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DO UT DES

Di Melissa de Teffé dagli Stati Uniti
giornalista con Master in Diplomazia presso l’ISPI, esperta di politica statunitense, accreditata per START InSight presso il Dipartimento di Stato (US)

Parlare di cambiamento agli italiani non è mai semplice
 Abbiamo alle spalle una storia di trasformazioni annunciate, riforme promesse e rivoluzioni mancate. Sappiamo che il cambiamento, spesso, è servito più a conservare che a innovare. Lo sapeva bene Falconeri nel Gattopardo, quando diceva: «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi».  Eppure, oggi ci troviamo davanti a un bivio reale, che tocca il commercio globale, le relazioni internazionali e il nostro stesso modo di produrre e consumare. In questo contesto, l’appello alla calma e alla riflessione lanciato dalla Presidente del Consiglio – “Calma e valutiamo” – appare non solo opportuno, ma necessario, perché il rischio non è solo quello di sbagliare risposta: è quello di non comprendere la domanda: Quale cambiamento vogliamo?

Il protezionismo, nel corso della storia, è stato adottato da molti Paesi con obiettivi e risultati differenti. In alcuni casi ha difeso industrie nascenti, in altri ha acuito crisi economiche e isolato i mercati. Non è né uno strumento neutro, né sempre efficace, ma è sicuramente una leva politica che riflette un preciso approccio alle sfide economiche globali.

Come ha osservato Lucio Miranda, Presidente di Export USA, in una recente intervista, l’introduzione di dazi da parte degli Stati Uniti non rappresenta necessariamente una catastrofe per le imprese italiane. Miranda sottolinea che, sebbene queste misure possano avere un impatto, non è detto che conducano inevitabilmente a una recessione. Piuttosto, evidenzia come il vero fattore destabilizzante sia l’incertezza che tali politiche generano nei mercati e tra gli operatori economici. È questa sensazione di instabilità, più che le misure stesse, a poter creare difficoltà. In questo scenario, è fondamentale analizzare con attenzione le implicazioni delle politiche protezioniste degli USA, considerando sia le lezioni del passato sia le specificità del contesto attuale. Solo attraverso una valutazione ponderata e priva di allarmismi si potranno individuare le strategie più efficaci per tutelare gli interessi economici italiani e del resto del mondo.  Per comprendere meglio le implicazioni delle politiche protezionistiche nel presente, è utile volgere lo sguardo al passato. Diversi Paesi, in momenti storici critici, hanno adottato misure di protezione commerciale — dai dazi alle barriere non tariffarie — con l’obiettivo di difendere la produzione interna, rilanciare l’occupazione o rispondere a crisi economiche. Ecco una panoramica, in ordine cronologico, di alcuni dei casi più rilevanti:

  • Gran Bretagna (1815–1846)
    Dopo le guerre napoleoniche, il Regno Unito adottò le famigerate Corn Laws, che imponevano dazi sulle importazioni di grano per proteggere i produttori agricoli interni. Le leggi furono abrogate solo nel 1846, segnando una svolta verso il libero scambio.
  • Stati Uniti (1861–1934)
    Per oltre 70 anni, gli Stati Uniti mantennero tariffe doganali molto elevate per proteggere la propria industria manifatturiera. Le tariffe raggiunsero l’apice con lo Smoot-Hawley Tariff Act del 1930, che contribuì alla contrazione del commercio mondiale durante la Grande Depressione.
  • India (1947–1991)
    Dopo l’indipendenza, l’India adottò un modello autarchico noto come Licenza Raj, basato su dazi elevati, licenze di importazione e pianificazione statale. Questo sistema rallentò la crescita economica fino alla liberalizzazione degli anni ’90.
  • Giappone (1950–1980)
    Durante la ricostruzione postbellica e il boom industriale, il Giappone applicò rigide barriere non tariffarie e sussidi selettivi per proteggere settori strategici come l’automotive e l’elettronica, attirandosi critiche dalle economie occidentali.
  • Unione Europea (dal 1962 a oggi)
    Con la creazione della Politica Agricola Comune (PAC), l’UE ha adottato dazi e sussidi interni per garantire la stabilità del settore agricolo. Il sistema è stato oggetto di critiche nei negoziati internazionali, ma resta ancora in vigore, seppur riformato.
  • Cina (1980–oggi)
    Dopo le riforme di Deng Xiaoping, la Cina ha sviluppato un modello misto di apertura e protezionismo strategico, basato su barriere non tariffarie, requisiti di trasferimento tecnologico e forte sostegno statale all’industria.
  • Argentina (2003–2015)
    Sotto i governi di Néstor e Cristina Kirchner, l’Argentina impose forti restrizioni alle importazioni per tutelare la produzione interna e contenere la fuga di capitali, in un contesto di instabilità economica.
  • Stati Uniti (dal 2018)
    Con l’amministrazione Trump, Washington ha reintrodotto dazi su acciaio, alluminio e prodotti tecnologici provenienti da Cina, UE e altri Paesi. Le misure hanno innescato una serie di ritorsioni commerciali, con effetti ancora oggi parzialmente in atto.

