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“La Deterrenza nel XXI secolo”: il nuovo libro di N. Petrelli

Disponibile in formato Kindle e stampa su Amazon

Dall’Introduzione di N. Petrelli al suo libro “La Deterrenza nel XXI secolo” ed. START InSight

Nel corso degli ultimi anni la nozione di deterrenza, da tempo quasi completamente scomparsa dal vocabolario della politica internazionale, è riemersa in numerosi documenti strategici di paesi Europei (inclusa l’Italia essendo il concetto menzionato nel Libro Bianco della Difesa 2015), e non. Il concetto è stato altresì impiegato da esperti e giornalisti per spiegare la logica alla base della prassi strategica di importanti attori internazionali, in primis la Russia di Putin

Tale “rinascita” potrebbe ingenerare l’impressione di un ritorno al passato, a pratiche strategiche caratteristiche di quella che è nota come “la prima età nucleare” nel quadro di quell’assetto geopolitico straordinariamente stabile che è stato la Guerra Fredda. Non è così. La deterrenza del XXI secolo è sia concetto, che fenomeno profondamente differente da quello che è stato in quelli che potremmo definire i suoi “anni d’oro” i 50 e 60 del XX secolo. L’obiettivo di questa ricerca è quello di far comprendere tale diversità ed il ruolo che la deterrenza potrebbe svolgere negli affari internazionali negli anni a venire attraverso uno studio dell’evoluzione storica della sua teoria e della pratica. Come evidenziato da uno dei più importanti studiosi contemporanei di deterrenza, Alex Wilner, innovazioni nella pratica della deterrenza hanno generalmente fatto seguito a significativi sviluppi teorici.

Con il termine ‘teoria della deterrenza’ ci si riferisce in genere ad un corpus di studi accademici che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, è arrivato a dominare la letteratura sugli studi di sicurezza negli Stati Uniti ed in Europa occidentale. Circa quella che potrebbe essere chiamata la storiografia o l’evoluzione della teoria della deterrenza, esistono due scuole di pensiero. Da una parte coloro che, sviluppando un’idea originariamente coniata da Robert Jervis, vedono la teoria della deterrenza evolversi attraverso distinte “ondate”. Ognuna di queste sarebbe caratterizzata da un particolare framework analitico, interpretazione del processo della deterrenza, e focus sui mezzi della stessa influenzati (principalmente ma non solo) dai problemi strategici più salienti del momento. Dall’altra, una seconda scuola di pensiero sostiene al contrario che tale periodizzazione sottovaluti i significativi elementi di continuità esistenti tra le varie fasi di sviluppo della teoria, e che la letteratura sulla deterrenza possa in gran parte, sino circa ai primi anni 2000, essere classificata come una singola teoria, con circoscritte sub-variazioni. Secondo tale approccio significative discontinuità nella teoria della deterrenza si sono manifestate solo nel momento in cui il focus analitico si è spostato dallo studio della deterrenza fra stati a quello delle relazioni di deterrenza tra attori statali e non-statali.

L’approccio adottato in questa ricerca sintetizza i punti di vista delle due scuole. Infatti, nel fornire una periodizzazione dell’evoluzione della teoria della deterrenza basata sulla nozione di “ondate” successive, parte dall’assunto che, sebbene diverse sotto molti profili differenti, esse possano essere considerate tutte esplorazioni di un’unica teoria. In ciò la ricerca si ispira all’autorevole opinione secondo cui esiste una sola teoria generale della deterrenza, intesa come un insieme coerente di ipotesi logicamente connesse circa il fenomeno, la cui valenza e applicabilità sono eterne e universali. Tale teoria generale espone la natura della deterrenza come concetto, funzione, e processo e spiega gli elementi che influenzano e guidano specifiche strategie di deterrenza.

Nel mettere insieme le parti costitutive della teoria della deterrenza sparse nella letteratura lo scopo di questo elaborato è euristico, il lavoro è in altre parole finalizzato ad illuminare sia eventuali cambiamenti nell’ontologia del fenomeno della deterrenza, così come evidenziati da modifiche analitiche ed epistemologiche nella teoria, sia evoluzioni concettuali intervenute nel tempo.

La comprensione di tali cambiamenti è a sua volta essenziale per la formazione di coloro che hanno compiti e responsabilità inerenti lo sviluppo della politica estera e di sicurezza a livello nazionale. Sotto questo punto di vista, parafrasando Colin Gray, la teoria generale può essere paragonata a un passepartout in grado di arricchire concettualmente coloro che sviluppano e attuano la politica estera e di sicurezza, aprendo una porta su una componente essenziale delle interazioni nell’attuale sistema internazionale.

