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La nuova Siria: tra minaccia islamista, risposta preventiva di Israele e la ‘buffer zone’ turca.

di Claudio Bertolotti.

La recente conquista di Damasco da parte del leader jihadista Ahmed al-Sharaa, già noto con il nome di battaglia Abu Mohammed al-Jolani, capo di Hayat Tahrir al-Sham (HTS), segna un punto di svolta nell’equilibrio politico-militare del Medio Oriente. La Siria, dopo tredici anni di guerra civile contro il regime di Bashar al-Assad, si ritrova ora nella fase più critica della sua storia contemporanea: l’ascesa al potere degli islamisti guidati da al-Jolani, già affiliati ad al-Qaeda, si avvia a trasformare il Paese in uno “Stato islamico” destinato a rimodellare gli assetti regionali. E, ancora una volta, la variabile jihadista si manifesta come un fattore di destabilizzazione dagli effetti potenzialmente globali.

L’occupazione israeliana del Golan: una manovra preventiva e strategica
L’avanzata islamista in Siria, con il conseguente venir meno del controllo centralizzato di Damasco, crea un vuoto di potere all’interno del quale proliferano gruppi radicali e attori esterni in cerca di vantaggi geostrategici. L’azione di Israele – nello specifico il consolidamento dell’occupazione delle alture del Golan – va letta in questo quadro: non si tratta di un’ennesima incursione di natura espansionistica, bensì di una manovra difensiva e preventiva. Da un lato, Gerusalemme mira a evitare che forze jihadiste possano insediarsi lungo il proprio confine settentrionale, minacciando direttamente la sua sicurezza. Dall’altro, la presenza militare israeliana nell’area svolge anche un ruolo di protezione a favore delle forze di interposizione delle Nazioni Unite, potenzialmente esposte ad attacchi da parte di gruppi radicali in assenza di un potere centrale affidabile a Damasco.

L’attacco preventivo contro arsenali strategici e chimici
La lezione appresa in Afghanistan e in Iraq – dove arsenali convenzionali e non convenzionali sono passati di mano favorendo gruppi estremisti – ha reso evidente la necessità di interventi rapidi e chirurgici. L’attacco preventivo di Israele contro i depositi di armi strategiche siriane, inclusi quelli sospettati di contenere agenti chimici, intende prevenire il rischio che tali strumenti finiscano nelle mani dei jihadisti. Non si tratta solo di un interesse israeliano: se fossero i movimenti radicali a impadronirsi di armamenti chimici, l’intera regione, e persino l’Occidente, ne subirebbero le conseguenze. Come evidenziato dalle ultime analisi dell’Institute for the Study of War (Iran Update, 11 dicembre 2024), il controllo degli arsenali siriani da parte di attori non statali apre scenari ad altissimo rischio. Israele agisce dunque con un’intelligenza strategica che mira a prevenire futuri attacchi terroristici su larga scala.

La mossa israeliana e la scelta turca: due facce della stessa medaglia
La politica israeliana nel Golan non può essere letta in modo isolato: è coerente, nella logica strategica di contenimento delle minacce, con la scelta turca di occupare parti del territorio siriano al confine settentrionale. Ankara, come già dimostrato in passato, intende mantenere una “buffer zone” tra le aree sotto il proprio controllo e le regioni abitate dai curdi siriani, considerati una minaccia perché in collegamento con il PKK in Turchia. Tale azione non solo limita i movimenti delle milizie curde, ma risponde a un duplice obiettivo: arginare il potere curdo e, al contempo, impedire l’insediamento di gruppi islamisti ostili alla Turchia. L’avanzata israeliana sul Golan e la buffer zone turca formano, in modi diversi, due esempi di contenimento preventivo della minaccia jihadista.

L’ascesa degli islamisti in Siria: l’incognita dei diritti e il parallelismo con i talebani
La presa del potere da parte di al-Jolani e dei suoi uomini non può essere vista con favore. Le dichiarazioni rassicuranti nei confronti delle minoranze, delle donne e della comunità cristiana suonano come pura retorica. Sappiamo bene quale sia la storia dei movimenti jihadisti: la sharia applicata in modo letterale, l’assenza di rispetto per le differenze religiose e culturali, l’eliminazione di ogni spazio di pluralismo. allo scioglimento del parlamento siriano seguirà l’imposizione di un governo di unna shurà musulmana, non eletta né rappresentativa dell’estrema eterogeneità etno-culturale e religiosa siriana. Come già osservato nel caso dell’Afghanistan dei talebani, l’instaurazione di uno Stato islamico sotto la guida di ex qaedisti “riciclati” in forza politica locale non farà altro che istituzionalizzare un regime repressivo e contrario ai principi fondamentali dei diritti umani.

La minaccia terroristica si estende all’Occidente
La vittoria islamista in Siria, come fu per il ritorno dei talebani a Kabul nel 2021, agirà da catalizzatore per il terrorismo internazionale. Le cronache recenti mostrano che ogni avanzamento dell’ideologia jihadista si accompagna a un incremento degli attacchi e della propaganda violenta, spingendo individui radicalizzati o simpatizzanti a compiere gesti emulativi in Occidente. Come osservato da recenti analisi su media internazionali (si veda il 5° Rapporto sul Radicalismo e il Contrasto al Terrorismo #ReaCT2024 e Il Giornale), il successo di Hts in Siria accresce il rischio che l’Europa diventi bersaglio di nuovi attacchi, ispirati e orchestrati da soggetti che trarranno nuovo slancio e legittimazione simbolica dalla “vittoria” di al-Jolani. La dimensione mediatica del jihad è tale per cui il controllo di un territorio – e la proclamazione di uno Stato islamico – si trasforma in un messaggio di potenza rivolto a potenziali sostenitori e reclute.

Prospettive e conclusioni
La nuova Siria di al-Jolani non è meno pericolosa del regime di Assad. Anzi, l’aperta adesione ai principi fondamentalisti, la lotta per il potere che seguirà tra gruppi islamisti e jihadisti in competizione – in primis con il gruppo Stato islamico – l’influenza di gruppi radicali e l’assenza di un sistema di garanzie internazionali rendono il contesto più imprevedibile. La mossa israeliana nel Golan e la strategia turca a nord riflettono una comprensibile, anche se parziale, risposta a queste minacce. L’Occidente non può permettersi di cadere nell’illusione di un al-Jolani “pragmatico”: la natura islamista e jihadista della nuova leadership è un dato di fatto. Se a ciò si sommano i rischi legati alla disponibilità di armi strategiche e chimiche, l’interesse nazionale israeliano e turco di creare zone cuscinetto e di colpire preventivamente gli arsenali appare tragicamente sensato. In questo scenario – al pari dell’Afghanistan talebano – la Siria potrebbe fungere da polo attrattivo per un jihadismo oggi in cerca di legittimazione e vittorie simboliche, con conseguenze dirette anche per l’Europa.


Siria: al-Jolani verso Damasco. Le preoccupazioni di Iran, Russia e Israele.

di Claudio Bertolotti.

Dall’intervista di Francesco De Leo a Radio Radicale – Spazio Transnazionale (puntata del 7.12.2024): vai all’intervista radio (AUDIO).

Abu Mohammed al-Jolani, nato con il nome Ahmed Al Sharaa, è il leader di Hayat Tahrir al-Sham (HTS), gruppo armato attivo nella guerra civile siriana e tuttora designato dagli Stati Uniti come organizzazione terroristica. Originariamente affiliato ad al-Qa’ida e noto come capo di Jabhat Al Nusra, Jolani ha esordito come jihadista radicale, inviato in Siria nel 2011 con fondi e sostegno di Abu Bakr al-Baghdadi, futuro leader dell’ISIS, per stabilire la filiale siriana del network qaedista.

Nel corso degli anni ha trasformato la propria immagine e la propria strategia. In un primo momento ha annunciato la separazione formale da Al Qaeda, per poi concentrarsi principalmente sul rovesciamento del regime di Bashar al-Assad e sul controllo di aree chiave come la provincia di Idlib. Questa “rottura” è stata ampiamente vista come mossa tattica, volta a evitare gli attacchi internazionali diretti contro le formazioni jihadiste transnazionali.

Parallelamente, Jolani ha anche cambiato l’aspetto e la retorica pubblica: dalla mimetica è passato a indossare giacca e camicia in stile occidentale, presentandosi come un rivoluzionario siriano moderato, impegnato in una lotta contro il regime di Damasco anziché a una guerra globale contro l’Occidente. Durante interviste recenti, ha minimizzato riferimenti al jihad globale, puntando invece sulla “liberazione” della Siria e sul ruolo di HTS come forza locale, impegnata a garantire sicurezza e amministrazione a milioni di persone in aree sotto il suo controllo.

Nonostante questa strategia di rebranding e il tentativo di mostrarsi come un interlocutore più pragmatico, Jolani rimane un personaggio estremamente controverso e indubbiamente legato allo jihadismo insurrezionale, di cui oggi è uno dei principali leader. Alle spalle ha un passato profondamente radicato nelle reti jihadiste internazionali, ed è a capo di un’organizzazione che resta considerata terroristica da Washington. Il suo percorso è quindi quello di un leader che cerca di distanziarsi dall’estremismo transnazionale per guadagnare legittimità locale e, possibilmente, internazionale, presentandosi come un attore politico rivoluzionario più che come un leader jihadista.

