In piedi tra le macerie: cosa resta della Siria?
di Chiara Sulmoni
articolo pubblicato su L’Indro, 10 luglio 2017
Ieri, domenica 9 luglio nel sud ovest della Siria è entrato in vigore un cessate il fuoco promosso da Stati Uniti, Russia e Giordania. Al di là dell’aspetto umanitario, questo accordo dai contorni sfumati annunciato in occasione del G20 tenutosi la scorsa settimana in Germania, viene considerato una prima prova di cooperazione fra Putin e Trump che non si pone grandi obiettivi politici o militari se non quello -importante- di mettere le basi per discussioni più concrete alla ricerca di soluzioni per mettere fine alla guerra. La strada in questo senso è ancora lunga, visti i timori regionali e gli interessi internazionali in gioco sullo scacchiere mediorientale e un fronte combattente frammentato in una miriade di sigle rivali. Intanto in altre zone il conflitto infiamma. Scacciato da Mossul e sotto l’assedio della coalizione sostenuta dagli Stati Uniti a Raqqa, l’ISIS perde pezzi mentre l’esercito siriano e i suoi alleati -i russi e le varie milizie affiliate all’Iran e a Hizbullah- sembrano avere la meglio e consolidano le posizioni riguadagnate anche a suon di bombardamenti. Per capire ciò che sta accadendo sul terreno, al di sotto del radar della diplomazia e delle negoziazioni, il giornalista Luca Steinmann è stato in Siria nelle aree che il regime ha recentemente strappato ai ribelli -fra cui Homs, città simbolo della rivolta-. L’intervista che segue racconta quindi una versione dei fatti raccolta pochi giorni fa sul campo, dove il reporter ha incontrato sia funzionari del governo e militari, che civili fra le macerie.
Luca Steinmann, si potrebbe obiettare che nel suo viaggio lei abbia sentito una sola campana. Che margini ha avuto per capire cosa succede oggi nel paese?
Per entrare in Siria sono passato dal Libano, dove ho potuto ascoltare e raccogliere anche la versione e il punto di vista dei siriani che vivono all’estero, al di fuori delle terre controllate dal governo. Il 90% dei siriani in Libano si oppone al regime ed è su posizioni contrarie rispetto a quelle di molti siriani che sono rimasti nel paese. All’interno della Siria il consenso per il governo è oggi molto alto. Se all’inizio della rivolta, nel 2011, il popolo chiedeva un cambiamento, le conseguenze della ribellione hanno portato la gente a dover fare una scelta radicale -o con il regime o con i ribelli e i crimini di cui si sono macchiati, con lo stile di vita che i diversi gruppi armati, a prescindere dalle varie sigle, volevano imporre, e che è basato su una rigida interpretazione dell’Islam e spesso anche sulla persecuzione delle minoranze. Posizioni che vanno a minare la convivenza religiosa e quindi l’identità stessa siriana. Molti si sono convinti che solo il governo potrebbe difendere questa coesistenza. Se venissero indette oggi delle elezioni, Assad si imporrebbe con il 70, con l’80% dei consensi.
Ho avuto la fortuna di poter accedere ad aree liberate da pochi giorni e alla periferia di Homs, dove si erano insediati l’Esercito Libero Siriano, il fronte di al-Nusra e altri 15 gruppi non facenti riferimento allo Stato Islamico, l’ispirazione islamista di questi militanti, che andavano per esempio a prendere di mira le comunità cristiane, era altrettanto evidente. Anche siriani sunniti che prima della rivolta avevano sempre convissuto pacificamente con i propri vicini di casa cristiani o sciiti, e che avevano in un primo momento aderito alla ribellione in funzione anti-Assad, preferiscono ora schierarsi con il regime, in quanto permette appunto la convivenza sul territorio.
Il vero nemico dell’ISIS (ma lo stesso vale per gli altri gruppi islamisti) è quindi sul lungo termine l’ISIS stesso, con l’imposizione della sua dottrina e il suo atteggiamento intransigente?
Il vero problema per l’ISIS è che in Siria esiste una civiltà, un mosaico composto da oltre 70 comunità -inclusi i mussulmani radicali-. Voler attaccare la civiltà siriana come successo per esempio a Palmira, dove lo Stato Islamico ha distrutto e vandalizzato le rovine romane, significa attaccare la coesistenza e il miscuglio di culture su cui si fonda la società di oggi. Ma l’obiettivo era proprio questo, distruggere l’archeologia per cancellare non solo il ricordo di una civiltà pre-islamica, ma i valori comuni e la società multiconfessionale. È un obiettivo strategico ben preciso, che rompe la continuità con il passato. Così anche dove l’opposizione ad Assad era stata forte, come nelle aree rurali, chi ha vissuto sotto gli islamisti ha poi spesso cambiato idea.