Il Concetto di Deterrenza: Aree di Consenso e Criteri Analitici

Il primo passo per sviluppare un framework adeguato ad analizzare l’evoluzione della teoria della deterrenza è ricapitolare i principali elementi di consenso all’interno della stessa circa l’oggetto di riferimento al fine di identificare le dimensioni fondamentali di variazione del concetto. Esse verranno quindi impiegate per delineare una serie di criteri tra essi correlati che aiutino a cogliere le principali differenze tra le varie “ondate” della teoria dalla fine degli anni 40 ad oggi.

Esiste un consenso piuttosto ampio circa la definizione di deterrenza come: la manipolazione, da parte di un attore, del calcolo costi/benefici di un avversario/competitore circa una determinata azione. Riducendo i benefici o aumentando i costi potenziali (o entrambi), è possibile far desistere un avversario/competitore dall’intraprendere un’azione considerata dannosa. Concettualmente, la deterrenza è una forma di influenza coercitiva basata principalmente su incentivi negativi; in termini colloquiali potrebbe essere definita come l’arte del ricatto e della generazione della paura. La deterrenza può considerarsi una forma di influenza in quanto non tenta di controllare l’avversario/competitore, ad esempio cercando di eliminare la sua capacità di agire o di stabilire su di esso una qualche forma di controllo fisico. La deterrenza, al contrario, lascia al “bersaglio”, l’attore che ne è fatto oggetto, la possibilità di esercitare una scelta, mirando ad influenzarla. In secondo luogo, la deterrenza può considerarsi coercitiva in quanto utilizza prevalentemente minacce, incentivi negativi. La necessità della deterrenza sorge infatti quando un attore si aspetta che il corso d’azione intrapreso da un avversario/competitore possa condurre ad un esito dannoso. Per tale ragione tende ad incentrare il proprio tentativo di influenza sulla minaccia, pur associandola nella maggioranza dei casi a determinati messaggi o incentivi positivi. L’essenza della deterrenza è quindi la generazione nel bersaglio della convinzione che il proprio corso d’azione porterà a un risultato negativo per i propri interessi o obiettivi. Da ultimo è importante notare che, per quanto radicato in un calcolo razionale, il concetto di deterrenza consta anche di una componente emotiva. Chiunque scelga di sviluppare una strategia di deterrenza non può fondarla solo su elementi tangibili e misurabili da parte del “bersaglio”, poiché il suo calcolo non sarà basato esclusivamente su una valutazione di input noti. Al contrario le strategie di deterrenza presuppongono l’introduzione di un elemento imponderabile al fine di generare incertezza, dubbio, in chi è fatto oggetto di minacce, circa come la forza potrebbe essere utilizzata contro di lui e circa l’impatto che potrebbe avere sui suoi interessi. Tale componente della deterrenza ed il suo funzionamento sono stati magistralmente sintetizzati da Schelling nell’espressione: “la minaccia che lascia qualcosa al caso”.

La letteratura distingue tra “situazione di deterrenza”, in cui un attore è dissuaso dal compiere determinate azioni senza che nessuno abbia deliberatamente tentato di inviare un messaggio di dissuasione, e “strategia di deterrenza”, quando tale comportamento fa seguito a un segnale deliberatamente elaborato e inviato. Idealmente, nel momento in cui un attore opta per una “strategia di deterrenza”, si procede a sviluppare un programma di deterrenza guidato da un particolare obiettivo politico e fondato su ipotesi di intelligence relative alle intenzioni e capacità dell’avversario e su una stima della correlazione di forze o “net assessment”. Teoricamente, nella prima fase di questo programma, i pianificatori della deterrenza delineano la percezione di minaccia dell’avversario/competitore e identificano i “valori” strategici che possono essere effettivamente minacciati e messi a rischio; in una fase successiva, cercano modi e mezzi per sfruttare queste paure nel modo più efficace, al fine di modellare il calcolo strategico dell’avversario. In questa ultima fase, i pianificatori comunicano minacce inequivocabili che segnalano intenzioni e capacità credibili. Ogni strategia di deterrenza consiste in altre parole in tre elementi: capacità; minaccia; comunicazione.

La deterrenza dipende quindi in primo luogo dalla presenza di effettive capacità di mettere in atto la minaccia che si intende comunicare. Tali capacità, di qualsiasi tipo esse siano, devono necessariamente trovarsi in una condizione di “prontezza operativa”, ovvero devono poter essere rapidamente impiegate e devono, almeno in una certa misura, essere visibili al soggetto verso cui si indirizza la minaccia deterrente. Per esempio, durante la crisi di Kargil tra India e Pakistan del 1999, il Pakistan attivò le proprie capacità nucleari con il solo scopo di mandare un messaggio a Nuova Delhi. Islamabad era infatti consapevole che gli USA avrebbero monitorato attentamente ogni attività relativa all’arsenale nucleare e sfruttò la circostanza per cercare di “deterrere” l’India. La componente capacitiva della deterrenza ne costituisce la fondamentale base materiale, ovvero l’elemento in grado di condizionare la componente razionale del calcolo strategico dell’avversario.

