President Biden Speaks At National Association Of Counties Legislative Conference

L’eredità di Joe Biden: una valutazione della sua presidenza.

di Melissa de Teffè dagli Stati Uniti.

La presidenza di Joe Biden, iniziata a gennaio del 2021 e conclusasi venerdì 18, 2025, ha segnato un periodo significativo nella storia americana, sfortunatamente più per le controversie interne e internazionali che per le innovazioni e i progressi che le società oggi richiedono. Sicuramente le sfide che questa amministrazione ha dovuto affrontare sono state molteplici e gravi. Il Covid, due guerre militari da distinguere da quelle economiche, lo spionaggio cinese sfacciato e aggressivo,  e infine, la malattia di Biden, che da prima del famoso dibattito con Trump, (pensiamo alle immagini di Biden che vaga durante il G7 in Puglia) ci ha portati a porci questa domanda: “Ma chi sta governando gli Stati Uniti?”. L’eredità di qualsiasi presidente è definita dalla sua leadership durante periodi storici difficili e sicuramente Biden è stato il protagonista di questo. Se i primi due anni sono stati vissuti, almeno dalla popolazione, come una rinascita positiva, dove il grande Padre della nazione iniziava a prendersi cura del “popolo” afflitto dall’inflazione, dalla perdita di lavoro per il Covid, e da un’economia internazionale ferma, l’arrivo di milioni di immigrati illegali le cui sovvenzioni federali hanno prosciugato diverse casse dello Stato. Qui analizziamo in sintesi i pro e i contro.

L’avvio: ripresa economica e vittorie legislative  

Uno degli aspetti più significativi della politica Biden è stato il suo ruolo nel guidare l’economia degli Stati Uniti dopo le conseguenze della pandemia di COVID-19. Quando Biden è entrato in carica nel gennaio 2021, il paese stava ancora affrontando le ripercussioni economiche della pandemia, che aveva causato una diffusa perdita di posti di lavoro, interruzioni nelle catene di approvvigionamento e una grave crisi sanitaria pubblica. L’amministrazione Biden ha subito iniziato a lavorare per stabilizzare l’economia.

  1. American Rescue Plan (ARP):

Nel marzo del 2021, Biden ha approvato l’American Rescue Plan, un pacchetto di stimolo da 1,9 trilioni di dollari progettato per dare assistenza finanziaria diretta alla popolazione, sovvenzionare la distribuzione dei vaccini e supportare le economie di quegli Stati federali o città in gravi difficoltà economiche. Il piano includeva incentivazioni come l’estensione dei benefici di disoccupazione e altre misure di soccorso volte a mitigare l’impatto finanziario della pandemia. L’ARP è stato accreditato per aver aiutato milioni di americani ad affrontare la tempesta economica, portando a una rapida ripresa della spesa dei consumatori e a una riduzione dei tassi di povertà.

  • Crescita economica e creazione di posti di lavoro:
    Gli sforzi di recupero economico di Biden sono stati in gran parte efficaci nella creazione di posti di lavoro. Alla fine del 2021, l’economia degli Stati Uniti aveva assicurato 6,6 milioni di posti di lavoro, segnando così una svolta storica. Il tasso di disoccupazione, che durante la pandemia era salito alle stelle, è sceso sotto la leadership di Biden, raggiungendo i livelli pre-pandemia già a metà del 2021, con una crescita economica complessiva per il 2021 del 5,9%, il tasso più alto in quasi quattro decenni.
  •  Investimenti in infrastrutture:
    The infrastructure Investment Act and the Job Act.  A novembre 2021 sono stati allocati 1,2 trilioni di dollari per progetti infrastrutturali in tutto il paese. Questo storico disegno di legge ha finanziato la riparazione e l’aggiornamento di strade, ponti, trasporti pubblici e reti a banda larga, tra le altre infrastrutture critiche, creando quindi anche posti di lavoro. Questo disegno di legge, acclamato perchè  più che necessario, è stato visto come un importante successo per l’agenda politica interna di questa amministrazione.

Contemporaneamente, la Federal Reserve, sotto la guida di Jerome Powell, ha adottato politiche monetarie espansive, abbassando i tassi di interesse e acquistando asset per garantire liquidità nei mercati finanziari. Questo ha stabilizzato l’economia momentaneamente. Nel complesso, le politiche economiche di Biden hanno stimolato una rapida ripresa, con una crescita del PIL del 5,9% nel 2021 e una significativa riduzione della disoccupazione. Tuttavia, l’aumento dei prezzi al consumo, secondo il CPI (l’Indice dei Prezzi al Consumo) depurato dagli aggiustamenti stagionali, è del 19,4% da quando Biden è entrato in carica, evidenziando la difficoltà di gestire gli effetti collaterali delle politiche di stimolo in un contesto di forte crescita.