La stessa cosa vale per il Libano. Sono stato in vari villaggi lungo la frontiera, nei paesini sunniti che prima della guerra cooperavano con quelli siriani dall’altro lato del confine, anche nella gestione del mercato nero. Molti trafficanti siriani hanno aderito alla causa dei ribelli e inizialmente anche i villaggi libanesi di frontiera li sostenevano, perché erano sempre stati in affari insieme, condividevano la stessa fede, e continuavano così ad aiutare, stavolta militarmente, la controparte siriana. È stato quindi particolarmente interessante osservare il mutamento di sensibilità rispetto al conflitto siriano, in un paese come il Libano, dove ci sono comunità sunnite più radicali, perché in uno stato settario si sa che le religioni si estremizzano. Davvero, questo conflitto coinvolge tutte le comunità confessionali della regione.
In base a quali criteri ha scelto le tappe del suo viaggio, perché sono significative?
La prima tappa, Damasco, è la capitale di uno stato in guerra in cui la gente esce e fa festa nel centro città mentre in lontananza si sentono i rumori dei colpi di mortaio che esplodono nelle aree periferiche di Jobbar e Barzeh. È un po’ come se a Milano la gente facesse festa in piazza del Duomo mentre si combatte a Sesto San Giovanni. Ciò mostra come la popolazione sia ormai abituata a convivere con la guerra e che nonostante ciò non si faccia prendere dal panico né ricattare dagli attentati che li colpiscono nello stesso in modo in cui vengono colpite le città europee.
Palmira è l’ultima città importante riconquistata dall’esercito siriano in ordine di tempo, si trova a soli 30 km dalle linee dello Stato Islamico e in un’area centrale che si apre verso la regione dell’Eufrate, in direzione di Raqqa e Deir ez-Zor, che è la zona di faglia.
Homs mi interessava perché fino a tempi molto recenti è stata sotto il controllo di gruppi ribelli in lotta fra loro ma non affiliati al Daesh.
Il quartiere palestinese di Yarmouk, a Damasco, è ancora oggi una linea del fronte in cui mi sono potuto addentrare. Volevo vedere e capire come vivono i palestinesi che vi abitano, suddivisi tra sostenitori del governo, dell’ISIS e di altri gruppi ribelli che hanno cercato di creare una sovrapposizione tra la causa palestinese e la guerra in Siria, sfruttando l’avversione dei leader storici palestinesi nei confronti del regime di Assad. Ma ci sono anche divisioni dell’esercito siriano composte da palestinesi.
Ho poi coperto il confine con il Libano e alcune aree attorno a Damasco, perché la guerra in Siria è a macchia di leopardo e ci sono diverse roccaforti ribelli che resistono attorno alla capitale. Pur essendo in vantaggio, il governo viene così tenuto costantemente sotto scacco. Questa guerra non si estinguerà con la vittoria militare.
A Yarmouk si combatte una guerra dentro la guerra?
No, questo può valere per il Libano, dove i campi sono chiusi e i gruppi all’interno di alcuni di questi si sono combattuti e tuttora si combattono in base a vincoli di fedeltà, riproponendo le dinamiche esterne. Yarmouk prima della guerra era un quartiere aperto, dove si entrava quasi senza accorgersene, e dove vivevano non solo profughi e rappresentanti di movimenti politici palestinesi ma anche siriani poveri e indigenti. Con la guerra, però, Yarmouk è stato raso al suolo e oggi resta solo un infinito cumolo di macerie suddivise in diverse zone di controllo dell’ISIS, di al-Nusra e dei governativi. La popolazione, sia palestinese che siriana, è fuggita. Oggi al suo interno vivono soltanto i miliziani con le rispettive famiglie e qualche famiglia di anziani palestinesi che non hanno avuto forze e mezzi per scappare.
Nelle aree ‘liberate’ che ha potuto visitare, vale a dire nelle zone tornate sotto il controllo di Damasco, che aria si respira?
In generale c’è voglia di ricominciare, di ricostruire. Palmira è fatiscente e totalmente disabitata, non fosse per la presenza di soldati siriani, sciiti afghani, pakistani, libanesi, iraniani e russi -questi ultimi a guardia delle rovine, da quel che si può vedere, il che è poco perché ufficialmente non sono schierati sul terreno e quindi non rilasciano interviste e non si fanno filmare.
Anche a Homs ci sono quartieri rasi al suolo dal governo dopo che i ribelli si erano rifiutati di evacuare la città, ma qui tra le macerie si incontrano alcuni civili, e in tutti ho riscontrato la voglia di tornare a casa, e soprattutto di rimanere in Siria. Un attaccamento alla patria diffuso tanto tra la gente che tra i soldati del regime.
