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L’Italia in prima linea nel Sahel: sfide e opportunità dopo il ritiro francese.

di Andrea Molle, dagli Stati Uniti.

Dopo il ritiro dell’ultima presenza francese, l’Italia rimane l’unico paese europeo con una presenza rilevante nel Sahel. Una situazione che apre a diverse opportunità, ma che pone anche diverse sfide che Roma dovrà affrontare con una strategia il più possibile integrata. L’Italia ha infatti una presenza militare significativa nell’Africa subsahariana, con diverse missioni volte a garantire sicurezza, contrastare il terrorismo e sostenere la stabilità della regione. Queste missioni vedono Roma impegnata in Niger, Ciad, Gibuti, Somalia e nel Golfo di Guinea, sia attraverso operazioni bilaterali sia nel contesto di missioni UE, NATO e ONU. L’Italia ha una presenza militare in Niger nell’ambito della missione “MISIN” (Missione Bilaterale di Supporto nella Repubblica del Niger), avviata nel 2018 con l’obiettivo di supportare le autorità locali nella lotta al terrorismo, al traffico di esseri umani e al crimine organizzato. L’operazione si inquadra in un più ampio impegno dell’Italia nel Sahel, volto a garantire stabilità e sicurezza nella regione, contrastando le minacce che possono avere ripercussioni anche sull’Europa, come il flusso migratorio irregolare.

La missione italiana in Niger

La missione italiana in Niger prevede principalmente attività di addestramento e formazione delle forze di sicurezza locali, con lo scopo di migliorare le loro capacità operative. I militari italiani, appartenenti a diverse unità delle Forze Armate, forniscono corsi su tecniche di combattimento, operazioni speciali, sorveglianza e gestione delle frontiere. Inoltre, il supporto logistico e sanitario è una componente essenziale dell’operazione. Il contingente italiano in Niger è composto da alcune centinaia di unità, con la possibilità di impiegare fino a 470 militari, 130 veicoli e mezzi aerei per esigenze logistiche e di ricognizione. L’Italia ha stabilito la sua base operativa a Niamey, la capitale del Niger, collaborando con le autorità locali e con altri partner internazionali, tra cui Stati Uniti e in passato la Francia. L’operazione si inserisce anche in un contesto più ampio di cooperazione tra Italia e Niger, che comprende iniziative di sviluppo, aiuti umanitari e investimenti per migliorare le condizioni economiche e sociali del paese africano. Tuttavia, la situazione politica in Niger è instabile, con il recente colpo di Stato del 2023 che ha portato alla revisione delle relazioni tra il governo nigerino e gli stati occidentali, incluso l’Italia.

Nonostante le incertezze geopolitiche, la missione italiana in Niger rappresenta un tassello importante nella strategia di difesa e sicurezza dell’Italia nel Sahel, contribuendo alla stabilizzazione di un’area cruciale per gli equilibri geopolitici ed economici della regione e dell’Europa. Oltre al Niger, l’Italia mantiene anche una presenza militare limitata nel vicino Ciad, focalizzandosi principalmente su attività di collegamento, addestramento e supporto alle missioni internazionali presenti nella regione del Sahel. Questo impegno si inserisce in un contesto più ampio di cooperazione multilaterale finalizzata al contrasto del terrorismo, alla stabilizzazione dell’area e al rafforzamento delle capacità delle forze di sicurezza locali. L’attività italiana si sviluppa in sinergia con le operazioni condotte da organizzazioni internazionali come l’Unione Europea, le Nazioni Unite e il G5 Sahel, fornendo supporto strategico e operativo attraverso la condivisione di intelligence, l’addestramento delle forze armate locali e il coordinamento con altri contingenti militari presenti nell’area. Infine, l’Italia partecipa a iniziative volte a migliorare la sicurezza delle frontiere del paese, prevenire il traffico di armi e contrastare la radicalizzazione, elementi chiave per la stabilità del Ciad e dell’intero Sahel.

L’approccio italiano

L’approccio italiano si distingue per una forte attenzione alla cooperazione civile-militare, promuovendo non solo la sicurezza, ma anche lo sviluppo e la resilienza delle comunità locali. L’Italia dispone poi di una base militare a Gibuti, la Base Militare Italiana di Supporto (BMIS), operativa dal 2013. Situata in una posizione strategica nel Corno d’Africa, la BMIS funge da hub logistico e operativo, sviluppando capacità di intelligence, per le forze armate italiane impegnate in missioni nella regione dell’Africa orientale e nell’Oceano Indiano. Questa base rappresenta un’infrastruttura chiave per il supporto delle operazioni di contrasto alla pirateria marittima, contribuendo alla sicurezza delle rotte commerciali e al pattugliamento delle acque internazionali. Inoltre, fornisce supporto logistico e operativo a diverse missioni italiane ed europee nella regione, tra cui la partecipazione italiana alle operazioni EUNAVFOR Atalanta (contro la pirateria nel Golfo di Aden) e EUTM Somalia, dedicata all’addestramento delle forze armate somale.

