Nel pomeriggio di martedì 24 novembre in un centro commerciale di Lugano una donna svizzera di 28 anni si è avventata su due clienti, afferrandone una al collo e ferendo l’altra gravemente, sempre al collo, con un coltello apparentemente prelevato poco prima nel reparto ‘casalinghi’. Secondo una testimonianza riportata dalla stampa, l’assalitrice, arrestata dopo essere stata bloccata da altre due persone presenti sulla scena, avrebbe urlato “sono dell’ISIS”. In seguito la Polizia Federale confermerà che la persona fermata era nota alle autorità già dal 2017, quando era apparsa in un’indagine collegata al jihadismo.
Il Ministero pubblico della Confederazione ha aperto un’inchiesta per Violazione della legge federale che proibisce i gruppi Al-Qaida e ISIS. È in seguito emerso come l’autrice, convertita all’Islam, fosse stata intercettata anche dai servizi di sicurezza di altri paesi europei.
START InSight: tra i jihadisti che hanno colpito in Europa fra il 2004 e il 2020, le donne sono il 4%
Un precedente attacco di questo genere nella Confederazione – si era trattato anche in quel caso di un’aggressione con coltello in luogo pubblico – aveva avuto luogo nel mese di settembre a Morges, nel Canton Vaud, ad opera di un cittadino svizzero-turco che pare intendesse “vendicarsi” dello Stato Svizzero da un lato, e vendicare il profeta Maometto dall’altro. Secondo un copione ormai collaudato, l’individuo era conosciuto ai servizi e aveva dei trascorsi in carcere per altri reati.
L’ultimo Rapporto dell’intelligence svizzera (2020) aveva ribadito come il rischio all’interno del paese rimanesse elevato -una condizione che perdura dal 2015-. Aveva inoltre attirato l’attenzione su come, sempre più spesso, si annoverino “autori la cui radicalizzazione e propensione alla violenza vanno ricercate in crisi personali o problemi psichici piuttosto che in un’opera di convincimento ideologico. In generale, la frequenza di atti di violenza che presentano un nesso marginale con l’ideologia o i gruppi jihadisti rimarrà costante o potrebbe addirittura aumentare”. Gli aggiornamenti di FedPol sul caso di Lugano sembrano avvalorare questa pista -la donna, innamoratasi di un combattente e intenzionata a seguirlo in Siria (ma fermata al confine turco e rimpatriata), soffriva all’epoca di problemi psicologici ed era stata anche ricoverata in una struttura psichiatrica. Le modalità dell’attacco – sconclusionato e apparentemente senza la ricerca, fondamentale, del martirio – farebbe pensare a un atto dettato dall’attrattiva per la narrativa dello Stato Islamico piuttosto che da solide motivazioni religiose o ideologiche. Ma il fatto che si trattasse di una persona già monitorata e comunque “ferma” nei propri intenti, solleverà molti interrogativi – anche polemici – su come sia riuscita ad eludere ogni controllo. Al di là dell’aspetto securitario, per migliorare la comprensione del fenomeno e la valutazione del rischio, sarebbe utile capire se nel frattempo fossero stati messi in campo degli interventi o dei tentativi di de-radicalizzazione. La realistica consapevolezza di come riabilitazione e reintegrazione di estremisti e foreign fighters sia una sfida incerta, di lunga durata e difficile, è ad ogni modo ben chiara alle autorità.
La radicalizzazione nella Confederazione
Secondo i dati dei Servizi Informativi, a maggio 2020 gli individui considerati un rischio per la sicurezza interna (non solo jihadisti) erano 57, mentre dal 2012 ad oggi 670 individui hanno diffuso propaganda jihadista in/dalla Svizzera o sono entrati in contatto con individui che condividono le stesse idee. La Confederazione avrebbe un numero di foreign fighters pro-capite più alto dell’Italia. Dal 2001 al 2017 sono partiti in 92 per raggiungere vari fronti di guerra. Di questi, 32 sono morti mentre 16 sono rientrati e – scrive l’intelligence nel suo Rapporto 2020 – si starebbero comportando “discretamente”, salvo poche eccezioni (!). Su questo sito avevamo già scritto nel 2019 di un procedimento d’accusa e di un’imponente operazione anti-terrorismo nei Cantoni di Berna, Zurigo e Sciaffusa che avevano coinvolto alcuni individui recidivi e/o di ritorno dai territori del Califfato.
Il 2 ottobre 2020 il Ministero pubblico della Confederazione (MPC) ha disposto altre tre perquisizioni nel Cantone di Friborgo e arrestato quattro persone. Attualmente i procedimenti penali aperti sono 70, principalmente “per presunta propaganda o reclutamento a favore di organizzazioni terroristiche, per il finanziamento di tali organizzazioni e nei confronti di viaggiatori con finalità jihadiste, compresi quelli di ritorno”.
Anche il Ticino era stato interessato da un imponente blitz anti-terrorismo. Le indagini avevano messo in luce alcune ramificazioni verso l’Italia e collegamenti con la cosiddetta “cellula insubrica”
Inoltre, inchieste dei quotidiani Le Temps (di cui abbiamo parlato qui) e Sunday Times hanno svelato l’esistenza di piani targati Stato Islamico, diretti dalla Siria e fortunatamente sventati o mai messi a segno, per colpire depositi di combustibile e oleodotti a Basilea e a Ginevra fra il 2018 e il 2019, con l’obiettivo di arrecare gravi danni economici.