4. Inflation Reduction Act (IRA):
Ad agosto del 2022, Biden ha firmato l’ Inflation Reduction Act in legge. Nonostante il nome, l’oggetto della legge era quello di combattere il cambiamento climatico, abbassare i prezzi dei farmaci da prescrizione e riformare il codice fiscale. L’IRA è forse meglio conosciuto per il suo storico investimento in energie rinnovabili, con disposizioni volte a ridurre le emissioni di gas serra e promuovere fonti di energia alternative. Supportato da ambo i partiti questa legislazione è stata uno dei principali successi di Biden nell’ambito della politica climatica e della sanità.

Politiche sociali: progressi nei diritti civili: La presidenza di Biden si è occupata anche di diritti civili e giustizia sociale.

1. Respect for Marriage Act:
Nel dicembre 2022, Biden ha firmato in legge il Respect for Marriage Act. Questa legislazione cruciale ha abrogato il Defense of Marriage Act e ha sancito nel diritto federale il matrimonio tra persone dello stesso sesso e tra persone di razze diverse, offrendo protezione legale per le coppie LGBTQ+ e per quelle interrazziali. Questo è stato visto come una vittoria monumentale per il movimento per i diritti LGBTQ+ e ha segnato un cambiamento storico nel panorama giuridico riguardo all’uguaglianza matrimoniale negli Stati Uniti. (*Il Defense of Marriage Act (DOMA) era una legge federale degli Stati Uniti, firmata dal presidente Bill Clinton nel 1996, che definiva il matrimonio come l’unione esclusiva tra un uomo e una donna, impedendo così il riconoscimento del matrimonio tra persone dello stesso sesso a livello federale. Inoltre, la legge permetteva agli stati di non riconoscere i matrimoni tra persone dello stesso sesso celebrati in altri Stati. Nel 2013, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha dichiarato incostituzionale una parte fondamentale del DOMA, affermando che impedire il riconoscimento federale dei matrimoni tra persone dello stesso sesso violava il principio di uguaglianza protetto dalla Costituzione. Di conseguenza, il DOMA è stato progressivamente smantellato, e nel 2022, la Respect for Marriage Act ha abrogato definitivamente il DOMA, garantendo il riconoscimento federale del matrimonio tra persone dello stesso sesso.)

2. Diritti LGBTQ+:
L’amministrazione Biden ha preso misure rapide per proteggere i diritti LGBTQ+ in vari ambiti, tra cui l’istruzione, la sanità e il lavoro. La sua amministrazione ha annullato politiche discriminatorie, tra cui il divieto per le persone transgender di servire nell’esercito, e ha adottato misure per proteggere gli studenti LGBTQ+ nelle scuole dalla discriminazione. Biden ha anche emesso ordini esecutivi per garantire l’accesso all’assistenza sanitaria per gli individui LGBTQ+, affrontare le disparità sanitarie e combattere la discriminazione contro gli LGBTQ+.

Politica estera: la scena globale

La politica estera di Biden è stata segnata da molte controversie. Il suo approccio radicato nel rinnovato impegno con il mondo dopo la dottrina “America First” dell’amministrazione Trump, si è concentrato sul multilateralismo, inizialmente capovolgendo quasi tutte le scelte fatte dall’amministrazione precedente e cercando di affrontare le molteplici sfide globali come il cambiamento climatico e l’autoritarismo.

1. Risposta all’invasione russa dell’Ucraina:
Uno degli aspetti definitivi della politica estera di Biden è stata la sua risposta all’invasione russa dell’Ucraina nel 2022. Biden ha rapidamente imposto una serie di sanzioni economiche contro la Russia, incluso il congelamento dei beni di funzionari e oligarchi russi in mano agli americani,  ha coordinato il supporto internazionale per l’Ucraina, guidando gli alleati NATO nel fornire armamenti, finanziamenti miliardari e aiuti umanitari. Il sostegno di Biden all’Ucraina ha consolidato la sua posizione come leader impegnato a difendere la democrazia contro l’aggressione autoritaria.

2. Posizionamento riguardo la Cina:
L’amministrazione Biden ha preso diverse azioni contro la Cina, sia dirette che indirette, concentrandosi su una serie di settori strategici che vanno dalla sicurezza, alla difesa militare ed economica della nazione, ai diritti umani. Ecco alcune delle principali azioni:

