Dopo al-Baghdadi. Considerazioni e dibattito a MODEM (RSI)
di Claudio Bertolotti
La morte di Abu Bakr al-Baghdadi segna il passaggio formale dello Stato Islamico (IS) alla sua natura insurrezionale originaria. Il Califfato è ora a tutti gli effetti un fenomeno che prescinde dal controllo di un territorio. Il cambio di passo -una mossa preventiva nell’eventualità di dover garantire la sopravvivenza del gruppo- era di fatto già stato avviato nel 2015 dall’allora stratega dell’IS al-Adnani; oggi arriva a compimento con un atto simbolico che sarà presentato dalla narrativa jihadista come un’azione di martirio (istishadi) poiché, facendosi esplodere nel tentativo di colpire i militari statunitensi, al-Baghdadi diviene di diritto, nell’interpretazione jihadista, uno shahid, un martire. Questo non va assolutamente sottovalutato.
Il Califfato è ora a tutti gli effetti un fenomeno che prescinde dal controllo di un territorio.
La narrativa è una chiave di lettura imprescindibile per comprendere la sopravvivenza e il futuro dello Stato Islamico.
Più in generale, cosa rappresenta la morte di al-Baghdadi? Quali paragoni si possono tracciare con quella di Osama Bin Laden? Che dire del modo con cui è stata comunicata da Trump? Di questi aspetti si è discusso nella trasmissione MODEM della Radiotelevisione Svizzera di Lingua Italiana intitolata ‘Morte di un Califfo‘ con Roberto Antonini, giornalista e inviato in Iraq e Siria (RSI); Claudio Bertolotti, analista strategico dell’ISPI (Milano) e direttore di START InSight (Lugano) e Renzo Guolo, sociologo dell’Università di Padova. Ha condotto in studio Giuseppe Bucci. (Copyright RSI)
Facendosi esplodere nel tentativo di colpire i militari statunitensi, al-Baghdadi diviene di diritto, nell’interpretazione jihadista, uno shahid, un martire.
Al tempo stesso, segna un inevitabile passaggio generazionale, così come lo fu la nomina di Abu Bakr al-Baghdadi a capo dello Stato islamico d’Iraq dopo la morte di Omar al-Baghdadi. Se guardiamo solo allo Stato islamico, dobbiamo aspettarci la nomina di un nuovo Califfo, in un processo naturale di successione; e le voci più recenti, non confermate, suggerirebbero in Abdullah Qardash (un ex-militare dell’esercito di Saddam Hussein, conosciuto come “il professore”) il successore prescelto già da agosto.
Nel complesso della più ampia galassia jihadista alla ricerca di un leader, oggi scorgiamo un doppio fronte con, da una parte, al-Qa’ida che gioisce per l’uscita di scena di al-Baghdadi; dall’altra, i reduci e gli orfani di quello che fu lo Stato Islamico territoriale. Un nuovo grande leader che ambisca ad unire i fronti jihadisti deve ancora emergere e nella situazione attuale, potrebbe anche pensare di sfruttare i gruppi terroristi locali che già fanno parte della galassia jihadista di cui l’IS è stato elemento propulsore ed aggregante, dall’Asia (Afghanistan, Pakistan) al Medioriente, alla Penisola Arabica e al Nord Africa.
La vera forza dello Stato islamico è l’aver capito già nel 2015 che la sopravvivenza territoriale sarebbe stata impossibile.
Per ciò che concerne il dibattito sul futuro del movimento, va posto in evidenza come, storicamente, la morte dei leader jihadisti non abbia mai determinato la fine dei gruppi di cui erano a capo, determinandone anzi una riorganizzazione e fornendo una spinta propulsiva, in tempi e con modalità differenti. Basti guardare ad al-Qa’ida: più che la morte di Osama bin Laden, il suo ridimensionamento fu conseguenza dell’emergere dello Stato Islamico. Ma al-Qa’ida non è mai scomparsa, come dimostra il suo recente ritorno sulla scena internazionale. E, ancora, l’uccisione di al-Zarkawi in Iraq, leader carismatico e di successo, ha semplicemente aperto all’espansione del modello califfale di al-Baghdadi, che nasce dalla rottura proprio con al-Qa’ida.
Oggi la forte identità dell’IS, insieme alla sua capacità di mobilitare simpatizzanti, sostenitori e “combattenti”, sono aspetti ancora sottostimati. La vera forza dello Stato islamico è l’aver capito già nel 2015 che la sopravvivenza territoriale sarebbe stata impossibile. Tale consapevolezza ha determinato la decisione di creare wilayat (province) geograficamente anche molto lontane fra loro e dalla stessa area siro-irachena -dall’Afghanistan alla Libia- sfruttando la tecnica del franchising, che ha portato ad una suddivisione -ma anche moltiplicazione- dello Stato Islamico in Stati islamici più piccoli ma uniti dalla stessa visione ideologica del mondo e della lotta necessaria a imporre la loro interpretazione dell’Islam, attraverso il conflitto sui campi di battaglia. Ma l’essenza territoriale è da tempo ormai secondaria e accessoria.