Anche il Ticino – che ha ‘dato’ al Califfato due combattenti – nel 2017 era stato interessato da un imponente blitz anti-terrorismo (possiamo solo presumere si tratti dello stesso che ha visto emergere il nome della donna di Lugano). Le indagini, sfociate in una condanna per attività di reclutamento e indottrinamento, avevano messo in luce alcune ramificazioni verso l’Italia, fra cui collegamenti con una precedente inchiesta (2016) relativa alla cosiddetta “cellula insubrica” che si muoveva fra Lugano, Varese e Lecco, di cui faceva parte fra l’altro il campione svizzero di kick-boxing Abderrahim Moutaharrik (sul ring con la maglia nera e il vessillo dello Stato Islamico) e Abderrahman, fratello di Oussama Khachia, il futuro foreign fighter che era stato espulso dall’Italia e si era trasferito a Lugano prima di proseguire verso il territorio del Califfato in Iraq-. Il gruppo era composto da unità famigliari che coinvolgevano anche Alice Brignoli, appena rimpatriata dalla Siria.
Un panorama radicale centrifugo
A caratterizzare la geografia jihadista svizzera sono precisamente i contatti transnazionali che si estendono nelle nazioni limitrofe o verso i paesi di origine dei vari soggetti, nel caso di passato migratorio. Le strade della radicalizzazione infatti si fermano davanti alle barriere linguistiche, ciò che rende più difficile la nascita e la condivisione di una ‘scena’ interna alla Confederazione. Legami svizzeri emergono spesso anche nel corso di indagini condotte all’estero, come avvenuto con il recente attentato di Vienna e l’inchiesta sulle turiste scandinave uccise nel 2018 in Marocco (dove a scontare una pena c’è uno svizzero, anch’egli convertito).
Donne in armi
Verso la Siria e l’Iraq (dati dell’intelligence) sono partite circa 12 donne aventi un legame con la Svizzera. Le attentatrici rimangono però un’eccezione. Il Database di START InSight ha rilevato che tra i jihadisti che hanno colpito in Europa fra il 2004 e il 2020, le donne rappresentano il 4%.Una ricerca dell’Università di Scienze Applicate di Zurigo (ZHAW) di cui abbiamo scritto anche qui, sottolinea che tra i profili dei radicalizzati svizzeri, le donne figurano in numero inferiore rispetto alla media europea. Tuttavia, un recente studio delle Nazioni Unite mette criticamente in rilevo come i sistemi giudiziari tendano ad essere meno severi, a causa di un falso stereotipo che considera le donne meno attive o pericolose degli uomini. In questo modo, ricevono meno attenzioni anche per ciò che riguarda la riabilitazione e reintegrazione, esponendole a un rischio maggiore di recidivismo. Le dinamiche della cellula insubrica, ma anche diversi altri casi esteri, dimostrano che le donne possono ricoprire un ruolo importante nella diffusione della propaganda, nella radicalizzazione reciproca, e nell’occuparsi di aspetti logistici.
Secondo lo studio svizzero summenzionato, basato sulle informazioni relative a 130 casi di cui si sono occupati i servizi nel corso degli ultimi dieci anni è emerso che il fenomeno della radicalizzazione jihadista in Svizzera coinvolge soprattutto gli uomini (90% circa dei profili forniti). L’età media è di 28 anni. I convertiti rappresentano il 20%. I radicalizzati tendono a vivere in aree urbane. Oltre la metà nella Svizzera tedesca, più del 40% nella Svizzera francese e poco meno del 4% nel Canton Ticino. L’intelligence ha recentemente indicato come solo un terzo dei viaggiatori con finalità jihadiste detenga la nazionalità svizzera. I problemi personali dei singoli individui – famiglie spezzate, lutti, episodi di discriminazione, uso di droghe, problemi psichiatrici, identità fragile etc.- fanno spesso da sfondo. I dati a disposizione non confermano la teoria del ‘crime-terror nexus’ – cioè il rapporto fra radicalizzazione jihadista e passato criminale; poche indicazioni anche riguardo a processi di radicalizzazione iniziati dentro il carcere. I casi di reati precedenti legati alla violenza fisica (aggressioni) sono predominanti. La radicalizzazione lampo rappresenta l’eccezione; nel 72% dei casi il processo ha avuto una durata di oltre un anno. Due terzi degli individui presi in esame sono entrati nel radar della sicurezza fra il 2013 e il 2015 ed erano impegnati principalmente in attività di propaganda.
Il rischio oggi
Con la perdita del territorio in Siria e in Iraq, il Califfato si è trasformato in un movimento terroristico e insurrezionale globale composto sia da cellule in contatto fra loro che da attentatori autonomi (ma non ‘solitari’!) che si ispirano allo Stato Islamico e per questo particolarmente difficili da intercettare anche a causa della pressione sulle forze di sicurezza. I radicalizzati da monitorare in Europa sono decine di migliaia. La frammentazione e la decentralizzazione della propaganda e delle attività jihadiste, hanno accresciuto la minaccia. Il fattore emulativo ha una forte incidenza: come rileva il database di START InSight, il 29% degli attentati avviene negli 8 giorni successivi ad un attacco ‘ispiratore’. Fra le armi privilegiate, si trovano proprio i coltelli (67% del totale). Fra il marzo del 2019 e il giugno del 2020 il Counter Extremism Group ha registrato una media di due attacchi di matrice islamista al mese in Europa, tra riusciti e sventati. Nel solo 2020 START InSight ha contato 21 eventi di matrice islamista. Un trend in deciso aumento.
Se nel complesso il terrorismo fa meno vittime e si appoggia anche alle azioni di individui che agiscono sulla spinta di motivazioni prettamente personali, riesce ad ogni modo ad incidere sulla percezione della sicurezza. La tranquilla Lugano ora si guarderà le spalle, e per il movimento jihadista, è già un successo di cui si potrà appropriare.
