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La burocrazia degli insorti. Come nascono le politiche talebane. Intervista ad Ashley Jackson.

Nell’ultimo decennio, i Talebani hanno progressivamente allargato la propria presenza e il proprio controllo sul territorio afghano. Di conseguenza, hanno iniziato a sperimentare nuove forme di amministrazione (parallela). Contemporaneamente, il movimento si è anche trasformato in un’organizzazione più complessa e centralizzata con un proprio ramo mediatico e la capacità di negoziare e di adattarsi a livello locale, nei limiti imposti dalla dottrina. Nel momento critico in cui, attraverso un cosiddetto ‘dialogo di pace’, stanno cercando di assicurarsi un ruolo chiave nel futuro politico del paese, capire i processi decisionali dei Talebani e come nascono le loro politiche, è fondamentale.

Ashley Jackson e Rahmatullah Amiri hanno intrapreso un’ampia ricerca sul terreno su questo tema, intervistando centinaia di persone dentro e fuori il movimento: da funzionari talebani locali, a membri della leadership storica; da mullah che spingono per cambiamenti di policy, agli ‘anziani’ che trattano la riapertura delle scuole; fino a semplici cittadini. Sono riusciti in questo modo ad identificare i meccanismi decisionali e a tratteggiare un’immagine coerente della politica talebana, così come prende forma sul territorio.

Il rapporto finale, pubblicato dallo United States Institute of Peace (USIP), si può leggere nella versione originale qui.  

Il 9 dicembre 2019 Insurgent bureaucracy: how the Taleban make policy è stato presentato al King’s College di Londra nel corso di un evento organizzato dal Conflict, Security and Development Research Group.

A margine dell’incontro, START InSight ha posto alcune domande ad Ashley Jackson.

Ashley, fino a che punto le persone che avete incontrato erano disponibili ad affrontare un argomento tanto delicato?

Siamo rimasti particolarmente sorpresi dal modo in cui i membri del movimento talebano hanno risposto alla nostra inchiesta sul loro processo decisionale, e anche dalla reazione ‘affascinata’, dopo che abbiamo presentato loro il nostro studio su come l’organizzazione si sia sviluppata nel tempo.

Quindi avete ripreso contatto in un secondo momento?

Sì, dopo avere tirato le nostre prime conclusioni, siamo tornati da alcuni individui che avevamo incontrato, per capire se ciò che avevamo teorizzato fosse loro familiare, se corrispondesse alle loro esperienze reali. È interessante osservare quanto vogliano essere presi sul serio e anche capire i loro stessi processi, che sono stati per lungo tempo clandestini, nascosti, e frammentari. Avevano più voglia di parlarne di quanto non mi aspettassi.

Questo vale anche per le persone al di fuori del movimento?

Sì. Nel nostro rapporto abbiamo una sezione dedicata alle vittime civili, dove sottolineiamo come molte persone avessero preso per buoni gli sforzi dei Talebani nell’assumersi le proprie responsabilità, ma poi furono punite per essersi lamentate di funzionari talebani locali. Ero convinta che queste persone sarebbero state reticenti ma così non è stato: hanno invece ribadito come i Talebani, se intendono entrare nel governo, dovranno in futuro davvero essere più responsabili. Quindi anche coloro che potenzialmente avrebbero potuto subire delle ritorsioni, si sono fatti avanti.

I Talebani vengono percepiti e descritti principalmente come insorti in guerra contro il governo afghano. Di fatto, in ampi tratti di territorio c’è un sistema parallelo di governo talebano (shadow government), dove queste due entità e realtà coesistono e cooperano. Fino a che punto questa convivenza è conveniente -o sconveniente- per le parti coinvolte, cioè il governo afghano, i Talebani e la popolazione civile?

La gente ha stretto degli ‘accordi di sopravvivenza’; i funzionari locali del Ministero della Sanità, ad esempio, vogliono che i civili possano continuare ad usufruire dell’assistenza medica, e lo stesso vale per i Talebani. C’è un interesse condiviso, nel mantenere in funzione servizi centrali, nel campo della sanità, dell’istruzione, così come le attività delle ONG. Naturalmente i Talebani cercano di trarre vantaggio dalla situazione ma la popolazione afghana, che ha attraversato decenni di guerra, desidera solo trovare il modo di andare avanti, incontrandosi su un terreno comune. Quanto durerà? Non si può dire, ma per il momento entrambe le parti si adoperano affinché la popolazione abbia le sue cliniche, i bambini le loro scuole e via dicendo..

I Talebani sono disposti a scendere a compromessi su principi che ritengono di (minore o) maggiore importanza per il movimento?

Sulla base delle mie ricerche, un campo nel quale ritengo che non siano disposti a scendere a compromessi è quello della giustizia. La giustizia talebana è fondata sulla sharia, molto diversa da quella dello Stato. Su altre questioni, come la scuola, hanno dimostrato di essere capaci di adattarsi alle richieste e alle necessità degli afghani.

Tuttavia, il punto è che hanno conquistato principalmente aree rurali dove predomina una tendenza conservatrice. Nelle città la situazione è diversa, i costumi sono molto più liberi, le donne partecipano alla vita pubblica in modi impensabili nei tipici villaggi rurali.

La propensione al compromesso dipenderà anche dalla determinazione con cui la comunità internazionale proverà a negoziare con loro su questi temi, e da quanto il governo afghano saprà intavolare una discussione produttiva con il movimento. Cosa che ad oggi non è ancora avvenuta…

D’altra parte sono i Talebani stessi a sembrare poco propensi ad aprire un dialogo con il governo afghano….

La realtà sul territorio ci racconta invece che parlano con il governo ogni giorno, con i suoi funzionari civili, con i parlamentari. Sappiamo che sono in grado di farlo.

Il paese dipende in maniera importante dagli aiuti internazionali. I Talebani sono interessati a sviluppare ed incoraggiare lo sviluppo delle infrastrutture e dell’economia afghana -ciò che richiederebbe anche, da parte del movimento, un’apertura maggiore nei confronti del mondo esterno-?

 Credo di sì, che siano interessati agli investimenti e anche ad aprirsi, ma non sono certa che sappiano esattamente quanto l’Afghanistan dipenda dagli aiuti esterni, che ammontano a circa il 75% del bilancio di governo e al 95% di quello delle forze di sicurezza. Per andare avanti e garantire la continuità degli aiuti, dovranno per forza trovare il modo di scendere a compromessi con la comunità internazionale, ma questi due attori non parlano la stessa lingua. È un problema ed è la sfida principale, che dovrà essere affrontata con il dialogo.

L’Occidente sta coinvolgendo i Talebani in modo produttivo?

Sì e no. Nel nostro rapporto valutiamo ad esempio l’efficacia del dialogo aperto dalla sezione dell’ONU che si occupa dei diritti umani in Afghanistan. Hanno ottenuto qualche successo, ma stiamo parlando di tempi molto dilatati, dal 2013 ad oggi. L’ONU si è prefissata degli obiettivi strategici e prioritari e sebbene abbia saputo riconoscere positivamente alcuni cambiamenti apportati dai Talebani, ciò rimane una cosa rara. La comunità internazionale e i donatori sono ancora timorosi e reticenti nell’impegnarsi su questioni che -dicono- stanno loro a cuore, come l’istruzione delle bambine. Siamo molto in ritardo. Ritengo che la comunità internazionale non sia ancora pronta e che nessuno, Stati Uniti e Nazioni Unite incluse, stia mostrando una leadership sufficiente a questo riguardo. Il che è incredibilmente sconcertante, visto che milioni di vite afghane dipendono dalla loro abilità di negoziare con i Talebani.