione di contenuti
automatizzati che amplificano la portata e la sofisticazione della
disinformazione. Questo paradosso evidenzia la necessità di un uso etico e
strategico delle tecnologie emergenti.
Il lavoro propone un approccio multidimensionale per affrontare il MDHM, articolato su tre direttrici principali: l’educazione critica, con programmi scolastici e campagne pubbliche per rafforzare l’alfabetizzazione mediatica; la regolamentazione delle piattaforme digitali, mirata a bilanciare la rimozione dei contenuti dannosi con la tutela della libertà di espressione; la collaborazione globale, per garantire una risposta coordinata a una minaccia transnazionale.
In
conclusione, l’articolo sottolinea l’importanza di un impegno concertato tra
governi, aziende tecnologiche e società civile per mitigare gli effetti
destabilizzanti del MDHM e preservare la democrazia, la sicurezza e la fiducia
nelle informazioni.
Definizioni
e Distinzioni
La
diffusione di informazioni false, fuorvianti o manipolate costituisce una delle
sfide più complesse e pericolose dell’era digitale, con ripercussioni
significative sull’equilibrio sociale, politico e culturale. I fenomeni noti
come misinformation,disinformation, malinformatione hate speech,
sintetizzati nell’acronimo MDHM, rappresentano
manifestazioni distinte ma strettamente interconnesse di questa problematica.
Una comprensione approfondita delle loro specificità è imprescindibile per
sviluppare strategie efficaci volte a contenere e contrastare le minacce che
tali fenomeni pongono alla coesione sociale e alla stabilità delle istituzioni.
Misinformation:
Informazioni false diffuse senza l’intenzione di causare danno. Ad esempio, la
condivisione involontaria di notizie non verificate sui social media.
Disinformation:
Informazioni deliberatamente create per ingannare, danneggiare o manipolare
individui, gruppi sociali, organizzazioni o nazioni. Un esempio è la diffusione
intenzionale di notizie false per influenzare l’opinione pubblica o
destabilizzare istituzioni.
Malinformation:
informazioni basate su fatti reali, ma utilizzate fuori contesto per fuorviare,
causare danno o manipolare. Ad esempio, la divulgazione di dati personali con
l’intento di danneggiare la reputazione di qualcuno.
Hate
Speech: espressioni che incitano all’odio contro individui o gruppi
basati su caratteristiche come razza, religione, etnia, genere o orientamento
sessuale. Questo tipo di discorso può fomentare violenza e discriminazione.
Impatto sulla Società
La diffusione di misinformation, disinformation,
malinformation
e hate
speech rappresenta una sfida cruciale per la stabilità delle società
moderne. Questi fenomeni, potenziati dalla rapidità e dalla portata globale dei
media digitali, hanno conseguenze significative che si manifestano in vari
ambiti sociali, politici e culturali. Tra i principali effetti troviamo
l’erosione della fiducia nelle istituzioni, la polarizzazione sociale e
l’acuirsi delle minacce alla sicurezza.
Erosione della
Fiducia
L’informazione falsa o manipolata rappresenta un
attacco diretto alla credibilità delle istituzioni pubbliche, dei media e persino della comunità
scientifica. Quando le persone vengono sommerse da un flusso costante di
notizie contraddittorie o palesemente mendaci, il risultato inevitabile è una
crisi di fiducia generalizzata. Nessuna fonte viene risparmiata dal dubbio,
nemmeno i giornalisti più autorevoli o gli organismi governativi più
trasparenti. Questo processo mina le fondamenta della società e alimenta un
clima di incertezza che, a lungo andare, può trasformarsi in alienazione.
Un esempio emblematico si osserva nel contesto del
processo democratico, dove la disinformazione colpisce con particolare
intensità. Le campagne di manipolazione delle informazioni, mirate a diffondere
falsità sulle procedure di voto o sui candidati, hanno un effetto devastante
sull’integrità elettorale. Ciò non solo alimenta il sospetto e la sfiducia
nelle istituzioni democratiche, ma crea anche un senso di disillusione tra i cittadini,
allontanandoli ulteriormente dalla partecipazione attiva.
Le conseguenze diventano ancora più evidenti nella
gestione delle crisi globali. Durante la pandemia da COVID-19, l’ondata di
teorie del complotto e la diffusione di cure non verificate hanno rappresentato
un ostacolo significativo per gli sforzi della salute pubblica. La
disinformazione ha alimentato paure infondate e diffidenza verso i vaccini,
rallentando la risposta globale alla crisi e aumentando la diffusione del
virus.
Ma questa erosione della fiducia non si ferma al
singolo individuo. Le sue ripercussioni si estendono a tutta la società,
frammentandola. I legami sociali, già indeboliti da divisioni preesistenti,
diventano ancora più vulnerabili alla manipolazione. E così, si crea un terreno
fertile per ulteriori conflitti e instabilità, in cui le istituzioni si trovano
sempre più isolate, mentre cresce il rischio di una società incapace di reagire
a sfide collettive.
Polarizzazione
Sociale
Le campagne di disinformazione trovano terreno fertile
nelle divisioni già esistenti all’interno della società, sfruttandole con
l’obiettivo di amplificarle e renderle insormontabili. Questi fenomeni,
alimentati da strategie mirate e potenziati dalle piattaforme digitali,
intensificano il conflitto sociale e compromettono la possibilità di dialogo,
lasciando spazio a una polarizzazione sempre più marcata.
L’amplificazione delle divisioni è forse il risultato
più visibile della disinformazione. La manipolazione delle informazioni viene
utilizzata per radicalizzare le opinioni politiche, culturali o religiose,
costruendo una narrazione di contrapposizione tra un “noi” e un
“loro”. Nei contesti di tensioni etniche, per esempio, la
malinformation, diffusa con l’intento di distorcere eventi storici o di
strumentalizzare questioni politiche attuali, accentua le differenze percepite
tra gruppi sociali. Questi contrasti, spesso già esistenti, vengono esasperati
fino a cristallizzarsi in conflitti identitari difficili da sanare.
A ciò si aggiunge l’effetto delle cosiddette
“bolle informative”, create dagli algoritmi delle piattaforme
digitali. Questi sistemi, progettati per massimizzare l’engagement degli
utenti, propongono contenuti che rafforzano le loro opinioni preesistenti,
limitandone l’esposizione a prospettive alternative. Questo fenomeno, noto come
“filtro bolla”, non solo solidifica pregiudizi, ma isola gli individui
all’interno di una realtà mediatica che si nutre di conferme continue,
impedendo la comprensione di punti di vista differenti.
La polarizzazione, alimentata dal MDHM, non si ferma
però al piano ideologico. In molti casi, la radicalizzazione delle opinioni si
traduce in azioni concrete: proteste, scontri tra gruppi e, nei casi più
estremi, conflitti armati. Guerre civili e crisi sociali sono spesso il culmine
di una spirale di divisione che parte dalle narrative divisive diffuse
attraverso disinformazione e hate speech.
In definitiva, la polarizzazione generata dal MDHM non
danneggia solo il dialogo sociale, ma mina anche le fondamenta della coesione
collettiva. In un tale contesto, risulta impossibile trovare soluzioni
condivise a problemi comuni. Ciò che rimane è un clima di conflittualità
permanente, dove il “noi contro loro” sostituisce qualsiasi tentativo
di collaborazione, rendendo la società più fragile e vulnerabile.
Minaccia alla
Sicurezza
Nei contesti di conflitto, il MDHM si rivela un’arma
potente e pericolosa, capace di destabilizzare società e istituzioni con
implicazioni devastanti per la sicurezza collettiva e individuale. La
disinformazione, insieme al discorso d’odio, alimenta un ciclo di violenza e
instabilità politica, minacciando la pace e compromettendo i diritti umani. Gli
esempi concreti di come queste dinamiche si manifestano non solo illustrano la
gravità del problema, ma evidenziano anche l’urgenza di risposte efficaci.
La propaganda
e la destabilizzazione costituiscono uno degli utilizzi più insidiosi
della disinformazione. Stati e gruppi non statali sfruttano queste pratiche
come strumenti di guerra ibrida, mirati a indebolire il morale delle
popolazioni avversarie e a fomentare divisioni interne. In scenari geopolitici
recenti, la diffusione di informazioni false ha generato confusione e panico,
rallentando la capacità di risposta delle istituzioni. Questa strategia,
pianificata e sistematica, non si limita a disorientare l’opinione pubblica ma
colpisce direttamente il cuore della coesione sociale.
Il discorso
d’odio, amplificato dalle piattaforme digitali, è spesso un precursore
di violenze di massa. Ne è tragico esempio il genocidio dei Rohingya in
Myanmar, preceduto da una campagna di odio online che ha progressivamente deumanizzato
questa minoranza etnica, preparandone il terreno per persecuzioni e massacri.
Questi episodi dimostrano come lo hate
speech, una volta radicato, possa tradursi in azioni violente e
sistematiche, con conseguenze irreparabili per le comunità coinvolte.
Anche sul piano individuale, gli effetti del MDHM sono
profondamente distruttivi. Fenomeni come il doxxing – la divulgazione pubblica di informazioni personali con
intenti malevoli – mettono a rischio diretto la sicurezza fisica e psicologica
delle vittime. Questo tipo di attacco non solo espone le persone a minacce e
aggressioni, ma amplifica un senso di vulnerabilità che si estende ben oltre il
singolo episodio, minando la fiducia nel sistema stesso.
L’impatto cumulativo di queste dinamiche mina la stabilità
sociale nel suo complesso, creando fratture profonde che richiedono risposte
immediate e coordinate. Affrontare il MDHM non è solo una questione di difesa
contro la disinformazione, ma un passo essenziale per preservare la pace,
proteggere i diritti umani e garantire la sicurezza globale in un’epoca sempre
più interconnessa e vulnerabile.
Strategie di Mitigazione
La
lotta contro il fenomeno MDHM richiede una risposta articolata e coordinata,
capace di affrontare le diverse sfaccettature del problema. Dato l’impatto
complesso e devastante che questi fenomeni hanno sulla società, le strategie di
mitigazione devono essere sviluppate con un approccio multidimensionale,
combinando educazione, collaborazione tra i diversi attori e un quadro
normativo adeguato.
Educazione e
Consapevolezza
La prima e più efficace linea di difesa contro il
fenomeno MDHM risiede nell’educazione e nella promozione di una diffusa
alfabetizzazione mediatica. In un contesto globale in cui le informazioni
circolano con una rapidità senza precedenti e spesso senza un adeguato
controllo, la capacità dei cittadini di identificare e analizzare criticamente
i contenuti che consumano diventa una competenza indispensabile. Solo
attraverso una maggiore consapevolezza sarà possibile arginare gli effetti
negativi della disinformazione e costruire una società più resiliente.
Il pensiero critico
rappresenta la base di questa strategia. I cittadini devono essere messi nelle
condizioni di distinguere le informazioni affidabili dai contenuti falsi o
manipolati. Questo processo richiede l’adozione di strumenti educativi che
insegnino come verificare le fonti, identificare segnali di manipolazione e
analizzare il contesto delle notizie. È un impegno che va oltre la semplice
formazione: si tratta di creare una cultura della verifica e del dubbio
costruttivo, elementi essenziali per contrastare la manipolazione informativa.
Un ruolo cruciale in questa battaglia è giocato dalla formazione scolastica. Le scuole
devono diventare il luogo privilegiato per l’insegnamento dell’alfabetizzazione
mediatica, preparando le nuove generazioni a navigare consapevolmente nel
complesso panorama digitale. L’integrazione di questi insegnamenti nei
programmi educativi non può più essere considerata un’opzione, ma una
necessità. Attraverso laboratori pratici, analisi di casi reali e simulazioni,
i giovani possono sviluppare le competenze necessarie per riconoscere contenuti
manipolati e comprendere le implicazioni della diffusione di informazioni
false.
Tuttavia, l’educazione non deve limitarsi ai giovani.
Anche gli adulti, spesso più esposti e vulnerabili alla disinformazione, devono
essere coinvolti attraverso campagne di
sensibilizzazione pubblica. Queste iniziative, veicolate sia attraverso
i media tradizionali che digitali, devono illustrare le tecniche più comuni
utilizzate per diffondere contenuti falsi, sottolineando le conseguenze
negative di tali fenomeni per la società. Un cittadino informato, consapevole
dei rischi e capace di riconoscerli, diventa un elemento di forza nella lotta
contro la disinformazione.
Investire nell’educazione e nella sensibilizzazione
non è solo una misura preventiva, ma un pilastro fondamentale per contrastare
il MDHM. Una popolazione dotata di strumenti critici è meno suscettibile alle
manipolazioni, contribuendo così a rafforzare la coesione sociale e la
stabilità delle istituzioni democratiche. Questo percorso, pur richiedendo un
impegno costante e coordinato, rappresenta una delle risposte più efficaci a
una delle minacce più insidiose del nostro tempo.
Collaborazione
Intersettoriale
La complessità del fenomeno MDHM è tale che nessun
singolo attore può affrontarlo efficacemente da solo. È una sfida globale che
richiede una risposta collettiva e coordinata, in cui governi, organizzazioni
non governative, aziende tecnologiche e società civile collaborano per
sviluppare strategie condivise. Solo attraverso un impegno sinergico è
possibile arginare gli effetti destabilizzanti di questa minaccia.
