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GUERRA E PACE NEL MEDITERRANEO: capire l’escalation turca tra l’espansionismo cinese e il riassetto degli equilibri mediorientali

di Andrea Molle

La rinnovata importanza del Mediterraneo, spesso ritenuto un teatro secondario nell’ambito dell’analisi delle Relazioni Internazionali, deriva da diversi processi di medio e lungo periodo che oggi scuotono gli equilibri geopolitici mondiali. In particolare, è la conseguenza dell’aggressiva politica commerciale cinese in Africa Subsahariana, intensificatasi nell’ultimo decennio, che vede gli stati africani, come ad esempio il Kenya e il Congo, ridotti a colonie oppure in una situazione di subordinazione de facto agli interessi del Gigante Asiatico.

A questa dinamica fa eco la volontà di Beijin di completare il progetto della Belt and Road Initiative, imponendosi come partner commerciale privilegiato delle principali potenze europee nel tentativo di creare un rapporto non di sudditanza, ma certamente di forte dipendenza, per l’Unione Europea. Ciò è reso possibile, in primo luogo, dal vuoto lasciato dalla deriva protezionista ed isolazionista dell’America guidata da Donald J. Trump che sembra priva di una strategia internazionale, ma anche dall’assenza di una direzione comune europea in politica estera come dimostra il recente smarcamento dell’Italia in favore della Cina.

L’intensificarsi dei flussi migratori, aggravati anche dai mutamenti climatici, dalla corruzione e dalla presenza di processi di radicalizzazione nel continente africano, è il sintomo più evidente della destabilizzazione, politica ed economica, risultante dalla politica espansionista cinese che ha consegnato al governo di Beijin il controllo di importanti rotte e hub commerciali. A fronte di una sostanziale erosione del tessuto economico, causata dal monopolio attuato dagli operatori economici cinesi, e dell’instaurarsi di drammatici squilibri sociali, sempre più persone abbandonano il loro paese e cercano fortuna in Europa accentuando così la crisi del continente. L’alleggerirsi della pressione demografica contribuisce, paradossalmente, a perpetuare il controllo cinese sui governi africani ed accuire la crisi e le divisioni all’interno dell’Unione Europea.

La situazione è infine acuita dall’insieme delle recenti iniziative messe in campo dalla Turchia al fine di conquistare un ruolo egemonico nel Maghreb e nel Mediterraneo orientale, apparentemente facilitato dalla comune cultura islamica di cui il paese si propone come difensore in competizione con paesi come l’Arabia Saudita, ma che è soprattutto una conseguenza del ritiro americano e dell’assenza di una voce unica europea. Nell’attesa delle dimissioni previste a fine ottobre di Fayez al-Sarraj, fino ad oggi alla guida del Governo di Accordo Nazionale (GNA) riconosciuto dalle Nazioni Unite, resta da capire quali saranno le conseguenze sulle attività Turche in Libia, ma rimane inalterata la volontà di Ankara di farsi avanti come principale interlocutore cinese approfittando della particolare congiuntura politica.

Per comprenderne meglio la strategia e non sottovalutarne le probabilità di successo, è importante considerare l’insieme delle relazioni sino-turche. I segnali in questo senso sono molteplici. Un ammorbidimento delle politiche dei visti tra le due potenze è in corso da anni e, in aggiunta agli intensificati scambi culturali, la Cina ha recentemente provveduto a trasferire ingenti risorse economiche destinate a supportare i piani di sviluppo industriale e soprattutto militare del governo guidato da Erdogan. Per venire meno alla sua strutturale inadeguatezza militare, pare che la Turchia stia oggi valutando l’acquisto di velivoli da combattimento stealth di quinta generazione Shenyang J-31. Si tratta di una conseguenza diretta dell’esclusione dal progetto Lockheed Martin F-35 voluta dagli USA, ma rappresenta un passo ulteriore verso l’uscita della Turchia dalla NATO. Qualora dovesse avvenire, la perdita del partner turco provocherebbe di certo una crisi dell’Alleanza Altantica che già per molti osservatori internazionali è in uno stato di animazione sospesa. Un eventuale indebolimento della NATO piace molto anche alla Russia di Putin che, nonostante le aperte tensioni geopolitche con la Turchia, fornisce già al paese sistemi antiaerei e spinge per l’acquisto dei caccia stealth Sukhoi Su-57.