#ReaCT2020 – Radicalizzazione e deradicalizzazione. Piste d’indagine (C. Sulmoni)
di Chiara Sulmoni, START InSight – Lugano
A quasi venti anni dai primi segnali dell’evoluzione di una scena jihadista tipicamente europea, i dati quantitativi a disposizione permettono di disegnare le tendenze del cosiddetto terrorismo islamista ‘homegrown’. La radicalizzazione è invece più complessa da misurare; se i numeri degli estremisti segnalati o monitorati, da un lato, permettono di avere un’idea dell’ampiezza del fenomeno, dall’altro non sono indicativi del grado di pericolosità degli individui né suggeriscono possibili strade da percorrere in materia di contrasto. Per questo, è fondamentale prestare attenzione ai ‘meccanismi’ e ai contesti che favoriscono l’adesione e il reclutamento, incluse le difficoltà incontrate da chi si muove sul territorio nella prevenzione e nella deradicalizzazione. Si tratta di un passaggio essenziale e di un richiamo alla responsabilità anche per la politica, che è tenuta a preparare il terreno legislativo e istituzionale per la messa in atto di strategie efficaci.
I LIMITI DEI NUMERI
Lo Stato Islamico ha saputo mobilitare un numero inedito di individui in ogni parte del mondo; decine di migliaia nella sola Europa, tra foreign fighters, aspiranti terroristi, reclutatori per la causa jihadista, sostenitori e simpatizzanti del Califfato -i cosiddetti radicalizzati. Nel maggio del 2017, a seguito dell’attentato alla Manchester Arena, i media inglesi rivelarono la portata della minaccia riassunta nella cifra di 23’000 estremisti jihadisti noti all’intelligence, fra cui un pool di 3’000 soggetti considerati pericolosi e monitorati nell’ambito di quelle che all’epoca erano 500 operazioni contemporanee (salite nel frattempo ad 800). Sono numeri importanti ed utili per capire l’ampiezza del fenomeno; tuttavia, non sono indicativi del rischio reale poiché i nomi entrano ed escono dalle categorie prioritarie a seconda di criteri e valutazioni variabili. In Francia nel 2018 un Gruppo di lavoro parlamentare incaricato di migliorare l’efficacia delle cosiddette Fiches S, preoccupato per la confusione e gli effetti controproducenti della focalizzazione politico-mediatica attorno a quello che è solo uno strumento di raccolta delle informazioni, ha ritenuto di dover specificare che non si tratta di un indicatore della pericolosità delle persone né, tantomeno, è destinato al monitoraggio della radicalizzazione (che nella sezione specifica, conta circa 20’000 schedature, fra le quali più di 9’000 cosiddette “attive”). A fronte quindi di cifre imprecise, un segnale più significativo del pericolo con cui ci confrontiamo può venire dalla quantità di attentati sventati: Europol ne conta 16 nel solo 2018; la Gran Bretagna 25 dal marzo 2017 (inclusi 8 attentati pianificati dall’estrema destra); mentre in Francia, dal 2013, ci sarebbero stati 60 tentativi. La volontà di colpire l’Europa persiste. Ma qual è la realtà della sfida?
DE-CIFRARE LA RADICALIZZAZIONE: UNA SFIDA COMPLESSA
La realtà della sfida non ha sempre a che vedere con le preoccupazioni dell’opinione pubblica, gli argomenti dei media o i temi della politica che, un po’ per dovere e un po’ per fini elettorali, tende a concentrarsi sugli aspetti securitari e a breve termine. A raccontare la posta in gioco è, spesso, chi si confronta a livello personale con il radicalismo oppure opera sul territorio nella prevenzione e nel contrasto. Con l’obiettivo di raccogliere indicazioni utili proprio in questo senso, a partire dal 2017 ho avviato un’inchiesta giornalistica in cinque paesi europei -Gran Bretagna, Svizzera, Francia, Olanda e Italia- confluita in parte in una serie di reportages d’approfondimento per la Radiotelevisione svizzera di lingua italiana (RSI)[1]; in ogni nazione il dibattito segue traiettorie distinte e le opinioni attorno a cause e soluzioni possono variare anche di molto; tuttavia l’accostamento di voci permette di allargare l’analisi ai contesti, che gran parte delle analisi, incentrate sugli individui o le dinamiche interne di gruppo, tende a trascurare. Ma è utile ricordare come la radicalizzazione non costituisca un mondo parallelo; essa prende avvio dentro la società e in relazione con essa. Naturalmente un percorso a ritroso sulle tracce delle ‘tensioni’ che possono favorire l’estremismo implica un’ampia discussione attorno a tematiche quali il ruolo e il senso di integrazione, emarginazione sociale, identità, laicità dello Stato, politica estera- che possono sembrare aleatorie, a fronte di un pericolo reale e letale come quello del terrorismo. È fondamentale però saper fare le giuste distinzioni e non sovrapporre le questioni di intelligence o difesa, alla comprensione dei processi di radicalizzazione (partendo dal presupposto che comprendere è già prevenire).