Le istituzioni
governative devono assumere un ruolo guida. I governi sono chiamati a
creare regolamentazioni efficaci e ambienti sicuri per lo scambio di
informazioni, garantendo che queste misure bilancino due aspetti fondamentali:
la lotta contro i contenuti dannosi e la protezione della libertà di
espressione. Un eccesso di controllo rischierebbe infatti di scivolare nella
censura, minando i principi democratici che si intendono tutelare. L’approccio
deve essere trasparente, mirato e in grado di adattarsi all’evoluzione delle
tecnologie e delle dinamiche di disinformazione.
Le aziende
tecnologiche, in particolare i social
media, giocano un ruolo centrale in questa sfida. Hanno una responsabilità
significativa nel contrastare la diffusione del MDHM, essendo i principali
veicoli attraverso cui queste dinamiche si propagano. Devono investire nello
sviluppo di algoritmi avanzati, capaci di identificare e rimuovere i contenuti
dannosi in modo tempestivo ed efficace. Tuttavia, l’efficacia degli interventi
non può venire a scapito della libertà degli utenti di esprimersi. La
trasparenza nei criteri di moderazione, nella gestione dei dati e nei meccanismi
di segnalazione è fondamentale per mantenere la fiducia degli utenti e
prevenire abusi.
Accanto a questi attori, le organizzazioni non governative (ONG) e la società civile svolgono
un ruolo di intermediazione. Le ONG possono fungere da ponte tra istituzioni e
cittadini, offrendo informazioni verificate e affidabili, monitorando i
fenomeni di disinformazione e promuovendo iniziative di sensibilizzazione.
Queste organizzazioni hanno anche la capacità di operare a livello locale,
comprendendo meglio le dinamiche specifiche di determinate comunità e adattando
le strategie di contrasto alle loro esigenze.
Infine, è imprescindibile favorire partnership pubbliche e private. La
collaborazione tra settori pubblico e privato è essenziale per condividere
risorse, conoscenze e strumenti tecnologici utili a combattere il MDHM. In
particolare, le aziende possono offrire soluzioni innovative, mentre i governi
possono fornire il quadro normativo e il supporto necessario per implementarle.
Questa sinergia permette di affrontare la disinformazione con un approccio più
ampio e integrato, combinando competenze tecniche, capacità di monitoraggio e
intervento.
La risposta al MDHM non può dunque essere frammentata
né limitata a un singolo settore. Solo attraverso una collaborazione
trasversale e globale sarà possibile mitigare le conseguenze di questi
fenomeni, proteggendo le istituzioni, i cittadini e la società nel suo insieme.
Ruolo delle Tecnologie
Avanzate e Artificial Intelligence (AI) nel Contesto del MDHM
Le
tecnologie emergenti, in particolare l’intelligenza artificiale (IA), svolgono
un ruolo cruciale nel contesto di misinformation,
disinformation, malinformation e hate speech.
L’AI rappresenta un’arma a doppio taglio: da un lato, offre strumenti potenti
per individuare e contrastare la diffusione di contenuti dannosi; dall’altro,
alimenta nuove minacce, rendendo più sofisticati e difficili da rilevare gli
strumenti di disinformazione.
Rilevamento
Automatico
L’intelligenza artificiale ha rivoluzionato il modo in
cui affrontiamo il fenomeno della disinformazione, introducendo sistemi
avanzati di rilevamento capaci di identificare rapidamente contenuti falsi o
dannosi. In un panorama digitale in cui il volume di dati generato
quotidianamente è immenso, il monitoraggio umano non è più sufficiente. Gli
strumenti basati sull’AI si rivelano quindi essenziali per gestire questa
complessità, offrendo risposte tempestive e precise.
Tra le innovazioni più rilevanti troviamo gli algoritmi di machine learning, che rappresentano il cuore dei sistemi di
rilevamento automatico. Questi algoritmi, attraverso tecniche di apprendimento
automatico, analizzano enormi quantità di dati alla ricerca di schemi che
possano indicare la presenza di contenuti manipolati o falsi. Addestrati su
dataset contenenti esempi di disinformazione già identificati, questi sistemi
sono in grado di riconoscere caratteristiche comuni, come l’uso di titoli
sensazionalistici, un linguaggio emotivamente carico o la presenza di immagini
alterate. L’efficacia di tali strumenti risiede nella loro capacità di
adattarsi a nuovi modelli di manipolazione, migliorando costantemente le
proprie performance.
Un altro ambito cruciale è quello della verifica delle fonti. Strumenti basati
su AI possono confrontare le informazioni che circolano online con fonti
affidabili, identificando discrepanze e facilitando il lavoro dei fact-checker. In questo modo, la
tecnologia accelera i tempi di verifica, permettendo di contrastare in maniera
più efficiente la diffusione di contenuti falsi prima che raggiungano un
pubblico vasto.
L’AI è anche fondamentale per contrastare una delle
minacce più sofisticate: i deepfake, di cui più oltre
tratteremo. Grazie a tecniche avanzate, è possibile analizzare video e immagini
manipolati, individuando anomalie nei movimenti facciali, nella
sincronizzazione delle labbra o nella qualità complessiva del contenuto visivo.
Aziende come Adobe e Microsoft stanno sviluppando strumenti dedicati alla
verifica dell’autenticità dei contenuti visivi, offrendo una risposta concreta
a una tecnologia che può facilmente essere sfruttata per scopi malevoli.
Il monitoraggio
del linguaggio d’odio è un altro fronte in cui l’AI dimostra il suo
valore. Attraverso algoritmi di elaborazione del linguaggio naturale (NLP), è
possibile analizzare i testi in tempo reale per identificare espressioni di hate speech. Questi sistemi non solo
categorizzano i contenuti, ma assegnano priorità agli interventi, garantendo
una risposta rapida ed efficace ai casi più gravi. In un contesto in cui il
discorso d’odio può rapidamente degenerare in violenza reale, la capacità di
intervenire tempestivamente è cruciale.
Infine, l’intelligenza artificiale è in grado di rilevare
e analizzare reti di disinformazione. Attraverso l’analisi delle
interazioni social, l’AI può individuare schemi che suggeriscono campagne
coordinate, come la diffusione simultanea di messaggi simili da account
collegati. Questa funzione è particolarmente utile per smascherare operazioni
orchestrate, sia a livello politico che sociale, che mirano a destabilizzare la
fiducia pubblica o a manipolare l’opinione delle persone.
In definitiva, l’intelligenza artificiale rappresenta
uno strumento indispensabile per affrontare il fenomeno della disinformazione e
dell’hate speech. Tuttavia, come ogni
tecnologia, richiede un uso etico e responsabile. Solo attraverso
un’implementazione trasparente e mirata sarà possibile sfruttare appieno il
potenziale dell’AI per proteggere l’integrità delle informazioni e la coesione
sociale.
Generazione di
Contenuti
L’intelligenza artificiale, se da un lato rappresenta
una risorsa preziosa per contrastare la disinformazione, dall’altro
contribuisce a rendere il fenomeno MDHM ancora più pericoloso, fornendo
strumenti per la creazione di contenuti falsi e manipolati con livelli di
sofisticazione senza precedenti. È proprio questa ambivalenza che rende l’IA
una tecnologia tanto potente quanto insidiosa.
Un esempio emblematico è rappresentato dai citati deepfake,
prodotti grazie a tecnologie basate su reti generative avversarie (GAN). Questi
strumenti permettono di creare video e immagini estremamente realistici, in cui
persone possono essere mostrate mentre affermano o compiono azioni mai
avvenute. I deepfake compromettono
gravemente la fiducia nelle informazioni visive, un tempo considerate una prova
tangibile della realtà. Ma non si fermano qui: la loro diffusione può essere
utilizzata per campagne di diffamazione, per manipolare l’opinione pubblica o
per destabilizzare contesti politici già fragili. La capacità di creare realtà
alternative visive rappresenta una minaccia diretta alla credibilità delle
fonti visive e alla coesione sociale.
Parallelamente, i testi generati automaticamente da modelli di linguaggio avanzati,
come GPT, hanno aperto nuove frontiere nella disinformazione. Questi sistemi
sono in grado di produrre articoli, commenti e post sui social media che
appaiono del tutto autentici, rendendo estremamente difficile distinguere i
contenuti generati da una macchina da quelli scritti da una persona reale. Non
a caso, tali strumenti vengono già sfruttati per alimentare botnet, reti automatizzate che
diffondono narrazioni polarizzanti o completamente false, spesso con l’obiettivo
di manipolare opinioni e alimentare conflitti sociali.
Un ulteriore aspetto cruciale è rappresentato dalla scalabilità della disinformazione.
L’automazione garantita dall’AI consente la creazione e la diffusione di
contenuti falsi su larga scala, amplificandone in modo esponenziale l’impatto.
Ad esempio, un singolo attore malevolo, sfruttando questi strumenti, può
generare migliaia di varianti di un messaggio falso, complicando ulteriormente
il compito dei sistemi di rilevamento. In pochi istanti, contenuti manipolati
possono essere diffusi a livello globale, raggiungendo milioni di persone prima
che si possa intervenire.
Infine, l’AI offre strumenti per la mimetizzazione dei contenuti, che
rendono i messaggi manipolati ancora più difficili da individuare. Algoritmi
avanzati consentono di apportare modifiche minime ma strategiche a testi o
immagini, eludendo così i sistemi di monitoraggio tradizionali. Questa capacità
di adattamento rappresenta una sfida continua per gli sviluppatori di strumenti
di contrasto, che devono aggiornarsi costantemente per stare al passo con le
nuove tecniche di manipolazione.
In definitiva, l’intelligenza artificiale, nella sua
capacità di generare contenuti altamente sofisticati, rappresenta un’arma a
doppio taglio nel panorama del MDHM. Se non regolamentata e utilizzata in modo
etico, rischia di accelerare la diffusione della disinformazione, minando
ulteriormente la fiducia pubblica nelle informazioni e destabilizzando la
società. È indispensabile affrontare questa minaccia con consapevolezza e
strumenti adeguati, combinando innovazione tecnologica e principi etici per
limitare gli effetti di questa pericolosa evoluzione.
Sfide e Opportunità
L’impiego
dell’intelligenza artificiale nella lotta contro il fenomeno del MDHM
rappresenta una delle frontiere più promettenti ma anche più complesse dell’era
digitale. Sebbene l’IA offra opportunità straordinarie per contrastare la
diffusione di informazioni dannose, essa pone anche sfide significative,
evidenziando la necessità di un approccio etico e strategico.
Le
Opportunità Offerte dall’IA
Tra
i vantaggi più rilevanti, spicca la capacità
dell’AI di analizzare dati in tempo reale. Grazie a questa caratteristica,
è possibile anticipare le campagne di disinformazione, identificandone i
segnali prima che si diffondano su larga scala. Questo permette di ridurre
l’impatto di tali fenomeni, intervenendo tempestivamente per arginare i danni.
Un
altro aspetto fondamentale è l’impiego di strumenti avanzati per certificare l’autenticità dei contenuti.
Tecnologie sviluppate da organizzazioni leader nel settore consentono di
verificare l’origine e l’integrità dei dati digitali, restituendo fiducia agli
utenti. In un contesto in cui la manipolazione visiva e testuale è sempre più
sofisticata, queste soluzioni rappresentano un baluardo essenziale contro il
caos informativo.
L’AI
contribuisce inoltre a snellire le attività di fact-checking.
L’automazione delle verifiche consente di ridurre il carico di lavoro umano,
velocizzando la risposta alla diffusione di contenuti falsi. Questo non solo
migliora l’efficienza, ma permette anche di concentrare le risorse umane su
casi particolarmente complessi o delicati.
Le
Sfide dell’AI nella Lotta al MDHM
Tuttavia,
le stesse tecnologie che offrono queste opportunità possono essere sfruttate
per scopi malevoli. Gli strumenti utilizzati per combattere la disinformazione
possono essere manipolati per aumentare la
sofisticazione degli attacchi, creando contenuti ancora più
difficili da rilevare. È un paradosso che sottolinea l’importanza di un
controllo rigoroso e di un uso responsabile di queste tecnologie.
La
difficoltà nel distinguere tra contenuti autentici e manipolati
rappresenta un’altra sfida cruciale. Man mano che le tecniche di
disinformazione evolvono, anche gli algoritmi devono essere costantemente
aggiornati per mantenere la loro efficacia. Questo richiede non solo
investimenti tecnologici, ma anche una collaborazione continua tra esperti di
diversi settori.
Infine,
è impossibile ignorare i bias insiti nei modelli di AI,
che possono portare a errori significativi. Algoritmi mal progettati o
addestrati su dataset non rappresentativi rischiano di rimuovere contenuti
legittimi o, al contrario, di non individuare alcune forme di disinformazione.
Questi errori non solo compromettono l’efficacia delle operazioni, ma possono
minare la fiducia nel sistema stesso.
Conclusione
L’intelligenza
artificiale è una risorsa strategica nella lotta contro misinformation, disinformation,
malinformation e hate speech, ma rappresenta anche una sfida complessa. La sua
ambivalenza come strumento di difesa e al contempo di attacco richiede un uso
consapevole e responsabile. Mentre da un lato offre soluzioni innovative per
rilevare e contrastare contenuti manipolati, dall’altro consente la creazione
di disinformazione sempre più sofisticata, amplificando il rischio per la
stabilità sociale e istituzionale.
Il
MDHM non è un fenomeno isolato o temporaneo, ma una minaccia sistemica che mina
le fondamenta della coesione sociale e della sicurezza globale. La sua
proliferazione alimenta un circolo vizioso in cui l’erosione della fiducia, la
polarizzazione sociale e le minacce alla sicurezza si rafforzano
reciprocamente. Quando la disinformazione contamina il flusso informativo, la
fiducia nelle istituzioni, nei media e persino nella scienza si sgretola.