La presenza della BMIS consente inoltre il rapido dispiegamento di unità italiane in caso di emergenze o crisi nell’area, rafforzando il ruolo dell’Italia nella sicurezza e stabilizzazione del Corno d’Africa. La base ospita personale militare e infrastrutture di supporto avanzate, permettendo la manutenzione dei mezzi, il rifornimento e l’assistenza alle forze italiane e alle missioni alleate. Oltre agli aspetti militari, la BMIS rappresenta anche un punto di cooperazione con le autorità locali gibutiane, contribuendo a rafforzare le relazioni diplomatiche tra Italia e Gibuti e a sostenere iniziative di sicurezza regionale, stabilità e sviluppo. Naturalmente, l’Italia mantiene una presenza significativa in Somalia, contribuendo attivamente alla sicurezza e alla stabilizzazione del paese attraverso due principali missioni internazionali. Si tradda di EUTM Somalia (European Union Training Mission in Somalia): una missione dell’Unione Europea attiva dal 2010, finalizzata all’addestramento e alla formazione dell’Esercito Nazionale Somalo (SNA) per rafforzarne le capacità operative e consentire al governo somalo di affrontare minacce alla sicurezza interna, in particolare quelle rappresentate dal gruppo terroristico Al-Shabaab.

Gli istruttori militari italiani: strumento politico

L’Italia svolge un ruolo di primo piano in questa missione, fornendo istruttori militari, consulenti e supporto strategico. Il personale italiano è impegnato nella formazione di ufficiali somali su aspetti tattici, strategici e logistici, nonché nella promozione dei principi del diritto internazionale umanitario. L’obiettivo è costruire un esercito somalo professionale ed efficiente, capace di garantire la sicurezza del paese in autonomia. Oltre alla formazione militare, la missione si concentra sullo sviluppo della leadership militare somala e sul rafforzamento delle istituzioni della difesa, contribuendo alla creazione di una catena di comando e controllo più efficace. La seconda operazione, denominata Operazione Atalanta, è una missione navale dell’Unione Europea (EUNAVFOR Atalanta) avviata nel 2008, con l’obiettivo di contrastare la pirateria nel Golfo di Aden e nell’Oceano Indiano, proteggere le navi mercantili e garantire la sicurezza delle rotte marittime strategiche. L’Italia partecipa attivamente all’operazione con unità navali, elicotteri e personale militare, svolgendo pattugliamenti e scorte a navi commerciali e umanitarie, in particolare quelle del Programma Alimentare Mondiale (WFP) dirette in Somalia.

I compiti della marina Militare

La Marina Militare Italiana ha avuto un ruolo di rilievo nella missione, contribuendo alla deterrenza della pirateria e al mantenimento della sicurezza nelle acque internazionali. L’Operazione Atalanta ha avuto un impatto significativo, riducendo drasticamente gli attacchi dei pirati e rafforzando la cooperazione tra le forze navali internazionali. L’Italia, oltre al contributo operativo, ha avuto spesso comandi di alto livello all’interno della missione, confermando il suo impegno nella sicurezza marittima globale. Oltre alla partecipazione a queste missioni, l’Italia mantiene forti legami storici e diplomatici con la Somalia, un paese che è stato colonia italiana fino alla metà del XX secolo. L’impegno italiano va oltre l’aspetto militare e include cooperazione allo sviluppo, supporto umanitario e iniziative per la stabilizzazione politica.

Attraverso le missioni EUTM Somalia e Operazione Atalanta, l’Italia contribuisce in modo significativo alla sicurezza e alla stabilità del Corno d’Africa, consolidando il proprio ruolo come attore chiave nelle operazioni internazionali della regione. Infine, con l’Operazione Gabinia, l’Italia si è impegnata a rafforzare la sicurezza marittima nel Golfo di Guinea, un’area cruciale per il traffico internazionale di petrolio e merci, ma anche una delle zone più colpite dalla pirateria marittima. L’invio di unità navali italiane mira a contrastare gli atti di pirateria, proteggere le navi commerciali (in particolare quelle battenti bandiera italiana) e garantire la sicurezza delle infrastrutture marittime essenziali per gli interessi economici globali. Tutte queste operazioni si inseriscono in un contesto più ampio di impegno italiano nella regione, che include cooperazione economica, militare e diplomatica con diversi paesi dell’Africa occidentale.