La situazione sul campo

I gruppi islamisti stanno avanzando verso Damasco con il sostegno turco e assediano Homs, snodo strategico verso il Mediterraneo e roccaforte del regime.

Mentre a Doha è previsto un incontro fra Russia, Turchia e Iran per negoziare una possibile transizione politica che escluda Assad, sul campo le forze filoiraniane sembrano ritirarsi, la Russia appare indebolita, non più proattiva, mentre l’ONU registra una massiccia ondata di sfollati.

Il leader ribelle al Jolani rivendica il diritto a usare ogni mezzo contro il regime, ma promette di non perseguitare le minoranze. Vedremo.

Da parte sua, il felice e preoccupante presidente turco Recep Tayyip Erdogan annuncia apertamente Damasco come prossimo obiettivo, mentre l’Iran, la Siria e l’Iraq si dichiarano uniti nella lotta al “terrorismo”.

Nel sud del Paese, gruppi antigovernativi si spostano verso nord, conquistando facilmente posizioni lasciate dai lealisti, e le comunità druse di Suwayda stanno creando una regione semi-autonoma.

Intanto, il Libano chiude i confini per timore di un contagio del conflitto e proseguono scontri tra forze filo-turche e milizie curde.

Preoccupazioni di Iran e Israele (e Mosca)

Certo è che, nella situazione attuale, questo è un problema sia per l’Iran, oltre che per la Russia, ma anche per Israele: tutti guardano con grande preoccupazione a quanto sta accadendo. Se per Mosca è un grande problema legato alla capacità di muovere all’interno del Mediterraneo con la propria marina, per Teheran è una quesitone di tenuta complessiva dell’Asse della resistenza poiché la caduta siriana potrebbe precludere il collegamento vitale con il Libano, e dunque con Hezbollah. E forse gli accordi di Doha sono intesi a trovare una soluzione mediata che consenta all’Iran di mantenere il controllo di una striscia di territorio siriano funzionale proprio al collegamento con Hezbollah.

E per Israele? Israele è molto preoccupata perché la presenza di un regime siriano debole è la condizione migliore mentre la caduta della Siria sotto il controllo degli islamisti potrebbe aprire un fronte di ulteriore instabilità ai confini israeliani. Senza dimenticare che “al-Jolani” prende il suo nome dal Golan, attualmente occupato da Israele, e la sua posizione è sempre stata apertamente anti-occidentale e anti-israeliana.


Il presidente Joe Biden e il dossier siriano

di Claudio Bertolotti

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Il passaggio dall’amministrazione di Donald J. Trump alla nuova amministrazione del presidente Joe Biden potrebbe portare a pochi cambiamenti alla politica statunitense nel Medioriente. Gli Stati Uniti continuano a svolgere un ruolo importante nella stabilizzazione dell’area e nel tentativo di dissuadere attori locali e regionali dal prendere iniziative sfavorevoli.

Il 25 febbraio, aerei statunitensi hanno bombardato alcuni obiettivi nella parte orientale della Siria, al confine con l’Iraq. Target dei bombardamenti erano due milizie operative in Iraq, Kataib Hezbollah e Kataib Sayyid al Shuhada, indicate da Washington quali responsabili di operazioni mirate ai dannni delle truppe statunitensi in Iraq.

Nonostante l’annuncio del disimpegno statunitense e del conseguente ritiro militare dalla Siria nord-orientale, Washington continua a schierare nell’area alcune centinaia di truppe.

Il passaggio dall’amministrazione di Donald J. Trump alla nuova amministrazione del presidente Joe Biden potrebbe portare a pochi cambiamenti alla politica statunitense nel Medioriente. Questo perché la visione del nuovo presidente in termini di relazioni estere e approcci alle dinamiche mediorientali non è così diversa da quella dei suoi predecessori (compresa l’amministrazione di Barack Obama, di cui Biden fu vice-presidente).

Quello che potrebbe cambiare sarà l’approccio più aggressivo degli altri attori e concorrenti: Turchia, Russia e, ultimo ma non meno importante, l’Iran. Di sicuro, chi pagherà il prezzo più alto saranno gli attori di seconda linea: la pletora di milizie, così come i gruppi islamisti, e il cosiddetto fronte delle forze democratiche siriane (SDF, Syrian Democratic Forces) tra le cui fila c’è lo Yekîneyên Parastina Gel (YPG, People’s Protection Units) – componente maggioritaria delle SDF – osteggiato dalla Turchia. Turchia che considera l’YPG come estensione del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), designato da Ankara – e dagli stessi Stati Uniti – come gruppo terroristico. Ma, nonostante la designazione terroristica del PKK da parte statunitense, l’YPG ha mantenuto il ruolo di partner fedele e indispensabile all’interno della coalizione internazionale (contro lo Stato islamico) guidata da Washington. L’YPG, che il PKK di fatto continua comunque a considerare come propria affiliata siriana, nega gli attuali legami istituzionali tra le due organizzazioni.

Sull’altro fronte, nel nord-est della Siria permane una residua presenza e attività dello Stato Islamico: una sfida che perdura. Sebbene le capacità operative del gruppo rimangano limitate e non si sia verificato alcun grave fatto sul piano della sicurezza, i suoi membri sono stati in grado di ricompattarsi ed oggi istituiscono posti di blocco, estorcono denaro a trafficanti locali di petrolio, impongono tasse per le transazioni commerciali ai proprietari terrieri, immobiliari, industriali, dirigenti, medici e fornitori delle principali organizzazioni non governative (ONG), mentre a tutti coloro che vengono considerati benestanti viene imposta la zakat, la beneficenza “volontaria”. Ciò che più preoccupa, nel complesso scenario siriano (ma anche iracheno) è l’apparente capacità del gruppo di coinvolgere e addestrare nuove reclute nelle aree periferiche e desertiche a ovest dell’Eufrate, solo nominalmente controllate da forze del governo siriano (ICG, 2020).

Analisi, valutazioni, previsioni

Gli Stati Uniti continuano a svolgere un ruolo importante nella stabilizzazione dell’area e nel tentativo di dissuadere attori locali e regionali dal prendere iniziative sfavorevoli. Un ruolo che però è stato fortemente indebolito dall’ambiguità degli annunci, spesso vaghi e contraddittori, che hanno caratterizzato la precedente amministrazione statunitense in merito alla presenza di Washington in Siria. Da un lato, la linea strategica palesata non ha consentito di pianificare efficacemente l’impegno militare sulla base di una time-line e un end-state definito; dall’altro lato, l’ipotesi di un impegno a tempo indeterminato, senza una tabella di marcia, né una chiara strategia diplomatica potrebbe mantenere in una condizione di permanente destabilizzazione e violenza (IGC, 2020); oppure, ulteriore variabile, un ritiro precipitoso degli Stati Uniti, o anche solo il semplice annuncio di un ritiro imminente, potrebbe sconvolgere il già precario equilibrio tra gli attori in campo.

Infine, guardando dal punto di vista giuridico, l’ipotesi di permanenza a tempo indeterminato potrebbe essere vista come una violazione del diritto internazionale del principio di sovranità, a danno del legittimo Stato siriano; una preoccupazione esacerbata dalla dichiarazione, fatta dall’allora presidente Donald J. Trump a fine 2019, di impegno a rimanere in Siria per “proteggere il petrolio” (ICG, 2020).

Sebbene Joe Biden appaia meno propenso di Trump a chiudere l’operazione in Siria, la sua amministrazione potrebbe però decidere di disimpegnare le truppe statunitensi esattamente come avrebbe fatto Trump. È una possibilità, sebbene i consiglieri di Biden ritengano la presenza militare a tempo indeterminato quale requisito necessario a scongiurare violenti stravolgimenti sul fronte che minaccerebbero gli alleati locali di Washington – e tra questi certamente i curdi dell’YPG – e potrebbero agevolare la rinascita del gruppo Stato islamico.

Ma se, per ipotesi, gli Stati Uniti decidessero di attuare un disimpegno immediato dal teatro siriano quali potrebbero essere gli esiti più probabili?

In primo luogo potrebbe aprirsi una nuova fase di violenza, a tutto vantaggio dei gruppi jihadisti e terroristi – in primis lo Stato islamico, che si rafforzerebbe riacquisendo capacità operative e di controllo territoriale e sociale.

In secondo luogo, questa nuova fase del conflitto incentiverebbe il confronto, e dunque lo scontro, tra il partner locale degli Stati Uniti, le cosiddette Syrian Democratic Forces (SDF), e la Turchia – che vede negli elementi curdi delle SDF un’estensione siriana del PKK.

Una possibile via di uscita alternativa potrebbe concretizzarsi qualora Washington decidesse di giocare il ruolo di mediatore ai fini di un accordo tra le parti che affronti i problemi di sicurezza turchi (reali e percepiti), protegga gli oltre tre milioni di siriani che risiedono nel nord-est della Siria e, in particolare, riduca il rischio di rinascita dello Stato islamico (ICG, 2020).