3. Politica di Confronto sulla Sicurezza e la Difesa:

  • AUKUS (2021): Come parte della strategia per contrastare l’influenza crescente della Cina nell’Indo-Pacifico, Biden ha collaborato con il Regno Unito e l’Australia per creare l’alleanza AUKUS, che include la fornitura di sottomarini nucleari all’Australia e altre iniziative di cooperazione militare. Questa alleanza costituisce un contrappeso alla potenza navale crescente della Cina nella regione.
  • Quad (2021): L’amministrazione Biden ha rafforzato l’alleanza del Quad (Stati Uniti, Giappone, India e Australia), che mira a rafforzare la cooperazione in ambito di sicurezza, commercio, e altre aree strategiche, rispondendo così alle crescenti sfide poste dalla Cina nell’Indo-Pacifico.
  • Tecnologia 5G e cyber security: La Cina è vista come una minaccia alla sicurezza digitale, e Biden ha sostenuto iniziative per difendersi da attacchi informatici provenienti dalla Cina. Ha vietato la partecipazione di Huawei nelle reti 5G.
  • Sanzioni contro aziende cinesi:  Queste misure proibiscono alle aziende americane di vendere tecnologie e componenti critici a queste società, limitando l’accesso a componenti essenziali per la costruzione di infrastrutture 5G e la produzione di semiconduttori avanzati. L’obiettivo principale di queste restrizioni è ridurre il rischio di spionaggio e sabotaggio informatico, proteggendo così le reti e i sistemi sensibili degli Stati Uniti. Inoltre, l’amministrazione ha introdotto nuove limitazioni, come l’inserimento di ulteriori aziende cinesi nella lista nera del Dipartimento del Commercio, vietando loro l’accesso al mercato statunitense.
  • TikTok e Preoccupazioni sulla Sicurezza dei Dati: TikTok, una delle piattaforme social più popolari al mondo, è di proprietà della compagnia cinese ByteDance ed è in questo momento soggetto incriminato per la manipolazione di dati di milioni di americani.  La legge richiede che la società madre di TikTok, ByteDance, venda l’applicazione a un acquirente approvato dagli Stati Uniti entro il 19 gennaio 2025, altrimenti la famosa app  sarà rimossa dagli store di applicazioni statunitensi.  Il presidente eletto, Donald Trump, ha dichiarato che è probabile che conceda un’estensione di 90 giorni, una volta assunto l’incarico. La situazione rimane incerta.  

4. Diplomazia e Alleanze Globali:

  • Rinnovato impegno con alleati globali: Biden ha lavorato per rafforzare le alleanze con alleati storici come l’Unione Europea, il Giappone, e l’India, cercando di costruire una coalizione contro le politiche economiche e geostrategiche della Cina. L’obiettivo è rendere più efficace una risposta collettiva alle pratiche commerciali cinesi percepite come sleali.

5. Diritti Umani:

  • Sostegno alla causa dei diritti umani in Xinjiang: Biden ha preso una posizione forte contro le violazioni dei diritti umani in Xinjiang, denunciando la repressione della minoranza uigura e definendo le azioni cinesi come genocidio. Ha imposto sanzioni contro i funzionari cinesi accusati di essere responsabili di abusi.
  • Hong Kong e le libertà civili: Biden ha denunciato la crescente repressione delle libertà civili a Hong Kong, dopo l’approvazione della legge sulla sicurezza nazionale da parte della Cina. L’amministrazione ha imposto sanzioni a funzionari cinesi e hongkonghesi coinvolti nella repressione.

Aspetti negativi: critiche e sfide

A partire dal 2022, l’amministrazione Biden ha dovuto affrontare le conseguenze negative delle scelte politico-economiche adottate all’inizio del suo mandato, con un impatto diretto sul contesto interno del paese.

1. Inflazione e difficoltà economiche:
Nonostante le scelte economiche iniziali abbiano risposto a necessità urgenti, a partire dalla seconda metà del suo mandato, il paese ha affrontato una crescente inflazione. Le misure di stimolo fiscale e monetario, sebbene necessarie per sostenere l’economia durante la pandemia, hanno aumentato la domanda aggregata.  Secondo la Banca Centrale Europea, l’inflazione negli Stati Uniti è stata più persistente a causa di una componente interna più forte, legata a una ripresa dei consumi più rapida rispetto all’Eurozona.  Inoltre, l’aumento dei prezzi dell’energia, aggravato dalla guerra in Ucraina, ha avuto un impatto significativo sull’inflazione. Le interruzioni nelle catene di approvvigionamento hanno portato a un aumento dei costi delle materie prime e dei semilavorati, influenzando i prezzi al consumo. Di conseguenza, la presidenza di Biden ha affrontato critiche per non essere riuscita a contenere l’inflazione, che ha avuto un impatto diretto sul potere d’acquisto delle famiglie americane.

2. Problemi di confine e immigrazione:
La politica sull’immigrazione è stata un altro punto di contesa e nonostante la sistuazione ereditata fosse complessa e volatile soprattutto al confine meridionale, la gestione della crisi al confine ha suscitato forti critiche, e molte divisioni. Accusati di mal governo l’amministrazione solo in ultimis ha messo in atto una politica di controllo restrittiva, ma soprattutto per le continue pressioni nazionali. L’impatto economico e la sicurezza pubblica ne hanno risentito in modo significativo, diventando una chiara testimonianza di questa cattiva gestione. Includo due esempi esplicativi.