Questo fenomeno non solo genera alienazione e incertezza, ma riduce la capacità
dei cittadini di partecipare attivamente alla vita democratica.
La
polarizzazione sociale, amplificata dalla manipolazione delle informazioni, è
un effetto diretto di questa dinamica. Narrativi divisivi e contenuti
polarizzanti, spinti da algoritmi che privilegiano l’engagement a scapito
dell’accuratezza, frammentano il tessuto sociale e rendono impossibile il
dialogo. In un clima di contrapposizione “noi contro loro”, le
divisioni politiche, culturali ed etniche si trasformano in barriere
insormontabili.
A
livello di sicurezza, il MDHM rappresenta una minaccia globale. Le campagne di
disinformazione orchestrate da stati o gruppi non statali destabilizzano intere
regioni, fomentano violenze e alimentano conflitti armati. L’uso del hate
speech come strumento di deumanizzazione ha dimostrato il suo potenziale
distruttivo in numerosi contesti, contribuendo a un clima di vulnerabilità
collettiva e individuale.
Affrontare
questa sfida richiede un approccio integrato che combini educazione, regolamentazione
e cooperazione globale.
Promuovere
l’educazione critica: l’alfabetizzazione mediatica deve essere
una priorità. Educare i cittadini a riconoscere e contrastare la
disinformazione è il primo passo per costruire una società resiliente.
Programmi educativi e campagne di sensibilizzazione devono dotare le persone
degli strumenti necessari per navigare nel complesso panorama informativo.
Rafforzare
la regolamentazione delle piattaforme digitali: le aziende
tecnologiche non possono più essere semplici spettatori. È indispensabile che
adottino standard chiari e trasparenti per la gestione dei contenuti dannosi,
garantendo al contempo il rispetto della libertà di espressione. Una
supervisione indipendente può assicurare l’equilibrio tra sicurezza e diritti
fondamentali.
Incentivare
la collaborazione globale: la natura transnazionale del MDHM
richiede una risposta coordinata. Governi, aziende private e organizzazioni
internazionali devono lavorare insieme per condividere risorse, sviluppare
tecnologie innovative e contrastare le campagne di disinformazione su scala
globale.
Solo
attraverso un’azione concertata sarà possibile mitigare gli effetti devastanti
del MDHM e costruire una società più resiliente e informata. Il futuro della
democrazia, della coesione sociale e della sicurezza dipende dalla capacità
collettiva di affrontare questa minaccia con determinazione, lungimiranza e
responsabilità.
Abstract Fra il 2023 e il 2024 in vari paesi europei si è fatta strada una seria preoccupazione riguardo il coinvolgimento di teenagers e minorenni in reati legati al terrorismo e attività estremiste. Se a portare a termine attacchi e attentati sono ancora in gran parte uomini poco al di sotto dei 30 anni, la radicalizzazione online fa presa sui giovanissimi in maniera inedita, rappresentando una sfida tutt’altro che facile per chi opera nella prevenzione e nel contrasto.
La sera di sabato 2 marzo 2024 in un quartiere centrale di Zurigo un quindicenne svizzero di origini tunisine accoltella gravemente un ebreo ortodosso. Nelle ore successive all’attacco, emerge in rete un video preregistrato nel quale il ragazzo, che si definisce un “soldato del Califfato” e giura fedeltà allo Stato Islamico, dichiara di avere agito in risposta all’appello lanciato da quest’ultimo di colpire “gli ebrei, i cristiani e i loro alleati criminali”, e incita a sua volta altri a prendere l’iniziativa (1).
L’ evento si inserisce in un contesto globale che è stato segnato da un sensibile aumento dall’antisemitismo dopo il brutale attentato terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023, al quale Israele ha risposto mettendo Gaza a ferro e fuoco; una realtà che con il suo tragico carico di vittime civili ha alimentato tanto le narrative della sfera jihadista e degli estremismi più in generale, quanto la polarizzazione sociale che ha trovato sfogo, talvolta violento, nelle piazze, nelle università e su internet. Un clima dal forte potenziale di radicalizzazione e di mobilitazione, accentuato da un’intensa disinformazione, a cui sono esposti anche ragazzini al di sotto dei 15 anni.(2)
La Confederazione -già colpita nel 2020 da due attacchi all’arma bianca di matrice jihadista a Morges e a Lugano, che avevano in quell’occasione però visto passare all’azione un uomo e una donna adulti, scagliatisi contro vittime scelte a caso- si confronta improvvisamente con una tendenza che caratterizza ormai da qualche anno l’universo dell’estremismo violento e della radicalizzazione in Europa, e che consiste nel progressivo abbassamento dell’età di chi è coinvolto in questi fenomeni.
Nel 2021, le statistiche inglesi indicavano già un incremento rilevante negli arresti di ragazzi al di sotto dei 18 anni, sospettati di aver commesso reati legati al terrorismo, con una prevalenza della matrice di estrema destra (3). Le percentuali hanno continuato a salire toccando il picco finora più alto nel 2023, quando sul totale dei fermi -tra giovani e adulti- quasi il 19% riguardava teenagers non ancora 17enni (4).
L’attrattiva dei ragazzi e delle ragazze nei confronti del jihadismo è coerente con quanto avvenuto nel periodo che ha segnato la massima espansione territoriale dell’ISIS, attorno alla metà dello scorso decennio; anche allora il Vecchio Continente aveva visto numerosi adolescenti aderire alla narrativa e progettualità dello Stato Islamico, mettendosi in viaggio nel tentativo di raggiungere la Siria e l’Iraq; come la teenager inglese Shamima Begum, partita da Londra a 15 anni nel 2015 insieme a delle coetanee e oggi bloccata in Medioriente in uno dei campi di detenzione dove sono confinate le famiglie degli ex-combattenti. Il suo è divenuto un caso controverso ed emblematico, dopo che le autorità britanniche hanno deciso di privarla della nazionalità rendendola, di fatto, apolide, nonostante c’è chi ritenga che sia stata vittima di indottrinamento e forse anche di tratta (5).
Giovanissimi commisero violenze di natura jihadista dopo che l’ISIS, a partire dal 2014, iniziò ad incoraggiare i propri sostenitori rimasti nei rispettivi paesi di residenza ad attivarsi con i mezzi a disposizione, inaugurando anche la stagione dei cosiddetti “lupi solitari” -una definizione fuorviante, in ragione delle reti di contatti e relazioni che emergono nella maggior parte delle indagini-. Questa mossa strategica del Califfato ha cambiato in maniera permanente il modus operandi dei terroristi, valorizzando l’autonomia dei singoli e permettendo al gruppo terroristico, quando confrontato con difficoltà operative, di continuare a proiettare un’immagine di forza rivendicando azioni di ‘successo’ portate avanti dai propri simpatizzanti.
Uno studio sugli attentati di matrice islamista avvenuti in Europa fra il 2014 e il 2017 indicava che, tra attacchi riusciti e sventati, teenagers e ragazzini erano coinvolti in poco meno di un quarto degli eventi jihadisti; il fenomeno interessava soprattutto la Francia, la Germania e il Regno Unito (6).
Un evento simile a quello di Zurigo si era verificato, ad esempio, a Marseille nel 2016, quando un 15enne di etnia curda aveva attaccato un docente, anch’egli di religione ebraica, nei pressi dell’istituto scolastico dove insegnava.
Casi più recenti sono stati l’uccisione brutale, nel novembre del 2020 alle porte di Parigi, del Prof. Samuel Paty da parte di un 18enne russo di origine cecena, a seguito di una violenta campagna islamista via social che era stata scatenata nei giorni precedenti contro il docente; o quella di un insegnante in un liceo di Arras, nell’ottobre del 2023, ad opera di radicalizzato di 20 anni originario dell’Inguscezia. Dopo quest’ultimo attacco, il procuratore anti-terrorismo francese Jean -François Ricard dichiarò che negli ultimi tre anni (dal 2020, ndr) nel paese era stata riscontrata una crescente propensione, da parte dei giovanissimi, alla pianificazione di atti violenti (7).
Va specificato che gli attacchi portati a termine rimangono ancora in gran parte appannaggio degli adulti; dal database del centro d’analisi e ricerca START InSight, che traccia i profili degli jihadisti entrati in azione in Europa, emerge che l’età mediana di chi ha colpito l’Europa fra il 2014 ed oggi è di 26 anni: un dato che subisce variazioni -dai 24 anni registrati nel 2016 ai 30 anni del 2019-, e che nel 2023 indica l’età perfino in lieve risalita, attestandosi sui 28.5 anni.
Più in generale, emerge come il 7% dei terroristi avesse un’età inferiore ai 19 anni (con una riduzione progressiva dei minori!); il 38% un’età compresa tra i 19 e i 26 anni; il 41,5% tra i 27 e i 35 anni e infine, il 13,5% di età superiore ai 35 anni.
In precedenza, uno studio del 2019 della Scuola Universitaria per le Scienze Applicate di Zurigo (ZHAW), basato sulle informazioni disponibili relative a 130 diversi casi di natura jihadista di cui si era occupato il Servizio delle Attività Informative della Confederazione nel corso dei dieci anni precedenti, indicava che a radicalizzarsi al di sotto dei 20 anni era stato il 18% degli individui, mentre per i minorenni il dato – all’epoca piuttosto contenuto- scendeva al 6% (8).
Tuttavia nel Canton Vaud, dove è stato istituto nel 2018 un programma di prevenzione della radicalizzazione, più del 40% dei casi trattati riguarda minorenni (9). E recentemente, il capo dell’intelligence elvetica Christian Dussey ha dichiarato come la radicalizzazione di matrice jihadista dei minorenni tocchi oggi la Confederazione in proporzioni (addirittura) maggiori rispetto agli altri Stati europei (10). Poco dopo l’attacco di Zurigo, nella Svizzera francese e tedesca sono stati fermati altri sei ragazzi fra i 15 e i 18 anni, in contatto con coetanei in Germania, Francia e Belgio; alcuni, in questa rete, apparentemente intenzionati a portare avanti attacchi. Nei primi 9 mesi del 2024, la Polizia svizzera sarebbe intervenuta in 11 casi di giovani radicalizzati; è stato fermato anche un bambino di 11 anni.
L’esperto di terrorismo Peter Neumann ha segnalato che nel complesso, in Europa, dall’ottobre 2023, due terzi degli arresti hanno riguardato ragazzini fra i 13 e i 19 anni d’età (11).
In Inghilterra e Galles, fra l’aprile 2022 e il marzo 2023 più del 60% delle segnalazioni nell’ambito del programma di prevenzione Prevent -che impone a chi lavora nel settore pubblico, soprattutto la scuola, di comunicare i casi di sospetta radicalizzazione- riguardava individui fino ai 20 anni; il 31% non arrivava ai 14. Ma se la maggior parte dei casi trattati non ha poi richiesto ulteriori prese a carico- quasi la metà di quelli più seri era però rappresentata da ragazzini fra gli 11 e i 15 anni (12).
“Childhood Innocence? Mapping Trends in Teenage Terrorism Offenders”, uno studio pubblicato dall’International Centre for the Study of Radicalisation (ICSR) del King’s College di Londra, che ha preso in esame le attività di 43 minorenni condannati per reati collegati al terrorismo, sempre in Inghilterra e Galles, dal 2016 al 2023 (13), invita a non sottovalutare il ruolo dei ragazzi; sebbene nel periodo preso in considerazione nessun bambino sia riuscito a commettere un attentato e il reato più comune sia consistito nel possesso di materiale estremista, dalla ricerca emerge come un terzo sia stato condannato per la preparazione di atti di terrorismo, e come i ragazzi abbiano agito da “amplificatori” e “innovatori”, in grado di produrre materiali di propaganda, di reclutare altri e di pianificare attacchi. A fare deragliare i loro piani, potrebbero essere stati fattori legati all’età, come l’ingenuità e l’incapacità organizzativa.
Questa intraprendenza giovanile è un tratto comune del panorama estremista degli ultimi anni: nel 2020 si è scoperto che a capo della Feuerkrieg Division, un gruppo di estrema destra attivo solo online ma con intenti terroristici e con membri in vari paesi, dagli Stati Uniti alla Lituania, c’era un 13enne estone -ne aveva 11, al momento della fondazione nel 2018-. Alcuni teenagers che ne facevano parte pianificavano attivamente degli attentati (14).
Sempre nel marzo del 2024 In Inghilterra, un giovane anarchico di sinistra di 20 anni è stato condannato a 13 anni di carcere; fra le altre cose, pianificava di uccidere 50 persone e aveva dedicato un manuale di istruzioni su come costruire armi e bombe “ai disadattati, ai signori nessuno, agli anarchici e terroristi del passato e del futuro, che vogliono combattere per la libertà contro il governo” (15).
2. L’emancipazione dell’estremismo
Studi e indagini hanno analizzato come gruppi, movimenti e individui -in particolare jihadisti o appartenenti alla vasta galassia dell’estrema destra- abbiano saputo cogliere e sfruttare efficacemente le opportunità progressivamente offerte da Internet e dalle tecnologie in continua evoluzione per divulgare le proprie ideologie, avvicinare potenziali reclute e simpatizzanti, disseminare riviste e guide pratiche per aspiranti attentatori, adattando e diversificando la propria comunicazione anche in base al genere. Incluso l’impiego dell’intelligenza artificiale per elaborare rapidamente immagini e video di propaganda dal forte ed immediato impatto estetico ed emotivo che solo un decennio fa avrebbero richiesto il meticoloso apporto di un team e oggi possono anche essere realizzate da un’unica persona (16).