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Principali eventi nell’area del Maghreb e del Mashreq – Agosto

La Redazione

Algeria: risposta alla crisi. L’Algeria apre al settore privato: banche, compagnie aeree, società di trasporto marittimo

L’Algeria apre al settore privato che potrà dar vita a banche e società di trasporto aereo e marittimo di merci e passeggeri: una scelta volta a ridurre la spesa, ormai non più sostenibile, di uno stato storicamente onnipresente nell’economia del paese. Una scelta che dovrebbe portare da una fallimentare e non sostenibile economia monopolistica di stato a un’econimia aperta al mercato: queste le intenzioni annunciate il 18 agosto dal presidente Abdelmadjid Tebboune. La decisione è parte di riforme più ampie per far fronte ai problemi finanziari causati dal forte calo dei proventi delle esportazioni di energia, la principale fonte di finanziamento statale. Eletto a dicembre 2019, Tebboune vuole incoraggiare gli investitori privati ​ nel tentativo di sviluppare il settore non energetico e ridurre la dipendenza da petrolio e gas. Le riserve di valuta estera dell’Algeria sono scese a 57 miliardi di dollari da 62 miliardi di gennaio, mentre i ricavi delle esportazioni di energia dovrebbero raggiungere 24 miliardi di dollari alla fine del 2020 rispetto ai 33 miliardi nel 2019. I guadagni energetici rappresentano attualmente il 94% delle esportazioni totali e il governo mira a portare tale cifra all’80% dal prossimo anno, aumentando il valore delle esportazioni di prodotti non energetici a 5 miliardi dagli attuali 2 miliardi. Per raggiungere questo obiettivo, il governo stanzierà circa 15 miliardi di dollari per aiutare a finanziare progetti di investimento (MEMO – Middle East Monitor, 2020).

Egitto: accordo con la Grecia per la designazione di una nuova zona economica esclusiva (EEZ)

Il 6 agosto al Cairo, Grecia ed Egitto hanno firmato l’accordo per la designazione parziale di una zona economica esclusiva (EEZ) nel Mediterraneo orientale. Per Atene, l’accordo ha effettivamente annullato un accordo marittimo tra la Turchia e il GNA dello scorso anno. Questo accordo fa parte di una più ampia strategia di risoluzione di questioni bilaterali, volta a costruire alleanze con terze parti in modo da promuovere gli interessi nazionali dei due paesi, nel rispetto del diritto internazionale. È al tempo stesso un accordo che vuole porsi in linea con il diritto del mare delle Nazioni Unite, un atto di diritto internazionale in cui la Turchia è uno dei 15 paesi al mondo a non avere firmato o ratificato. L’accordo con l’Egitto è arrivato dopo che la Grecia ha firmato un precedente accordo con l’Italia, il 9 giugno, che ha di fatto esteso un accordo del 1977 tra i due stati in merito alle piattaforme continentali nel Mar Ionio.

Israele: un accordo di pace con gli Emirati Arabi Uniti

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il principe ereditario degli Emirati Arabi Uniti (UAE) Mohammed bin Zayed hanno siglato un accordo di pace: Israele “sospenderà” temporaneamente l’estensione della sovranità israeliana sulla Cisgiordania, come parte di un nuovo accordo di pace. L’accordo è stato annunciato dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump.

Gli Emirati Arabi Uniti e Israele, in base all’accordo, scambieranno proprie ambasciate e ambasciatori. Gli UAE saranno così il terzo Paese arabo ad avviare relazioni ufficiali con Israele, dopo Egitto e Giordania. Netanyahu ha formalmente ringraziato il presidente egiziano Adel-Fattah el-Sisi e i governi di Oman e Bahrain per il loro sostegno alla normalizzazione delle relazioni tra Abu Dhabi e Gerusalemme.

Ma il presidente dell’Autorità Palestinese (AP) Mahmoud Abbas ha rigettato l’accordo di pace definendolo “un tradimento di Gerusalemme”. In una dichiarazione letta alla televisione palestinese, il portavoce di Abbas, Nabil Abu Rudeineh, ha detto: “La leadership palestinese rifiuta quanto fatto dagli Emirati Arabi Uniti e lo considera un tradimento di Gerusalemme, della moschea di Al-Aqsa e della causa palestinese. Questo accordo è un riconoscimento de facto di Gerusalemme come capitale di Israele”. L’AP ha anche annunciato che avrebbe ritirato immediatamente il proprio ambasciatore negli Emirati Arabi Uniti (Fonte: agenzia di stampa palestinese Wafa). Funzionari dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) hanno respinto l’accordo, così come il gruppo militante palestinese Hamas.

Libano: l’esplosione di Beirut una svolta per il Libano?

Nel pomeriggio del 4 agosto 2020, due esplosioni sono avvenute nel porto della città di Beirut, capitale del Libano. La seconda esplosione è stata estremamente potente e ha causato almeno 177 morti, 6.000 feriti e 10-15 miliardi di dollari di danni, lasciando circa 300.000 persone senza casa. L’incidente è stata provocato dall’esplosione di 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio – un materiale altamente combustibile utilizzato per produrre fertilizzanti e bombe. La spaventosa negligenza che ha lasciato più di 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio immagazzinate nel porto in condizioni climatiche inadatte, senza la supervisione di esperti, per più di sei anni è la conferma di un paese afflitto da corruzione endemica e incompetenza, devastato da decenni di conflitti settari, assenza di governance e cinici giochi politici la cui regia è nelle mani degli Stati regionali in collaborazione con gli attori interni. Aggravata dalla pandemia, la corruzione endemica e il malgoverno hanno portato l’economia nazionale alla rovina: l’ormai cronica crisi economica e sociale ha inevitabilmente portato verso il fallimento dello Stato, anche se il Libano è già da anni uno stato fallimentare.

Per mesi i prezzi dei beni sono aumentati vertiginosamente e la classe media è sprofondata nella povertà e nella disperazione. Per settimane, prima dell’esplosione, i residenti della capitale hanno manifestato contro la cattiva gestione e l’incertezza economica. Dal giorno dell’esplosione, i manifestanti hanno poi cercato di superare con la forza i cordoni della polizia e dell’esercito; in tale situazione, il parlamento libanese ha approvato lo stato di emergenza che concede ampi poteri all’esercito: limitazione di libertà di parola, di riunione e di stampa, nonché libertà per le forze armate di entrare nelle abitazioni private e arrestare chiunque sia considerato una minaccia alla sicurezza. Ma ciò non è bastato a contenere le manifestazioni di protesta; manifestazioni che hanno indotto il premier Hassan Diab e il suo gabinetto a dimettersi: ma la crisi è troppo profonda per essere risolta con un cambio di gestione.

L’impatto della crisi è forte, soprattutto nelle aree urbane. Le persone cercano di andarsene o di sopravvivere grazie al sostegno economico di parenti all’estero; altri stanno ricorrendo al sostegno di Hezbollah. Le sanzioni economiche hanno reso l’Iran meno generoso, ma Hezbollah continua a mantenere una capillare rete di clientelismo. La principale conseguenza a breve termine è la frammentazione e la criminalizzazione, alimentata da un tasso di disoccupazione tra i più elevati della regione, anche a causa dell’oltre milione e mezzo di profughi siriani (su una popolazione di 4 milioni di abitanti) che si aggiungono agli arabi palestinesi. A lungo termine, resta da vedere in quale sfera di influenza finirà il Libano:

  • l’Iran sta cercando di sfruttare la situazione di stallo, ma non può alleviare il suo bisogno finanziario;
  • Hezbollah ora guarda sempre più alla Cina, come il governo che sta cercando di attirare investimenti cinesi;
  • la stessa Cina guarda con grande interesse alla possibilità di un ulteriore hub nel Mediterraneo orientale (oltre alle teste di ponte che ha già in Egitto e Grecia), (Holslag, 2020).

Libia: un cessate il fuoco? E la Turchia si prende Misurata

Fajez Al Sarraj ha annunciato il 21 agosto il cessate il fuoco in tutto il Paese e ha chiesto la smilitarizzazione della città di Sirte, controllata dalle forze del generale Haftar. Al Sarraj ha anche ha annunciato elezioni a marzo con “un’adeguata base costituzionale su cui le due parti concordano”. Dopo le dichiarazioni del GNA, anche Aguila Saleh, portavoce della Camera dei rappresentanti di Tobruk, ha annunciato il cessate il fuoco. “Il nuovo stop taglia la strada a ogni ingerenza straniera e si conclude con l’uscita dei mercenari dal Paese e lo smantellamento delle milizie” ha detto Saleh aggiungendo: “Cerchiamo di voltare la pagina del conflitto e aspiriamo ad un futuro di pace e alla costruzione dello Stato attraverso un processo elettorale basato sulla Costituzione“.