New York City: Crisi Finanziaria e Sociale

New York City, una delle principali città santuario, (non tutte le città o gli Stati hanno deciso di alloggiare gl’immigrati, come ad esempio la Florida), ha affrontato una crisi migratoria senza precedenti. Dal 2022, la città ha accolto oltre 100.000 migranti, con un costo stimato di 12 miliardi di dollari entro il 2025.  Il sindaco Eric Adams ha dichiarato che la crisi migratoria “sta distruggendo” la città, sottolineando la necessità di un supporto federale e statale per affrontare l’emergenza che sta causando la bancarotta.

Aurora, Colorado: Invasione e Occupazione di Edifici e Problemi di Sicurezza

Aurora, una città suburbana di Denver, ha vissuto un aumento significativo della criminalità legata all’afflusso di migranti, in particolare quelli provenienti da Venezuela. Un esempio drammatico di questo fenomeno è stato l’invasione e l’occupazione di due palazzi da parte di gruppi di migranti delinquenti. Questi edifici, sono stati occupati illegalmente. I residenti  hanno denunciato atti di violenza, traffico di droga e altri crimini, attribuiti a una banda organizzata come il “Tren de Aragua”, un gruppo criminale che si sta espandendo anche in altre aree degli Stati Uniti. L’incapacità delle autorità locali di intervenire ha esacerbato la situazione. Questo caso ha sollevato una serie di interrogativi sul controllo della migrazione e sul tipo di supporto dato dalle città rifugio non a migranti “meritevoli”, ma a veri e propri delinquenti, dove, chi ne paga le conseguenze sono residenti espropriati dei loro averi e della casa.

Le forze dell’ordine locali hanno intensificato gli sforzi per affrontare queste sfide, ma le risorse sono limitate. Inoltre, la collaborazione tra le autorità locali e le agenzie federali, come l’ICE, (U.S. Immigration and Customs Enforcement), è stata più che carente per motivi cos’ detti etici. Questa politica di accoglienza ha avuto risvolti inaspettati apportando sfide significative in termini di risorse economiche e sicurezza pubblica.

3. Valutazioni di approvazione e polarizzazione politica:
Le valutazioni di approvazione di Biden sono fluttuate durante la sua presidenza, principalmente a causa di fattori come l’inflazione, l’aumento dei prezzi dell’energia e la continua polarizzazione politica. Una volta iniziato il periodo elettorale, agli inizi del 2024, i valori di approvazione sono diminuiti drasticamente, soprattutto sapendo che il contendente era Donald Trump e la sua nota imprevedibilità. Da quel momento l’America si è divisa.

4. Il ritiro dall’Afghanistan:
Il ritiro dall’Afghanistan, già considerato un fallimento, merita una riflessione approfondita. Le modalità con cui è stato gestito hanno suscitato ampie critiche da parte di entrambe le fazioni politiche. La decisione di Biden di ritirare le forze americane entro settembre 2021 è stata vista come una grave mancanza di responsabilità, poiché non è riuscito a garantire una transizione pacifica e ordinata oltre al non dare il tempo necessario per traslocare la grande quantità di armamenti in loco. Questo errore ha avuto ripercussioni devastanti non solo nel contesto internazionale, ma ha minato la propria immagine all’interno sia del mondo militare che quello civile dimostrando l’incapacità di gestire crisi complesse e di mantenere la stabilità in questa regione strategica del mondo.

Un episodio che ha ulteriormente acuito le critiche sul ritiro è avvenuto durante il discorso sullo Stato dell’Unione del 2024, quando, verso la fine, Steven Nikoui, padre di Kareem Nikoui, un marine statunitense ucciso durante l’attacco all’Abbey Gate di Kabul nel 2021, è stato arrestato per aver urlato “Signor Presidente si ricordi di Abbey Gate” e “dei Marines americani”,  in riferimento all’attacco terroristico che ha causato la morte di suo figlio e di altri 12 soldati americani, oltre a diversi civili afghani. L’arresto, seppur temporaneo, ha evidenziato il fallimento nel proteggere i diritti e le vite dei propri soldati e dei cittadini afghani. La scena ha scatenato indignazione, ha accentuato le divisioni all’interno della società americana, minando ulteriormente la leadership di Biden.