Ad emergere è la consapevolezza di come, nel corso del tempo, siano cambiati in modo sostanziale sia il modo di produrre, consumare e condividere propaganda, che le identità di chi è coinvolto in queste attività. L’entrata in scena dei social media attorno alla metà degli anni 2000, in particolare, ha favorito la rapida diffusione e l’acceso a materiale di natura estremista, e permesso di creare relazioni e interagire continuamente, al punto che, si legge in un saggio del ricercatore Jacob Ware su questo tema, “il processo di radicalizzazione si insinuava ora in ogni aspetto della vita di un soggetto, e il radicalizzatore poteva proiettare la propria influenza in un salotto o una camera da letto” (17).
Ware spiega che oggi siamo ormai confrontati con la terza generazione influenzata dalla radicalizzazione online; una generazione in cui gli individui non solo agiscono in autonomia, ma promuovono sé stessi e le proprie azioni.
I gruppi terroristici (quelli con una solida gerarchia interna) sono meno rilevanti, mentre le ideologie sono fluide. Già nel rapporto #ReaCT2022 Michael Krona, riferendosi al contesto jihadista, indicava l’esistenza di sostenitori online meno inclini a legarsi ad una singola organizzazione, che “formano delle nuove entità, promuovono interpretazioni ideologiche più ampie, costruendo i loro propri brand, piuttosto che rafforzare scrupolosamente il marchio dello Stato Islamico” (18). Oggi la produzione di propaganda e narrativa estremista -ma anche l’incitamento all’azione- non sono più una prerogativa dei media legati ai movimenti terroristici, ma un’operazione a cui partecipa una larga base di adepti e militanti in contatto fra loro. Un reticolato che può estendersi da un continente all’altro.
Come racconta un’inchiesta internazionale realizzata nel 2022 da giornalisti infiltratisi in una rete di teenagers neo-nazisti, il vantaggio di questo network -ma lo stesso principio vale in altri casi- consiste nella sua struttura lasca, mobile, che fa perno sulla partecipazione di singoli individui sparsi per il mondo: “tutto ciò di cui hanno bisogno è un computer, un cellulare e una camera da letto. E tutto ciò che hanno in comune è la loro ideologia e il loro odio: nei confronti degli ebrei, delle figure politiche, dei giornalisti” (19).
Quest’immagine dell’adolescente radicalizzato chiuso nella propria stanza si ripropone, quindi; ma la camera può essere più simile a una cabina di regia, che a un rifugio in cui si isola un ragazzino vulnerabile esposto alle trame di malintenzionati. Il già menzionato studio inglese sui minorenni condannati per terrorismo, sottolinea la necessità di superare lo stereotipo associato ai bambini, che li considera una mera “pedina” nelle mani degli adulti; se attivi in un contesto estremista online protetti dall’anonimato, il “peso” e l’effetto, per esempio, delle loro azioni e dei loro posts, è identico a quello di tutti gli altri.
I ‘combattenti’ virtuali, oggi nativi digitali, dimostrano un forte potenziale nell’assicurare una continua promozione delle idee estremiste -una campagna mediatica pro-ISIS blandisce ed esorta specificamente questi “eserciti di una persona” e “mujaheddin di Internet” a non demordere (20). La capacità di impiegare in modo selettivo i diversi social media e le app di messaggistica criptate per comunicare, scambiarsi informazioni, incoraggiarsi a vicenda, discutere di violenze, attacchi e obiettivi, e l’abilità nel migrare di piattaforma in piattaforma per sfuggire alla scure delle big tech e delle operazioni congiunte di Polizia intese a liberare Internet dai contenuti di natura terroristica, li rendono un asset difficile da contrastare.
In sintesi, l’epoca attuale è caratterizzata da un estremismo ‘emancipato’, diffuso e de-centralizzato che si fonda sulla ‘libera iniziativa’; un ecosistema in cui “ognuno può essere rimpiazzato” (21) e tutti gli attentatori possono diventare fonte di ispirazione per altri; che si tratti di Brenton Tarrant, estremista di destra che nel 2019, a 28 anni, a Christchurch, in Nuova Zelanda, ha attaccato due moschee uccidendo oltre 50 persone; che si tratti di Elliott Rodger che a 22 anni in California, nel 2014, ha commesso una strage in nome dell’ideologia misogina ed è oggi celebrato dagli incel violenti, o ancora che si tratti del quindicenne svizzero autore dell’accoltellamento di Zurigo, il cui gesto viene esaltato dagli accoliti dello Stato Islamico. Alcuni giorni dopo l’attacco, ricercatori del Counter Extremism Project hanno individuato sei profili di TikTok che celebravano lo jihadista svizzero (22).
3. La radicalizzazione della violenza
Nel corso del 2024, analisti e media hanno talvolta fatto riferimento all’espressione ‘TikTok-jihad’ o ‘terrorismo TikTok’ per definire il contesto nel quale avviene l’avvicinamento dei teenager all’estremismo; social, piattaforme di gioco e chat criptate finiscono spesso sul banco degli imputati e vengono considerati oggi strumenti principali di radicalizzazione. Non si tratta tuttavia di semplici ‘canali’ attraverso i quali viene diffuso un messaggio indirizzato a potenziali nuove leve; queste piattaforme offrono spazi di condivisione, socializzazione, visibilità e partecipazione: termini e concetti importanti per comprendere una realtà che non consiste (più) solo in un galassia di ideologie politico-religiose violente, ma che è anche costituita da subculture generate e animate dagli stessi ragazzi (quella incel, ad esempio, o quella dell’accelerazionismo militante); in altre parole, da comunità / collettività che si riconoscono in propri valori, norme comportamentali, codici linguistici ed estetici. Nel periodo adolescenziale, che è caratterizzato dalla ricerca di un’identità e di un posto nel mondo, ma talvolta anche da sentimenti di ribellione, da fragilità personali che possono derivare da contrasti in famiglia, o violenze quali il bullismo e il razzismo, il senso di appartenenza a un gruppo di riferimento assume un ruolo non secondario.
Analisti e intelligence sottolineano già da qualche anno, come problematiche di natura psicologica e adesione alla violenza, prima ancora che all’ideologia, rappresentino tendenze ormai consolidate. La voglia di rivalsa, di acquisire potere nelle relazioni sociali, di protagonismo e di sfogo alle frustrazioni personali (23), vengono oggi considerate motivazioni sufficienti nel contribuire alla radicalizzazione dei ragazzi, una radicalizzazione in cui la percezione di torti subiti può sovrapporsi a battaglie socio-politiche. Tutti questi fattori, sommati a un ‘clima’ virtuale caratterizzato da algoritmi che premiano contenuti provocatori e dalla banalizzazione dell’odio attraverso, ad esempio, la produzione e condivisione di memes, contribuiscono ad abbassare la soglia di adesione all’estremismo (violento e non). In uno scenario così complesso e in continua evoluzione, è molto difficile essere in grado di valutare i rischi posti dagli individui radicalizzati nel mondo reale, soprattutto se minorenni. Pur nella consapevolezza che la radicalizzazione è un percorso personale non irreversibile, e che non conduce necessariamente verso il terrorismo. (24)
Chiara Sulmoni, BA, MA, Presidente e Coordinatrice editoriale di START InSight, Lugano, (Svizzera) ha conseguito un BA e un MA in Italian Studies c/o UCL (University College London) e un MA in Near and Middle Eastern Studies c/o SOAS (School of Oriental and African Studies, London). Giornalista e producer, ha lavorato alla realizzazione di documentari e reportage per la radio / TV in particolare su temi legati al mondo arabo e islamico, Afghanistan e Pakistan, conflitti, radicalizzazione di matrice islamista. Dal 17 aprile 2019, è Co-Direttore di ReaCT – Osservatorio nazionale sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo (Roma-Milano-Lugano). Dal 2023, è Presidente e Coordinatrice dell’Associazione PRIME – Prevenzione Informazione e Mediazione (Lugano).
Note 1) In Video Uploaded To Internet, Teenage Stabber Of Jew In Zürich Swears Allegiance To Islamic State (ISIS), Calls On Muslims To Target Jews And Christians Everywhere, MEMRI, Special Dispatch No. 11166, 4 March 2024. In https://www.memri.org/reports/video-uploadedinternet-teenage-stabber-jew-z%C3%BCrich-swearsallegiance-islamic-state-isis 2) Symonds, Tom, Gaza war creating a radicalisation moment, senior UK police officer says, BBC News , 19th January 2024. In https://www.bbc.com/news/uk-68035172 3) Counter- Terrorism Policing, Upward trend in children arrested for terrorism offences, News, 9th June 2022. In https:// www.counterterrorism.police.uk/upward-trend-inchildren-arrested-for-terrorism-offences/ 4) Counter-Terrorism Policing, Number of young people arrested for terrorism offences hits record high, News, 15th March 2024. In: https://www.counterterrorism.police.uk/ number-of-young-people-arrested-for-terrorism-offenceshits-record-high/ 5) Sabbagh, D., Shamima Begum a victim of trafficking when she left Britain for Syria, court told, The Guardian, 24th October 2023. In: https://www.theguardian.com/uk-news/2023/ oct/24/shamima-begum-victim-of-trafficking-when-sheleft-uk-for-syria-court-told 6) Simcox, R., European Islamist Plots and Attacks Since 2014— and How the U.S. Can Help Prevent Them, The Heritage Foundation, Backgrounder No. 3236, 1st August 2017. See also: Bourebka, M., Overlooked and underrated? The role of youth and women in preventing violent extremism, CIDOB, Notes internationals, 240, 11/2020: “In the European context, as of 2016, the fastest-growing age group amongst the radicalised individuals in Europe was 12- to 17-year-olds” 7) de la Ruffie, E., Attentat: des mineurs radicalisés, «un phénomène nouveau» et «inquiétant», selon le procureur anti-terroriste, Le Journal du Dimanche, 7 Novembre 2023. In: https:// www.lejdd.fr/societe/attentat-des-mineurs-radicalises-unphenomene-nouveau-et-inquietant-selon-le-procureurantiterroriste-139493 8) Sulmoni, C., Radicalizzazione jihadista e prevenzione. Aggiornamenti dalla Svizzera, START InSight www.startinsight.eu. 9) Comment le groupe Etat islamique courtise les mineurs sur les plateformes de jeux vidéo, RTS, 27 Mai 2024 https:// www.rts.ch/info/suisse/2024/article/comment-le-groupe -etat-islamique-courtise-les-mineurs-sur-les-plateformes-dejeux-video-28516132.html. 10) Rhyn, L., und Knellwolf, T., Die Schweiz hat überdurchschnittlich viele Fälle radikalisierter Jugendlicher, Tages Anzeiger, 22 August 2024. In: https:// www.tagesanzeiger.ch/geheimdienst-chef-sieht-sicherheitder-schweiz-in-gefahr-665955949850. 11) Ernst, A., Terrorismus in Europa: Es gibt genügend Hinweise, dass sich etwas Grösseres ankündigt, NZZ, 23 August 2024. In: https://www.nzz.ch/international/terrorismusin-europa-die-tik-tok-generation-peter-r-neumannld.1844746 12) Individuals referred to and supported through the Prevent Programme, April 2022 to March 2023. Home Office Official Statistics, 14th December 2023. In: https://www.gov.uk/ government/statistics/individuals-referred-to-prevent/ individuals-referred-to-and-supported-through-the-preventprogramme-april-2022-to-march-2023#demographics 13) Rose, H., and Vale, G., “Childhood Innocence? Mapping Trends in Teenage Terrorism Offenders”, ICSR, London, 2023. 14) Nabert, A., Brause, C., Bender, B., Robins-Early, N., Death Weapons, Inside a Teenage Terrorist Network, Politico, 27th July 2022. In: https://www.politico.eu/article/ inside-teenage-terrorist-network-europe-death-weapons/ 15) Gardham, D., Jacob Graham: Left-wing anarchist jailed for 13 years over terror offences after declaring he wanted to kill at least 50 people, Sky News, 19th March 2024 https:// news.sky.com/story/jacob-graham-left-wing-anarchistjailed-for-13-years-over-terror-offences-after-declaring-hewanted-to-kill-at-least-50-people-13097584 16) Katz, R., SITE Special Report: Extremist Movements are Thriving as AI Tech Proliferates, SITE Intelligence Group, 16th May 2024 https://ent.siteintelgroup.com/Articlesand-Analysis/extremist-movements-are-thriving-as-ai-tech -proliferates.html 17) Ware, J., The Third Generation of Online Radicalization, Program on Extremism, George Washington University, 16th June 2023. In: https://extremism.gwu.edu/thirdgeneration-online-radicalization 18) Krona, M., Le comunità jihadiste online costruiscono i loro brand ed espandono l’universo terrorista creando nuove entità, #ReaCT2022, Rapporto sul Terrorismo e il Radicalismo in Europa, N.3, Anno 3, ed. START InSight (Lugano). In. https://www.startinsight.eu/react2022-n-3-anno-3/ 19) Nabert, A., Brause, C., Bender, B., Robins-Early, N., Death Weapons, Inside a Teenage Terrorist Network, Politico, 27th July 2022. In: https://www.politico.eu/article/ inside-teenage-terrorist-network-europe-death-weapons/ 20) Pro-Islamic State (ISIS) Social Media Campaign Calling For ‘Media Jihad’ Expands To TikTok, Jihad and Terrorism Threat Monitor, MEMRI, 22nd June 2023 https:// www.memri.org/jttm/pro-islamic-state-isis-social-mediacampaign-calling-media-jihad-expands-tiktok 21) See: Death Weapons 22) Extremist Content Online: Pro-ISIS TikTok Users Celebrate Accused Attacker In Zurich Stabbing, Counter Extremism Project, 11 March 2024. In: https:// www.counterextremism.com/press/extremist-contentonline-pro-isis-tiktok-users-celebrate-accused-attackerzurich-stabbing 23) IS recruitment is not portrayed as violent enlistment for a political-religious cause but as a platform for venting frustrations with parents, teachers and society. It offers an outlet for their mundane lives and a chance at dubious “15 minutes of fame”, in: Avrahami, Z., TikTok jihad: Online radicalization threat looms over Europe, Ynetnews.com, 10th August 2024 https:// www.ynetnews.com/article/ rjgiduh9c 24) “Minorenni radicalizzati, ma non per forza terroristi”, RSI Info, 6 settembre 2024 https://www.rsi.ch/info/ticinogrigioni-e-insubria/%E2%80%9CMinorenni-radicalizzatima-non-per-forza-terroristi%E2%80%9D–2246363.html
L’attacco di Israele a Hezbollah: tra politica e strategia militare
di Claudio Bertolotti.