Secondo Ahval News, Turchia e Qatar hanno firmato un triplice accordo di cooperazione militare con il governo libico destinato a rafforzare la difesa del governo contro le forze di Khalifa Haftar e, di conseguenza la presenza e il ruolo della Turchia e del Qatar (e dunque dei gruppi islamisti) nella regione. L’accordo, annunciato il 17 agosto dal vice ministro della Difesa libico Salam Al-Namroush, realizzerà strutture militari e avvierà programmi di addestramento all’interno del Paese. Questa cooperazione includerà il finanziamento da parte del Qatar dei centri di addestramento militare e la creazione di un centro di coordinamento trilaterale e di una base navale turca nella città di Misurata. Il supporto e la consulenza saranno anche fornite alle forze governative libiche come parte dell’accordo. L’Italia, da anni presente a Misurata con un proprio ospedale militare, è stata allontanata dall’area, rendendo vani gli sforzi fatti sino a ora. Lo stesso personale italiano sarà dislocato nei pressi della capitale Tripoli.

Siria: In riduzione le truppe statunitensi in Iraq e Siria

Il comandante militare americano in Medio Oriente ha dichiarato che i livelli delle truppe statunitensi in Iraq e Siria si ridurranno molto probabilmente nei prossimi mesi, pur ammettendo di non aver ricevuto l’ordine per avviare il ritiro delle unità. Il generale Kenneth F. McKenzie Jr., capo del comando centrale del Pentagono, ha detto che le 5.200 truppe in Iraq impegnate a combattere ciò che rimane del gruppo Stato islamico e ad addestrare le forze irachene “saranno adeguate” dopo le consultazioni con il governo di Baghdad. Il generale McKenzie ha detto che si aspetta che le forze americane e le altre forze della NATO mantengano “una presenza a lungo termine” in Iraq – sia per aiutare a combattere gli estremisti islamici che per controllare l’influenza iraniana nel paese. Non è stata confermata l’entità delle forze che rimarranno in teatro, ma fonti non ufficiali riportano un totale di forze residue non inferiori a 3.500 unità statunitensi. Nonostante la richiesta del presidente Donald J. Trump, orientate a un ritiro completo di tutte le 1.000 forze americane dalla Siria, il presidente ha confermato la permanenza di circa 500 soldati, per lo più nel nord-est del paese, che assistono gli alleati curdi siriani nella lotta contro i combattenti del gruppo Stato islamico (Schmitt, 2020).

Marocco: Il Marocco e il Portogallo si impegnano a combattere la migrazione irregolare

Il Portogallo e il Marocco si sono impegnati a unire gli sforzi per frenare la migrazione irregolare: Rabat e Lisbona hanno annunciato la decisione a seguito di una videoconferenza tra il ministro degli Interni portoghese, Eduardo Cabrita, e il ministro degli Interni del Marocco, Abdelouafi Laftit. I due ministri hanno discusso di cooperazione tra il Marocco e l’Unione europea sui temi della sicurezza e hanno manifestato la disponibilità dei loro governi a “intensificare” la cooperazione in materia di sicurezza all’interno del più ampio programma UE-Marocco di prevenzione e lotta contro la “migrazione illegale e la tratta di esseri umani”. Il progressivo spostamento del flusso migratorio verso il Portogallo è direttamente collegato all’azione di contrasto attuata dal Marocco nella tratta verso la Spagna, che è stata a lungo la rotta tradizionale delle ondate di migranti irregolari (Tamba, 2020).

Tunisia: Stop alle partenze dei migranti verso l’Italia. Intanto la crisi economica peggiora

Migliaia di migranti sono sbarcati a Lampedusa e in Sicilia nei mesi di luglio e agosto. Il governatore della regione siciliana ha chiesto di proclamare lo stato di emergenza a causa degli hotspot per l’accoglienza ai migranti irregolari che hanno superato la capacità di contenimento e dal numero di migranti risultati positivi al COVID19. La maggior parte dei migranti sbarcati a Lampedusa e in Sicilia proveniva dalla Tunisia: nel 2020 quasi la metà delle oltre 16.000 persone sbarcate sulle coste italiane è partita dalla Tunisia.

A seguito delle pressioni del ministero degli Esteri italiano, il 6 agosto la Tunisia ha annunciato di aver messo a disposizione più mezzi per contrastare le partenze irregolari di migranti, in particolare: unità navali, dispositivi di sorveglianza e squadre di ricerca in prossimità dei punti di imbarco (ANSA).

Il 18 agosto, il ministro dell’Interno italiano Luciana Lamorgese e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio hanno visitato Tunisi, accompagnati dal Commissario europeo per gli Affari interni Ylva Johansson e dal Commissario europeo per l’allargamento e la politica di vicinato Oliver Varhelji; al termine del’incontro il ministero dell’Interno italiano ha donato 11 milioni di euro (13 milioni di dollari) al governo tunisino da utilizzare negli sforzi per arginare il flusso di migranti.

La decisione è arrivata in un momento critico per il Paese sia a livello economico che politico. Numerose proteste sono scoppiate nel paese quest’anno a causa della diffusa e crescente disoccupazione, la mancanza di sviluppo e la carenza di servizi pubblici nel settore sanitario, elettrico e idrico. La situazione economica sta peggiorando anche in uno dei principali settori trainanti dell’economia tunisina, quello turistico dove i ricavi sono scesi del 56% a fine luglio a 1,2 miliardi di dinari contro i 2,6 miliardi dello stesso periodo dello scorso anno (ANSA). La crisi economica è un fattore di spinta per i migranti tunisini.

A livello politico, il primo ministro designato della Tunisia Hichem Mechichi ha detto che formerà un governo puramente tecnico a seguito delle dispute tra i partiti politici sulla formazione della prossima amministrazione del paese. La decisione porterà probabilmente il primo ministro designato a confrontarsi con il partito islamista Ennahdha, il più grande gruppo politico in parlamento, che ha annunciato che si sarebbe opposto alla formazione di un governo non politico. Tuttavia, la proposta di un governo di tecnici indipendenti da partiti politici otterrà il sostegno del potente sindacato UGTT e di alcuni altri partiti, tra cui Tahya Tounes e Dustoury el Hor.


“Fonte di pace”: la terza operazione militare turca in Siria. L’indebolimento dell’YPG curdo-siriano e la morte di Abu Bakr al Baghdadi

di Claudio Bertolotti

Articolo originale pubblicato sull’Osservatorio Strategico Ce.Mi.S.S. 5/2019

“Fonte di pace”, 9-23 ottobre

9 ottobre: al via “Fonte di pace” (in turco Barış Pınarı Harekâtı) l’operazione militare della Turchia nel nord della Siria finalizzata a creare una “zona sicura”; annunciata dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan, ha visto al fianco delle truppe regolari turche i ribelli siriani alleati di Ankara, tra i quali anche membri delle disciolte unità jihadiste sostenute da Ankara durante l’annosa guerra siriana. “Fonte di pace” – di fatto l’occupazione militare di una porzione di territorio siriano da parte della Turchia – è la terza operazione turca dal 2016, dopo le operazioni Eufrate Shield (Scudo dell’Eufrate) e Olive Branch (Ramoscello d’ulivo).

L’Operazione Eufrate Shield, lanciata dalla Turchia nell’agosto 2016 per ripulire l’area di confine turco-siriano dai terroristi dello Stato islamico, ha portato alla neutralizzazione di circa 3.000 militanti jihadisti dell’IS. L’operazione Olive Branch, all’inizio del 2018, si è sviluppata nell’area di confine della provincia di Hatay, concentrandosi sulle milizie curde dell’YPG – le cosiddette “forze di difesa nazionale”.

L’operazione “Fonte di pace” rappresenterebbe dunque, da un lato, la prosecuzione di un approccio strategico di ampio respiro finalizzato alla creazione di un’area sicura al confine tra Turchia e Siria e, dall’altro lato, a consolidare l’influenza di Ankara su quell’area procedendo a un ridimensionamento del ruolo, e della presenza, delle stesse comunità curde. Una scelta che non rientra in una visione esclusiva dell’esecutivo guidato da Erdogan, ma che è in linea con un approccio nazionale coerente con la storica visione regionale della Turchia e con l’intento di annullare qualunque forma di opposizione armata di stampo terroristico, sia di tipo jihadista sia riconducibile alla componente anti-governativa curdo-turca del PKK – Partito curdo dei lavoratori – di cui, come sostiene Ankara, l’YPG sarebbe l’estensione curdo-siriana.

Tutte avviate con l’obiettivo di eliminare la presenza dello Stato islamico dalle zone di confine tra Siria e Turchia, le tre operazioni militari di Ankara hanno direttamente interessato anche i gruppi combattenti curdi dell’YPG, l’organizzazione politica siriana legata al PKK turco considerato organizzazione terrorista da Australia, Canada, Stati Uniti, Nuova Zelanda, Unione Europea e Turchia. Tuttavia, pur essendo formata in prevalenza da combattenti siriani di etnia curda, la maggioranza dei suoi dirigenti non sono siriani, bensì curdi-turchi, il che confermerebbe lo YPG come braccio siriano del PKK. I miliziani dell’YPG sono dunque considerati terroristi dal governo di Ankara proprio perché legati al gruppo terrorista PKK, sebbene siano stati i principali alleati di Washington nella lotta contro lo Stato islamico. L’YPG guida militarmente le cosiddette Forze Democratiche Siriane (Syrian Democratic Forces – SDF), alleanza composta da milizie curde, arabe, assire, siriache e turkmene.