L’Italia sta cercando di sviluppare partnership strategiche che comprendano iniziative di sviluppo, aiuti umanitari e investimenti per migliorare le condizioni economiche e sociali dei paesi coinvolti, contribuendo così alla loro stabilità e alla riduzione delle cause profonde di instabilità e migrazione forzata. Tra le principali aree di intervento figurano la formazione delle forze di sicurezza locali, il controllo delle frontiere, il contrasto ai traffici illeciti (droga, armi, esseri umani) e la lotta al terrorismo jihadista, che rappresenta una minaccia crescente nella regione del Sahel. In particolare, il rafforzamento delle capacità di sicurezza e intelligence locali è cruciale per contrastare gruppi estremisti come Al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM), Boko Haram e lo Stato Islamico nel Grande Sahara (ISGS), che sfruttano le fragilità istituzionali e le tensioni etniche per espandere la loro influenza.

Mosca e Pechino: una sfida?

Un ulteriore obiettivo che l’Italia dovrà perseguire con maggiore decisione in futuro riguarda la contenzione della crescente penetrazione geopolitica di Russia e Cina nella regione. Mosca ha rafforzato la propria presenza militare e politica attraverso l’azione dei gruppi paramilitari, come il Wagner Group, offrendo supporto ai regimi autoritari e alle giunte militari in cambio di risorse naturali e basi strategiche.

Pechino, invece, continua a espandere la sua influenza economica tramite ingenti investimenti infrastrutturali e finanziari, spesso attraverso il meccanismo del debito che vincola i governi locali agli interessi cinesi. Di fronte a questi sviluppi, l’Italia, in coordinamento con gli Stati Uniti e i gli altri partner NATO, dovrà rafforzare la propria presenza politico-militare, intensificare la cooperazione con i governi locali e promuovere modelli di sviluppo alternativi, basati sulla sostenibilità e sull’autodeterminazione economica dei paesi africani.

L’impegno italiano in Africa occidentale si configura quindi sempre più come un delicato equilibrio tra sicurezza, diplomazia, cooperazione allo sviluppo e protezione degli interessi strategici nazionali ed europei.


L’impatto dello Stato Islamico nel Grande Sahara sulla sicurezza nel Sahel

di Marco Cochi

articolo originale pubblicato sull’Osservatorio strategico – Ce.Mi.S.S.: vai al Report

Nel primo giorno di Ramadan del 2014, lo sceicco Abu Bakr al-Baghdadi, leader dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIL), annunciò la restaurazione del Califfato e decise di cambiare il nome del gruppo in Stato Islamico. Il proclama indusse migliaia di combattenti stranieri a decidere di partire alla volta della Siria e dell’Iraq per unirsi alle milizie del nuovo Califfato.

Quattro mesi più tardi, attraverso i suoi organi di propaganda: al-Furqan e Dabiq, l’organizzazione terroristica annunciò che altri gruppi jihadisti avevano dichiarato la loro affiliazione al Califfato, assumendo la denominazione di province (wilayat) dello Stato Islamico. Tuttavia, prima di giurare fedeltà al califfo al-Baghdadi, questi gruppi avrebbero dovuto mettere in atto la strategia militare e il sistema di governo del nucleo centrale.

Nel tempo, le wilayat si sono rivelate fondamentali per portare avanti l’apocalittico progetto di egemonia fondamentalista salafita di al-Baghdadi, poiché la loro fedeltà si è rivelata di enorme aiuto per consentire allo Stato Islamico di continuare a esercitare la propria valenza, anche dopo la perdita dei territori siro-iracheni. Mentre è sempre più evidente che se nel 2018 le province avessero deciso di abbandonare l’organizzazione, l’avrebbero totalmente delegittimata e dimostrato che in realtà era solo uno Stato sulla carta.

Invece, negli anni, le filiali dello Stato Islamico sono significativamente aumentate di numero consentendo all’entità jihadista di poter contare su una consistente e articolata rete, anche dopo la sua deterritorializzazione. Tutto questo, tenendo presente che ogni branca dell’organizzazione è operativamente indipendente e non vi sono collegamenti diretti tra i vari gruppi affiliati, a parte il brand ISIS.

Le wilayat continuano ad operare in diverse parti del mondo, anche in Africa sub-sahariana, dove la povertà unita alla marginalizzazione socio-economica delle comunità locali hanno favorito il processo di radicalizzazione di molti giovani e lo sviluppo del terrorismo jihadista in diverse aree della macro-regione.