Sul piano politico-strategico Israele persegue l’obiettivo di distruggere l’asse della resistenza, che è la prima minaccia che incombe su Israele (forse non più). Una scelta che determinerà, in primis, una ridefinizione degli equilibri in Medioriente, con una progressiva erosione della minaccia attraverso l’indebolimento o la disarticolazione irreversibile dei suoi attori di prossimità (Hamas, Hezbollah, Ansar-Allah yemeniti, milizie sciite irachene, Siria). Aspetto prioritario rimane il proseguimento del processo di normalizzazione dei rapporti con i paesi arabi avviato con gli “Accordi di Abramo”, sponsorizzato dagli Stati Uniti che, sebbene rallentato dal conflitto in atto, rimane la priorità condivisa da Washington, Gerusalemme e Riad.
Sul piano strategico-militare l’azione contro Hezbollah ha un intento preventivo a un’eventuale minaccia simultanea da parte del cd. “Asse della Resistenza” guidato da Teheran che metterebbe in crisi il sistema contraereo Iron Dome israeliano in conseguenza della saturazione della capacità di risposta (più attacchi rispetto alla capacità di reazione israeliana). Questo coerentemente con la visione israeliana che percepisce la minaccia iraniana come esistenziale e adotta un approccio preventivo.
Scelte, quella politica e quella militare, che concretizzano l’approccio teorico e di prontezza operativa definito nei documenti di “Strategia per la sicurezza nazionale” e la “Dottrina strategica militare”.
Con la serie di azioni a danno di Hezbollah, Israele è
riuscito a scardinare non tanto la sostanza di un’alleanza, ma la sua illusione
di potenza e deterrenza. L’Iran ormai è nudo, è debole, e i suoi alleati
pregiati, da Hamas e Hezbollah sono stati drasticamente ridimensionati sia sul
piano politico (uccisioni targeting) sia militare. Hamas è ormai ridotto ai
minimi termini militarmente parlando, Hezbollah è privo di capacita di comando,
controllo e comunicazione, e questo dimostra come la retorica iraniana sia
ormai stata smentita dai fatti.
E la preoccupazione di Teheran aumenta con l’avvicinarsi
delle elezioni statunitensi. Oggi gli Stati Uniti sostengono senza sé e senza
ma Gerusalemme. E se è comprensibile una certa ritrosia dell’amministrazione
democratica a un’intensificazione dello scontro regionale (a cui Washington non
farebbe comunque mancare il proprio appoggio), un’eventuale vittoria
repubblicana di fatto rafforzerebbe la linea politica israeliana già
consolidata.
‘Gaza Underground’, la presentazione del libro alla Camera dei Deputati, Roma
È in programma mercoledì 18 settembre, alle ore 10, a Roma, a Palazzo San Macuto, Sala del refettorio, il convegno “Nuovi Conflitti: il ruolo dell’intelligenza Artificiale e la guerra cognitiva” durante il quale viene presentato il volume del Direttore di START InSight Claudio Bertolotti intitolato
“Gaza Underground. La guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas” (ed. START InSight, 2024)
“Nel cuore della terra, sotto il confine turbolento tra Israele e Gaza, si è sviluppata una guerra invisibile, tanto silenziosa quanto pericolosa. Questa è la storia della guerra sotterranea combattuta da Israele contro Hamas. La lotta contro l’uso strategico dei tunnel da parte dei miliziani rappresenta un capitolo oscuro e complesso del conflitto israelo-palestinese, un fronte di battaglia che si estende ben al di là della vista e della percezione pubblica.”
Chi è l’ultra radicale Yahya Sinwar, nuovo capo di Hamas: archiviato l’impossibile negoziato?
Hamas è organizzata in una serie di organi direttivi che gestiscono diverse funzioni politiche, militari e sociali. L’autorità principale, che si occupa dell’agenda politica e strategica del movimento, è rappresentata dal consiglio della shura di Hamas, il vertice della leadership organizzativa, che opera in esilio. Tuttavia, le attività quotidiane del gruppo sono gestite dal bureau politico, mentre le operazioni militari sono sotto la responsabilità delle brigate Izz ad-Din al-Qassam, il braccio militare del gruppo, che gode di un’ampia autonomia operativa. I comitati locali gestiscono le questioni di base nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania.
Se fino ad oggi Hamas è stato caratterizzato da una dualità che ha visto contrapporsi l’anima politica esterna alla Striscia di Gaza a quella politico-militare a Gaza in un rapporto di sempre più accesa competizione, la nomina di Yahya Sinwar alla guida del movimento potrebbe aver di fatto archiviato l’opzione di un gruppo pragmatico – al netto delle posizioni radicali e violente – per lasciar posto in via esclusiva all’anima movimentista radicale, razionalmente violenta di orientamento jihadista votata alla causa massimalista: la distruzione di Israele, come premessa a qualunque opzione politica.
Chi è il nuovo capo di Hamas?
Fino
al momento della sua morte, Ismail Haniyeh ha ricoperto il ruolo di capo
politico mentre Yahya Sinwar ha gestito le questioni ordinarie a Gaza.
Conosciuto anche come Yahya Ibrahim Hasan al-Sinwar, dal 2017 è il capo di Hamas nella
Striscia di Gaza e uno dei primi architetti del braccio armato di Hamas: è
sospettato di essere una delle menti dietro gli attacchi del 7 ottobre 2023.[1]
Nato nel 1962 nel campo profughi di Khan Younis, Striscia di Gaza, da
genitori sfollati da Ashkelon durante la guerra arabo-israeliana del 1948, dopo
aver frequentato le scuole primarie grazie al sostegno dell’Agenzia delle
Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione (Unrwa), all’inizio degli anni
Ottanta si iscrisse all’Università islamica di Gaza, dove lo studio della
lingua araba contribuì a plasmare la sua carismatica autopresentazione. Entrò
all’università in un momento in cui molti giovani palestinesi della Striscia di
Gaza guardavano all’islamismo come strumento di soluzione al conflitto
israelo-palestinese, dopo decenni di panarabismo rivelatosi fallimentare. Nel
1982 fu arrestato per la sua partecipazione alle prime organizzazioni islamiste
anti-israeliane.
Nel 1985, ancor prima della formazione di Hamas, Sinwar contribuì all’organizzazione di “al-Majd” (in arabo “gloria”, ma anche acronimo di Munazzamat al-Jihad wa al-Da’wah, “Organizzazione per il jihad e da’wah”). Al-Majd era una rete di giovani islamisti con il compito di smascherare il crescente numero di informatori palestinesi reclutati da Israele. Quando Hamas venne fondata nel 1987, al-Majd fu inglobata nei suoi quadri di sicurezza. Nel 1988 si scoprì che la rete era in possesso di armi e Sinwar fu detenuto da Israele per diverse settimane. L’anno successivo venne condannato a quattro ergastoli per l’omicidio di palestinesi accusati di collaborazionismo con Israele.
Durante la sua lunga incarcerazione, Sinwar mantenne
una forte influenza sui suoi compagni di prigionia, usando tattiche di abuso e
manipolazione e godendo del supporto dei suoi contatti al di fuori del carcere.
Si impegnò a punire i compagni di prigionia che sospettava di essere
informatori e una volta costrinse circa 1.600 prigionieri a intraprendere uno
sciopero della fame. Trascorse anche gran parte del suo tempo libero studiando
ciò che poteva sui suoi nemici israeliani, leggendo giornali israeliani e
imparando l’ebraico.
Il rilascio di Sinwar avvenne nell’ambito dello scambio di prigionieri di alto profilo con Gilad Shalit, il soldato israeliano che era stato rapito da Hamas nel 2006 mentre era di stanza a un valico di frontiera. Dopo diversi tentativi falliti di mediare la libertà di Shalit, l’Egitto e la Germania si prodigarono per il suo rilascio nell’ottobre 2011. Il fratello di Sinwar, Mohammed, che era stato assegnato a sorvegliare Shalit, insistette affinché Sinwar fosse incluso nello scambio. Lo stesso giorno in cui Shalit venne rilasciato in Israele, Sinwar fu tra i primi prigionieri palestinesi a essere rimpatriati nella Striscia di Gaza.
Nell’aprile 2012, pochi mesi dopo il suo rilascio,
Sinwar fu eletto membro dell’ufficio politico di Hamas nella Striscia di Gaza.
Mise a frutto la sua esperienza come leader
carcerario e si guadagnò velocemente un’ottima reputazione all’interno di Hamas
per aver riunito le sue fazioni attraverso un compromesso. La retorica
infuocata di Sinwar conquistò da subito gli elementi più oltranzisti del
movimento; in tale cornice dinamica, pur prospettando l’avvio di un’era guidata
dall’ala militante, nei suoi primi anni da leader
Sinwar tenne un basso profilo e mostrò un lato pragmatico che gli consentì di
alleggerire lo stato di isolamento di Hamas. Mesi dopo la sua ascesa come leader del movimento, Hamas strinse un
accordo di riconciliazione con l’Anp e, per la prima volta dal 2007, cedette il
controllo di gran parte della Striscia di Gaza all’Autorità Palestinese, seppur
per un breve periodo. Anche le relazioni con l’Egitto tesero a migliorare,
tanto da portare Il Cairo ad allentare le restrizioni al valico di frontiera.
Al contempo, a conferma di una visione estremamente
razionale e pragmatica, il gruppo avviò una politica di dialogo e avvicinamento
all’Iran che portò in breve al reinserimento di Hamas nella rete di alleati di
Teheran e al conseguente sostegno militare e finanziario.
Sebbene alla fine del 2018, con l’avvio degli “Accordi di Abramo” sostenuti dagli Stati Uniti e volti alla normalizzazione dei rapporti tra Israele e gli Stati arabi, si prospettasse un periodo di calma frutto del possibile processo di reciproco riconoscimento tra Israele e uno stato palestinese, nel maggio 2021 ci fu un ritorno all’ostilità aperta di Hamas nei confronti di Gerusalemme. La popolarità di Sinwar aumentò con il conflitto, e la sua autorevolezza si rafforzò in maniera significativa.
L’operazione battezzata “alluvione Al-Aqsa” del 7 ottobre 2023, mostra i segni distintivi
delle tattiche di Sinwar, e la presa di ostaggi rimanda all’importanza da lui
data agli scambi di prigionieri. Sinwar, le cui immagini diffuse dalle Idf a
febbraio 2024 confermano che si sia nascosto nella rete dei tunnel sotterranei
di Gaza utilizzando la propria famiglia come “scudo umano”, è stato
classificato come obiettivo primario di Israele e definito, secondo un
portavoce militare israeliano, come “un morto che cammina”.
Hamas è strutturata su una serie di organi direttivi che svolgono varie funzioni politiche, militari e sociali. L’autorità in capo, responsabile dell’agenda politica e strategica del movimento, appartiene al consiglio della shura di Hamas, l’organo di leadership al vertice della catena organizzativa di comando,[1] che opera in esilio. Tuttavia, le operazioni quotidiane del gruppo rientrano nell’ambito del bureau politico, così come le operazioni militari fanno capo più specificamente al braccio militare del gruppo, le brigate Izz ad-Din al-Qassam, organo che gode di un alto grado di autonomia operativa.[2] I comitati locali gestiscono le questioni di base a Gaza e in Cisgiordania.
Quali sono i leader più importanti di Hamas a cui Israele dà la caccia? Tre i soggetti chiave del movimento: Khaled Meshaal, ex capo politico del movimento e ora capo ufficio politico estero, Yahya Sinwar, capo dell’ala militare di Hamas e Ismail Haniyeh, capo dell’ufficio politico del gruppo a Gaza, ucciso da Israele il 30 luglio 2024 in Iran, nella sua residenza di Teheran, a seguito di un probabile raid aereo con droni.
