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CORONAVIRUS ADESSO. I NUMERI CHE CONTANO, IL MESSAGGIO CHE DEVE PASSARE E IL CASO ITALIA. LE VALUTAZIONI DI ANDREA MOLLE.

Nel corso delle ultime settimane Andrea Molle (Chapman University, USA e ricercatore associato START InSight) ha seguito l’andamento della pandemia di COVID19 e condiviso in anteprima con START InSight una serie di studi, statistiche e approfondimenti (consultabili in versione inglese e italiana sul sito www.startinsight.eu).

Mentre i vari paesi si avviano verso una riapertura graduale, facciamo il punto sui dati di cui bisogna tenere conto e sui messaggi che devono passare.

L’INTERVISTA

La pandemia è stata caratterizzata da una continua produzione e diffusione di numeri, curve, previsioni. Quali sono i dati più affidabili, anche per capire la direzione in cui andare adesso?

Durante eventi come questo è molto difficile, per non dire impossibile, produrre delle stime o delle previsioni che siano assolutamente valide ed incontrovertibili. È naturale ed aggiungerei legittimo essere critici sui numeri. La situazione è estremamente fluida. I dati di riferimento cambiano continuamente e ci sono problemi relativi alla loro effettiva qualità. Parlo ad esempio dei cosiddetti soggetti asintomatici non identificati, per i quali provvedere una stima precisa è francamente impossibile, a meno di ricorrere a test di massa. Il problema è dovuto anche ai criteri diagnostici, che sono cambiati nel tempo, o a quelli utilizzati per dichiarare una morte come causata dal coronavirus anziché come avvenuta indipendentemente da esso in un soggetto infetto. Sembrano questioni semplici, ma non lo sono. Soprattutto perché non abbiamo ancora dei criteri universali. Ad esempio, quando si cerca di stimare la mortalità della pandemia o, ancora più importante, di offrire previsioni sul suo sviluppo, la scarsa qualità dei dati a disposizione pesa parecchio. Partiamo dalla mortalità. Essa è variata nel tempo, ma sarebbe ingenuo pensare che ciò sia dovuto principalmente ad un cambiamento del virus dal punto di vista biologico. La variazione è quasi certamente dovuta ad aggiustamenti nel calcolo della percentuale di individui deceduti sui casi attivi rispetto ai diversi criteri utilizzati dagli statistici. Se ad esempio usiamo una finestra di 8 giorni dal manifestarsi dei sintomi al decesso, (per l’Italia) otteniamo una mortalità di circa lo 0.6%. Ma se consideriamo 10 giorni, la mortalità aumenta. Parliamo in fin dei conti di eventi che si protraggono nel tempo e seguono meccanismi non ancora del tutto chiari alla scienza; è dunque difficile offrire certezze. Per questo, per quanto le stime e le previsioni sull’andamento del contagio siano importanti -direi imprescindibili- al fine di pianificare le politiche sanitarie e sociali, esse non devono essere prese per oro colato. Al contrario, devono essere viste nel quadro di assunti e paradigmi che sono per loro stessa natura incompleti. La scienza opera, o almeno dovrebbe operare, in condizioni di incertezza. Essa rimane un processo di scoperta sempre provvisorio e mai definitivo. La politica d’altro canto dovrebbe servirsi degli esperti per adempiere al proprio ruolo: e cioè di prendere delle decisioni difficili in momenti di incertezza e assumersene la responsabilità. Per questo, ritengo sempre e comunque utile produrre modelli statistici e computazionali sull’andamento della pandemia, e della sua mortalità, ma bisogna capirsi bene su cosa rappresentino, quali siano i loro limiti, e sul come debbano essere utilizzati.

I dati più sicuri li avremo a crisi terminata, potenzialmente tra diversi anni. Oggi guarderei al dato, promettente, di una riduzione costante dei ricoveri ospedalieri ed in particolare di quelli in terapia intensiva che ad oggi rappresenta meno del 5% dei casi accertati. Sappiamo infatti che è lì che maggiormente si concentrano i casi di decesso (con una stima di mortalità tra il 60% e l’80% – globalmente) e la pressione sul sistema sanitario nazionale. È anche un dato estremamente utile per stimare le conseguenze di una necessaria riapertura dell’economia. Specialmente se lo si riuscisse ad usare per capire quali sono i soggetti più a rischio e dunque da monitorare attivamente e proteggere. La riapertura del paese deve avvenire in relativa sicurezza ed in tempi brevi, ed è impensabile aspettare un azzeramento del contagio o la distribuzione di un vaccino. Altrimenti il rischio è quello di trasferire la pressione dal sistema sanitario a quello economico in quella che è già definita come la più grande depressione dal 1929. A livello globale ciò risulterebbe in una crisi sociale senza precedenti e l’ingresso in una fase di estrema volatilità politica che produrrebbe conseguenze molto più pericolose dello stesso virus nell’ambito delle relazioni internazionali.