5. Politica Transgender

La politica sulla questione dei diritti delle persone transgender, in particolare nello sport, ha subìto un significativo contraccolpo durante la presidenza di Joe Biden. Da subito sono state sostenute le richieste degli atleti mashi transgender di partecipare alle competizioni femminili. La questione è divenuta sempre più divisiva, con ampi settori della società e della politica che hanno sollevato preoccupazioni riguardo alla parità di opportunità per le donne cisgender. Ad opporsi da ambo i versanti politici sono stati in tanti che si è culminato con la decisione della Camera dei Rappresentanti, che il 14 gennaio 2025 ha approvato il “Protection of Women and Girls in Sports Act”. La legge vieta alle atlete transgender di partecipare a competizioni sportive femminili nelle scuole e università che ricevono fondi federali, ribaltando così le politiche sostenute dall’amministrazione Biden. Questa decisione rappresenta un evidente fallimento delle politiche pro-transgender del presidente, mettendo in luce l’ampia opposizione che continua a esistere sia a livello legislativo che sociale riguardo ai diritti delle persone transgender.

Conclusioni: un’eredità mista

La presidenza di Joe Biden è stata segnata da alcuni temporanei successi e da sfide significative. Le soluzioni adottate per affrontare i disastri economici causati dalla pandemia, gli sforzi di recupero economico, gli investimenti in infrastrutture e le vittorie legislative in ambiti come il cambiamento climatico e una riforma sanitaria piuttosto limitata (senza dimenticare che la principale causa di bancarotta personale è l’incapacità di pagare i farmaci prescritti) saranno presto dimenticate. Sulla bilancia pesano l’inflazione, la criminalità di immigrati illegali, gli assalti sessuali di ragazzini dichiaratisi falsamente trans nei bagni pubblici femminili, i morti di Abbey Gate in Afghanistan, l’incapacità di dialogare e con Putin e con Netanyahu, senza poi dimenticare d’aver dato la grazia totale e incondizionata al figlio cocainomane condannato a 17 anni di carcere.

Come per tutti i presidenti, l’eredità di Biden sarà valutata nel tempo. Sebbene alcune delle sue politiche abbiano gettato le basi per miglioramenti a lungo termine nel posizionamento globale, le turbolenze della seconda metà del suo mandato soprattutto riguardo alle politiche interne, probabilmente plasmeranno la narrativa storica. Alla fine, la presidenza di Biden rappresenta un periodo di confusione identitaria, di violenze verbali mai vissute prima, una volontà di obnubilare le radici storiche di questa nazione, ma senza una linea politica chiara. Ai posteri la sentenza finale.


Il presidente Joe Biden e il dossier siriano

di Claudio Bertolotti

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Il passaggio dall’amministrazione di Donald J. Trump alla nuova amministrazione del presidente Joe Biden potrebbe portare a pochi cambiamenti alla politica statunitense nel Medioriente. Gli Stati Uniti continuano a svolgere un ruolo importante nella stabilizzazione dell’area e nel tentativo di dissuadere attori locali e regionali dal prendere iniziative sfavorevoli.

Il 25 febbraio, aerei statunitensi hanno bombardato alcuni obiettivi nella parte orientale della Siria, al confine con l’Iraq. Target dei bombardamenti erano due milizie operative in Iraq, Kataib Hezbollah e Kataib Sayyid al Shuhada, indicate da Washington quali responsabili di operazioni mirate ai dannni delle truppe statunitensi in Iraq.

Nonostante l’annuncio del disimpegno statunitense e del conseguente ritiro militare dalla Siria nord-orientale, Washington continua a schierare nell’area alcune centinaia di truppe.

Il passaggio dall’amministrazione di Donald J. Trump alla nuova amministrazione del presidente Joe Biden potrebbe portare a pochi cambiamenti alla politica statunitense nel Medioriente. Questo perché la visione del nuovo presidente in termini di relazioni estere e approcci alle dinamiche mediorientali non è così diversa da quella dei suoi predecessori (compresa l’amministrazione di Barack Obama, di cui Biden fu vice-presidente).

Quello che potrebbe cambiare sarà l’approccio più aggressivo degli altri attori e concorrenti: Turchia, Russia e, ultimo ma non meno importante, l’Iran. Di sicuro, chi pagherà il prezzo più alto saranno gli attori di seconda linea: la pletora di milizie, così come i gruppi islamisti, e il cosiddetto fronte delle forze democratiche siriane (SDF, Syrian Democratic Forces) tra le cui fila c’è lo Yekîneyên Parastina Gel (YPG, People’s Protection Units) – componente maggioritaria delle SDF – osteggiato dalla Turchia. Turchia che considera l’YPG come estensione del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), designato da Ankara – e dagli stessi Stati Uniti – come gruppo terroristico. Ma, nonostante la designazione terroristica del PKK da parte statunitense, l’YPG ha mantenuto il ruolo di partner fedele e indispensabile all’interno della coalizione internazionale (contro lo Stato islamico) guidata da Washington. L’YPG, che il PKK di fatto continua comunque a considerare come propria affiliata siriana, nega gli attuali legami istituzionali tra le due organizzazioni.