Storia, pregresso e ruolo politico di Ismail
Haniyeh
Ismail Haniyeh[3], conosciuto anche come Isma’il Haniyyah e Ismail Haniya, assurse al ruolo di primo ministro dell’Anp in seguito alla vittoria elettorale di Hamas del 2006; dopo i violenti scontri tra fazioni con la rivale Fatah, che portarono alla dissoluzione del governo e all’istituzione di un’amministrazione autonoma guidata da Hamas nella Striscia di Gaza, Haniyeh assunse il ruolo di leader del governo de facto nella Striscia (2007-14) e, nel 2017, fu scelto per sostituire Khaled Meshaal come capo dell’ufficio politico.
Figlio di genitori arabi palestinesi sfollati dal loro villaggio vicino ad Ashqelon (in quello che oggi è Israele) nel 1948, Haniyeh nacque nel 1962 nel campo profughi di Al-Shati’, Striscia di Gaza, dove trascorse i primi anni della sua vita. Come per la maggior parte dei minori rifugiati, Haniyeh fu educato nelle scuole gestite dall’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente (Unrwa). Nel 1981 si iscrisse all’Università islamica di Gaza, dove studiò letteratura araba e iniziò l’attivismo politico studentesco, guidando un’associazione islamista affiliata ai Fratelli Musulmani. Quando Hamas si formò, nel 1988 Haniyeh era tra i suoi membri fondatori più giovani, avendo sviluppato stretti legami con il leader spirituale del gruppo, lo sceicco Ahmed Yassin. Haniyeh fu arrestato dalle autorità israeliane nel 1988 e imprigionato per sei mesi per la sua partecipazione alla Prima intifada. Arrestato di nuovo nel 1989, rimase in prigione fino a quando Israele lo deportò nel sud del Libano nel 1992 insieme a circa quattrocento altri islamisti. Tornò poi a Gaza nel 1993, in seguito agli accordi di Oslo, e fu nominato decano dell’Università islamica.
Il ruolo di leadership di Haniyeh in Hamas si radicò nel 1997, quando fu nominato segretario personale di Yassin, divenendone uno stretto confidente. I due furono bersaglio di un primo fallito tentativo di assassinio da parte di Israele nel 2003; una seconda operazione mirata israeliana portò alla morte di Yassin pochi mesi dopo. Nel 2006 Hamas partecipò alle elezioni legislative palestinesi, con Haniyeh in testa alla lista. Il gruppo ottenne la maggioranza dei seggi in parlamento e Haniyeh divenne primo ministro dell’Anp. La comunità internazionale reagì alla leadership di Hamas congelando gli aiuti all’Autorità Palestinese, con ciò mettendo a dura prova l’organo di governo. Nel giugno 2007, dopo mesi di tensione e un violento conflitto armato tra le fazioni, il presidente Mahmoud Abbas del partito Fatah destituì Haniyeh e ne sciolse il governo. La conseguenza fu l’istituzione di un governo autonomo guidato da Hamas nella Striscia di Gaza, con Haniyeh a capo della compagine governativa. Poco dopo, Israele attuò un pacchetto di sanzioni e restrizioni alla Striscia di Gaza, con il supporto e la collaborazione dell’Egitto.
Nel gennaio 2008 un attacco con decine di razzi venne lanciato dalla Striscia di Gaza verso Israele; come pronta risposta Israele intensificò il suo blocco. Ciononostante, Hamas mantenne il controllo della Striscia di Gaza e il suo governo oscillò tra occasionali successi politici e battute d’arresto. Per quanto riguarda l’ottenimento di concessioni da Israele, Hamas ottenne il rilascio di oltre mille prigionieri palestinesi detenuti da Israele in cambio del soldato israeliano rapito Gilad Shalit. Un altro successo presentato all’opinione pubblica palestinese fu la performance di Hamas nella guerra contro Israele nell’estate del 2014 sebbene, a causa del blocco, le condizioni di vita all’interno della Striscia stessero progressivamente peggiorando. Nel frattempo, ci furono una serie di tentativi di riconciliazione tra Hamas nella Striscia di Gaza e l’Autorità Palestinese guidata da Fatah in Cisgiordania. In uno di questi tentativi, nel 2014, il governo di Hamas si dimise formalmente per far posto a un governo di unità nazionale con Fatah. Così facendo, Haniyeh rinunciò al suo incarico di primo ministro pur mantenendo quello di capo politico locale, fino a quando non venne sostituito da Yahya Sinwar nel 2017. Dopo pochi mesi, Haniyeh venne eletto capo dell’ufficio politico di Hamas, in sostituzione di Khaled Meshaal.
Nel dicembre 2019 Haniyeh lasciò la Striscia
di Gaza, trasferendosi all’estero, tra Turchia e Qatar, facilitando la sua capacità di rappresentare Hamas
all’estero. Tra le sue visite più importanti si citano il funerale di
Qassem Soleimani, un alto comandante del Corpo delle guardie rivoluzionarie
islamiche iraniane (Irgc) ucciso da un attacco di droni statunitensi nel gennaio 2020, l’insediamento del presidente
iraniano Ebrahim Raisi nell’agosto 2021 e il suo funerale il 23 maggio 2024.
Nello stesso anno, mentre le truppe statunitensi si ritiravano
dall’Afghanistan, Haniyeh chiamò il capo dell’ufficio politico e negoziatore
dei talebani, Abdul Ghani Baradar, per congratularsi con lui per il successo
nell’aver posto termine all’occupazione statunitense nel Paese. Nell’ottobre
2022 Haniyeh incontrò il presidente siriano Bashar al-Assad; quello fu il primo
incontro tra i leader di Hamas e
della Siria dalla rottura all’inizio della guerra civile nel 2011. In un raid israeliano a Gaza, il 10
aprile 2024, morirono tre dei suoi figli; un altro era morto in un precedente
attacco israeliano il 17 ottobre 2023.
Mahmoud Zahar: il
possibile sostituto di Ismail Haniyeh
La decisione di nominare il nuovo capo politico di Hamas spetta al consiglio della shura del movimento. Molto dipenderà dai nuovi equilibri politici determinati dal peso della rinforzata leadership militare che guida le brigate di HamasIzz ad-Din al-Qassam nella Striscia di Gaza.
Mahmoud Zahar è considerato uno dei leader più importanti di Hamas e membro della leadership politica del movimento: è uno dei principali candidati a sostituire Ismail Haniyeh. Frequentò la scuola a Gaza e l’università al Cairo, per poi lavorare come medico a Gaza e Khan Younis, fino a quando le autorità israeliane lo licenziarono in relazione al suo ruolo politico. Detenuto nelle carceri israeliane nel 1988, nel 1992 fu tra i deportati da Israele nella terra di nessuno, in Libano, dove vi trascorse un anno. Con la vittoria di Hamas alle elezioni del 2006, Zahar entrò a far parte del Ministero degli Affari Esteri nel nuovo governo del primo ministro Ismail Haniyeh.[4] Israele tentò di eliminarlo nel 2003, quando un aereo bombardò la sua casa nella città di Gaza. Sopravvisse all’attacco, nel quale però morì il figlio maggiore, Khaled. Il suo secondo figlio, Hossam, che era un membro delle brigate Izz ad-Din al-Qassam, venne ucciso in un successivo attacco aereo a Gaza nel 2008.
[1] Berti B. (2013), Armed Political
Organizations: From Conflict to Integration, Johns Hopkins University Press.
[2] Hroub K. (2010), Hamas: A
Beginner’s Guide, London: Pluto Press.
[3] C. Bertolotti (2024),
Gaza Underground: la guerra sotterranea e
urbana tra Israele e Hamas: Storia, strategie, tattiche, guerra cognitiva e
intelligenza artificiale, START InSight ed., Lugano, pp. 40-44.
[4] C. Bertolotti (2024),
Gaza Underground: la guerra sotterranea e
urbana tra Israele e Hamas: Storia, strategie, tattiche, guerra cognitiva e
intelligenza artificiale, START InSight ed., Lugano, p. 40-44.
Gaza underground: la guerra sotterranea e urbana tra Israele e Hamas (dal libro di C. Bertolotti)
L’uso dei tunnel nelle guerre non è nuovo. La ricerca di vantaggi attraverso l’utilizzo di spazi naturali o artificiali nel sottosuolo è antica quanto la guerra stessa: dalle storie di tunnel utilizzati per vincere enormi battaglie nella Bibbia, alla guerra “di caverna” della Grande Guerra, agli spazi sotterranei che diventano fattori chiave per le battaglie urbane contemporanee, come Mariupol e Bakhmut nella guerra in Ucraina. Le nazioni moderne, tra cui gli Stati Uniti, la Cina e la Corea del Nord, investono miliardi in bunker militari e complessi di tunnel sepolti in profondità. E, infatti, si valuta che la Cina abbia tremila miglia di tunnel e bunker in grado di resistere agli attacchi nucleari in una rete che è stata chiamata la “Grande Muraglia sotterranea”; alcune stime confermano che la Corea del Nord avrebbe oltre cinquemila tunnel e infrastrutture che includono più basi aeree sotterranee con piste, siti radar e porti sottomarini all’interno delle montagne costiere. Ma ciò che Israele ha affrontato a Gaza rappresenta una novità unica nella guerra, vale a dire, un caso in cui i tunnel costituiscono uno dei due pilastri, insieme al tempo, della strategia politico-militare di un combattente. Un complesso che per vastità, struttura, complessità e “potere impeditivo intrinseco” rappresenta un qualcosa che un esercito moderno non ha mai affrontato nella storia
Keywords: Israele, Hamas.
La
svolta urbana negli affari militari e strategici
Le città rappresentano il contesto più impegnativo per le forze militari, e la guerra urbana è la forma di conflitto più devastante. Tuttavia, le forze armate spesso si trovano impreparate ad affrontare le sfide poste dai teatri di battaglia con alta densità di popolazione e finiscono inevitabilmente coinvolte in scontri urbani estremamente brutali. Nel libro Understanding Urban Warfare, gli autori Liam Collins e John Spencer analizzano la guerra urbana, evidenziandone le sfide uniche: dai limiti imposti dal terreno tridimensionale che condiziona l’uso di molti sistemi d’arma, alla presenza di numerosi punti di fuoco nemici all’interno delle infrastrutture urbane (come strade e vicoli), fino alla necessità cruciale di ridurre al minimo le vittime civili e di proteggere le infrastrutture critiche e il patrimonio culturale. .[1] Le città, considerate come teatro di conflitto, presentano opzioni di manovra diverse – e spesso difficili da prevedere – a seconda del tipo di area urbana, che può variare tra megalopoli, città metropolitane, periferiche, conurbazioni o persino smart city. Le caratteristiche specifiche di ciascuna di queste aree possono avere un impatto significativo sulle operazioni militari nel loro insieme.
Numerose battaglie urbane recenti – dalla Battaglia di Mogadiscio nel 1993 alla Seconda Battaglia di Falluja in Iraq nel 2004, passando per la Battaglia di Shusha nel 2020 durante la Seconda Guerra del Nagorno-Karabakh, fino a Mariupol nel 2022 e Bakhmut nel 2023 nel contesto della guerra russo-ucraina – offrono tendenze e lezioni preziose per una migliore comprensione della guerra urbana. In un mondo sempre più urbanizzato, è probabile che i futuri conflitti assumano un carattere sempre più orientato verso scenari urbani.
Negli ultimi anni, con l’evoluzione dei più recenti conflitti, è emerso un vivace dibattito all’interno delle comunità accademica e militare riguardo alla cosiddetta “svolta urbana negli affari militari e strategici”. Tuttavia, esistono diverse interpretazioni su ciò che sta accadendo, sui motivi di questi cambiamenti e sul loro possibile impatto sul quadro complessivo della sicurezza. Una delle tendenze più consolidate in questa discussione è la teoria di una “nuova urbanistica militare”. [2] descritta da Stephen Graham nel suo saggio intitolato Cities under siege: the new military urbanism. Nel libro, l’autore argomenta che i principali eserciti mondiali stanno mostrando un rinnovato interesse per il combattimento in ambienti urbani. Inoltre, sottolinea lo sviluppo di nuove tecnologie e tecniche specifiche per la guerra nei centri abitati. Un aspetto particolarmente significativo evidenziato dall’autore è che queste tecnologie, insieme a nuove tattiche, tecniche e procedure, stanno già iniziando a essere adottate non solo dalle forze armate, ma anche dalle forze di sicurezza interna, dopo essere state testate in recenti teatri operativi come Siria, Afghanistan e Iraq. .[3]
Città
sotto assedio
La letteratura accademica in tale ambito, non scevra da rilevanti critiche,
tende ad identificare in tre Paesi in particolare – Israele, Stati Uniti e Regno Unito – gli
attori principali di un progetto di acquisizione di capacità militari in ambito
urbano. Il geografo Stephen Graham, a cui abbiamo fatto accenno, nel suo
libro Cities under siege ha descritto quello che sarebbe un
processo di rapida implementazione di un «sistema ombra di ricerca urbana
militare»[4] volta ad acquisire competenze nella gestione e nel controllo delle aree ad
alta densità di popolazione e delle crisi che in esse dovessero emergere.
Le più recenti preoccupazioni per la sicurezza delle città, in particolare
quelle associate alle minacce asimmetriche emergenti, evidenziano l’adattamento
delle tecniche militari agli ambienti urbani. Nel 2015, Londra fu teatro di una
massiccia esercitazione antiterrorismo che simulava attacchi simili a quelli di
Mumbai o Parigi, riconoscendo la gravità della minaccia in contesti urbani.
Nonostante le critiche, la condivisione di strategie e ammaestramenti tra forze
militari internazionali si è progressivamente estesa e aperta, coerentemente
con una visione improntata alla realpolitik,
coinvolgendo anche accademici in seminari e wargame.