Ci sono stati errori nella comunicazione dei dati scientifici relativi al coronavirus?

Non penso che i dati siano errati, più precisamente erano e sono incompleti e di scarsa qualità come è naturale avvenga in frangenti di crisi. Certamente però vi sono stati errori di comunicazione. Oggi sappiamo che la pandemia è stata inizialmente sottovalutata, ma ultimamente mi sembra che si sia passati al fronte opposto e che la paranoia stia determinando le nostre scelte. Sarebbe facile accusare i media di questo. La politica ha le sue responsabilità, ma a mio avviso l’errore è principalmente negli scienziati. Spesso non siamo stati completamente onesti, o espliciti, e il messaggio che è passato è che le stime ed i modelli previsionali siano delle vere e proprie profezie. Pensiamo ad esempio come i modelli, provvisori ed estremamente limitati, elaborati dall’Imperial College di Londra siano stati usati come unico criterio di riferimento per le politiche pubbliche di molti paesi (v. nota in calce per la critica dettagliata del modello)[1].

Come ho premesso, ciò non è solo impossibile ma contrario al metodo scientifico. Oltretutto le previsioni odierne sembrano essere quasi sempre orientate al ‘worst case scenario’; a mio modo di vedere per non essere più accusati di sottovalutarne le conseguenze.

A pandemia inoltrata, come leggere quella che inizialmente era considerata l’anomalia Italia?

Non ritengo che l’Italia sia più da considerarsi un’anomalia. Senz’altro, almeno in una fase iniziale, il virus si è diffuso in modo estremamente veloce e con un livello di letalità inaspettato. E questo era certamente anomalo. E tuttavia da un lato abbiamo visto che, col passare del tempo, quasi tutti i paesi si stanno allineando tra di loro sia in termini di diffusione del contagio che di mortalità.

I dati indicano che il case fatality rate è stabilmente sotto l’1% dal 5 di aprile.

Ad oggi (16 aprile), il valore è dello 0.61% a 8 giorni dal manifestarsi dei sintomi (0.65% a 10 giorni). I dati relativi al fattore di crescita sono stabilmente sotto il valore di 1, e quindi indicano la decrescita del contagio, a partire dal 12 aprile (v. i dettagli nello studio pubblicato in precedenza a questo link).

Inoltre, i ricoverati in terapia intensiva sono in costante rapida diminuzione dal 4 aprile, mentre in generale i ricoveri sono in flessione dal 7 aprile.

D’altro lato, è certo che sappiamo ancora molto poco del virus e dei fattori che ne facilitano la diffusione. Gli studi che stanno emergendo in questi giorni, ad esempio, suggeriscono che non tanto l’età, quanto la presenza di condizioni croniche di salute come diabete, ipertensione e obesità, siano da ritenersi responsabili dei casi più gravi di infezione. Relativamente alla diffusione geografica, il dato che emerge sembra suggerire che questa avvenga più facilmente in aree altamente industrializzate e magari con scarsa attenzione alla qualità ambientale. Non sorprende dunque che i paesi più industrializzati, e al loro interno le aree maggiormente sviluppate come la pianura padana, la città di New York o la provincia di Wuhan, siano quelli più colpiti dal virus. Forse ciò accade per colpa di una popolazione molto più affetta da patologie preesistenti e già indebolita da fattori ambientali ma anche, come suggeriamo alla Chapman University in uno studio in via di pubblicazione, a causa della particolare struttura della popolazione e dei network sociali che è tipica delle aree più operose di un paese: cioè una popolazione attiva più giovane e dinamica, e un’importanza maggiore del tessuto di supporto sociale dato dalle relazioni intergenerazionali.

Come valuta il dialogo / scontro fra politica e ricercatori al tempo del COVID19?