LE PROSSIME SFIDE
Prevenzione e deradicalizzazione occupano uno spazio rilevante -come concetti e almeno nelle intenzioni- nel quadro delle varie strategie di controterrorismo e contrasto all’estremismo violento emanate gradualmente negli ultimi quindici anni da Unione Europea, Nazioni Unite e singoli paesi, tanto da aver contribuito alla nascita di un intero settore che non è stato esente da esperienze fallimentari e da polemiche. Un’analisi apparsa nella rivista specializzata Perspectives on Terrorism (2019)[2] segnala una discontinuità -nelle due direzioni- tra la ricerca accademica sulla deradicalizzazione, la formazione e la realtà degli operatori che si occupano degli interventi; è un’osservazione preoccupante di cui tenere conto, considerando le sfide che si presentano alle porte. Nell’autunno del 2019, la fragilità degli equilibri sul fronte geopolitico in Siria e in Iraq ha richiamato l’attenzione su un problema che l’Europa aveva provato a lasciare in eredità al Medio Oriente: la questione spinosa di come gestire gli jihadisti con le loro consorti più agguerrite, che dai campi di detenzione hanno lanciato strali contro l’Occidente. Al di là di tutte le difficoltà che il rimpatrio e i processi possono presentare a livello legislativo e giuridico -a cominciare dalla raccolta delle prove a carico- a destare comprensibilmente preoccupazione è soprattutto il pensiero della permanenza in un ambiente, quello carcerario, già sotto pressione per la presenza di radicalizzati interni. Senza contare l’incognita sulla modalità e il successo di un loro reinserimento in società. L’attentato del 29 novembre che ha avuto il suo tragico epilogo sul London Bridge, dove un aspirante terrorista rilasciato a metà della pena ha ucciso due volontari di un programma di reintegrazione per detenuti promosso dall’Università di Cambridge, ha prepotentemente spinto la questione in cima alla lista delle priorità. Nel corso dei prossimi anni, un numero sempre maggiore di estremisti (jihadisti) sarà libero e il timore che simpatizzanti di gruppi terroristici, ex-combattenti, reclutatori e propagandisti possano tornare attivi e agire con maggiore determinazione, è tutt’altro che infondato. Del tema si discute da tempo ma il caso di Usman Khan, che ha apparentemente ‘raggirato’ il sistema, ha portato diversi nodi al pettine e permette di mettere a fuoco alcuni argomenti importanti sui quali ragionare, non solo in Inghilterra. Al di là di aspetti prettamente giudiziari come la durata delle pene e le condizioni della libertà vigilata, a contare, nell’ottica di limitare il pericolo di recidiva o di una più profonda radicalizzazione, è la gestione di questo tipo di reato dentro l’ecosistema carcerario (che, fra gli esperti, non fa l’unanimità); la validità dei metodi di valutazione del rischio (che richiedono aggiornamenti continui); la preparazione del personale (inclusa quella dei quadri); la coerenza e continuità fra programmi di ‘recupero’ e reintegrazione prima e dopo il rilascio. Sono aree collegate, che necessitano di azioni e visioni coordinate.
LA DERADICALIZZAZIONE FRA ASPETTATIVE E REALTÀ
I fatti di Londra in particolare hanno aperto una discussione attorno all’efficacia (o meno) della cosiddetta deradicalizzazione. L’interrogativo è lecito ma le aspettative di politici, media, ricercatori e cittadini sono diverse e possono confondere la linea di dibattito. Il termine elusivo di deradicalizzazione viene da tempo sostituito dal concetto di ‘abbandono della violenza’, che non implica una rinuncia all’obiettivo ideale -cioè, che l’individuo possa sganciarsi da un’ideologia radicale; implica invece -o dovrebbe farlo- la consapevolezza di come il percorso sia graduale, di lunga durata, incerto e costellato di priorità (la sicurezza della collettività innanzitutto). Come in tutti i processi che affrontano questioni di identità sociale, le incognite e le variabili sono molte e dipendono dall’individuo stesso -dalla volontà di rivedere le proprie scelte- e dalle circostanze esterne. Nella migliore delle ipotesi, l’approccio di questi ‘programmi’ consiste nel ‘mentoring’, vale a dire la presa in consegna del soggetto, che viene seguito passo per passo da un punto di vista psicologico, teologico, ideologico, incluso un accompagnamento verso il reinserimento nella società. La complessità di un intervento di questo genere è anche organizzativa, poiché impone una collaborazione di carattere multidisciplinare e con partner di vario genere: autorità incaricate della libertà vigilata, polizia, intelligence, professionisti inquadrati in ONG e istituzioni attive nel campo. In Europa si sta ancora sperimentando e una ‘ricetta’ che si possa trasferire da una realtà all’altra non esiste, mentre la scarsità dei dati a disposizione, insieme alla mancanza di un metodo coerente e affidabile di valutazione non permettono di misurare concretamente la riuscita di iniziative che sono peraltro avvolte dalla confidenzialità; di conseguenza, poiché a venire a galla con certezza sono gli insuccessi, soprattutto in occasione di eventi terroristici, il rischio in cui si incorre è di ‘liquidare’ anni di esperienza pregressa e di studi. Per questa ragione, è importante affrontare l’argomento in modo costruttivo, prendendo in considerazione non solo le buone pratiche ma anche gli ostacoli che possono compromettere l’incisività dei vari interventi; un esercizio utile soprattutto per quei paesi che, ancora poco toccati dal fenomeno, hanno la possibilità di evitare passi falsi. Una delle principali difficoltà consiste nella scelta di mentori/practitioners preparati e credibili sia agli occhi del ‘sistema’ che dei loro ‘assistiti’; le due cose non coincidono necessariamente, in parte anche a causa dei limiti imposti dalla collaborazione con il governo e le sue istituzioni. Il problema si può riscontrare anche nel settore della prevenzione. In ragione di questa dimensione politica, è fondamentale riflettere con attenzione sui criteri di selezione, che oltre agli obiettivi strategici dovrebbero tenere conto anche alla realtà che si deve affrontare sul territorio. Sottovalutare questo aspetto -che ha la profondità di un dilemma- può avere delle ripercussioni negative sui progetti e sui fondi, che sono essenziali per la riuscita e la sostenibilità di un settore in evoluzione, che richiede un impegno a lungo termine.