In Africa, l’ISIS ha decentralizzato le sue province in Egitto e Libia, ma anche nella fascia sub-sahariana e nel Sahel, dove il gruppo si sta espandendo approfittando delle particolari difficoltà per mettere in sicurezza quelle vaste aree desertiche. Un’ulteriore conferma dell’importanza che l’Africa riveste per lo Stato Islamico arriva dal video messaggio di al-Baghdadi, diffuso da al-Furqan lo scorso 29 aprile, in cui il Califfo si è rivolto ai mujaheddin in Sahel, incitandoli al jihad contro gli eserciti occidentali e a vendicare gli attacchi subiti dallo Stato Islamico in Siria e Iraq.

Nello stesso comunicato, pubblicato sulla rete pochi giorni dopo la rivendicazione di un attentato nella regione nord-orientale della Repubblica Democratica del Congo (RDC), il leader dell’ISIS ha confermato l’istituzione dell’ISCAP (Islamic State Central Africa Province), la nuova provincia dell’organizzazione jihadista in Africa Centrale. Inoltre, al-Baghdadi ha avvallato il riconoscimento formale del giuramento di fedeltà dell’emiro dello Stato Islamico nel Grande Sahara (ISGS – Islamic State in the Greater Sahara), formazione jihadista che merita di essere oggetto di un’attenta disamina per la sua elevata letalità, che l’ha resa tra le più pericolose della regione.

Una letalità dimostrata dal fatto che nel 2018 l’ISGS è stato collegato al 26% di tutti gli eventi violenti e al 42% di tutti i decessi avvenuti nel corso di attacchi associati ai gruppi estremisti islamici attivi nel Sahel. E se sarà confermato il trend di attacchi dei primi sei mesi dell’anno in corso, l’ISGS sarà il gruppo che nel 2019 avrà causato più vittime rispetto alle altre formazioni jihadiste che operano nella vasta regione desertica.

Il gruppo estremista saheliano è diventato tristemente noto a livello internazionale per un attentato compiuto in Niger il 4 ottobre 2017, nel villaggio di Tongo Tongo. In questo remoto sobborgo, a una ventina di chilometri dal confine con il Mali, furono uccisi cinque soldati nigerini e quattro militari statunitensi: il sergente di prima classe Jeremiah W. Johnson, il sergente La David Johnson e i due sergenti maggiori dei berretti verdi Bryan Black e Dustin Wright.

L’atto terroristico ha suscitato l’indignazione dell’opinione pubblica americana, soprattutto per il fatto che prima di fuggire le milizie jihadiste saheliane fedeli allo Stato Islamico hanno tolto le armi e le attrezzature militari ai quattro americani caduti, tentando di portare via almeno due dei corpi dal campo di battaglia… (vai al report)


L’attuale minaccia e l’evoluzione dei gruppi jihadisti nel Sahel

di Marco Cochi

L’instabilità e l’insicurezza nelle regioni di confine del Sahel sono fenomeni di lunga data che trovano origine nell’ancora incerto consolidamento delle forze di sicurezza degli Stati della regione, nella porosità delle frontiere, nelle rivendicazioni territoriali su base etnica e nella presenza di gruppi estremisti islamici attivi nella zona. La situazione nell’area di crisi è peggiorata alla fine del 2011, dopo la caduta di Muammar Gheddafi, in conseguenza della quale si è riversato un ingente flusso illecito di armi nel Sahel, che ha alimentato insurrezioni e conflitti nella regione.

forti dissidi tra i tuareg e i radicali islamici, dopo che questi ultimi erano riusciti ad imporre la loro connotazione integralista religiosa all’insurrezione armata

Una progressione di eventi, esplosa nell’aprile 2012 sotto la guida del Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad (MNLA), e culminata nella ribellione dei Tuareg nel nord del Mali. Il MNLA, pochi mesi dopo, si è assicurato il sostegno di tre temibili gruppi jihadisti: al-Qaeda nel Maghreb islamico (AQMI), Ansar Dine (I difensori della fede) e il Movimento per l’unicità del jihad in Africa occidentale (MUJAO). In un secondo momento, questi movimenti jihadisti sono entrati in contrapposizione con lo stesso MNLA, a causa di forti dissidi tra i tuareg e i radicali islamici, dopo che questi ultimi erano riusciti ad imporre la loro connotazione integralista religiosa all’insurrezione armata.