In secondo luogo, la deterrenza dipende da una percezione di credibilità della minaccia formulata che, come la letteratura ha evidenziato, può divergere, in maniera anche significativa, dalla realtà oggettiva. Essa è infatti in primo luogo influenzata dalla situazione specifica in cui viene comunicata: la minaccia di un attacco nucleare in risposta a una “provocazione” grave è certamente più credibile di una minaccia analoga in risposta a un’aggressione “minore”. Esiste tuttavia anche un’altra componente della credibilità, che è inerente al soggetto che formula la minaccia, non alla situazione. In circostanze identiche, la minaccia di un attore può essere credibile laddove quella di un altro non lo sarebbe. In parte, come pocanzi asserito, ciò deriva dalle capacità di attuare la minaccia nonché da quella di difendersi dalla risposta dell’altro. Ma c’è di più; è stato infatti chiaramente dimostrato che la credibilità è legata alla “reputazione”, alla percezione di risolutezza rispetto al prezzo da pagare per impedire una determinata azione da parte di un avversario. Ciò spiega in parte come mai tanti — tra cui l’allora Segretario della Difesa Chuck Hagel — abbiano criticato l’amministrazione di Barack Obama quando, dopo aver tracciato linee rosse circa l’uso di armi chimiche in Siria, decise poi di non intervenire per sanzionare il comportamento di Bashar al-Assad. Parimenti, il fatto che dopo la guerra  del 2006 tra Israele ed Hezbollah, non vi siano più stati conflitti tra i due attori suggerisce quanto la strategia israeliana abbia avuto dei meriti, come in parte ha poi ammesso lo stesso leader di Hezbollah anni dopo. Hassan Nasrallah infatti, in una intervista concessa qualche tempo dopo la fine della guerra, ha infatti dichiarato che la sua organizzazione non si aspettava una tale reazione da parte di Israele. Reazione che ha certamente contribuito ad evitare scontri diretti da ormai molti anni a questa parte. Il dato è interessante se si pensa che, da un punto di vista di strategia militare e operativo, Israele uscì perdente da quella guerra il cui valore, assumendo che la nostra interpretazione sia corretta, può dunque essere compreso solo nel medio-lungo termine.

La deterrenza consiste in una richiesta nei confronti di un altro attore di astenersi dal fare qualcosa, ed è una relazione iterativa che richiede significative capacità di comunicazione. L’attore che intende esercitare deterrenza deve far sì che l’avversario che intende scoraggiare da un certo corso d’azione comprenda chiaramente i contorni della minaccia. Fare in modo che un avversario/competitore comprenda il messaggio deterrente attraverso “il frastuono e il rumore” della politica internazionale richiede significativi sforzi pubblici e privati ​​di comunicazione. E’ utile precisare che con l’espressione “chiarezza di comunicazione” si intende chiarezza rispetto all’evento o azione che si vuole evitare, le cosiddette “linee rosse”, ma non necessariamente si implica chiarezza rispetto alla minaccia. La politica statunitense e, per estensione quella della NATO, durante la Guerra fredda è un ottimo esempio: qualunque tentativo di invadere la Germania dell’Ovest da parte Sovietica avrebbe portato ad una immediata e spropositata reazione. Le minacce di deterrenza possono però anche essere (e spesso sono deliberatamente) ambigue per numerose ragioni, inclusa la convinzione che una minaccia troppo specifica possa rivelarsi controproducente in alcune circostanze o rispetto ad alcune categorie di attori.

Da questa descrizione del consenso accademico e professionale circa la natura della deterrenza discende il nostro argomento generale secondo cui è possibile identificare quattro dimensioni fondamentali di variazione del concetto: Attori; Capacità; Meccanismo; Processo.

La prima dimensione si riferisce al numero di attori il cui calcolo la strategia di deterrenza adottata intende influenzare. Come nella teoria dei giochi, il numero degli attori coinvolti nella relazione di deterrenza incide in maniera significativa sulle dinamiche di interazione tra gli stessi. La seconda dimensione riguarda il tipo di capacità impiegate nel tentativo di far desistere uno o più avversari/competitori da una determinata azione, capacità che possono variare tra “cinetiche” e “non-cinetiche”. Il terzo criterio di variazione riguarda il “meccanismo” di funzionamento della deterrenza, dunque fondamentalmente il tipo di minaccia che si formula nei confronti di un avversario o competitore. L’ultima dimensione di variazione concerne invece la prevalenza della componente fisica o psicologica nel processo attraverso cui il meccanismo dispiega il suo effetto.

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