Ma la “nuova urbanistica militare” rimane un concetto ancora sfuggente;
esperti e militari concordano sulla mancanza di una visione chiara in questo
ambito. I wargame e le simulazioni,
pur tentando di affrontare il combattimento urbano, spesso si rivelano
inefficaci, mentre il timore e il tentativo di evitare la guerriglia urbana
sono aspetti storicamente consolidati e ben radicati negli staff degli stati maggiori militari, riecheggiati da Sun Tzu, che
consigliava di «combattere in città solo come ultima risorsa».[5]
I dilemmi della guerra urbana sono numerosi e complessi, spaziando dalla
gestione del comando in un ambiente frammentato, alla manovra sicura delle
forze, fino al mantenimento della capacità intelligence
in aree densamente popolate. La sfida è bilanciare la necessità tattica con
l’obiettivo strategico generale, evitando danni ai civili e alle infrastrutture.
Con le città che diventano sempre più interconnesse, ignorare gli ambienti
urbani non è una strategia sostenibile a lungo termine: un fattore dinamico che
solleva questioni rilevanti su capacità di controllo, rischio di crisi
umanitarie e gestione della comunicazione.
La
rivoluzione dell’intelligenza artificiale.
In relazione alla necessità di identificare la posizione di elementi
nemici, un contributo sempre più significativo è dato dall’uso crescente
dell’intelligenza artificiale (AI, Artificial
Intelligence) che ha il potere di trasformare le operazioni militari,
specialmente nelle complesse aree urbane, migliorando il targeting e riducendo i danni collaterali tramite algoritmi
avanzati che processano dati da diverse fonti. Innovazioni come il
riconoscimento facciale e l’analisi comportamentale predittiva consentono di
identificare minacce specifiche, mentre l’AI facilita la distinzione tra
obiettivi civili e militari. Ma nonostante il suo potenziale, l’uso dell’AI in
ambito militare solleva però questioni etiche, sottolineando l’importanza della
supervisione umana per assicurare che le operazioni rispettino i principi etici
e umanitari. La guerra Israele-Hamas a Gaza lo ha dimostrato con violenta
evidenza, come avremo modo di descrivere nel libro, così come ha dimostrato di essere, da un punto di vista
militare, il primo evento di una “nuova epoca” in termini di strategie,
tecniche di combattimento e tecnologie applicate al campo di battaglia, in
particolare in relazione all’impiego massiccio dell’intelligenza artificiale
attraverso il softwareLavender, dove la macchina ha imparato a
combattere grazie all’uomo, che con un algoritmo l’ha addestrata a discernere
quale sia un obiettivo nemico da quelli che non lo sono. L’operazione Iron Swords, avviata da Israele in conseguenza dei tragici eventi del 7 ottobre 2023,
ha plasmato un pezzo di questa nuova epoca, definendo un nuovo “anno zero” dei
conflitti armati. Sebbene l’AI non abbia ancora
innescato una rivoluzione negli affari militari (Rma, Revolution in Military Affairs), ha indubbiamente portato
cambiamenti significativi: dall’abilitazione di capacità multidominio e sistemi
di sistemi alla riduzione di spazio e tempo, l’AI detiene un potenziale
immenso.
I conflitti e le guerre
propriamente dette si stanno dunque trasformando ed è difficile dare un
contorno definito e chiaro di ciò che ci aspetterà in futuro, sul come e dove
si svilupperanno le guerre, quali saranno i campi di battaglia primari e,
ancora, quali saranno le dinamiche di spazio e tempo che determineranno la
condotta delle operazioni militari. Eppure, dalle montagne dell’Afghanistan al
deserto della Siria passando per le pianure ucraine, la direzione sembra essere
quella di un significativo prevalere degli scontri all’interno delle aree
urbane ad alta densità di popolazione, con particolare riferimento alle
metropoli che si stanno formando in conseguenza di tendenze sociali e
demografiche ormai ben definite: l’aumento della popolazione, la crescente
urbanizzazione, lo sviluppo costiero e la sempre più rilevante connettività
globale.
È in tale tipologia di scenario
che i conflitti del futuro prenderanno forma, con attenzione alle metropoli
costiere, alle periferie urbane sempre più fuori dal controllo statale, in
particolare nel continente africano, in Medioriente, America Latina e Asia. Le
città, più che le nazioni, costituiranno l’elemento centrale per l’analisi dei
futuri conflitti e la resilienza, anziché la stabilità, sarà il fine primario
da perseguire. In tali realtà assumeranno un ruolo sempre più forte e
determinante i Non-State Armed Groups
(NSAGs) in una competizione sempre più accesa con lo Stato e con altri gruppi
non statali per il controllo del territorio, delle popolazioni e delle risorse
spesso illegali. Tra questi attori si imporranno i cartelli della droga, le
bande e i signori della guerra, sfruttando il supporto delle comunità locali,
offrendo opportunisticamente sicurezza e servizi, anche sociali, così da
rispondere alle istanze delle popolazioni target
e affini creando un rapporto di fiducia e dipendenza.[6]
Le città sono dunque in procinto
di divenire oggetto primario della dottrina militare come nuovo campo di
battaglia in un mondo sempre più urbano: dalle baraccopoli del Sud globale alle
aree ad alta densità del Medioriente, ai ricchi centri finanziari
dell’Occidente. Un quadro, in fase di definizione, in cui le forze armate e di
sicurezza occidentali tendono sempre più a percepire il terreno urbano come una
zona di conflitto abitata da nemici ombra pronti a colpire. Gli abitanti delle
città si trasformano così in bersagli che devono essere tracciati, scansionati
e controllati. In questo senso alcuni tra i più lungimiranti eserciti
occidentali hanno iniziato un processo di trasformazione in forze urbane di
contro-insurrezione ad alta tecnologia, coerentemente con gli obiettivi e le
ambizioni dei rispettivi governi.
Oggi stiamo osservando i prodromi
di ciò che sarà. La guerra Israele-Hamas sta ponendo all’attenzione di analisti
e militari le numerose sfide che una guerra in un contesto urbano imporrà in
maniera sempre più rilevante agli eserciti impegnati in guerra. E la dimensione
sotterranea – l’altro fronte urbano – è forse quella più pericolosa poiché, a
fronte delle criticità nel riuscire a identificare la presenza di tunnel, vie di
accesso occultate, depositi e bunker sotterranei, si impone la difficoltà nel
riuscire a decifrare la possibile azione del nemico, la direzione dell’attacco
e la sua dimensione.
L’uso dei tunnel nelle guerre non
è nuovo. La ricerca di vantaggi attraverso l’utilizzo di spazi naturali o
artificiali nel sottosuolo è antica quanto la guerra stessa: dalle storie di
tunnel utilizzati per vincere enormi battaglie nella Bibbia, alla guerra “di
caverna” della Grande Guerra, agli spazi sotterranei che diventano fattori
chiave per le battaglie urbane contemporanee, come Mariupol e Bakhmut nella
guerra in Ucraina. Le nazioni moderne, tra cui gli Stati Uniti, la Cina e la
Corea del Nord, investono miliardi in bunker
militari e complessi di tunnel sepolti in profondità. E, infatti, si valuta che
la Cina abbia tremila miglia di tunnel e bunker in grado di resistere agli
attacchi nucleari in una rete che è stata chiamata la “Grande Muraglia
sotterranea”; alcune stime confermano che la Corea del Nord avrebbe oltre
cinquemila tunnel e infrastrutture che includono più basi aeree sotterranee con
piste, siti radar e porti sottomarini all’interno delle montagne costiere.[7]
Ma ciò che Israele ha affrontato
a Gaza rappresenta una novità unica nella guerra, vale a dire, un caso in cui i
tunnel costituiscono uno dei due pilastri, insieme al tempo, della strategia
politico-militare di un combattente. Un complesso che per vastità, struttura,
complessità e “potere impeditivo intrinseco” rappresenta un qualcosa che un
esercito moderno non ha mai affrontato nella storia. Ma più che per le
dimensioni dei tunnel, la guerra tra Israele e Hamas è la prima guerra in cui
un combattente ha fatto della vasta rete sotterranea un fulcro della propria
strategia politico-militare complessiva.[8] Tutti aspetti, e minacce, che le Israel
Defense Forces (Idf, Forze di difesa di Israele) hanno dovuto affrontare
nella condotta delle operazioni terrestri nella Striscia di Gaza, con maggiore
intensità a partire dall’ottobre 2023.
Parallelamente, e in maniera inestricabilmente
associata, si sono imposti e si imporranno sempre più gli effetti mediatici,
comunicativi e di propaganda associati alla presenza di civili sul campo di
battaglia e ai pericoli ai quali sono soggetti. Pericoli che sono indubbiamente
concreti, ma che vengono sfruttati dalla parte in difficoltà per additare
all’opinione pubblica globale la condotta di azioni non rispettose del diritto
umanitario.
La guerra che ha travolto la
Striscia di Gaza e, in particolare, l’area urbana ad alta densità di popolazione
della città di Gaza, è paragonabile ai combattimenti osservati nella guerra
russo-ucraina iniziata nel 2022, in particolare nella città di Mariupol, nel
sud dell’Ucraina, o nella battaglia per Mosul tra le forze irachene e il
cosiddetto Stato islamico nel 2016 e 2017. Un parallelismo che ovviamente non
si limita all’osservazione dei combattimenti veri e propri, ma che si estende
alla sfera della comunicazione e dell’informazione dove la capacità militare di
muovere unità sul terreno e di conquistare capisaldi difensivi passa in secondo
piano rispetto agli effetti della propaganda e delle false informazioni diffuse
in maniera virale attraverso il Web.[9]
Sul fatto che Israele abbia
dimostrato di avere la capacità di vincere sul piano tattico la guerra ci sono
pochi dubbi: almeno sul piano convenzionale la conquista di Gaza ha anticipato
la sconfitta militare di Hamas, nonostante le difficoltà intrinseche della
dimensione sotterranea della guerra urbana.[10] Ma fino a che punto Israele è stato in grado di limitare gli effetti
collaterali di una guerra concentrata in una città ad altissima densità di
popolazione, e caratterizzata da una minaccia intrinseca nella dimensione
sotterranea, dove la stessa popolazione è stata indotta o obbligata da Hamas a
rimanere in funzione di “scudo umano” in prossimità di obiettivi militari
spesso coincidenti con infrastrutture sanitarie, scolastiche e religiose? E
ancora, in quanto tempo e a fronte di quali sacrifici Israele ha raggiunto
l’obiettivo di eliminare, ancorché solo parzialmente, la minaccia di Hamas
attraverso la condotta di un’operazione militare molto impegnativa e onerosa?
Quali gli insegnamenti storici e le lezioni apprese che condizioneranno la
revisione della dottrina militare per la guerra urbana e sotterranea?
Queste sono le domande alle quali
daremo risposta nel libro, scritto utilizzando fonti di archivio, in
particolare gli studi del genio statunitense relativi alla guerra dei tunnel in
Viet Nam, e di pubblicazioni tecniche di esperti e funzionari del Ministero
della Difesa israeliano, testimonianze dirette e la, seppur non ampia,
specifica letteratura scientifica, con particolare attenzione alle dinamiche e
ai fattori rilevanti a livello tattico, operativo e strategico.
[1] Collins L,
Spencer J. (2022), Understanding Urban
Warfare, Howgate Publishing Limited, pp. 392.
[2] Graham S.
(2011), Cities Under Siege: The New
Military Urbanism, Paperback, Verso Books, pp. 432.
[3] Betz D., Peering into the past and future of urban
warfare in Israel, Commentary War on the Rocks, 17 dicembre 2015, in
https://warontherocks.com/2015/12/peering-into-the-past-and-future-of-urban-warfare-in-israel/.
[5]
Sun Tzu, L’arte della guerra, (a cura
di) Jialin H., J., Luraghi R (1995), Stato Maggiore dell’Esercito, Roma 1995,
p. 43.
[6] Kilcullen
D. (2015), Out of the Mountains: The
Coming Age of the Urban Guerrilla, Oxford University Press, pp. 352.
[7] Spencer
J., Gaza’s underground: Hamas’s entire
politico-military strategy rests on its tunnels, Modern War Institute at
West Point, 18 gennaio 2024, in:
https://mwi.westpoint.edu/gazas-underground-hamass-entire-politico-military-strategy-rests-on-its-tunnels/.
[9] Hofmann
F., How Israel is training for urban
warfare, Deutsche Welle, 18 ottobre 2023, in
https://www.dw.com/en/how-israel-is-training-for-urban-warfare/a-67134424.
Terrorismo: lo Stato islamico e i campionati di calcio.
di Claudio Bertolotti. Dall’intervista di Giampaolo Musumeci per Radio 24 – Nessun Luogo è Lontano del 9 aprile 2024.
Il Cairo, 9 apr. (Adnkronos) – Il sedicente Stato Islamico, tornato a spaventare l’Europa dopo l’attentato a Mosca, ha minacciato di lanciare un attacco contro i quattro stadi in cui da stasera si disputeranno i quarti di finale di Champions League. Al-Azaim, uno degli organi di propaganda dell’Isis, ha confermato queste intenzioni pubblicando l’immagine dei quattro stadi in cui si disputeranno le partite di andata – il Parco dei Principi di Parigi, il Santiago Bernabeu di Madrid, il Metropolitan sempre di Madrid e l’Emirates di Londra – accompagnata dalla didascalia “Uccideteli tutti”.