Homs come Dresda nel 1945, ha scritto in un post. La città è stata pesantemente bombardata dagli aerei del regime. La popolazione che come ci ha appena spiegato, desidera ricominciare, accetta di farlo con Assad ancora al potere?
Una terza via al momento non c’è e il governo viene ormai visto come unico garante di una possibile ricostruzione. Poiché la Siria è sempre stato un mosaico di comunità molti pensavano, erroneamente a mio modo di vedere, che il regime non avesse un ruolo effettivo nel garantire la convivenza religiosa, e che si trattasse quindi di una condizione endemica. Poi il regime con la forza sia delle armi che della propaganda, ha assunto il ruolo di protettore delle minoranze e non per nulla oggi la comunità che più decisamente si schiera con Assad è quella cristiana.
A Palmira c’è quel che resta delle rovine romane ma c’è anche quel che resta dell’ISIS, che per questa città ha combattuto strenuamente. Cosa si è lasciato indietro lo Stato Islamico, sia in termini materiali che simbolici?
Innanzitutto la distruzione volontaria del patrimonio architettonico, delle rovine archeologiche, l’abbattimento delle colonne romane, impiccagioni e violenze. E tutto questo per distruggere il valore storico della convivenza tra fedi e il ricordo di una civiltà non solo siriana. Ci sono poi anche segni tangibili dell’attitudine dei militanti dell’ISIS, che hanno lasciato scritte che inneggiano allo Stato Islamico e all’uccisione degli infedeli, con il pennarello indelebile. Questi sono chiaramente atti di vandalismo grezzo. Non emerge certo la figura del combattente coraggioso e istruito che si batte per Allah. Anche se vengono utilizzati termini religiosi, quel che ho potuto osservare è un atteggiamento nichilista, un’assenza totale di progettualità e di senso della vita, proprio da parte di chi dice di cercare un senso nella religione.
A Palmira, nei cosiddetti ‘covi’ dello Stato Islamico, ha trovato materiale interessante che ci rivela qualcosa di nuovo sul movimento?
La cosa più evidente, in base al materiale che ho potuto raccogliere in alcune tipografie dell’ISIS, è la forte propaganda dottrinale e dogmatica. Lo si capisce dal gran numero di giornali, riviste, manuali che fanno riferimento a figure ben precise, il cui pensiero religioso si ritrova non solo in Siria ma accomuna i movimenti radicali anche al di fuori di questo contesto. Mentre i cecchini di Daesh tengono spesso accanto a sè una copia del Corano e dei libri di preghiere, nelle loro scuole i testi che ho notato essere maggiormente presenti erano quelli di Muhammad ibn Abd al-Wahhab, leader religioso i cui insegnamenti non sono mai stati diffusi in Siria, ma piuttosto in Arabia Saudita. Inoltre, si nota una buona capacità organizzativa, che ricalca quella dello stato iracheno. E sottolineerei anche l’attenzione data all’educazione dei giovanissimi, non solo per ciò che concerne l’istruzione teologica, ma anche il comportamento, il modo di vestire e di impugnare le armi. Ho trovato molti opuscoli che trattano questi punti. La dottrina è di contorno.
Le donne, come spose degli jihadisti, madri dei leoncini, reclutatrici, o schiave, ricoprono un ruolo importante nello Stato Islamico. Nessun materiale rivolto a loro, o su di loro?
A dire il vero no, non ho notato nulla indirizzato a loro. C’è tanto materiale, pubblicazioni che trattano anche di politica estera, che parlano di Stati Uniti, Israele, Russia, oppure degli sciiti, degli infedeli, e come si vive sotto l’Islam ma non ho trovato riferimenti alle donne.
Nelle zone riconquistate dall’esercito siriano si muovono le numerose milizie sciite alleate del regime. Chi ha incontrato sulla sua strada?
C’è di tutto. Afghani, pakistani, libanesi, iraniani, siriani, ragazzi che combattono al servizio dell’Iran e di Hizbullah. Va detto che le comunità sciite siriane hanno sempre sentito un forte vincolo di fedeltà nei confronti di Hizbullah, che anche prima della guerra garantiva loro assistenza, welfare, istruzione religiosa. Quando nel 2012 i miliziani dell’ISIS si avvicinarono al santuario della Sayyeda Zeinab, uno dei santuari più sacri per gli sciiti, si iniziò a parlare dell’arrivo delle truppe di Hizbullah. In realtà a sollevarsi e armarsi furono cittadini siriani sciiti già presenti nel paese. Non si trattò quindi dell’arrivo di massa di combattenti libanesi o iraniani. Hizbullah fa già parte del tessuto sociale siriano e quando ho chiesto ai miei interlocutori se pensassero di lasciare il paese dopo la guerra, mi hanno risposto che sarebbero rimasti. Perché semplicemente si tratta di siriani di confessione sciita.