In questo quadro non deve sorprendere la normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Israele e alcune delle medie potenze mediorientali come gli Emirati Arabi e il Baharain, e soprattutto le voci non confermate di possibili futuri accordi per lo sviluppo di assetti militari comuni. Questo processo non può essere considerato il mero risultato dell’azione politica di Trump per portare stabilità in Medio Oriente, a detta di molti insufficiente se non di fatto inestistente. Deve invece essere interpretata come un segnale di conferma di come il mondo arabo, in crisi per la futura inevitabile perdita di rilevanza, è consapevole dei profondi cambiamenti degli equilibri geopolitici del Mediterraneo orientale e sta cercando di guadagnare la posizione più vantaggiosa. Quello che si sta formando può apparire come un fronte anti-Turco, ma a ben vedere è più probabilmente un tentativo di opporsi alle mire neocoloniali cinesi in Africa o quantomeno contenerle, riducendo allo stesso tempo la dipendenza dall’Occidente.

La partita con il Gigante Asiatico vede dunque oggi coinvolti quei paesi del Golfo, una volta nemici dello Stato Ebraico, che oggi pensano ad Israele come alleato naturale. D’altronde Tel Aviv rappresenta non solo un forte partner militare, ma anche un polo economico e tecnologico in grado di rivaleggiare con Beijin. Ciò auspicabilmente potrebbe portare anche ad una soluzione duratura al lungo conflitto Israelo-palestinese. Tale risultato non sarà però dovuto all’azione mediatrice americana ne agli sforzi congiunti di diversi paesi e organismi internazionali degli ultimi decenni, ma piuttosto alla presenza di un comune nemico all’orizzonte. Se una soluzione verrà dunque raggiunta, essa sarà a discapito degli interessi dei palestinesi che, ancorati a retoriche ormai desuete e sempre più marginalizzati dagli alleati di un tempo, non sembrano intenzionati a recepire il cambiamento ed adattare di conseguenza sia i loro obiettivi di lungo periodo che la loro strategia politica.

Se le tensioni con la Cina sono in aumento, di fronte all’aggressività turca gli Stati Uniti hanno alzato la voce solo di recente, provocando il temporaneo ritiro della missione esplorativa di Ankara nelle acque territoriali controllate da Atene, ma senza segnalare alcuna volontà esplicita di coninvolgimento americano nel teatro operativo. Si è trattato insomma di un atto dovuto che arriva, come si dice in America, “too late and one dollar short”. In risposta alla mossa americana e all’annuncio dell’intensificarsi delle esercitazioni delle forze armate greche nell’Egeo settentrionale la Turchia ha nuovamente accusato la Grecia di violare il Trattato di Losanna del 1923, che ha posto fine all guerra greco-turca (1919-1923) ridisegnando le nuove frontiere tra i due paesi, militarizzando l’isola di Chio. Non si tratta della prima volta che la Turchia accusa la Grecia di violare il Trattato. La prima volta è stata nel Giugno 1964, a seguito del dispiegamento di una brigata motorizzata ellenica sull’isola, ma questa volta la Turchia sembra non escludere una reazione militare alle esercitazioni annunciate da Atene.

Sulla sponda Nord del mare nostrum le cose non vanno certo meglio. Sebbene sia palese che la partita che si sta giocando nel Mediterraneo, e che vede coinvolti Grecia e Cipro, abbia come posta in gioco la sopravvivenza stessa degli interessi europei e occidentali, per non dire anche la tenuta della stessa Unione Europea, sono in pochi ad averlo pienamente compreso. Nelle capitali europee, il mutamento degli equilibri che per anni hanno accompagnato la politica mediterranea dell’Unione sembrano essere compresi solo a Parigi. Accusata di voler unicamente acquisire il controllo di marginali risorse energetiche, la seconda potenza dell’Unione Europea preme da sempre per un ruolo più incisivo dell’Europa e per la sua oggi imprescindibile integrazione militare. Questo mentre Berlino ragiona ancora troppo spesso come un trading state, interessato unicamente ai guadagni economici di breve periodo e a non turbare il precario equilibrio raggiunto con la Turchia sul tema dei migranti provenienti dalla rotta balcanica.

Quanto all’Italia, Roma pensa ingenuamente di poter ancora attuare la stessa politica dell’equidistanza e della neutralità che l’ha ridotta negli anni al ruolo di mera comparsa sulla scena degli affari internazionali e sul versante cinese ha una posizione per lo meno ambigua. E tuttavia la Francia, che appare come il candidato naturale a guidare la politica estera dell’Unione, non può pensare di riuscire a vincere questa partita da sola. La geografia non è un’opinione: senza l’Italia, che tra l’altro è la seconda potenza navale del continente, l’Unione Europea non ha nessuna possibilità di contare qualcosa e finirà, inevitabilmente, per essere relegata ad una umiliante posizione di sudditanza.




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