Sull’altro fronte, nel nord-est della Siria permane una residua presenza e attività dello Stato Islamico: una sfida che perdura. Sebbene le capacità operative del gruppo rimangano limitate e non si sia verificato alcun grave fatto sul piano della sicurezza, i suoi membri sono stati in grado di ricompattarsi ed oggi istituiscono posti di blocco, estorcono denaro a trafficanti locali di petrolio, impongono tasse per le transazioni commerciali ai proprietari terrieri, immobiliari, industriali, dirigenti, medici e fornitori delle principali organizzazioni non governative (ONG), mentre a tutti coloro che vengono considerati benestanti viene imposta la zakat, la beneficenza “volontaria”. Ciò che più preoccupa, nel complesso scenario siriano (ma anche iracheno) è l’apparente capacità del gruppo di coinvolgere e addestrare nuove reclute nelle aree periferiche e desertiche a ovest dell’Eufrate, solo nominalmente controllate da forze del governo siriano (ICG, 2020).

Analisi, valutazioni, previsioni

Gli Stati Uniti continuano a svolgere un ruolo importante nella stabilizzazione dell’area e nel tentativo di dissuadere attori locali e regionali dal prendere iniziative sfavorevoli. Un ruolo che però è stato fortemente indebolito dall’ambiguità degli annunci, spesso vaghi e contraddittori, che hanno caratterizzato la precedente amministrazione statunitense in merito alla presenza di Washington in Siria. Da un lato, la linea strategica palesata non ha consentito di pianificare efficacemente l’impegno militare sulla base di una time-line e un end-state definito; dall’altro lato, l’ipotesi di un impegno a tempo indeterminato, senza una tabella di marcia, né una chiara strategia diplomatica potrebbe mantenere in una condizione di permanente destabilizzazione e violenza (IGC, 2020); oppure, ulteriore variabile, un ritiro precipitoso degli Stati Uniti, o anche solo il semplice annuncio di un ritiro imminente, potrebbe sconvolgere il già precario equilibrio tra gli attori in campo.

Infine, guardando dal punto di vista giuridico, l’ipotesi di permanenza a tempo indeterminato potrebbe essere vista come una violazione del diritto internazionale del principio di sovranità, a danno del legittimo Stato siriano; una preoccupazione esacerbata dalla dichiarazione, fatta dall’allora presidente Donald J. Trump a fine 2019, di impegno a rimanere in Siria per “proteggere il petrolio” (ICG, 2020).

Sebbene Joe Biden appaia meno propenso di Trump a chiudere l’operazione in Siria, la sua amministrazione potrebbe però decidere di disimpegnare le truppe statunitensi esattamente come avrebbe fatto Trump. È una possibilità, sebbene i consiglieri di Biden ritengano la presenza militare a tempo indeterminato quale requisito necessario a scongiurare violenti stravolgimenti sul fronte che minaccerebbero gli alleati locali di Washington – e tra questi certamente i curdi dell’YPG – e potrebbero agevolare la rinascita del gruppo Stato islamico.

Ma se, per ipotesi, gli Stati Uniti decidessero di attuare un disimpegno immediato dal teatro siriano quali potrebbero essere gli esiti più probabili?

In primo luogo potrebbe aprirsi una nuova fase di violenza, a tutto vantaggio dei gruppi jihadisti e terroristi – in primis lo Stato islamico, che si rafforzerebbe riacquisendo capacità operative e di controllo territoriale e sociale.

In secondo luogo, questa nuova fase del conflitto incentiverebbe il confronto, e dunque lo scontro, tra il partner locale degli Stati Uniti, le cosiddette Syrian Democratic Forces (SDF), e la Turchia – che vede negli elementi curdi delle SDF un’estensione siriana del PKK.

Una possibile via di uscita alternativa potrebbe concretizzarsi qualora Washington decidesse di giocare il ruolo di mediatore ai fini di un accordo tra le parti che affronti i problemi di sicurezza turchi (reali e percepiti), protegga gli oltre tre milioni di siriani che risiedono nel nord-est della Siria e, in particolare, riduca il rischio di rinascita dello Stato islamico (ICG, 2020).

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L’Afghanistan di Biden: alla ricerca di una via d’uscita

di Claudio Bertolotti

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Articolo originale pubblicato per Europa Atlantica

L’eredità di Donald Trump

Il passaggio di potere dall’amministrazione di Donald J. Trump a quella del neo presidente Joseph R. Biden jr. è in primo piano sullo sfondo dei colloqui intra-afgani.

L’accordo negoziale, concluso tra il governo degli Stati Uniti ei talebani a Doha nel febbraio 2020, prevede il ritiro totale delle forze statunitensi entro il 1° maggio 2021 in cambio di un abbassamento del livello di violenza da parte dei talebani fissato all’80% e la fine della collaborazione con al-Qa’ida: ma i talebani, ad oggi, non hanno rispettato nessuno degli impegni alla base di quell’accordo. Tutto come previsto.