Certamente la politica deve ascoltare la scienza prima di prendere delle decisioni, ma la scienza non può pensare di sostituirsi alla politica né assumere le caratteristiche di una religione infallibile. Personalmente ritengo che sia importante mantenere una distinzione chiara dei ruoli e che gli scienziati, in particolare, non cedano alla tentazione di fare i politici. Questo perché i politici sono soggetti al controllo democratico degli elettori; un principio fondamentale dell’ordinamento democratico. Mentre la scienza non opera, e non deve operare, in modo democratico. Leggo ad esempio, e con una certa preoccupazione, che alcuni esperti virologi vorrebbero creare una struttura permanente di monitoraggio sui rischi pandemici. Fin qui nulla di male; ben venga. Bisognerebbe anzi inquadrarla in una discussione complessiva sulla creazione di strutture di resilienza e difesa civile. Ma che la si voglia legalmente in grado di imporre misure di quarantena o limitazione dei diritti individuali è francamente inaccettabile in un paese democratico. Insomma se, come vorrebbero gli epidemiologi, il modello auspicato è quello della Corea non possiamo certo ispirarci a quella del Nord.

Come valuta l’impatto della pandemia sul futuro delle relazioni internazionali?

Sto leggendo diverse teorie sull’origine del virus. Mentre sembra ormai scontata un’origine naturale, vi sono sospetti che il suo rilascio possa dipendere da errori avvenuti in un laboratorio cinese dove il virus, come accade in molte altre nazioni, era studiato. Se fosse confermato che la Cina ha avuto delle responsabilità dirette sulla pandemia, in aggiunta alla sua gestione tardiva e poco trasparente del contagio, si profilerebbero scenari inquietanti per le relazioni internazionali. Ciò porterebbe infatti ad un inasprimento delle già difficili relazioni diplomatiche, e potenzialmente di quelle economiche, con il gigante asiatico che potrebbe reagire in modo molto aggressivo. Questo si aggiungerebbe alle già evidenti tendenze isolazioniste americane e alla possibile implosione dell’Unione Europea, sempre più disarmonica, che già esce con le ossa rotte dalla pandemia. Uno scenario del genere getterebbe non poche ombre sulla già precaria governance mondiale e minerebbe di fatto importanti progetti comuni sul fronte dei cambiamenti climatici e dei processi di pace oggi in atto in diverse aree del pianeta.

 

[1] Il modello è quello che più di tutti ha informato le strategie di contenimento dell’infezione; in particolare l’idea di “flatten the curve”; è molto sofisticato ma si basa su assunti che derivano da informazioni imperfette. Ad esempio, il valore di R0 che il modello assume, il numero di riproduzione di base, ovvero il numero medio di nuovi casi per ogni persona infetta, e’ stabilito a priori su circa 2 individui. In altre parole, il modello assume che ogni individuo infetto tende ad infettarne altri due, ma questa non è una misura reale della sua infettività. Va da sé che anche una minima differenza tra il dato assunto e quello effettivo si amplifica in eccesso o difetto quando viene estesa a livello nazionale. Inoltre, per fare un altro esempio, i ricercatori hanno usato un periodo di incubazione di cinque giorni e hanno ipotizzato che la trasmissione abbia inizio 12 ore prima dell’inizio dei sintomi. Altra cosa che, col tempo, abbiamo scoperto non essere vera. La lista è lunga: i ricercatori hanno anche assunto che la percentuale di casi ospedalizzati, cioè quelli che avrebbero richiesto strutture di terapia intensiva si aggirava attorno al 30% dei ricoverati mentre il dato è molto minore, o che il tasso di mortalità dei pazienti in terapia infettiva fosse del 50%, che gli anziani fossero i più colpiti, ecc. Venendo al punto, i valori utilizzati come assunti del modello si basano sulle informazioni che i ricercatori avevano all’epoca dell’elaborazione del modello e pertanto i suoi risultati sono da considerarsi molto limitati. Gli stessi ricercatori, ovviamente, non hanno fatto segreto di queste limitazioni ma spesso i nostri giornali ed esperti televisivi le hanno omesse. Un’altra cosa che il modello ha offerto è una stima della popolazione degli infetti non identificati; che veniva stimata attorno a 6 milioni di individui ed è stata riportata da tutti i quotidiani ed esperti. Quello che tuttavia è stato spesso omesso, è che lo stesso modello riportava come intervallo di confidenza, e cioè un insieme di valori che con una certa “confidenza” contiene il valore vero, andava dai circa 2 ai quasi 16 milioni di individui. Insomma, non esattamente la stima puntuale che si voleva far passare. Ciò è esemplificativo dell’uso spregiudicato che si è fatto dei modelli.