Una necessaria premessa: l’esperienza dell’ISIS, così come l’abbiamo conosciuta in Iraq e Siria si è conclusa nel giugno 2014 con la proclamazione del Califfato da parte di al-Baghdadi e l’istituzione dello Stato islamico. L’ISIS non esiste più, al suo posto lo Stato islamico dunque. Non è una precisazione da poco, perché segna l’avvio dell’epoca post-territoriale del movimento, quella che stiamo osservando e subendo oggi, sia in Occidente, sia in Medioriente come dimostra la forza sempre più manifesta di questo gruppo in particolare in Siria e Afghanistan.
Quanto seria è questa minaccia? Ricordiamo una allerta simile il 30 marzo in Germania.
Un primo aspetto. In questo caso, come nella maggior parte degli episodi, non è lo Stato islamico ma i suoi gruppi affiliati a chiamare alla lotta. E quella attuale sembra non tanto una avvisaglia quanto un appello a colpire, e dunque non una minaccia diretta. Anche perchè, come ci ha dimostrato la storia recente dello Stato islamico e dei suoi affiliati in franchise, quando il gruppo colpisce lo fa senza preavvertire – di fatto sfruttando l’effetto sorpresa per ottenere il massimo dei risultati. Quanto accaduto in Russia ne è una conferma. Però, e questo è il secondo aspetto, coerentemente con gli attacchi degli ultimi anni, attribuiti o rivendicati dallo Stato islamico, è l’appello a colpire che viene colto da singoli soggetti, o più raramente da parte di piccoli gruppi, spesso disorganizzati o scarsamente organizzati, che costituisce la forza propulsiva del gruppo che, di norma e per evidente opportunità, rivendica solamente quelli di successo, una minima parte, non citando quelli invece più numerosi che si concludono con un risultato fallimentare.
Dopo l’attentato a Mosca, queste minacce e l’arresto ieri a Roma di un tajiko ex miliziano Isis, ci sono a tuo parere le condizioni per capire quale sia la strategia dell’Isis? Sta rialzando la testa? Riacquisendo forza?
Lo Stato islamico sta rialzando la testa, e lo sta facendo in maniera dirompente ed efficace, riportandoci sul piano emotivo e del terrore ai terribili anni 2015-2017 quando l’Europa fu travolta da una serie di eventi dirompenti, a loro volta in grado di riportare le emozioni agli attacchi dial-Qa’idain Europa del 2004, a Madrid e a Londra. Oggi è sufficiente guardare alla Siria, dove si pensava – complici anche i riflettori mediatici rivolti altrove – che lo Stato islamico fosse stato sconfitto: non è così. Al contrario, l’aumento progressivo di attacchi dello Stato islamico, gli assalti continui e ripetuti alle carceri per liberare i combattenti detenuti dal regime siriano, la capacità di colpire sostanzialmente ovunque. È un campanello d’allarme che suona molto forte e che anticipa una nuova ondata che si autoalimenta: dalla retorica della vittoria talebana in Afghanistan, alla competizione con i talebani, all’aumentare degli affiliati, singoli e gruppi dal Medioriente al Sud-Est asiatico, fino all’Europa. Non uno Stato islamico ex-novo, ma è un fenomeno che si sta risvegliando.
Biden: lo stato dell’Unione.
di Melissa de Teffé
Nel suo discorso sullo Stato dell’Unione al Congresso, il Presidente Joe Biden ha sorpreso tutti per il tono combattivo e aggressivo, in netto contrasto con le sue consuete apparizioni sempre pacate.
Come noto il secondo articolo della Costituzione americana richiede al capo dell’esecutivo di presentare un rapporto scritto, letto a camere unite, sullo Stato dell’Unione, non solo raccontando i successi ottenuti, ma elencando quali misure adottare per risolvere sfide e problematiche nazionali. Biden invece ha fatto una scelta comunicativa insolita, mirata a dissipare i dubbi sulla sua idoneità al ruolo, dati i suoi 81 anni, è attualmente il presidente più anziano nella storia degli Stati Uniti. Una delle battute più divertenti seppur sarcastica, dei media americani è stata: “Qualunque cosa abbiano dato a Biden, ogni uomo, donna e qualsiasi altra persona americana dovrebbe essere autorizzato a prender-lo,” insomma un po’ di pesante ironia nei confronti di 68 “intensi” minuti di discorso, ma che in realtà sono stati più un’ accalorata arringa contro l’amministrazione precedente che la consueta, storica presentazione a cui siamo abituati.
Biden ha aperto il suo discorso paragonando l’attuale periodo storico sia a quello di Lincoln durante la guerra civile che al discorso di Delano Roosevelt del 1941, in piena seconda guerra mondiale. Questa audace dichiarazione, che sembra quasi un j’accuse contro i repubblicani, parrebbe voler definirsi come l’unico vero paladino, difensore supremo, della “vera” democrazia.
Tra i temi principali affrontati, spicca in primis, la richiesta d’inviare il prima possibile i finanziamenti all’Ucraina, (60 miliardi di $) che erano inclusi nella legge sull’immigrazione e l’asilo politico, bocciata il mese scorso; proseguendo, altro punto molto antipatico e scottante è stata la critica ai giudici della Corte Suprema, per altro presenti come gesto di rispetto e cortesia, e seduti in prima fila, per aver ribaltato il famosissimo caso Roe vs Wade sull’aborto, promettendo che, se rieletto, sarebbe certamente riuscito a influenzare la Corte Costituzionale e a capovolgere la loro decisione. Sicuramente” non solo un affronto ma una manifestazione arrogante da parte di un presidente”, dice il noto commentatore politico Ben Shapiro.
Altro punto chiave riguarda la lotta contro l’inflazione, dove Biden certo del prossimo abbassamento dei tassi di interesse incentiverebbe il settore immobiliare con una regalia mensile di $400 per due anni consecutivi sugli acquisti di nuove proprietà. Inoltre Biden non si fa sfuggire l’opportunità di attribuire il problema dell’inflazione al suo predecessore. Pure il Wall Street Journal non ne è convinto, infatti la “shrinkinflation” ossia l’inflazione ristretta, così definita da Biden, che porta come esempio la riduzione dei quantitativi di patatine o pezzetti di dolcetti da parte dei produttori di merendine e patatine, senza però aver cambiato la grandezza del sacchetto, viene denigrata da questo titolo: “Il Presidente non sa nulla su come funzioni l’economia privata”.
Sul fronte dell’immigrazione, il Presidente afferma che gli immigrati sono anch’essi cittadini americani e ancora una volta attribuisce la crisi al confine alla precedente amministrazione. Durante l’amministrazione del presidente Joe Biden, oltre 7,2 milioni di migranti sono entrati illegalmente negli Stati Uniti. Questa cifra supera la popolazione di 36 stati degli Stati Uniti. (fonte CBP- Customs and Border Protection, Factcheck.org ecc.)
Il numero di 7,3 milioni rappresenta una parte significativa della popolazione di diversi stati di grandi dimensioni: 18,7% della popolazione della California (39 milioni di abitanti); 23,9% della popolazione del Texas (circa 31 milioni di residenti), 32,3% della popolazione della Florida, 37,3% della popolazione di New York. È importante notare che questa cifra totale di 7,3 mill. non include un ulteriore (stimato) 1,6 milioni di immigrati indocumentati che sono entrati negli Stati Uniti da altre località, né 1,8 milioni di “fuggitivi” noti, sfuggiti alle forze dell’ordine. Considerando questi numeri aggiuntivi, il totale sarebbe persino superiore alla popolazione di New York.
I critici dell’amministrazione Biden sostengono che questo aumento senza precedenti dell’immigrazione illegale non sia casuale, ma piuttosto il risultato di scelte politiche deliberate . Oltre ai vari applausi che hanno visto il vicepresidente alzarsi quasi ad ogni frase per applaudire, la prima interrompere al discorso è stata della rappresentante Marjorie Taylor Greene (R-Ga.) che ha gridato: “e l’omicidio di Laken Raley?”, che Biden forse già stanco, la ribattezza Lincoln Riley, un noto allenatore di football recentemente su tutti i giornali per i recenti successi sportivi.
Non poteva mancare un accenno alle politiche transgender che stanno da mesi infiammando gli animi di questa nazione per la partecipazione di maschi transgender fra le fila sportive femminili Anche qui, Biden le supporta facendo uno specifico accenno anche alle politiche di “trasformazione, o cambio di sesso”, dedicate ai più giovani. La broche di chiusura al discorso è ovviamente una ennesima critica al suo rivale politico, su quanto avvenuto il 6 gennaio di tre anni fa, prima del giuramento presidenziale, paragonando l’insurrezione all’invasione dell’Ucraina da parte di Putin.
Da giovedì tutte le affermazioni di Biden sono oggetto di dubbi e controversie, specialmente in relazione alle dichiarazioni sulla diminuzione della criminalità. Questa posizione è stata messa in discussione da fatti evidenti, come la decisione da parte del governatore dello Stato di New York insieme al sindaco di New York, Adams, di aumentare il numero delle forze dell’ordine soprattutto lungo i diversi percorsi della metropolitana, oggi soggetti a rapine e illeciti di ogni tipo. Il governatore in concerto con il sindaco, oltre aver aumentato il numero degli agenti di polizia, ha aggiunto 1000 soldati della guardia nazionale. Inoltre tutte le forze dell’ordine sono state autorizzare a perquisire qualsiasi borsa o valigia. Queste misure di sicurezza sono in risposta all’ aumento del 45% dei reati registrati questo gennaio rispetto all’anno precedente.
Ultimo a intervenire dal pubblico interrompendo il discorso del presidente urlando: “ Si ricordi di Abbey Gate”, è stato il padre di uno dei 13 marines uccisi durante la tragica evacuazione dall’Afghanistan). Allontanato subito dall’aula e arrestato, il grido è caduto nel vuoto. Più fortunati invece alcune decine di manifestanti che hanno tentato di bloccare l’accesso al Capitol in difesa dei palestinesi. Nessuno è stato ammonito o ammanettato.
L’infelice stato dell’Unione, definito così da molti è purtroppo facile da constatare, basti guardare la quantità di senza tetto, drogati e malati mentali in diverse città dell’unione, da Los Angeles, a Philadelphia, da Portland a San Francisco, da Chicago a Austin; l’assenza di una politica migratoria, le dimostrazioni anti-semite nei più prestigiosi campus universitari, che hanno visto il licenziamento dei rispettivi presidenti; ancora le feroci sparatorie su innocenti durante festeggiamenti, l’inflazione alta e un mercato immobiliare fermo.
Analizzando i sondaggi a ridosso del discorso presidenziale, secondo Hanson, classicista, storico militare e opinionista politico, Trump è in testa, soprattutto considerando quelle fasce di elettori che storicamente hanno sempre votato democratico. Questi risultati positivi per Trump tra gli afroamericani, i latinos e le donne delle zone rurali o suburbane sono una reazione alle insufficienze di questa amministrazione. Nel paese si percepisce un’atmosfera di malessere e dolore che politicamente si riflette sul presidente, da sempre individuato come il colpevole principale.
Migrazioni: conflitti e soluzioni. Giornata di studio a Roma
Segnaliamo la quinta edizione de “La Comunicazione su migranti e rifugiati tra solidarietà e paura” promossa dall’Associazione ISCOM insieme con il Comitato “Informazione, migranti e rifugiati” e la collaborazione della Pontificia Università della Santa Croce
mercoledì 21 febbraio 2024 dalle 9.30 alle 13.30 aula magna “Giovanni Paolo II” (piano -1) Pontificia Università della Santa Croce Piazza di Sant’Apollinare 49, Roma link
“La giornata offre una nuova occasione di confronto tra autorità, accademici, giornalisti e responsabili di organizzazioni umanitarie per mettere a fuoco le sfide del sistema dei media e per contribuire a una informazione più accurata nella lettura e nella rappresentazione del fenomeno migratorio. Con particolare attenzione all’etica e alla deontologia della professione giornalistica, l’iniziativa si rivolge in primo luogo agli operatori dell’informazione e ai responsabili della comunicazione di istituzioni ecclesiali ed educative impegnate sul tema. L’iniziativa è valida ai fini della formazione professionale continua dei giornalisti.”
Programma
Presenta Antonino Piccione, Comitato “Informazione, migranti e rifugiati”
9.30 Saluti istituzionali S.E. Mons. Gian Carlo Perego, Presidente Commissione per le Migrazioni, Conferenza Episcopale Italiana
9.45 Relazione introduttiva “Liberi di scegliere se migrare o restare” Padre Fabio Baggio, Sottosegretario Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale
10.00 Guerre, terrorismo, lavoro – Laurence Hart, Direttore OIM Italia – Rocco Iodice, Università di Napoli Federico II – Claudio Bertolotti, ISPI Modera Francesca Cuomo, Centro Astalli
11.00 Pausa
11.30 L’umanità dei Corridoi – Cesare Giacomo Zucconi, Segretario generale Comunità di Sant’Egidio – Alessandra Trotta, Moderatora della Tavola Valdese, Unione delle chiese valdesi e metodiste – Riccardo Noury, Amnesty International Italia Modera Vincenzo Lino, Harambee Africa International
12.30 Il racconto giornalistico del fenomeno migratorio: linguaggio, tono, deontologia – Anna Maria Pozzi, giornalista e scrittrice – Luigi Ferrarella, Corriere della Sera – Giulia Tornari, Presidente Zona Modera Raffaele Iaria, Fondazione Migrantes
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