Due le opzioni perseguite da Ankara per contrastare la minaccia terroristica riconducibile YPG/PKK nei confronti della Turchia: l’eliminazione fisica dei miliziani curdi o il loro allontanamento attraverso un negoziato che coinvolga gli Stati Uniti, la Russia e la stessa Siria. Ankara si è mossa su entrambi i piani. Da mesi la Turchia aveva annunciato l’intenzione di avviare un’operazione finalizzata a creare una fascia smilitarizzata di 30 chilometri all’interno del territorio siriano. Lo ha fatto nel momento in cui il presidente statunitense Donald Trump ha dato avvio al ritiro delle proprie truppe dall’area. Sono così cambiati gli equilibri della guerra siriana, iniziata nel 2011 come guerra civile ma ben presto trasformatasi in proxy war attraverso il coinvolgimento di attori statali e non statali impegnati a realizzare proprie agende politiche.

Le SDF, come già avevano annunciato all’indomani del ritiro statunitense, il 13 ottobre hanno firmato un accordo con Damasco – e con il sostegno della Russia e dell’Iran – finalizzato ad unire il cosiddetto Rojava (l’amministrazione autonoma della Siria del Nord-Est autoproclamatasi tale nel 2012 a seguito degli eventi bellici) e le forze governative siriane contro l’invasione turca. Una scelta che, se da un lato ha dato il via libera allo schieramento di forze siriane nelle aree di Manbij e di Ayn al-Arab (in curdo Kobane, passata sotto la responsabilità delle truppe siriane e russe il 17 ottobre), dall’altro lato ha trovato la resistenza statunitense che ha reagito colpendo con bombardamenti aerei le forze siriane in movimento verso le aree difese dai curdi dell’YPG, in particolare a Deir El Zor. Due gli obiettivi dell’accordo, uno nel breve e l’altro nel medio-lungo periodo: in primis, consentire alle truppe di Bashar al-Assad di schierarsi nelle aree curde tenute dalle SDF e lungo il confine con la Turchia; in secondo luogo, ma ben più importante, preservare l’integrità territoriale della Siria al fine di evitare la presenza di truppe di occupazione turche e di ribelli siriani che combattono al fianco di Ankara.

Una scelta politica di necessità, derivante dallo spazio lasciato libero dall’amministrazione statunitense, che ha portato a un ri-bilanciamento degli equilibri tra i competitor impegnati nella guerra in Siria e ridefinisce la partita geopolitica siriana. Washington ha di fatto lasciato che i curdi trovassero un nuovo alleato nei loro avversari: Damasco, e quindi Mosca. Dall’altra parte, la Turchia e i ribelli anti-Assad potrebbero ambire a un risultato che vada oltre il mero controllo delle aree di confine.

Il terzo fronte è invece tenuto dallo Stato islamico nella forma in cui è sopravvissuto oltre il campo di battaglia: un’incognita minacciosa che dai campi di prigionia curdi potrebbe riaccendere il conflitto alimentandone le spinte ideologiche di quello jihadismo cha si è saputo imporre in forma statuale[1]. Una minaccia sfruttata dagli stessi curdi che, in cerca di sostegno internazionale, avrebbero consentito la fuga di alcuni miliziani dello Stato islamico detenuti nei campi sotto controllo dell’YPG, al fine di indurre la Comunità internazionale, e in particolare l’Unione Europea, ad intervenire per fermare l’iniziativa turca.

Cronologia del conflitto: il campo di battaglia si sposta al confine

A cinque giorni dall’avvio dell’operazione “Fonte di pace”, il 14 ottobre le forze siriane si sono spinte sulla superstrada strategica M4 sino a Tal Tamr, area a prevalenza assiro-cristiana, a nord-est della Siria e a oltre 20 chilometri dal confine con la Turchia; ma la reazione delle milizie arabo-siriane del cosiddetto “Esercito siriano libero” (Free Syrian Army – FSA) al fianco dei turchi non si è fatta attendere, in particolare attorno all’area di Manbij (sponda ovest dell’Eufrate) dove queste hanno sferrato una violenta offensiva – utilizzando per la prima volta i carri armati T72 – condotta successivamente all’abbandono dell’area da parte delle forze statunitensi.

Il 17 ottobre, dopo tre giorni di intensi combattimenti, la pressione militare si è ridotta in maniera significativa nel nord-est della Siria, ad esclusione di Ra’s al-’Ayn – ubicata su un’importante rotta di rifornimento e trasporto tra i centri urbani di Tal Abyad a ovest e Qamishli a est – dove gli scontri sono continuati tra l’YPG e gruppi arabi-sunniti sostenuti da Ankara. Il conflitto si è così spostato sul piano diplomatico a seguito dell’accordo Stati Uniti-Turchia che ha portato a un cessate il fuoco di cinque giorni, durante i quali i curdi dell’YPG hanno ripiegato su posizioni arretrate; sebbene l’accordo prevedesse la distruzione delle postazioni difensive tenute dall’YPG e la consegna delle armi pesanti ciò non ha uniformemente trovato riscontro nei fatti.

Anche sul fronte Turco – hanno denunciato i curdi dell’YPG – il rispetto dell’accordo pare non aver trovato riscontro in maniera uniforme; denuncia che ha fatto il paio con quella del ministero della Difesa turco, che ha attribuito la responsabilità dei miliziani curdi nella prosecuzione dei combattimenti da cui è derivata la morte di un soldato turco e il ferimento di numerosi altri. Il comandante curdo Mazloum Kobane, il 19 ottobre aveva dichiarato che, pur intenzionato a “portare i suoi soldati fuori dalla cittadina assediata di Ra’s al-’Ayn” avrebbe però trovato la resistenza della Turchia che – secondo il comandante delle forze curde – non era “propensa a consentire un arretramento dell’YPG ma [avrebbe preferito] ucciderne i miliziani”. Come testimonia Emanuele Valenti nel suo reportage dal confine turco-siriano, “in realtà la tregua non ha retto completamente”: la zona più critica è quella di Tal Abyad, di fronte alla città turca di Akçakale”[2].

Da non sottovalutare, in tale contesto, quanto accaduto il giorno successivo (20 ottobre) proprio a Ra’s al-’Ayn, dove le milizie YPG si sono ritirate dalla cittadina assediata e hanno rinunciato alla resistenza – come annunciato dal portavoce delle SDF, Kino Gabriel[3] – ma lo hanno fatto contro le direttive dei leader della loro organizzazione madre PKK[4], tra i quali Cemil Bayık (tra i fondatori del partito dei lavoratori curdo) che aveva invitato i curdi-siriani a non ritirarsi: «Se ve ne andate ora non sarete in grado di riprendervi i vostri villaggi, la vostra terra e le vostre case».

Gli Stati Uniti, che avevano temporaneamente ritirato le proprie truppe dal confine con la Turchia per trasferirle in Iraq, al confine siriano-iracheno (nella provincia di Dahuk), hanno poi rischierato parte di queste – in prevalenza forze speciali sia rimasta – con i curdi nella zona dei pozzi petroliferi siriani di Tal Amer – in precedenza sotto controllo dell’IS – con il fine di precludere l’area al governo siriano e alle forze russe. In tale scenario, alle truppe presenti potrebbero a breve unirsi unità corazzate – si è parlato di 30 carri armati – a conferma di un parziale ripensamento da parte del Presidente Trump. Altre truppe statunitensi sono presenti nell’area orientale del distretto di Deir Ez Zor, a protezione dei giacimenti di al-Omar e Tabiya – Conoco, e nell’area di Al Tanf, nel Badiyah siriana, a sostegno dell’unico gruppo ribelle alleato degli Usa: la milizia Maghawir al-Thawra. Il 28 ottobre, le truppe statunitensi hanno ripreso posizione in prossimità della safe-zone, rischierando almeno 500 militari nel nord-est del Paese, lungo la strada M4 a sud di Ayn al-Arab (Kobane), nelle basi di Tal Tamr che avevano abbandonato a inizio mese. Marginali episodi di protesta per il ritiro statunitense sono stati registrati il 21 ottobre a Qamishli, al confine con la Turchia, dove alcuni manifestanti hanno lanciato frutta marcia e pietre contro i militari in fase di ripiegamento: di fatto si è trattato di pochi episodi ma ampiamente diffusi attraverso i social-network, e poi ripresi dai media occidentali che ne hanno amplificato artificialmente la portata.

Dal 23 ottobre, le forze siriane, insieme ai “consiglieri” russi e alla polizia militare di Mosca sono schierati nella fascia profonda 30 chilometri dal confine turco-siriano, ma sono proseguiti i combattimenti tra le forze turche e le milizie curdo-siriane dell’YPG, che non hanno abbandonato l’area come previsto dagli accordi. Tra il 24 e il 30 ottobre, gli attacchi condotti dalle milizie islamiste sostenute da Ankara a danno di unità militari siriane nella zona di Tal Tamr hanno provocato perdite tra le fila governative e la popolazione civile, costretta a fuggire a causa dei continui bombardamenti, particolarmente violenti sui villaggi curdi di Tel Temir e Dirbasiya. Al contempo sono proseguiti i bombardamenti turchi sulle aree di Tal al-Ward, area rurale di Abu Rasin.