Ma le borse stanno reagendo male! Secondo Bessent (il Segretario del Dipartimento del Tesoro), la priorità, è quella di rafforzare i fondamentali dell’economia. Questo significa garantire tasse stabili, prevedibilità per le imprese, energia abbondante e a basso costo, un processo di deregolamentazione e un trattamento equo della forza lavoro. Solo così si potrà contare su un mercato azionario forte e duraturo.

Riguardo ai dazi la loro funzione è di contrastare modelli economici alternativi come quello cinese ad esempio: “I proventi dei dazi possono essere sostanziosi. Secondo i modelli economici classici, se applichi un dazio del 10%, si stima che il tasso di cambio compensi per circa il 40% di quel valore (cioè un 4%), un altro 4% viene assorbito dal produttore straniero, e il consumatore americano subisce un impatto residuo, forse intorno al 2%.  Uno studio recente del MIT, ha mostrato che i primi dazi imposti da Trump alla Cina — circa il 20% — hanno generato un aumento generale dei prezzi di appena dello 0,7%.”

Allora bisogna chiedersi quale sia la differenza fondamentale tra le azioni protezionistiche del passato e quelle che stiamo osservando oggi. Mentre un tempo i dazi servivano quasi esclusivamente a proteggere l’industria nazionale bloccando o scoraggiando le importazioni, oggi la strategia è molto più articolata. Oggi il protezionismo non si limita ad innalzare barriere, ma punta anche ad attrarre investimenti stranieri diretti, spingendo aziende estere a costruire fabbriche direttamente negli Stati Uniti. Stiamo guardando a una forma di protezionismo “attivo”, che non si accontenta di difendere il mercato interno, ma mira a rilocalizzare la produzione e ricostruire la base industriale americana, svanita negli ultimi decenni. Un esempio concreto è rappresentato dalle case automobilistiche asiatiche ed europee che stanno aprendo nuovi stabilimenti in Texas o in Tennessee, o dai giganti della tecnologia che riorganizzano le loro supply chain per produrre qui in america.

Secondo Bessent, le prospettive future delle tariffe commerciali, per uscire da un sistema di dazi generalizzati non è l’abbattimento arbitrario ma l’incentivare il ritorno della produzione sul suolo americano: “La soluzione migliore per superare un muro di dazi è spostare la tua fabbrica: dalla Cina, dal Messico, dal Vietnam — e portala qui.”

Il piano prevede una prima fase in cui le entrate da dazi saranno sostanziali, ma nel tempo con la costruzione di fabbriche negli Stati Uniti, renderanno i dazi molto meno necessari, e di conseguenza, le entrate fiscali proverranno non più dalle tariffe, ma dalle imposte sul reddito, dai nuovi posti di lavoro e dalla crescita economica interna.

I dazi caleranno perché staremo producendo qui. E di conseguenza calerà anche il nostro deficit commerciale, che, accoppiato con una riduzione della forza lavoro federale, il contenimento dell’indebitamento pubblico, e il rilancio del settore privato, creerà le condizioni per un riequilibrio strutturale dell’economia americana, più solida, autonoma e competitiva nel lungo periodo.”