Deradicalizzazione e prevenzione sono campi dove sarà necessario investire in modo oculato, facendo in modo che le misure di sicurezza a corto termine siano allineate con gli obiettivi a lungo termine, cioè il contenimento del fenomeno -parlare di sconfiggere il terrorismo non è realistico ma impegnarsi per combatterne le cause e la diffusione sì-. Non esistono soluzioni su misura né garanzie di successo ma sarebbe utile, oggi, guardare in modo costruttivo a pratiche e tentativi -anche fallimentari- dei paesi con maggiore esperienza nel settore, sia in materia di regime di detenzione che di deradicalizzazione. Con tutti questi aspetti dovranno confrontarsi non i singoli partiti ma l’intera classe politica. Recentemente il Vice-commissario dell’anti-terrorismo inglese Neil Basu, chiedendo la collaborazione di “bravi” ricercatori, criminologi e sociologhi, ha dichiarato che nella battaglia contro l’estremismo violento l’approccio securitario (polizia e servizi di sicurezza) non è più sufficiente. È essenziale che questo dialogo avvenga anche a livello istituzionale, in modo che la politica possa preparare un terreno legislativo proficuo per la messa in atto delle iniziative necessarie ad affrontare i problemi sul terreno e spiegare l’importanza e i risvolti di questo impegno all’opinione pubblica in modo chiaro, competente e convincente.
[2] Koehler, D. e Fiebig, V. Knowing What to Do: Academic and Practitioner Understanding of How to Counter Violent Radicalization, Perspectives on Terrorism, Volume 13, Issue 3, June 2019
di Chiara Sulmoni per Laser (Radiotelevisione svizzera di lingua italiana RSI)
Il reportage (2018) propone alcune prospettive del dibattito sull’Islam in Occidente raccolte in Gran Bretagna, dove la minaccia estremista è più forte che in altri paesi europei.
Ieri, domenica 9 luglio nel sud ovest della Siria è entrato in vigore un cessate il fuoco promosso da Stati Uniti, Russia e Giordania. Al di là dell’aspetto umanitario, questo accordo dai contorni sfumati annunciato in occasione del G20 tenutosi la scorsa settimana in Germania, viene considerato una prima prova di cooperazione fra Putin e Trump che non si pone grandi obiettivi politici o militari se non quello -importante- di mettere le basi per discussioni più concrete alla ricerca di soluzioni per mettere fine alla guerra. La strada in questo senso è ancora lunga, visti i timori regionali e gli interessi internazionali in gioco sullo scacchiere mediorientale e un fronte combattente frammentato in una miriade di sigle rivali. Intanto in altre zone il conflitto infiamma. Scacciato da Mossul e sotto l’assedio della coalizione sostenuta dagli Stati Uniti a Raqqa, l’ISIS perde pezzi mentre l’esercito siriano e i suoi alleati -i russi e le varie milizie affiliate all’Iran e a Hizbullah- sembrano avere la meglio e consolidano le posizioni riguadagnate anche a suon di bombardamenti. Per capire ciò che sta accadendo sul terreno, al di sotto del radar della diplomazia e delle negoziazioni, il giornalista Luca Steinmann è stato in Siria nelle aree che il regime ha recentemente strappato ai ribelli -fra cui Homs, città simbolo della rivolta-. L’intervista che segue racconta quindi una versione dei fatti raccolta pochi giorni fa sul campo, dove il reporter ha incontrato sia funzionari del governo e militari, che civili fra le macerie.
Luca Steinmann, si potrebbe obiettare che nel suo viaggio lei abbia sentito una sola campana. Che margini ha avuto per capire cosa succede oggi nel paese?
Per entrare in Siria sono passato dal Libano, dove ho potuto ascoltare e raccogliere anche la versione e il punto di vista dei siriani che vivono all’estero, al di fuori delle terre controllate dal governo. Il 90% dei siriani in Libano si oppone al regime ed è su posizioni contrarie rispetto a quelle di molti siriani che sono rimasti nel paese. All’interno della Siria il consenso per il governo è oggi molto alto. Se all’inizio della rivolta, nel 2011, il popolo chiedeva un cambiamento, le conseguenze della ribellione hanno portato la gente a dover fare una scelta radicale -o con il regime o con i ribelli e i crimini di cui si sono macchiati, con lo stile di vita che i diversi gruppi armati, a prescindere dalle varie sigle, volevano imporre, e che è basato su una rigida interpretazione dell’Islam e spesso anche sulla persecuzione delle minoranze. Posizioni che vanno a minare la convivenza religiosa e quindi l’identità stessa siriana. Molti si sono convinti che solo il governo potrebbe difendere questa coesistenza. Se venissero indette oggi delle elezioni, Assad si imporrebbe con il 70, con l’80% dei consensi.
Ho avuto la fortuna di poter accedere ad aree liberate da pochi giorni e alla periferia di Homs, dove si erano insediati l’Esercito Libero Siriano, il fronte di al-Nusra e altri 15 gruppi non facenti riferimento allo Stato Islamico, l’ispirazione islamista di questi militanti, che andavano per esempio a prendere di mira le comunità cristiane, era altrettanto evidente. Anche siriani sunniti che prima della rivolta avevano sempre convissuto pacificamente con i propri vicini di casa cristiani o sciiti, e che avevano in un primo momento aderito alla ribellione in funzione anti-Assad, preferiscono ora schierarsi con il regime, in quanto permette appunto la convivenza sul territorio.
Il vero nemico dell’ISIS (ma lo stesso vale per gli altri gruppi islamisti) è quindi sul lungo termine l’ISIS stesso, con l’imposizione della sua dottrina e il suo atteggiamento intransigente?