Gli accordi Usa-Turchia e Russia-Turchia. L’alternanza statunitense e il rafforzamento dell’asse Mosca-Ankara

L’accordo Usa-Turchia per il cessate il fuoco

Il 17 ottobre Turchia e Stati Uniti hanno concordato un cessate il fuoco finalizzato a sospendere l’avanzata turca in territorio siriano e gli scontri con le milizie curde nella zona al confine tra i due paesi. Un accordo che consente al presidente Erdogan di proclamare l’istituzione dell’ambita zona cuscinetto oltre i confini turchi. L’accordo, annunciato dal vicepresidente statunitense Mike Pence dopo una lunga trattativa – e sotto pressione delle crescenti critiche da parte di democratici e repubblicani al Congresso – ha garantito alla Turchia di ottenere i principali obiettivi che l’operazione “Fonte di pace” si era prefissata e che Ankara persegue dal 2016: la messa in sicurezza dei propri confini sudorientali con la Siria attraverso l’istituzione di una zona di sicurezza profonda 30 chilometri sotto il proprio controllo[5], dal confine turco al tratto delimitato dall’autostrada M4, e l’espulsione delle milizie curdo-siriane dalla zona di confine (da sostituire in un secondo momento con parte degli oltre 3,5 milioni di arabi siriani). Al tempo stesso Ankara ha evitato le sanzioni statunitensi che avrebbero gravato su un’economia sempre più vulnerabile[6].

Di fatto gli Stati Uniti, impegnati per anni al fianco delle milizie curde contro lo Stato islamico, hanno lasciato intendere una loro uscita di scena, che però non si è concretizzata nei fatti. E sebbene l’assenza del presidente Trump all’incontro di Sochi – e con lui l’esclusione degli Stati Uniti – abbia definitivamente suggellato l’uscita di scena di Washington dal processo negoziale e politico per il futuro della Siria, è però vero che Washington potrebbe continuare a svolgere un ruolo di primo piano in Siria attraverso l’uso bilanciato delle proprie forze già schierate e, eventualmente, di nuove unità.

L’uccisione del capo del capo del sedicente Stato islamico da parte delle forze statunitensi, avvenuta il 26 ottobre proprio nella provincia di Idlib, nel villaggio di Barisha, a cinque chilometri dal confine con la Turchia – area in cui i turchi hanno forti contatti – è un evento di estrema importanza. La dichiarazione del Pentagono, seguita ad alcune voci che attribuivano ad Ankara un ruolo importante nella condotta dell’operazione, in cui gli Stati Uniti hanno negato alcun ruolo turco nell’eliminazione di Abu Bakr al-Baghdadi, rientrerebbe in una strategia comunicativa volta a rimarcare la volontà di continuare ad avere un ruolo di rilievo a livello regionale, in un’ottica di contenimento della Russia e della Turchia. Poco dopo l’uccisione di Abu Bakr al-Baghdadi, le forze speciali statunitensi insieme a unità curde, hanno eliminato anche il portavoce dell’IS, Abu Hassan al Muhajir, a Jarablus (area sotto controllo dell’operazione turca “Scudo d’Eufrate”). Eventi che suggeriscono un ruolo diretto del Pentagono nel convincere il presidente Trump dell’importanza di mantenere impegni a livello tattico in Siria al fine di perseguire una strategia regionale che valorizzi gli sforzi militari sino ad oggi compiuti. L’operazione contro la leadership dello Stato islamico, nonostante l’annunciato disimpegno, ha così confermato la capacità statunitense di operare in profondità attraverso la combinazione di intelligence e forze speciali[7].

L’accordo Russia-Turchia di Sochi: un piano per la Siria nord-orientale che rafforza l’influenza russa

Il 22 ottobre, la Russia ha ospitato l’incontro tra il presidente Vladimir Putin e l’omologo turco Erdogan in coincidenza con il termine del cessate il fuoco mediato dagli Stati Uniti con le forze curde. Un evento che ha sottolineato l’emergere di Mosca che, pur non avendo il potere economico e la capacità militare degli Stati Uniti, si è imposta come un potente giocatore: i suoi aerei pattugliano i cieli siriani, i militari stanno espandendo le operazioni nella principale base navale in Siria (Tartus), i legami con la Turchia sono sempre più stretti mentre gli spazi lasciati vuoti dal ritiro statunitense stanno per essere colmati dalle forze russe e siriane. L’accordo, che rientra nel meccanismo di Astana, è indipendente dall’accordo Usa-Turchia in base al quale – ha affermato Fahrettin Altun, direttore delle comunicazioni della Presidenza turca – “tutti i terroristi del PKK/YPG sono tenuti a lasciare la zona di sicurezza”.

Cosa prevede, di significativo l’accordo di Sochi[8]? Nella sostanza tre sono i punti cardine dell’intero documento.

In primo luogo viene chiusa la questione curda, attraverso l’impegno a combattere il terrorismo – ricordiamo che l’YPG è associato dalla Turchia al PKK – e a porre termine “alle agende separatiste nel territorio siriano”: un segnale esplicito a qualunque rivendicazione curda in termini di “realtà indipendente”.

In secondo luogo, la Turchia acconsente al governo siriano – affiancato dalla Russia – di prendere il controllo dell’area non inclusa dall’operazione “Fonte di Pace” con l’obiettivo di “facilitare la rimozione degli elementi YPG e delle loro armi per una profondità di 30 km (19 miglia) dal confine turco-siriano”.

Infine, le unità congiunte russo-turche iniziano l’attività di pattugliamento congiunto a ovest e ad est dell’area di operazioni turca per una profondità di 10 km (sei miglia), ad eccezione della città di Qamishli, mentre tutti gli elementi YPG e le loro armi devono lasciare le aree di Manbij e Tal Rifat. Di fatto, la Turchia raggiunge un importante obiettivo, tra quelli che si era posti: la divisione in due aree del cosiddetto Rojava.

Figura 1. Safe-zone proposta dalla Turchia attraverso l’operazione “Peace Spring” e presenza degli attori del conflitto.

 

Dinamiche demografiche all’interno della safe-zone imposta dalla Turchia

La Turchia vuole ristabilire gli equilibri demografici nelle aree che dal 2012 sono controllate dall’YPG; la ragione risiede nella volontà di impedire alle organizzazioni affiliate al PKK di costruire un’entità di fatto.

All’interno della cosiddetta safe-zone voluta e imposta da Ankara, la maggior parte della popolazione è composta da arabi: ad eccezione dell’enclave di Ayn al-Arab e dei villaggi a ovest e ad est di Qamishli, che sono prevalentemente curdi, l’area ha una significativa maggioranza araba a cui si affiancano altre minoranze, come i turkmeni che vivono in diverse zone, da Tal Abyad a Raqqa, e gli assiri che vivono nella striscia tra Hasakah e Tal Baydah. Circa il 15 percento degli oltre 3,5 milioni di rifugiati siriani in Turchia sono originari delle aree contese all’YPG; così come tutti i 250 mila rifugiati siriani fuggiti nell’Iraq settentrionale. Quasi 300 mila rifugiati siriani sono tornati nell’area liberata a seguito dell’operazione Eufrate Shield. L’attuale controllo YPG nella parte orientale dell’Eufrate non solo rappresenta un limite al loro ritorno in patria, ma creerebbe anche molte nuove sacche di sfollati interni alla Siria: oltre 350 mila sfollati interni originari delle aree tenute sotto controllo dall’YPG sino all’avvio delle operazioni militari turche di ottobre, vivono ancora nella zona a nord di Aleppo.

Analisi, valutazioni, previsioni

L’operazione “Fonte di pace” è di fatto l’occupazione militare di una porzione di territorio nazionale siriano, fino ad oggi tenuto dalle milizie SDF, di cui l’YPG è elemento maggioritario. Una mossa, quella portata a termine da Ankara, che ha sollevato numerose voci di protesta da parte dei Paesi dell’Unione europea, a cui sono seguiti simbolici provvedimenti sanzionatori. La NATO, di cui la Turchia è uno dei principali alleati, ha espresso la sua preoccupazione ma non sono seguite decisioni formali in merito: il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg si è formalmente limitato ad avvertire Ankara del rischio di destabilizzazione dell’intera regione e di compromissione dei risultati ottenuti nell’azione contro lo Stato islamico. Sul piano politico interno agli Stati Uniti non sono mancate le continue critiche nei confronti della strategia di Trump per la Siria; lo stesso presidente è stato accusato di aver abbandonato gli alleati curdi e di essere stato troppo accondiscendente nei confronti dell’aggressività turca[10].

Con gli accordi tra le parti, quello tra SDF e governo siriano del 13 ottobre, il successivo tra Turchia e Stati Uniti del 17 ottobre e, infine, quello russo-turco del 22 ottobre, Ankara ha di fatto ottenuto un grande vantaggio prendendo il controllo di una zona all’interno della quale trasferire parte dei profughi siriani attualmente in Turchia, dei quali circa il 15 percento originari delle zone contese ai curdi dell’YPG. Di fatto una parziale riorganizzazione etno-sociale che intende ridurre il ruolo della componente curda nell’area. In tale quadro, la Turchia si sarebbe dimostrata intenzionata a coadiuvare la gestione degli aiuti alla ricostruzione, fornire accesso alla sanità e all’istruzione alla popolazione locale, fornire aiuti umanitari alla regione e contribuire a stabilire la sicurezza addestrando le forze di polizia: una strategia funzionale a creare un habitat sociale e culturale favorevole alla Turchia in un’ottica di contenimento e contrasto dell’attivismo curdo.