Questo approccio, si traduce anche in una politica industriale implicita, che cambia profondamente le dinamiche del commercio e dell’occupazione, con potenziali effetti a lungo termine sulla competitività del Paese.”

Mr. Bessent, intervenuto su quello che considera un cambio radicale ma necessario nella direzione economica degli Stati Uniti, ha dichiarato senza mezzi termini che il vecchio sistema non stava più funzionando: “Quando un sistema non funziona, ci vuole coraggio per cambiarlo.”

Il vecchio sistema era basato su un’economia sostenuta artificialmente da debito crescente e spesa pubblica, fosse insostenibile nel lungo periodo. “Sarebbe stato facile entrare e continuare a emettere debito, a creare posti di lavoro nel governo. Esternamente sarebbe sembrato tutto perfetto, come un culturista doppato: muscoli visibili, ma organi vitali compromessi. Ecco, stavamo uccidendo il sistema dall’interno.”

Le più gravi crisi economiche degli ultimi decenni sono, secondo lui, esempi lampanti di un’economia apparentemente florida ma profondamente fragile:

“Se guardi al 2007-2008, l’economia sembrava andare a gonfie vele — fino al crollo. Stessa cosa con la bolla del dot-com, e con i casi di frode come Enron e WorldCom. Anche lì tutto sembrava stabile… finché improvvisamente non lo è stato più.”

L’attuale amministrazione sta intervenendo prima che si arrivi a un punto di rottura, mettendo in sicurezza il sistema economico. “È come dopo l’11 settembre, quando si è scoperto che le compagnie aeree non volevano investire nelle porte blindate per la cabina di pilotaggio, perché la FAA non ha insistito abbastanza. Ora quelle porte ci sono. Noi stiamo facendo la stessa cosa: stiamo installando le porte blindate prima dello schianto.”

Come ha risposto la CINA? Quali le possibili ritorsioni?

Pechino non ha molto margine di ritorsione, per motivi strutturali.  “Se guardiamo alla storia economica — che ho anche insegnato — il Paese con il surplus commerciale, cioè la Cina, è in realtà nella posizione più debole. Noi siamo i debitori, loro i creditori, ma sono loro ad avere più da perdere.” Secondo Bessent, l’economia cinese è la più squilibrata della storia moderna. Il suo modello si basa in modo eccessivo sull’export, a livelli mai visti se rapportati al PIL e alla popolazione. “La Cina è oggi in una recessione deflazionistica, o addirittura in una depressione. Stanno cercando di uscirne esportando, ma noi non possiamo permetterglielo.”

Eppure, nonostante queste fragilità interne, Pechino ha reagito con fermezza alle nuove tariffe statunitensi. Come riportano il New York Post e il Wall Street Journal, la Cina ha risposto imponendo una tariffa del 34% su tutte le importazioni dagli Stati Uniti, in vigore dal 10 aprile 2025, e bloccando le autorizzazioni per nuovi investimenti cinesi in asset americani.

Non solo: sono state introdotte restrizioni sulle esportazioni di terre rare, materiali critici per le tecnologie avanzate, e avviata una causa presso l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) contro la Casa Bianca per violazione delle regole commerciali internazionali. Queste mosse, pur essendo simbolicamente forti, potrebbero rivelarsi più dannose per Pechino stessa, vista la sua dipendenza dalle esportazioni verso il mercato americano. Ma qual’è il “miglior scenario possibile”: “Penso che il Presidente Trump abbia infranto il modello economico cinese con questi dazi, noi produciamo di più e consumiamo meno, loro producono meno e aumentano il consumo interno. Rrterà una competizione economica, ma almeno livelleremo il campo da gioco.”

Nei prossimi anni la Cina potrebbe essere costretta a ripensare il proprio modello, che considera ormai rotto. Bessent ha anche richiamato una metafora nota nel mondo finanziario: “Se prendi un piccolo prestito da una banca, è la banca ad avere il controllo, ma se il prestito è enorme, sei tu ad avere il potere. Ecco: il deficit commerciale cinese con gli Stati Uniti è così grande che non possono fare a meno del nostro mercato.”