L’ex presidente Trump, alla fine dello scorso anno, aveva ordinato il ritiro parziale dei militari statunitensi dall’Afghanistan, coerentemente con il suo obiettivo politico (ed elettorale) di porre fine alle “guerre americane senza fine”. Un ritiro che, nonostante l’incessante offensiva talebana, si è concretizzato il 15 gennaio e che ha ridotto la presenza di truppe statunitensi in Afghanistan da 4.500 a 3.000: una scelta che, di fatto, ha aperto la porta a un ritorno dei talebani al governo del paese – al termine di una guerra, ormai persa, che si è concentrata prima sull’annientamento, poi sul contenimento e infine sul dialogo alla pari con i talebani, cacciati dalla guida del paese proprio dagli Stati Uniti nell’ottobre del 2001.

La doppia strategia dei talebani

La strategia dei talebani per negoziare un accordo con il governo afghano – la cui Costituzione e principi sono rifiutati dal movimento talebano in quanto “non islamici” – si muove sostanzialmente su due piani: da una parte la partecipazione formale a un dialogo negoziale volutamente rallentato e inconcludente, dall’altra parte la rinnovata determinazione a ottenere una vittoria militare per prendere il pieno controllo del paese dopo il ritiro, ormai prossimo, delle truppe statunitensi e della NATO.

I talebani, che ormai da tempo controllano o hanno influenza su metà del paese, hanno dato avvio a un’offensiva violenta sostenuta da una serie di attacchi e di uccisioni mirate di giornalisti, funzionari e membri delle forze di sicurezza afghane ed esponenti della società civile: una conferma della volontà di vanificare il dialogo negoziale, seminando panico e minando la già scarsa fiducia nei confronti del governo afghano.

La Nato e i suoi limiti

Il presidente afghano Mohammad Ashraf Ghani e il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg hanno recentemente discusso “del processo di pace afghano e del continuo sostegno della NATO alla forza di difesa e sicurezza afghana”. L’Alleanza Atlantica ha inoltre ribadito la volontà di sostenere le forze afghane – che sono deboli, prive di capacità operativa autonoma – e di continuare la sua missione di addestramento, consulenza e assistenza.

È però vero che, a fronte del possibile disimpegno statunitense, la NATO potrebbe fare davvero poco per continuare a sostenere il governo afghano, anche perché, a differenza delle truppe combattenti statunitensi dell’operazione Freedom’s Sentinel, l’Alleanza Atlantica non schiera nel paese truppe combattenti, né ha la necessaria logistica per sostenere un’eventuale azione di combattimento.

La visione di Joe Biden

Il ritiro parziale delle truppe statunitensi dall’Afghanistan è una mina che l’amministrazione Trump ha lasciato al suo successore, e la scadenza fissata al 1° maggio per il ritiro delle truppe è la più grande sfida iniziale per il negoziato ed la decisione più urgente per Biden.

Sebbene sia trapelata la decisione di Biden di posticipare il ritiro delle truppe rispetto a quanto inizialmente concordato, il suo consigliere per la sicurezza nazionale, Jake Sullivan, ha affermato che la nuova amministrazione sosterrà la “diplomazia” con i talebani, esortando il gruppo a ridurre la violenza, a partecipare “in buona fede” ai negoziati con il governo afghano e a tagliare i legami con al-Qa’ida – cosa che però non avverrà, con buona pace di chi ancora crede alle garanzie dei talebani.

Biden avrebbe però manifestato l’intenzione di voler mantenere una piccola presenza di unità di intelligence a Kabul. Ma i talebani, nel rifiutare categoricamente questa ipotesi, hanno chiesto a Biden di onorare l’accordo degli Stati Uniti per un ritiro di tutte le forze americane dall’Afghanistan entro la data concordata. Talebani che, in caso contrario, si sentirebbero legittimati ad aumentare – ancora di più – l’intensità della loro violenta offensiva con attacchi nei centri abitati e contro le forze internazionali.

Poiché la residua forza militare è insufficiente per contrastare e contenere i talebani e gli altri gruppi insurrezionali e terroristi, il presidente Biden potrebbe essere costretto a prendere una decisione impopolare: l’invio di ulteriori truppe in Afghanistan, allo scopo di impedirne la conquista totale da parte talebana.

Foto: US Dept. of Defense

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L’Afghanistan di Biden – C. Bertolotti a Checkpoint RAINEWS24 – 26 gennaio 2021

Il ritiro parziale di Washington dall’Afghanistan è una mina che Trump ha lasciato al suo successore, sebbene il ritiro sia stato ordinato dall’allora presidente Barack Obama. Ora, Joe Biden potrebbe dover prendere una decisione impopolare: inviare ulteriori truppe allo scopo di impedire la conquista totale del Paese da parte talebana. E ancora: quale il ruolo della Cina?