Se, da un lato, l’offensiva turca in Siria in pochi giorni ha modificato l’assetto diplomatico, politico e securitario dell’area, dall’altro lato, l’accordo di Sochi ha aperto a una ridefinizione sul terreno dei rapporti di forza tra le parti, e si impone come evento importante per il futuro della Siria, poiché dal memorandum siglato da Putin ed Erdogan deriva il futuro politico di Damasco e dell’influenza dei due attori che sono usciti vincitori dalla guerra iniziata nel 2011: Russia e Turchia, oggi intenti a definire le rispettive aree di influenza.

A est, Mosca e Ankara sono entrambe impegnate a definire a tavolino la propria presenza in quell’area, tenendo conto del fatto che la componente curda potrebbe essere presto minoritaria. In tale prospettiva non è possibile escludere una ripresa delle azioni di tipo terroristico da parte di alcune componenti YPG che non aderiranno all’accordo negoziale. A ovest, dove la regione di Idlib è oggi ancora sotto il controllo delle milizie jihadiste anti-governative, è prevedibile un’offensiva militare siriana affiancata dagli alleati russi, senza i quali qualunque impegno militare si risolverebbe in un fallimento[11].

Infine, a fronte di un non miglioramento delle relazioni turco-statunitensi, il Pentagono potrebbe decidere di sostituire la base militare strategica di Incirlik in Turchia con basi alternative in Grecia.

 

[1] Siria: accordo Assad-curdi, ecco cosa cambia, ISPI Focus, 14 ottobre 2019.
[2] Valenti M., corrispondente dalla Turchia per la Radio e Televisione Svizzera Italiana.
[3] Dichiarazione del portavoce dell’SDF Kino Gabriel del 20 ottobre 2019, SDF Spokeperson (@sdfspokeperson).
[4] Giustino M., corrispondente di Radio Radicale da Ankara.
[5] Ibidem.
[6] Full text of Turkey, US statement on northeast Syria.,Al-Jazeera, 17 ottobre 2019, in https://bit.ly/2pAZGhv.
[7] Bertolotti C., Sulmoni C., in Dopo al-Baghdadi. Considerazioni e dibattito a MODEM (RSI), in START InSight commentary del 28 ottobre 2019, in https://bit.ly/2MTphf9.
[8] Testo completo dell’accordo Turchia-Russia sulla Siria nord-orientale, Cfr. “Full text of Turkey, Russia agreement on northeast Syria”, Al-Jazeera, 22 ottobre 2019, protocollo d’intesa raggiunto dai due paesi, fornito ad Al Jazeera dal ministero degli Esteri turco.
[11] Ranieri D., Putin ed Erdogan ridisegnano la Siria, Il Foglio 23 ottobre 2019.


I principali eventi nell’area del Maghreb e del Mashreq – luglio

di Claudio Bertolotti

articolo originale pubblicato sull’Osservatorio Strategico – Ce.Mi.S.S. Scarica l’analisi completa dal Report

Algeria

Continuano le proteste nelle piazze algerine, nonostante il risultato ottenuto ad aprile con le dimissioni del presidente Abdelaziz Bouteflika. In questo incerto periodo di transizione, importanti aspetti interessano due gruppi chiave per il futuro politico dell’Algeria: i giovani manifestanti e il personale militare. Secondo un nuovo rapporto del Brookings Institute – intitolato “Algeria’s uprising: A survey of protesters and the military” – cresce il sostegno militare verso i manifestanti, e aumenta il divario tra i ranghi superiori e inferiori dell’esercito algerino a sostegno del movimento di protesta. Mentre l’80% dei ranghi inferiori sosterrebbe le istanze dei manifestanti, la percentuale dei sostenitori tra gli ufficiali superiori, al contrario, sarebbe non superiore al 60% afferma.

Israele ed Egitto

A novembre Israele inizierà a esportare gas naturale in Egitto, con volumi stimati in sette miliardi di metri cubi all’anno. Le forniture segneranno l’avvio di un accordo di esportazione di 15 miliardi di dollari tra Israele – Delek Drilling e il partner statunitense Noble Energy – e l’Egitto: un accordo di collaborazione che i funzionari israeliani hanno definito come il più importante dagli accordi di pace del 1979. L’accordo garantirà l’immissione nella rete egiziana del gas naturale israeliani proveniente dai campi offshore Tamar e Leviathan.

Libano

Possibile disputa tra il presidente Michel Aoun e il primo ministro Saad Hariri a causa della sparatoria mortale che ha coinvolto due membri del Partito democratico libanese nell’area drusa di Aley. Le ripercussioni politiche dell’evento hanno paralizzato il governo in un momento critico e rischiano di complicare gli sforzi volti ad attuare le riforme necessarie per risolvere il problema del debito pubblico aggravato dalla crisi finanziaria.

Libia

La compagnia petrolifera nazionale libica ha sospeso le operazioni nel più grande giacimento petrolifero del paese a causa della chiusura “illegale” di una valvola del gasdotto che collega il giacimento petrolifero di Sharara al porto di Zawiya, sulla costa del Mediterraneo. La National Oil Corporation ha annunciato la decisione senza attribuire formalmente la responsabilità dell’atto definito “illegale”. Il giacimento petrolifero di Sharara, che produce circa 290.000 barili al giorno per un valore di 19 milioni di dollari, è controllato da forze fedeli a Khalifa Haftar, capo del cosiddetto esercito nazionale libico (LNA) artefice dell’offensiva lanciata ad aprile contro la capitale libica.

Morocco

Nel suo discorso per la “Giornata del trono” di quest’anno, il 30 luglio il re marocchino Mohammed VI ha annunciato nuovi programmi di sviluppo nazionale e un rimpasto del governo interessante i dicasteri per la politica interna. In termini di politica estera, Mohammed VI ha nuovamente invitato l’Algeria al dialogo e auspicato “l’unità tra le popolazioni nordafricane”. Per quanto riguarda il Sahara occidentale –m ha ribadito –la posizione del Marocco rimane “saldamente ancorata all’integrità territoriale”. Infine, per celebrare i suoi 20 anni di regno, Mohammed VI ha graziato 4.764 detenuti, inclusi alcuni detenuti per terrorismo.

Siria

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha affermato che il suo paese è determinato ad eliminare quello che ha definito il “corridoio del terrore” nel nord della Siria; una decisione, ha ribadito Erdogan, indipendente dal fatto che la Turchia e gli Stati Uniti siano o meno d’accordo sulla creazione di una zona sicura. Ankara vuole una zona lungo il confine con la Siria che sia libera dalla presenza di combattenti curdi. La Turchia ha avvertito dell’intenzione di avviare una nuova offensiva in Siria se non venisse raggiunto un accordo; in tale quadro sono stati recentemente inviati rinforzi militari nella zona di frontiera

Tunisia

Il 25 luglio è morto, all’età di 92 anni, il presidente tunisino Béji Caïd Essebsi. Il presidente del parlamento, Mohamed Ennaceur (85 anni), ha assunto la carica di capo di stato sino alla conclusione del processo elettorale, in calendario per il prossimo 15 settembre. Crisi istituzionale ed economica e minaccia jihadista: la morte di Essebsi si verifica in un periodo di potenziale destabilizzazione per il Paese nordafricano.


Siria: dopo gli accordi per Idlib la Russia è in vantaggio sulla Turchia

La partecipazione di 38 compagnie russe alla fiera internazionale di Damasco conferma che l’attività economico-commerciale sarà un passe-partout della Russia in Medioriente

L’analisi di C. Bertolotti per l’Osservatorio Strategico del Ce.Mi.S.S. n. 1/2018

di Claudio Bertolotti

scarica l’intero contributo pubblicato sull’Osservatorio Strategico Ce.Mi.S.S. 1/2018

Il 17 settembre scorso, Russia e Turchia hanno concordato di istituire una zona demilitarizzata nella regione della Siria nord-occidentale di Idlib, ultima grande roccaforte dei circa 60.000 componenti i gruppi di opposizione armata e ribelli anti-governativi, tra questi anche le formazioni jihadiste di area qaedista Hayat Tahrir al-Sham (Levant Liberation Committee) e Jabhat Fateh al-Sham che controllano due terzi della cosiddetta area cuscinetto e più di metà di Idlib.

