Nuovi procedimenti d’accusa e operazione anti-terrorismo in Svizzera
Nella rete sono finiti anche dei minorenni. Coinvolti due sostenitori del Califfato rientrati (da tempo) dalla Siria. La jihad non perde attrattiva.
Negli ultimi giorni i riflettori sono tornati ad accendersi sulle attività jihadiste dentro i confini della Confederazione; attività che consistono principalmente nel sostegno ad al-Qaeda, Stato Islamico (IS) e gruppi affini; diffusione di materiale di propaganda; reclutamento di nuove leve.
Il 25 ottobre il Ministero pubblico della Confederazione ha depositato un atto d’accusa nei confronti di due cittadini dal doppio passaporto: uno svizzero-italiano residente a Winterthur (Canton Zurigo) al quale viene contestato di aver combattuto in Siria con una formazione pro-IS e di aver poi, una volta rientrato, continuato a reclutare per lo Stato Islamico; e uno svizzero-macedone domiciliato a Frauenfeld (Canton Turgovia) che avrebbe tentato di unirsi al Califfato passando dai Balcani, senza però riuscirvi, e di aver in seguito reclutato a sua volta un altro simpatizzante con lo stesso obiettivo. Il primo procedimento penale, poi esteso anche al secondo imputato, era stato avviato nel 2015.
Il 29 ottobre in diverse località dei Cantoni di Zurigo, Berna e Sciaffusa, nell’ambito di un’imponente operazione anti-terrorismo sono state inoltre perquisite undici abitazioni private legate a un’indagine che coinvolge undici indagati per sospetta violazione degli articoli di legge che vietano i gruppi al-Qaida, Stato Islamico e affini e il sostegno o partecipazione a organizzazioni criminali: sei procedimenti penali riguardano individui adulti fra cui uno jihadista di ritorno, già condannato in precedenza per il suo sostegno all’ISIS. I restanti cinque imputati sono minorenni.
Non sono chiari eventuali collegamenti diretti tra i due filoni di inchiesta.
Come riporta il giornalista Kurt Pelda nel suo articolo per il quotidiano Tages-Anzeiger, l’indagato recidivo sarebbe un giovane di Winterthur partito per la Siria nel 2014 insieme alla sorella, all’epoca entrambi minorenni. Rientrati nel 2015, le condanne (per lui, una pena sospesa a 11 mesi) sono state pronunciate a febbraio 2019. L’estremista non avrebbe nel frattempo abbandonato la scena radicale.
Avrebbe intrattenuto dei legami, secondo quanto fa intendere Le Temps, con lo stesso imputato svizzero-italiano menzionato nel Comunicato del PM del 25 ottobre, protagonista di una cerchia salafita-jihadista che gravitava attorno alla controversa moschea an-Nur (sempre a Winterthur) di cui si sono spesso occupate le cronache elvetiche. La chiusura di quest’ultima (nel 2017), sottolinea Kurt Pelda, ha reso più difficile tenere sotto osservazione i simpatizzanti dello Stato Islamico. Altri luoghi di ritrovo e socializzazione per il gruppo sono stati una palestra di arti marziali e le attività di distribuzione pubblica e gratuita del Corano ad opera dell’organizzazione Lies! attiva soprattutto in Germania. Non è dato sapere se le inchieste fanno riferimento ad attività recenti.
Negli anni scorsi da Winterthur, per la Siria, sono partiti una dozzina di radicalizzati.
Sarebbe utile oggi guardare in modo costruttivo a pratiche e tentativi -anche fallimentari- dei paesi con maggiore esperienza nel settore, sia in materia di regime di detenzione che di de-radicalizzazione
I numeri svizzeri
I servizi informativi hanno recentemente indicato in 66 il numero delle persone considerate una minaccia per la sicurezza interna della Confederazione, a causa delle loro motivazioni terroristiche. Rispetto agli 80 soggetti del novembre 2018, la cifra è in discesa.
Dal 2012 ad oggi, 624 utenti sono entrati nel radar dei servizi per aver contribuito a diffondere via internet l’ideologia jihadista. Cifra in salita rispetto ai 606 del 2018.
92 le persone che avrebbero lasciato la Confederazione a partire dal 2001, per raggiungere vari fronti della jihad in Medio Oriente, Africa, Asia; di queste, una trentina sarebbe deceduta mentre 16 sono rientrate. Chi ritorna -spiega un reportage del programma Falò (RSI) che ricostruisce le storie di alcuni combattenti- diventa oggetto di procedimento penale. Ma un solo processo sarebbe arrivato a conclusione. Gli altri individui sarebbero rimasti finora a piede libero. 70 gli incarti aperti presso il Tribunale Penale Federale (Falò). 31 foreign fighters jihadisti sono in possesso della nazionalità elvetica, fra cui 18 con due passaporti. Lo scorso mese di settembre, le autorità hanno disposto la revoca della nazionalità a un cittadino svizzero-turco condannato per propaganda e reclutamento, mentre un secondo caso ha riguardato una cittadina svizzero-tunisina che si trova in Siria e detiene anche la nazionalità francese. Circa 20 cittadini svizzeri (uomini, donne e bambini) si troverebbero attualmente in territorio iracheno e siriano.
Svizzera ed Europa: scialuppe diverse nella stessa barca. Appunti a margine.
- Per varie ragioni, i tempi della giustizia sono lunghi (non solo in Svizzera); di conseguenza, con le incognite che gravano sul reinserimento sociale degli estremisti violenti dopo la pena -incluso il pericolo di recidiva- ci confronteremo soprattutto negli anni a venire. Ma la questione è pressante: la radicalizzazione nelle prigioni europee procede rapida mentre centinaia di detenuti a rischio fra cui numerosi terroristi, verranno rilasciati a breve.
- In vista anche di un potenziale rientro dei foreign fighters e delle loro famiglie, che Stati Uniti e Iraq non intendono mantenere all’infinito in Medioriente, è urgente concentrare l’attenzione sull’ecosistema carcerario e sullo sviluppo di programmi di disimpegno dalla violenza, anche in ottica preventiva. Non esistono soluzioni su misura né garanzie di successo ma sarebbe utile, oggi, guardare in modo costruttivo a pratiche e tentativi -anche fallimentari- dei paesi con maggiore esperienza nel settore, sia in materia di regime di detenzione (valutando pro e contro, ad esempio, di isolamento oppure socializzazione dei condannati, in base ai casi individuali) che di de-radicalizzazione.
- Il Ministero Pubblico della Confederazione indica come l’accusato svizzero-italiano avrebbe sfruttato ai fini del reclutamento, la propria reputazione di reduce jihadista e figura di spicco del salafismo svizzero, curando anche i contatti con altri reclutatori ISIS (condannati) in Europa. Si tratta del pericolo e del timore principale legato al rimpatrio dei foreign fighters. Ma sono spesso anche gli stessi radicalizzati dentro i confini nazionali, coloro che non hanno mai viaggiato, a darsi da fare per trovare il modo di comunicare con figure di rilievo del movimento jihadista globale.
- Il propagandista e/o reclutatore di combattenti per la jihad all’estero può non rappresentare un rischio diretto per la sicurezza interna di un paese ma è fondamentale nel garantire la diffusione dell’ideologia nonché la sopravvivenza e rafforzamento delle reti internazionali. Ruoli che non vanno sottovalutati, anche mentre si attende (a lungo) un processo.
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