Hizbullah paga i propri miliziani più di quanto il governo siriano paghi i suoi soldati? Si, nove volte tanto.
In questa situazione, il governo siriano può ancora dire di essere sovrano?
È una grande domanda che ho posto spesso ai funzionari che ho incontrato. La Siria sta utilizzando alcuni valori come strumento di soft power presso la comunità internazionale. Mi riferisco in particolare alla protezione delle minoranze, alla laicità dello stato, alla secolarizzazione. Certo, dove risiede la sovranità con tante truppe straniere presenti sul territorio, per esempio i russi oppure il movimento di Hizbullah che si prende cura dei cittadini sciiti siriani con programmi di welfare, soldi, addestramento militare, e il sostegno di tanti enti caritatevoli iraniani che aiutano i profughi sperando di incrementare la presenza sciita in Siria? Anche la rete TV del partito di Dio, al-Manar, ha molto seguito. In questo senso, tutte le dimensioni dello stato sono fortemente influenzate da attori esterni. La risposta dei funzionari è sempre stata la seguente: stiamo parlando di attori rispettabili e fedeli e non mettiamo in dubbio che vogliano il bene della Siria. Ma il bene della Siria, mi chiedo, è di lasciare che altri estendano il proprio controllo e la propria influenza sul suo stesso territorio?
La Siria potrebbe trasformarsi in un nuovo Libano, con Hizbullah saldamente ancorato a un ruolo politico e dal quale il governo non può prescindere?
Non credo. In Libano vige un sistema confessionale dove il principale vincolo di fedeltà del cittadino è sempre stato verso la comunità religiosa di appartenenza, anche per ragioni pratiche, perché al di fuori di questa non hai diritto per esempio alla sanità, alla pensione, all’istruzione. In Siria il governo cerca fortemente di promuovere un’identità che spinga la dimensione religiosa in secondo piano. Punta sul sincretismo, sulla convivenza, sulla difesa dei luoghi di preghiera comune. A Homs come a Damasco ho visto tanti mussulmani andare in chiesa, le moschee sono aperte ai cristiani, chiedere a quale confessione si appartenga viene considerato atto di maleducazione. Il governo si sta muovendo anche da un punto di vista amministrativo e legislativo, ha messo per esempio ufficialmente fuori legge ogni partito di ispirazione religiosa. Un partito islamico o una democrazia cristiana non potrebbero oggi esistere, e questo è in controtendenza rispetto a quanto avviene in Europa. Per garantire la convivenza multiconfessionale in Siria vengono vietati i partiti di ispirazione confessionale. In tutto questo, il governo ritiene che Hizbullah possa essere un elemento di difesa dell’identità siriana ma naturalmente non sappiamo ancora quali saranno gli sviluppi futuri del movimento. Non credo a una libanizzazione della Siria ma senz’altro vi sarà una crescente dipendenza dall’asse sciita.
Ci può essere una riconciliazione nazionale in Siria, e chi può promuoverla?
Dal punto di vista pratico, dipende dal popolo. Dal punto di vista burocratico, per adesso la può promuovere solo il regime. A questo proposito, è stato aperto un Ministero che attualmente gestisce le trattative con capi di gruppi ribelli che vogliono arrendersi. Naturalmente non stiano parlando di negoziazioni con movimenti come ISIS e al-Nusra. Ma in tanti altri gruppi, molti combattenti si sono arruolati solo perché veniva loro offerto uno stipendio. Io stesso ne ho incontrati diversi. A questi il governo dice di voler garantire l’amnistia e l’immediato reinserimento sociale e lavorativo.
C’è poi anche un piano per reintegrare i profughi siriani. In tante zone mancano infatti giovani uomini, ed è un fatto che molte tra le migliori energie della Siria siano ormai fuori dal paese. I funzionari del Ministero per la Riconciliazione Nazionale con cui ho parlato sono fortemente critici nei confronti dell’apertura ai profughi annunciata nel 2015 da Angela Merkel, una misura che ha favorito l’esodo di siriani che Damasco considera migranti economici. I funzionari con cui ho parlato accusano l’occidente anche di voler boicottare il tentativo di rimpatrio, in quanto non riuscirebbero a coordinare programmi comuni in tal senso. A dire il vero hanno puntato il dito anche contro la Giordania e la Turchia, che da un lato utilizzerebbero i siriani per ricattare l’Europa con i flussi migratori e dall’altro impedirebbero alla Siria di riportare a casa i propri cittadini.
Qual è l’ostacolo principale alla fine della guerra?
I vari attori coinvolti a livello regionale. Tutti rivendicano una propria fetta di potere. E neppure la pace potrà eliminare la tensione esistente tra asse sciita e Arabia Saudita.