Il vero problema per l’ISIS è che in Siria esiste una civiltà, un mosaico composto da oltre 70 comunità -inclusi i mussulmani radicali-. Voler attaccare la civiltà siriana come successo per esempio a Palmira, dove lo Stato Islamico ha distrutto e vandalizzato le rovine romane, significa attaccare la coesistenza e il miscuglio di culture su cui si fonda la società di oggi. Ma l’obiettivo era proprio questo, distruggere l’archeologia per cancellare non solo il ricordo di una civiltà pre-islamica, ma i valori comuni e la società multiconfessionale. È un obiettivo strategico ben preciso, che rompe la continuità con il passato. Così anche dove l’opposizione ad Assad era stata forte, come nelle aree rurali, chi ha vissuto sotto gli islamisti ha poi spesso cambiato idea.
La stessa cosa vale per il Libano. Sono stato in vari villaggi lungo la frontiera, nei paesini sunniti che prima della guerra cooperavano con quelli siriani dall’altro lato del confine, anche nella gestione del mercato nero. Molti trafficanti siriani hanno aderito alla causa dei ribelli e inizialmente anche i villaggi libanesi di frontiera li sostenevano, perché erano sempre stati in affari insieme, condividevano la stessa fede, e continuavano così ad aiutare, stavolta militarmente, la controparte siriana. È stato quindi particolarmente interessante osservare il mutamento di sensibilità rispetto al conflitto siriano, in un paese come il Libano, dove ci sono comunità sunnite più radicali, perché in uno stato settario si sa che le religioni si estremizzano. Davvero, questo conflitto coinvolge tutte le comunità confessionali della regione.
In base a quali criteri ha scelto le tappe del suo viaggio, perché sono significative?
La prima tappa, Damasco, è la capitale di uno stato in guerra in cui la gente esce e fa festa nel centro città mentre in lontananza si sentono i rumori dei colpi di mortaio che esplodono nelle aree periferiche di Jobbar e Barzeh. È un po’ come se a Milano la gente facesse festa in piazza del Duomo mentre si combatte a Sesto San Giovanni. Ciò mostra come la popolazione sia ormai abituata a convivere con la guerra e che nonostante ciò non si faccia prendere dal panico né ricattare dagli attentati che li colpiscono nello stesso in modo in cui vengono colpite le città europee.
Palmira è l’ultima città importante riconquistata dall’esercito siriano in ordine di tempo, si trova a soli 30 km dalle linee dello Stato Islamico e in un’area centrale che si apre verso la regione dell’Eufrate, in direzione di Raqqa e Deir ez-Zor, che è la zona di faglia.
Homs mi interessava perché fino a tempi molto recenti è stata sotto il controllo di gruppi ribelli in lotta fra loro ma non affiliati al Daesh.
Il quartiere palestinese di Yarmouk, a Damasco, è ancora oggi una linea del fronte in cui mi sono potuto addentrare. Volevo vedere e capire come vivono i palestinesi che vi abitano, suddivisi tra sostenitori del governo, dell’ISIS e di altri gruppi ribelli che hanno cercato di creare una sovrapposizione tra la causa palestinese e la guerra in Siria, sfruttando l’avversione dei leader storici palestinesi nei confronti del regime di Assad. Ma ci sono anche divisioni dell’esercito siriano composte da palestinesi.
Ho poi coperto il confine con il Libano e alcune aree attorno a Damasco, perché la guerra in Siria è a macchia di leopardo e ci sono diverse roccaforti ribelli che resistono attorno alla capitale. Pur essendo in vantaggio, il governo viene così tenuto costantemente sotto scacco. Questa guerra non si estinguerà con la vittoria militare.
A Yarmouk si combatte una guerra dentro la guerra?
No, questo può valere per il Libano, dove i campi sono chiusi e i gruppi all’interno di alcuni di questi si sono combattuti e tuttora si combattono in base a vincoli di fedeltà, riproponendo le dinamiche esterne. Yarmouk prima della guerra era un quartiere aperto, dove si entrava quasi senza accorgersene, e dove vivevano non solo profughi e rappresentanti di movimenti politici palestinesi ma anche siriani poveri e indigenti. Con la guerra, però, Yarmouk è stato raso al suolo e oggi resta solo un infinito cumolo di macerie suddivise in diverse zone di controllo dell’ISIS, di al-Nusra e dei governativi. La popolazione, sia palestinese che siriana, è fuggita. Oggi al suo interno vivono soltanto i miliziani con le rispettive famiglie e qualche famiglia di anziani palestinesi che non hanno avuto forze e mezzi per scappare.
Nelle aree ‘liberate’ che ha potuto visitare, vale a dire nelle zone tornate sotto il controllo di Damasco, che aria si respira?
In generale c’è voglia di ricominciare, di ricostruire. Palmira è fatiscente e totalmente disabitata, non fosse per la presenza di soldati siriani, sciiti afghani, pakistani, libanesi, iraniani e russi -questi ultimi a guardia delle rovine, da quel che si può vedere, il che è poco perché ufficialmente non sono schierati sul terreno e quindi non rilasciano interviste e non si fanno filmare.
Anche a Homs ci sono quartieri rasi al suolo dal governo dopo che i ribelli si erano rifiutati di evacuare la città, ma qui tra le macerie si incontrano alcuni civili, e in tutti ho riscontrato la voglia di tornare a casa, e soprattutto di rimanere in Siria. Un attaccamento alla patria diffuso tanto tra la gente che tra i soldati del regime.
Homs come Dresda nel 1945, ha scritto in un post. La città è stata pesantemente bombardata dagli aerei del regime. La popolazione che come ci ha appena spiegato, desidera ricominciare, accetta di farlo con Assad ancora al potere?
Una terza via al momento non c’è e il governo viene ormai visto come unico garante di una possibile ricostruzione. Poiché la Siria è sempre stato un mosaico di comunità molti pensavano, erroneamente a mio modo di vedere, che il regime non avesse un ruolo effettivo nel garantire la convivenza religiosa, e che si trattasse quindi di una condizione endemica. Poi il regime con la forza sia delle armi che della propaganda, ha assunto il ruolo di protettore delle minoranze e non per nulla oggi la comunità che più decisamente si schiera con Assad è quella cristiana.