Invece dall’altra parte dell’oceano l’Europa dovrà ribilanciare, in quanto si trova davanti a una sfida simile a quella degli Stati Uniti. Quando Donald Trump, durante un vertice internazionale, definì “una follia” la decisione dell’Europa di costruire Nord Stream 2, aumentando la dipendenza energetica dalla Russia, Trump disse a noi europei: “ma siete pazzi? Già prendete la maggior parte dell’energia da Mosca e volete pure raddoppiare?” Sappiamo com’è finita.

IERI E OGGI – DA REAGAN A TRUMP

Nel 1980, Reagan vinse le elezioni promettendo cambiamento. Due anni dopo, l’America attraversò una recessione profonda — ma nel 1984 arrivò una delle più grandi vittorie elettorali della storia. “All’epoca si diceva che stesse impazzendo, che ‘Star Wars’ era una follia, che stava spendendo troppo, che avrebbe distrutto il bilancio federale. E invece cosa successe? Il Muro di Berlino cadde. L’Unione Sovietica crollò.”  Reagan usò la strategia sovietica contro i sovietici stessi: “Escalate to de-escalate — alzò così tanto la posta in gioco, che Mosca non riuscì a tenere il passo.”

E proprio come allora, l’obiettivo oggi non è eliminare il governo, ma renderlo più efficace: “L’ufficio guidato da Doge non serve a cancellare lo Stato, ma a renderlo più efficiente. La vera sfida è: possiamo fare meglio, con meno?”

Ma quali sono allora le differenze tra ieri e oggi?  “Io credo che questa strada funzionerà. So che quello che facevamo prima non funzionava. E ho fiducia — una fiducia altissima — che questa volta sì, ci riusciremo.” Come prova, ha citato i risultati della precedente amministrazione Trump, in particolare il fatto che molte previsioni catastrofiche non si sono avverate: “Dicevano che i dazi alla Cina avrebbero causato inflazione, che avrebbero danneggiato i lavoratori. E invece, i lavoratori a cottimo hanno guadagnato più dei supervisori. Il 50% più povero delle famiglie ha visto la propria ricchezza crescere più rapidamente del 10% più ricco.”

D’altra parte, il mestiere del Signor Bessent è quello di vendere il debito americano al mondo intero, un compito che comporta un senso di responsabilità enorme, perché non riguarda solo gli Stati Uniti, ma l’intero sistema economico globale. “Gli Stati Uniti non possono permettersi di fallire. Non possiamo permetterci di ‘andare a gambe all’aria. Quando ha assunto l’incarico, il rendimento dei titoli di Stato a 10 anni era vicino al 5% — un livello che, può diventare insostenibile per un’economia che deve rifinanziare enormi volumi di debito. “Il 5% è una soglia scomoda, sia per i mercati, sia per il Tesoro.”

Sebbene la situazione si sia parzialmente stabilizzata, Bessent continua a monitorare con attenzione tre aree di rischio:

  1. Il mancato avanzamento dei tagli alla spesa e la lotta contro sprechi, frodi e inefficienze.
  2. Il pericolo che la riforma fiscale si blocchi, con l’effetto paradossale di portare all’aumento delle tasse più grande della storia.
  3. I rischi geopolitici: Iran, Taiwan, e ogni possibile escalation internazionale che potrebbe mettere tutto a rischio.

Nonostante le criticità, Bessent si mostra fiducioso: “Abbiamo già risparmiato 100 miliardi di dollari grazie al calo dei rendimenti dal 5% a sotto il 4%. Ogni punto base vale un miliardo.”

E aggiunge: “Stiamo impostando le vele per una fase fiscale più stabile. I mercati iniziano a capirlo. E no, gli Stati Uniti non andranno in default.” Ha anche condiviso una formula semplificata per spiegare la dinamica fiscale americana:

 G = S – T, ovvero spesa meno tasse.  (G- Government Deficit; S – Spesa Pubblica, Spending; T – Taxes entrate fiscali).

“Tutti amano spendere, sia i repubblicani che i democratici. Noi vogliamo tassare meno,….e se  la spesa scendesse davvero? Nessuno ci ha mai creduto seriamente. Nemmeno Reagan… ma vogliamo fare meglio, con meno.”




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