Dopo aver assunto la guida delle operazioni militari, gli estremisti iniziarono ad invadere il sud del Mali, fino ad arrivare a minacciare la capitale Bamako. Il dilagare della rivolta, nel gennaio 2013, diede il via all’operazione Serval condotta da una Forza multinazionale a guida francese, sotto l’egida delle risoluzioni 2071 del 12 ottobre e 2085 del 20 dicembre 2012, adottate all’unanimità dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

Parigi ha affidato la lotta contro i gruppi jihadisti saheliani all’operazione Barkhane, che ha integrato la Serval e la Epervier

L’azione armata evitò la caduta dell’ex colonia francese sotto il giogo islamista e pose fine all’offensiva dei gruppi jihadisti, ma non riuscì ad estirpare il contagio dell’estremismo violento dall’area. Così, dopo aver concluso l’intervento armato e ripristinato l’autorità statuale nella parte settentrionale del Mali, dal primo agosto 2014, Parigi ha affidato la lotta contro i gruppi jihadisti saheliani all’operazione Barkhane, che ha integrato la Serval e la Epervier.

Trascorsi più di sei anno e mezzo, la guerra nel nord del Mali si è trasformata in un conflitto asimmetrico a bassa intensità, nel corso del quale si è anche sviluppata una nuova pericolosa insorgenza lungo il confine Niger-Mali-Burkina Faso e dove alcuni gruppi jihadisti, sfruttando l’insicurezza che da decenni caratterizza queste zone di frontiera, hanno stabilito le loro roccaforti.

Una delle formazioni estremiste islamiche più pericolose e attive nell’area è la Jama’ah Nusrah al-Islam wal-Muslimin

Una delle formazioni estremiste islamiche più pericolose e attive nell’area è la Jama’ah Nusrah al-Islam wal-Muslimin (Gruppo per il sostegno all’Islam e ai musulmani – GSIM). Il GSIM si è costituito all’inizio del marzo 2017, sotto l’egida di al Qaeda nel Maghreb islamico (AQMI), per riunire in un’unica sigla i principali gruppi legati ad al Qaeda attivi in Mali e nell’area desertica del Sahel. Nello specifico, la fusione ha interessato al-Murabitun, Ansar Dine e i suoi affiliati della Brigata Macina, poi rinominata Fronte di liberazione del Macina.

La cellula saheliana di al Qaeda è guidata da un personaggio di estremo rilievo della rete jihadista maliana: il tuareg Iyad Ag Ghaly, soprannominato “lo stratega”, che oltre ad aver militato nella fila della Legione islamica di Gheddafi, combattuto in Libano a fianco dei militanti dell’OLP, negoziato la liberazione di ostaggi per il governo di Bamako ed essere stato tra il 1990 e il 1995 uno dei principali protagonisti della seconda rivolta tuareg, era anche alla testa di Ansar Dine durante la guerra nel nord del Mali.

l’emiro Abdelmalek Droukdel, stava perseguendo l’obiettivo di federare tutti i gruppi militanti attivi nel Sahel

L’alleanza dei gruppi qaedisti attivi nella regione era stata anticipata dagli osservatori, come prova uno studio realizzato due mesi prima della fusione dall’Istituto francese delle relazioni internazionali (IFRI), nel quale era stata dettagliatamente esaminata tale possibilità.

Del resto, era da tempo che il leader di AQMI, l’emiro Abdelmalek Droukdel, stava perseguendo l’obiettivo di federare tutti i gruppi militanti attivi nel Sahel per coronare le sue ambizioni di accrescere la limitata capacità d’influenza del suo gruppo nella regione. Ma la volontà unificatrice del leader jihadista è derivata anche dalla necessità di formalizzare i legami e le relazioni tra le varie formazioni armate, che risalgono al periodo dell’occupazione del nord del Mali. Inoltre, appare evidente che Droukdel abbia perorato la fusione in risposta al progressivo rafforzamento dell’influenza dello Stato Islamico nella regione, che anche dopo la sua deterritorializzazione resta un polo d’attrazione nel jihadismo internazionale.

Articolo originale e completo pubblicato sull’Osservatorio Strategico Ce.Mi.S.S. 1/2018

Marco Cochi, da oltre 16 anni è giornalista professionista con focus sull’Africa. Svolge attività di ricerca presso il CeMiSS per il monitoraggio e la produzione di analisi strategica sull’area tematica Africa sub-sahariana e Sahel ed è analista presso il think tank Il Nodo di Gordio. Docente del Corso in Terrorismo e le sue mutazioni geopolitiche alla SIOI (Società italiana per le organizzazioni internazionali) di Roma e membro della Faculty del Master in Peacebuilding and International Cooperation attivato presso la Link Campus University. Per i tipi di Castelvecchi ha da poco pubblicato “Tutto cominciò a Nairobi. Come al-Qaeda è diventata la rete jihadista più potente dell’Africa”.