Claudio Bertolotti, Direttore START InSight, ne ha parlato con Emma Farnè a Checkpoint – RAINEWS24

Link diretto a Checkpoint RAINews24

Negoziati intra-afghani, a che punto siamo?

Procedono a rilento con i tempi imposti dai talebani e accettati da Stati Uniti e governo afghano. I primi intenzionati a disimpegnarsi dalla guerra più lunga, i secondi molto preoccupati e forse anche rassegnati a un futuro estremamente incerto che sarà caratterizzato da un crescente potere dei talebani.
Il governo afghano ha concesso tutto ciò che i talebani hanno chiesto: tempi del negoziato, rilascio dei prigionieri, riduzione delle operazioni militari. E lo ha fatto su richiesta e pressione statunitense. Ma ha ottenuto ben poco, anzi, Oggi il dialogo negoziale ci sta portando verso una possibile soluzione che vedrà i talebani accedere alle forme di potere formale, imporre una rinuncia di sostanza di quelli che sono i diritti ad oggi previsti dalla costituzione afghana e, in particolare, lo stesso ordinamento democratico del paese sarà ridimensionato. E questo accadrà non perché gli Stati Uniti se ne andranno, perché lo faranno così come aveva pianificato Obama e poi Trump ha in parte realizzato, ma perché quella afghana è una guerra che non poteva più essere vinta e che le forze di sicurezza afghane non potranno mai affrontare con successo.
Di fatto il tavolo negoziale, formalizzato a febbraio dello scorso anno, avviato a settembre porterà progressivamente verso uno Stato che sarà sempre più simile all’Emirato islamico così come lo immaginano i talebani, e con un’economia saldamente ancorata al traffico di oppiacei di cui l’Afghanistan è il maggior produttore globale.

Negoziati USA-talebani, ritiro usa, e che cosa vuol dire per amministrazione biden “rivedere” accordo

In base ai negoziati di Doha di un anno fa, gli Stati Uniti hanno chiesto due cose ai talebani in cambio del ritiro delle forze militari dall’Afghanistan: ridurre dell’80% i loro attacchi. Non lo hanno fatto. Poi hanno chiesto di tagliare i legami con al-Qa’ida. E i talebani non solo non lo hanno fatto ma hanno consolidato le relazioni con i qaedisti operativi nell’area a sud dell’Afghanistan.
Ci saremmo potuti aspettare un mancato ritiro delle truppe di Washington, ma così non è stato, anche perché l’allora presidente Donald Trump voleva dichiarare chiusa la partita afghana. Ora, il ritiro parziale delle truppe statunitensi è una mina che l’amministrazione Trump ha lasciato al suo successore, e la scadenza fissata al 1° maggio per il ritiro delle restanti 2500 truppe è la più grande sfida per Biden.
Sebbene non sia chiaro se Biden ritirerà tutte le truppe statunitensi entro la data concordata la nuova amministrazione ha dichiarato di voler sostenere la “diplomazia” con i talebani, esortando il gruppo a ridurre la violenza, a partecipare “in buona fede” ai negoziati e a tagliare i legami con al-Qa’ida – cosa che però non avverrà, con buona pace di chi ancora crede alle garanzie dei talebani.
E allora, il presidente Biden potrebbe essere costretto a prendere una decisione impopolare: l’invio di ulteriori truppe in Afghanistan allo scopo di impedirne la conquista totale da parte talebana.

Ruolo cina in afghanistan: indiscrezione cnn e interessi economici

La Cina, dopo due decenni dall’abbattimento del regime talebano, senza essere coinvolta nella lunga guerra, è riuscita a proporsi come valida alternativa, implementando il proprio ruolo di «sponsor della stabilità» in Afghanistan, ruolo che crescerà sempre più a mano a mano che le truppe occidentali diminuiranno. Sebbene non direttamente sul campo di battaglia, la Cina è entrata, sul piano politico, economico e diplomatico, a pieno titolo tra gli attori del nuovo grande gioco afghano. E i grandi interessi economici legati all’estrazione di minerali rari dal sottosuolo afghano rappresentano una garanzia in questo senso.
La notizia riportata dalla CNN in merito alla possibile presenza della Cina dietro ad alcuni gruppi di opposizione armata va valutata con cautela e, se confermata, potrebbe essere letta come una probabile reazione cinese alla politica dell’amministrazione Trump certamente non benevola nei confronti della Cina, in particolare per quanto riguarda il l’espansione economica e commerciale di Pechino attraverso le numerose vie della seta che si stanno estendendo a livello globale.