A Palmira c’è quel che resta delle rovine romane ma c’è anche quel che resta dell’ISIS, che per questa città ha combattuto strenuamente. Cosa si è lasciato indietro lo Stato Islamico, sia in termini materiali che simbolici?
Innanzitutto la distruzione volontaria del patrimonio architettonico, delle rovine archeologiche, l’abbattimento delle colonne romane, impiccagioni e violenze. E tutto questo per distruggere il valore storico della convivenza tra fedi e il ricordo di una civiltà non solo siriana. Ci sono poi anche segni tangibili dell’attitudine dei militanti dell’ISIS, che hanno lasciato scritte che inneggiano allo Stato Islamico e all’uccisione degli infedeli, con il pennarello indelebile. Questi sono chiaramente atti di vandalismo grezzo. Non emerge certo la figura del combattente coraggioso e istruito che si batte per Allah. Anche se vengono utilizzati termini religiosi, quel che ho potuto osservare è un atteggiamento nichilista, un’assenza totale di progettualità e di senso della vita, proprio da parte di chi dice di cercare un senso nella religione.
A Palmira, nei cosiddetti ‘covi’ dello Stato Islamico, ha trovato materiale interessante che ci rivela qualcosa di nuovo sul movimento?
La cosa più evidente, in base al materiale che ho potuto raccogliere in alcune tipografie dell’ISIS, è la forte propaganda dottrinale e dogmatica. Lo si capisce dal gran numero di giornali, riviste, manuali che fanno riferimento a figure ben precise, il cui pensiero religioso si ritrova non solo in Siria ma accomuna i movimenti radicali anche al di fuori di questo contesto. Mentre i cecchini di Daesh tengono spesso accanto a sè una copia del Corano e dei libri di preghiere, nelle loro scuole i testi che ho notato essere maggiormente presenti erano quelli di Muhammad ibn Abd al-Wahhab, leader religioso i cui insegnamenti non sono mai stati diffusi in Siria, ma piuttosto in Arabia Saudita. Inoltre, si nota una buona capacità organizzativa, che ricalca quella dello stato iracheno. E sottolineerei anche l’attenzione data all’educazione dei giovanissimi, non solo per ciò che concerne l’istruzione teologica, ma anche il comportamento, il modo di vestire e di impugnare le armi. Ho trovato molti opuscoli che trattano questi punti. La dottrina è di contorno.
Le donne, come spose degli jihadisti, madri dei leoncini, reclutatrici, o schiave, ricoprono un ruolo importante nello Stato Islamico. Nessun materiale rivolto a loro, o su di loro?
A dire il vero no, non ho notato nulla indirizzato a loro. C’è tanto materiale, pubblicazioni che trattano anche di politica estera, che parlano di Stati Uniti, Israele, Russia, oppure degli sciiti, degli infedeli, e come si vive sotto l’Islam ma non ho trovato riferimenti alle donne.
Nelle zone riconquistate dall’esercito siriano si muovono le numerose milizie sciite alleate del regime. Chi ha incontrato sulla sua strada?
C’è di tutto. Afghani, pakistani, libanesi, iraniani, siriani, ragazzi che combattono al servizio dell’Iran e di Hizbullah. Va detto che le comunità sciite siriane hanno sempre sentito un forte vincolo di fedeltà nei confronti di Hizbullah, che anche prima della guerra garantiva loro assistenza, welfare, istruzione religiosa. Quando nel 2012 i miliziani dell’ISIS si avvicinarono al santuario della Sayyeda Zeinab, uno dei santuari più sacri per gli sciiti, si iniziò a parlare dell’arrivo delle truppe di Hizbullah. In realtà a sollevarsi e armarsi furono cittadini siriani sciiti già presenti nel paese. Non si trattò quindi dell’arrivo di massa di combattenti libanesi o iraniani. Hizbullah fa già parte del tessuto sociale siriano e quando ho chiesto ai miei interlocutori se pensassero di lasciare il paese dopo la guerra, mi hanno risposto che sarebbero rimasti. Perché semplicemente si tratta di siriani di confessione sciita.
Hizbullah paga i propri miliziani più di quanto il governo siriano paghi i suoi soldati? Si, nove volte tanto.
In questa situazione, il governo siriano può ancora dire di essere sovrano?
È una grande domanda che ho posto spesso ai funzionari che ho incontrato. La Siria sta utilizzando alcuni valori come strumento di soft power presso la comunità internazionale. Mi riferisco in particolare alla protezione delle minoranze, alla laicità dello stato, alla secolarizzazione. Certo, dove risiede la sovranità con tante truppe straniere presenti sul territorio, per esempio i russi oppure il movimento di Hizbullah che si prende cura dei cittadini sciiti siriani con programmi di welfare, soldi, addestramento militare, e il sostegno di tanti enti caritatevoli iraniani che aiutano i profughi sperando di incrementare la presenza sciita in Siria? Anche la rete TV del partito di Dio, al-Manar, ha molto seguito. In questo senso, tutte le dimensioni dello stato sono fortemente influenzate da attori esterni. La risposta dei funzionari è sempre stata la seguente: stiamo parlando di attori rispettabili e fedeli e non mettiamo in dubbio che vogliano il bene della Siria. Ma il bene della Siria, mi chiedo, è di lasciare che altri estendano il proprio controllo e la propria influenza sul suo stesso territorio?
La Siria potrebbe trasformarsi in un nuovo Libano, con Hizbullah saldamente ancorato a un ruolo politico e dal quale il governo non può prescindere?
