Cause di morte per COVID19: non è l’età, ma la combinazione di alcune malattie (Chapman University)
di Steven Gjerstad e Andrea Molle – Chapman University, USA
Lo suggerisce uno studio della Chapman University statunitense, pubblicato in anteprima esclusiva da START InSight.
“È un risultato estremamente importante, non solo perché permette di valutare meglio i pazienti di COVID-19 in fase di triage. Nelle fasi successive, a partire dalla cosiddetta fase 2 fino alla produzione e distribuzione di un vaccino, sarà fondamentale prendere delle decisioni mirate a proteggere prima di tutto la parte della popolazione più esposta a gravi conseguenze. Prima del vaccino, gli individui affetti da ipertensione, diabete, malattie cardiache, se non già immuni, dovranno necessariamente essere tenuti sotto stretto controllo. Non solo in quanto soggetti a rischio, ma soprattutto perché rappresentano il primo vero campanello di allarme di una eventuale risurgenza del contagio. Sappiamo infatti che sono questi individui a presentare i sintomi più severi mentre i soggetti sani possono essere del tutto asintomatici e dunque diffondere silenziosamente il virus.”
LA RICERCA
Malattie cardiache, ipertensione, diabete, ictus e malattie del fegato: identificare la presenza di questi fattori in fase di triage aumenta la possibilità di sopravvivenza.
La reazione globale all’epidemia di COVID-19 si basa sul presupposto critico che tutte le persone di età superiore ai 60 anni affrontano un inaccettabile rischio di morte se infettate dal virus. Un’analisi dettagliata dei dati dei singoli pazienti cinesi, americani e italiani indica invece chiaramente che questa ipotesi non è corretta. La nostra ricerca prova che solo lo 0,8% di tutti i decessi correlati al coronavirus in Italia riguarda individui altrimenti sani. Il restante 99,2% dei decessi riguarda individui che avevano almeno uno, e spesso almeno altri tre, fattori di malattia. Da questa scoperta derivano implicazioni significative in termini di politica sanitaria, e per le strategie di quarantena e di triage.
Statisticamente l’età non è il fattore determinante come causa di morte. Il decorso della malattia è identico tra pazienti anziani e giovani senza morbilità.
L’epidemia di coronavirus in Italia ha messo a dura prova le risorse ospedaliere, in particolare la disponibilità letti e ventilatori per la terapia intensiva dei pazienti che soffrono di insufficienza respiratoria acuta. I primi studi di comorbidità da COVID-19 effettuati in Cina [1], Italia [2] e Stati Uniti [3] suggeriscono che i tassi di mortalità aumentano rapidamente con l’età, in particolare oltre i 60 anni. Gli stessi studi mostrano anche che i decorsi nefasti aumentano sostanzialmente con la comorbilità fattori come malattie cardiache, ipertensione, diabete, ictus e malattie del fegato [1, 4]. È noto che questi fattori di morbilità aumentano rapidamente con l’età [5, 6]. Questa nota analizza in dettaglio l’ipotesi che l’età possa non essere un fattore indipendente che aumenta la mortalità COVID-19. Tra gli anziani la maggiore incidenza di malattie cardiache, diabete, ipertensione e altri fattori di comorbilità portano ad un aumento dell’incidenza di mortalità tra i pazienti più anziani con COVID-19. La distinzione è importante per guidare al meglio le decisioni di triage per ricoveri e terapia intensiva.
un triage più efficace aumenta le probabilità di sopravvivenza
Comprendere se sono i fattori di comorbidità che portano alla morte dei pazienti affetti da COVID-19, e non l’età, aiuterà a rendere il triage più efficace se le anche persone anziane sane riceveranno un trattamento, poiché le loro probabilità di sopravvivenza sono buone. I dati offerti dall’Istituto Suoperiore di Sanità (ISS) forniscono prove che in realtà sia la comorbidità a portare alla morte i pazienti di COVID-19.
I dati forniti dall’ISS possono essere usati per confermare che l’età da sola non porta alla morte per COVID-19. Il 48,5% dei casi fatali di COVID-19 in Italia fino al 17 marzo presentava 3 o più fattori di comorbilità. Un altro 25,6% aveva 2 di questi fattori e il 25,1% aveva un fattore. Solo lo 0,8% dei pazienti non soffriva di alcuna patologia. Quest’ultima statistica è importante. Se l’età da sola fosse un fattore indipendente che porta mortalità, allora ci aspetteremmo di vedere molti più decessi tra coloro che sono anziani ma altrimenti sani. In altre parole, siccome in Italia circa il 40% di tutti i casi di COVID-19 è rappresentato da persone di età superiore ai 70 anni, la frequenza senza fattori di comorbilità sarebbe molto più elevata dello 0,8%. Se anche un quarto di quelle persone fosse in buona salute e se gli anziani in buona salute fossero realmente ad alto rischio di decesso per COVID-19, stimiamo che almeno il 10% di tutti gli incidenti mortali causati da COVID-19 sarebbe tra riscontrarsi tra persone anziane con zero fattori di comorbilità. Ma sappiamo che solo lo 0,8% delle morti è tra persone anziane senza fattori di comorbilità.
l’età non è un fattore che porta alla mortalità per COVID-19
Da ciò concludiamo che l’età non è un fattore che porta alla mortalità per COVID-19. E’ evidente che i pazienti anziani senza comorbidità non muoiono di COVID-19 e quindi le decisioni di triage che risultano nella non ammissione in ospedale di questi soggetti non incrementano la mortalità di questo gruppo di età. È probabile che questi pazienti si riprendano, ma è anche probabile che si possano riprendere più rapidamente e con meno danni fisici ricevendo qualche forma di trattamento. È inoltre improbabile che richiedano un periodo di terapia intensiva molto più lungo di un giovane sano, poiché si stanno riprendendo in modo analogo ai giovani che non presentavano fattori di comorbilità.
gli anziani senza malattie pregresse si stanno riprendendo in modo analogo ai giovani
Se questo dato venisse recepito dalle strutture sanitarie, consentirebbe un turnover dei pazienti molto più rapido. Questo a sua volta potrebbe alleviare la pressione sull’infrastruttura sanitaria italiana. Per questi motivi, riteniamo che le decisioni sul triage debbano essere prese indipendentemente dall’età del paziente. Inoltre, se il dato venisse confermato da altri studi nazionali, una politica di quarantena più efficace potrebbe essere mirata solo alle persone identificate dai loro medici di base come a rischio.
Steven Gjerstad, Economic Science Institute, Chapman University, Orange, California, 92866 USA
Andrea Molle, Department of Political Science and Institute for the Study of Religion, Economics and Society, Chapman University, Orange, California, 92866 USA
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