Politica USA: la visione di Mark Rubio.
di Melissa de Teffè (dagli Stati Uniti).
Sebbene gli USA siano molto ricchi, gli americani non sono felici
La più grande economia mondiale con un PIL di oltre 25 trilioni di dollari, si trova a fronteggiare un paradosso: nonostante la ricchezza, gran parte della popolazione soffre perché non arriva a fine mese o si sente insoddisfatta. Il malessere collettivo ha cause radicate nell’economia, nella salute pubblica e nella struttura sociale del Paese.
Crescita e disuguaglianza
Il PIL è cresciuto del 2% nel 2023, e il tasso di disoccupazione rimane basso, attorno al 3,9%. Tuttavia, questa prosperità non è equamente distribuita. Secondo dati della Federal Reserve, l’1% più ricco possiede oltre il 30% della ricchezza totale, mentre il 50% più povero ne detiene solo il 2,5%. “La disuguaglianza negli USA è un problema sistemico, amplificato dal fatto che i salari per la classe media sono stagnanti da decenni,” osserva un report del Pew Research Center.
Il costo della vita è un altro fattore cruciale. Nel 2023, i prezzi delle abitazioni sono aumentati del 5%, mentre i costi per sanità e istruzione continuano a crescere. Sebbene l’inflazione sia scesa dal picco dell’8,2% nel 2022, molte famiglie fanno ancora fatica a far quadrare i conti.
Crisi della salute mentale
Oltre ai problemi economici, gli Stati Uniti affrontano una crisi di salute mentale. Secondo i CDC (Centers for Disease Control and Prevention), i tassi di depressione e ansia sono ai massimi storici. L’epidemia di overdose da oppioidi come il Fentanil, ha causato oltre 100.000 morti nel 2022, contribuendo a un calo dell’aspettativa di vita, scesa a 76 anni, il livello più basso dal 1996.
“Il senso di isolamento e la mancanza di reti di sicurezza sono fattori che alimentano il disagio psicologico,” spiega il dottor Vivek Murthy, Surgeon General degli Stati Uniti. Un altro drammatico problema interno che compromette l’immagine degli Stati Uniti è la questione dei senzatetto. Nonostante l’immensa ricchezza del Paese, molte delle principali città americane, come Los Angeles, San Francisco e New York, affrontano una crisi abitativa dilagante, con decine di migliaia di persone costrette a vivere per strada o in rifugi di emergenza. Questa realtà contrasta profondamente con l’idea di una nazione che si presenta come simbolo di benessere e uguaglianza. La mancanza di fondi adeguati e di risposte politiche strutturali a questa emergenza sociale non solo aggrava le condizioni di vita di milioni di cittadini, ma mette in dubbio la capacità del governo di garantire diritti fondamentali, erodendo ulteriormente la credibilità del modello democratico americano.
Durante il suo mandato, Donald Trump aveva affrontato il tema in modo controverso, dichiarando in un’intervista del 2019: “Non possiamo permettere che le nostre città siano invase da senzatetto. Stiamo cercando soluzioni che funzionino per tutti.” Tuttavia, le politiche adottate si sono concentrate principalmente su sgomberi e controlli, piuttosto che su investimenti strutturali per affrontare le cause profonde del problema. Questa mancanza di interventi mirati evidenzia le contraddizioni di una nazione che fatica a coniugare i suoi ideali con la realtà quotidiana dei suoi cittadini più vulnerabili.
Frammentazione sociale e polarizzazione
La crescente polarizzazione politica e la mancanza di fiducia nelle istituzioni aggravano ulteriormente il malcontento. Un sondaggio Gallup mostra che solo il 27% degli americani si fida del governo federale. Questa alienazione politica si somma a tensioni razziali e culturali, rendendo difficile creare un senso di unità nazionale.
Soluzioni possibili
Secondo gli esperti, affrontare questo malessere richiede interventi strutturali. “Un investimento significativo in sanità pubblica, istruzione accessibile e politiche per ridurre la disuguaglianza potrebbe migliorare la qualità della vita per milioni di americani,” afferma il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz.
Resta da vedere se gli Stati Uniti saranno in grado di affrontare queste sfide. Come nota il New York Times, “la ricchezza del Paese è innegabile, ma senza una distribuzione più equa, rischia di diventare una fonte di divisione anziché di progresso.”
Ecco perché Trump con lo slogan MAGA “Make America Great Again”, ha avuto successo ed ecco perché i fondi che oggi sono spesi per guerre estranee agli interessi del paese saranno ridistribuiti internamente. Nonostante la sua elezione e l’aver pubblicamente affermato di desiderare di voler fermare la guerra in Ucraina e in Israele, Biden, settimana scorsa, ha chiesto al Congresso un ulteriore finanziamento di 900 milioni di dollari nell’ambito di un pacchetto complessivo di 38 miliardi di dollari per sostenere l’Ucraina. La proposta include assistenza militare, economica e sanitaria. Tuttavia, ha incontrato forti resistenze tra i repubblicani, incluso lo Speaker della Camera Mike Johnson, che ha bloccato l’iniziativa. Johnson ha sottolineato la necessità di maggiore trasparenza e controllo sull’utilizzo dei fondi, esprimendo preoccupazione per il crescente debito pubblico e l’inflazione. A meno di un mese dal prossimo insediamento presidenziale dove in genere si chiude qualsiasi azione economico-politica, la presente amministrazione invece continua a creare sempre più confusione.