Non credo. In Libano vige un sistema confessionale dove il principale vincolo di fedeltà del cittadino è sempre stato verso la comunità religiosa di appartenenza, anche per ragioni pratiche, perché al di fuori di questa non hai diritto per esempio alla sanità, alla pensione, all’istruzione. In Siria il governo cerca fortemente di promuovere un’identità che spinga la dimensione religiosa in secondo piano. Punta sul sincretismo, sulla convivenza, sulla difesa dei luoghi di preghiera comune. A Homs come a Damasco ho visto tanti mussulmani andare in chiesa, le moschee sono aperte ai cristiani, chiedere a quale confessione si appartenga viene considerato atto di maleducazione. Il governo si sta muovendo anche da un punto di vista amministrativo e legislativo, ha messo per esempio ufficialmente fuori legge ogni partito di ispirazione religiosa. Un partito islamico o una democrazia cristiana non potrebbero oggi esistere, e questo è in controtendenza rispetto a quanto avviene in Europa. Per garantire la convivenza multiconfessionale in Siria vengono vietati i partiti di ispirazione confessionale. In tutto questo, il governo ritiene che Hizbullah possa essere un elemento di difesa dell’identità siriana ma naturalmente non sappiamo ancora quali saranno gli sviluppi futuri del movimento. Non credo a una libanizzazione della Siria ma senz’altro vi sarà una crescente dipendenza dall’asse sciita.
Ci può essere una riconciliazione nazionale in Siria, e chi può promuoverla?
Dal punto di vista pratico, dipende dal popolo. Dal punto di vista burocratico, per adesso la può promuovere solo il regime. A questo proposito, è stato aperto un Ministero che attualmente gestisce le trattative con capi di gruppi ribelli che vogliono arrendersi. Naturalmente non stiano parlando di negoziazioni con movimenti come ISIS e al-Nusra. Ma in tanti altri gruppi, molti combattenti si sono arruolati solo perché veniva loro offerto uno stipendio. Io stesso ne ho incontrati diversi. A questi il governo dice di voler garantire l’amnistia e l’immediato reinserimento sociale e lavorativo.
C’è poi anche un piano per reintegrare i profughi siriani. In tante zone mancano infatti giovani uomini, ed è un fatto che molte tra le migliori energie della Siria siano ormai fuori dal paese. I funzionari del Ministero per la Riconciliazione Nazionale con cui ho parlato sono fortemente critici nei confronti dell’apertura ai profughi annunciata nel 2015 da Angela Merkel, una misura che ha favorito l’esodo di siriani che Damasco considera migranti economici. I funzionari con cui ho parlato accusano l’occidente anche di voler boicottare il tentativo di rimpatrio, in quanto non riuscirebbero a coordinare programmi comuni in tal senso. A dire il vero hanno puntato il dito anche contro la Giordania e la Turchia, che da un lato utilizzerebbero i siriani per ricattare l’Europa con i flussi migratori e dall’altro impedirebbero alla Siria di riportare a casa i propri cittadini.
Qual è l’ostacolo principale alla fine della guerra?
I vari attori coinvolti a livello regionale. Tutti rivendicano una propria fetta di potere. E neppure la pace potrà eliminare la tensione esistente tra asse sciita e Arabia Saudita.
Shahid. Libro e video
ANALISI DEL TERRORISMO SUICIDA IN AFGHANISTAN
A partire dalla descrizione della stratificata società afghana, del complesso intreccio culturale e dell’imprescindibile componente religiosa, il testo delinea un “identikit sociale del martire-martirio” in Afghanistan: i meccanismi, le ragioni, l’evoluzione del terrorismo afghano sono qui spiegati grazie a dati non filtrati, raccolti “sul campo”, e avvalorati dal confronto diretto con le parti in causa.
Diversamente da quanto potrebbe far supporre la sua sempre più frequente presenza nelle cronache quotidiane, l’atto terroristico suicida è stato fino all’inizio degli anni Duemila sconosciuto agli afghani e lontano dalla loro cultura.
Durante i quasi due anni che ha trascorso in Afghanistan, in qualità di analista NATO, l’autore ha potuto studiare da una prospettiva “privilegiata” la natura e le caratteristiche del fenomeno, i suoi fautori, gli attori, il contesto pregresso e attuale in cui si sviluppa, le ragioni socio-politico-religiose che lo sostengono, i suoi rapporti con la politica internazionale, anche alla luce delle attuali strategie.
A partire dalla descrizione della stratificata società afghana, del complesso intreccio culturale e dell’imprescindibile componente religiosa, il testo delinea un “identikit sociale del martire-martirio” in Afghanistan: i meccanismi, le ragioni, l’evoluzione del terrorismo afghano sono qui spiegati grazie a dati non filtrati, raccolti “sul campo”, e avvalorati dal confronto diretto con le parti in causa. L’autore traccia così potenziali trend evolutivi e propone alcune soluzioni percorribili per mitigare gli scenari futuri, sinora poco incoraggianti.
Affiancando riflessione ed esperienza, il volume si rivolge non solo ad analisti, sociologi, storici, criminologi ed esperti di relazioni internazionali, ma anche a quanti intendano affrancarsi da una visione spesso viziata da pregiudizi o da errate associazioni con altri atti terroristici e comprendere meglio le specificità di un fenomeno complesso che si ripercuote, in modo sempre più significativo, anche sulle nostre vite.
Claudio Bertolotti è stato analista Nato in Afghanistan. Responsabile, in seno alla missione ISAF, della sicurezza della Kabul Multinational Brigade prima e del Regional Command Capital poi, di cui ha diretto la sezione Counter-intelligence, si è specializzato in Sociologia dell’Islam all’Università di Torino ed ha difeso la sua tesi di dottorato sul fenomeno degli atacchi suicidi in Afghanistan.
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