Ma perchè piace Mark Rubio.
Marco Rubio: cubano-americano è uno dei due senatori della Florida, ed è noto per il suo impegno sui temi della politica estera e per la sua sensibilità verso i diritti dei rifugiati politici. Nato il 28 maggio 1971 a Miami da genitori cubani, Rubio incarna l’esperienza dell’esilio cubano, una prospettiva che ha profondamente plasmato la sua carriera politica. È cresciuto con il racconto dei sacrifici dei suoi genitori, emigrati da Cuba negli anni ’50 per sfuggire alla repressione politica. Questo background lo ha reso particolarmente attento alla questione dei rifugiati e ai temi della libertà e della democrazia, non solo per Cuba ma per i popoli oppressi in tutto il mondo.
In Senato ha sostenuto iniziative per garantire protezione a rifugiati politici, si è opposto alle dittature in America Latina, condannando i regimi di Cuba, Venezuela e Nicaragua per le violazioni dei diritti umani. “L’America deve essere un faro di speranza per coloro che fuggono dall’oppressione,” ha dichiarato durante uno dei suoi interventi pubblici.
Nel suo ruolo di Presidente della Commissione per l’Intelligence del Senato e come membro della Commissione per le Relazioni Estere, Rubio ha promosso politiche volte a rafforzare le sanzioni contro i governi autoritari e a sostenere i movimenti democratici. Ha lavorato per migliorare i programmi di accoglienza e assistenza ai rifugiati, specialmente per coloro che fuggono da persecuzioni politiche.
Rubio vede la politica estera come un’estensione dei valori americani di libertà e giustizia. Ha promosso un approccio che combina fermezza nei confronti dei regimi autoritari con il sostegno ai rifugiati e agli esiliati politici. La sua eredità come figlio di rifugiati cubani gli conferisce una comprensione unica dei sacrifici e delle sfide di chi fugge dalla tirannia. E sicuramente questo background potrebbe apportare una visione di politica estera diversa dalle precedenti, ossia di difesa e non interventista. Questa nuova amministrazione ha la possibilità di cambiare l’approccio tradizionale che ha sempre mirato nell’ “esportare” la democrazia attraverso interventi esterni e Marco Rubio, con la sua esperienza e storia, rappresenta una voce importante in questo dibattito. Sebbene in passato fosse un fervente sostenitore dell’internazionalismo, Rubio ha gradualmente abbracciato una visione più cauta, orientata a priorizzare gli interessi strategici interni ed evitare interventi militari prolungati.
Rubio, che mantiene un forte legame con la comunità cubana, comprende profondamente il significato della lotta per l’autodeterminazione nazionale. Ha dichiarato che “l’America deve concentrarsi sulle sfide più critiche per la nostra sicurezza nazionale”, riconoscendo che non tutti i conflitti globali richiedono un intervento diretto degli Stati Uniti. Questo cambio di prospettiva potrebbe influenzare il modo in cui pensa Donald Trump, anche riguardo alla situazione siriana. Piuttosto che imporre una soluzione politica dall’alto come si è sempre fatto storicamente, e invece di applicare un possibile isolazionismo come suggerisce Trump, ecco che Rubio potrebbe aprire una terza via dove gli Stati Uniti possano fornire aiuti mirati alla ricostruzione del Paese, consentendo nel caso della Siria di trovare la propria strada verso “Damasco”, costruendosi quella stabilità che rispetti le sue specificità culturali e storiche.
L’idea che la democrazia debba emergere come espressione autentica della coscienza nazionale è un fatto. Ce lo ha descritto Norberto Bobbio quando dice: “La democrazia non è un dono che si può imporre dall’esterno, ma un processo che deve essere costruito dall’interno”. E similmente lo hanno letto anche gli americani con Tocqueville, nel suo studio sulla democrazia, quando sottolinea l’importanza delle condizioni interne, scrivendo: “La democrazia è il governo che si adatta alle inclinazioni naturali degli uomini, e che, per così dire, nasce da esse”.
Oggi, accademici e diplomatici concordano sul fatto che gli Stati Uniti abbiano perso gran parte della loro influenza globale come modello democratico. A livello internazionale si avverte un crescente scetticismo: se l’America non cambierà approccio, sarà difficile che continui a essere considerata il punto di riferimento democratico per eccellenza. Questo sentimento potrebbe spingere la nuova amministrazione Trump a rivedere le proprie strategie globali, favorendo approcci più rispettosi delle dinamiche locali e meno intrusivi, senza però scivolare nell’isolazionismo totale.
Nel caso siriano, ciò significherebbe consentire alla popolazione di tracciare autonomamente la propria strada verso un futuro più stabile, mentre gli Stati Uniti abbandonerebbero la retorica dell’imposizione democratica, aprendo la strada a un’era di diplomazia più rispettosa e sostenibile. In questo contesto, Marco Rubio si distingue come un rappresentante ideale di questa visione, con una sensibilità particolare verso il rispetto delle specificità culturali e storiche nei processi di transizione democratica.