Accordi di Sochi: Naji al-Mustafa, portavoce dei quindici gruppi componenti il Fronte nazionale per la liberazione, ha confermato l’adesione all’iniziativa russo-turca

L’area demilitarizzata, in base agli accordi, avrebbe dovuto essere definita entro il 15 ottobre e avere una profondità variabile di 15-20 chilometri prevedendo, al suo interno, la condotta di pattugliamenti coordinati di unità russe, turche e della Nato; l’accordo prevede che i gruppi radicali debbano lasciare l’area, al contrario dei gruppi ribelli non inseriti nell’elenco dei gruppi terroristi che però si sono impegnati a trasferire fuori dall’area demilitarizzata gli armamenti pesanti e a consegnarne una parte alle forze governative siriane. Questo l’esito dell’incontro di Sochi tra il presidente Vladimir Putin e l’omologo turco Recep Tayyip Erdogan. Un accordo che alla fine di ottobre non ha visto la realizzazione della zona cuscinetto ma ha comunque evitato di provocare una crisi umanitaria che avrebbe interessato circa tre milioni di abitanti nel caso fosse stata avviata la prevista e annunciata offensiva militare: Naji al-Mustafa, portavoce dei quindici gruppi componenti il Fronte nazionale per la liberazione, il 6 ottobre ha confermato l’adesione all’iniziativa russo-turca mentre il giorno seguente il Free Idlib Army ha iniziato la smobilitazione degli schieramenti di artiglieria in prossimità dell’abitato di Maaret al-Numan, benché sia possibile immaginare che parte degli armamenti possa essere stata più opportunamente nascosta; anche il National Liberation Front, sostenuto dalla Turchia, ha aderito all’accordo. Tra i gruppi qaedisti, Horas al-Din, (i “guardiani della religione”) e Ansar al-Din (“Partigiani della religione”) hanno da subito rifiutato la soluzione negoziale proposta, mentre Hayat Tahrir al-Sham solamente il 14 ottobre ha comunicato il proprio apprezzamento per il cessate il fuoco, ma ha ribadito la propria volontà di continuare a combattere il jihad fino all’estremo sacrificio.

Gli accordi preannunciano che la campagna per Idlib seguirà la linea tracciata dalle precedenti campagne: dividere il fronte insurrezionale

In pratica i termini dell’accordo aggiungono sostanza all’idea che la campagna per Idlib seguirà la linea tracciata dalle precedenti campagne, come quella per Daraa, riuscendo a dividere il fronte ribelle-jihadista con conseguente riduzione della capacità operativa del nemico sul campo; una mossa a conferma della visione strategica del regime siriano e dei suoi alleati che, in maniera sistematica, ha portato gli esitanti gruppi di opposizione armata a dividersi in più parti distribuite sul territorio, così da essere combattute senza un eccessivo dispendio di forze e limitando gli effetti collaterali in termini di danni alle popolazioni civili. La prossima mossa da parte siriana, una volta conclusa la liberazione dell’area di Idlib, sarà il controllo dell’area a est dell’Eufrate, strappata lo scorso anno al gruppo Stato islamico da parte dalle milizie curde che compongono le Syrian Democratic Forces sostenute dagli Stati Uniti.

L’accordo offre vantaggi significativi per i firmatari, ma ad avvantaggiarsene sarà la Russia

Nel complesso l’accordo offre vantaggi significativi per i firmatari. Ma se per la Turchia il vantaggio principale è stato quello di evitare che nella zona si concentrassero le truppe governative siriane, è però vero che Ankara dovrà far fronte al mantenimento di una sorta di protettorato turco su forze ribelli che sono sempre più in difficoltà; e se quella contro Jabhat Fateh al-Sham e gli altri gruppi jihadisti sarà una campagna di successo, la Turchia avrà un ulteriore onere poiché dovrà trovare il modo di garantire loro una via d’uscita dalla Siria. In tale quadro non stupisce la dichiarazione di Erdogan del 4 ottobre, in cui il presidente turco ha annunciato la propria intenzione di non voler lasciare il territorio siriano finché non saranno svolte le elezioni.

Per la Russia e per la Siria, l’accordo offre invece la possibilità di mettere in sicurezza l’autostrada strategica che attraversa Idlib e collega la Siria settentrionale con le altre città; è previsto che il transito lungo le autostrade Aleppo-Latakia e Aleppo-Hama debba essere ripristinato entro la fine del 2018. Inoltre, il 15 ottobre, la Siria ha confermato la progressiva capacità di controllo del territorio riaprendo i passaggi di frontiera con Israele (Queneitra, chiuso dall’inizio della guerra nel 2011) e con la Giordania (Nassib, chiuso nel 2015); in particolare il passaggio di Nassib attraverso la Giordania rappresenta un importante passo per il ripristino delle attività commerciali con le ricche nazioni del Golfo.

Ma è la Russia che esce ulteriormente avvantaggiata da questo accordo, in particolare sul piano operativo, poiché le sue forze non solo possono continuare a combattere gli jihadisti e gli altri gruppi ribelli, ma ha pure la possibilità di schierare le sue truppe, insieme a quelle turche, nelle zone demilitarizzate per ridurre la presenza e gli arsenali di quelle forze ribelli che, fino a ora, sono state supportate da Ankara.

Stati Uniti: ai margini sia della guerra che della sua soluzione

Infine gli Stati Uniti, che rimangono ai margini sia della guerra che della sua soluzione. Come già avvenuto nel sud, a Daraa, il sostegno statunitense ai gruppi di opposizione nella provincia di Idlib appare limitato al fattore deterrenza contro un ipotetico utilizzo di armi chimiche al quale l’amministrazione americana potrebbe rispondere, sia pur in maniera limitata e a livello tattico. Nella sostanza, un aiuto poco più che simbolico a quei ribelli che anche Ankara vorrebbe poter continuare a sostenere.

Nella sostanza la guerra siriana continua, ma con l’accordo tra Putin ed Erdogan la spinta data al conflitto tende sempre più verso un vantaggioso consolidamento russo nell’area a favore di Damasco e di Teheran.

Analisi, valutazioni e previsioni

La Russia guarda con interesse a un nuovo ordine di sicurezza in Medio Oriente. Qualunque cosa accada ai ribelli nella provincia di Idlib, Mosca è determinata a mantenere la Siria saldamente ancorata all’interno della sua sfera di influenza – sia come punto d’appoggio nel Medio Oriente sia in un’ottica di contenimento statunitense (e dei suoi alleati): il vice ministro della Difesa della Russia, Alexander Fomin, nel suo intervento del 25 ottobre all’8° Beijing Xiangshan Forum di Pechino, ha posto particolare accento sulla situazione in Siria in termini di volontà russa di essere presente sino a quando la situazione non sarà stabilizzata e il terrorismo sconfitto. A conferma di tale approccio è il fatto che lo stesso giorno in cui i diplomatici russi firmavano l’accordo con la Turchia per l’istituzione della zona smilitarizzata nell’area di Idlib, decine di uomini d’affari russi siglavano a Damasco contratti commerciali per il dopoguerra siriano.

Russia: rimarremo sino a quando la situazione non sarà stabilizzata e il terrorismo sconfitto e saremo impegnati nel processo di ricostruzione

Il contributo delle forze armate russe, decisive nella lotta contro l’opposizione al governo di Bashar al-Assad e al gruppo Stato islamico, ha dato a Mosca un peso ben superiore a quello delle potenze occidentali. Russia che è stata così capace di imporsi sul piano diplomatico e delle relazioni internazionali come su quello militare, come dimostrato dalla recente vendita dei sistemi missilistici S-300 alla Siria, che vanno ad affiancarsi agli S-400 schierati dalle forze russe; un accordo che preoccupa l’altro importante attore regionale, Israele, da tempo impegnato in azioni di bombardamento aereo su territorio siriano in funzione di contenimento anti-iraniano e di contrasto al libanese Hezbollah.

E se sul fronte militare il ruolo russo è di primo piano, non è certo secondario l’impegno su quello della ricostruzione post-bellica, dove Mosca sarà impegnata nella riattivazione di strade e la ricostruzione di condutture strategiche e di beni immobiliari distrutti nei sette anni di guerra appena trascorsi.

Come dimostrato dalla partecipazione di 38 compagnie russe alla fiera internazionale di Damasco all’inizio di settembre, l’attività economico-commerciale sarà uno dei principali passe-partout della strategia di influenza russa nell’area mediorientale.

scarica l’intero contributo pubblicato sull’Osservatorio Strategico Ce.Mi.S.S. 1/2018


In piedi tra le macerie: cosa resta della Siria?

di Chiara Sulmoni

articolo pubblicato su L’Indro, 10 luglio 2017

Ieri, domenica 9 luglio nel sud ovest della Siria è entrato in vigore un cessate il fuoco promosso da Stati Uniti, Russia e Giordania. Al di là dell’aspetto umanitario, questo accordo dai contorni sfumati annunciato in occasione del G20 tenutosi la scorsa settimana in Germania, viene considerato una prima prova di cooperazione fra Putin e Trump che non si pone grandi obiettivi politici o militari se non quello -importante- di mettere le basi per discussioni più concrete alla ricerca di soluzioni per mettere fine alla guerra. La strada in questo senso è ancora lunga, visti i timori regionali e gli interessi internazionali in gioco sullo scacchiere mediorientale e un fronte combattente frammentato in una miriade di sigle rivali. Intanto in altre zone il conflitto infiamma. Scacciato da Mossul e sotto l’assedio della coalizione sostenuta dagli Stati Uniti a Raqqa, l’ISIS perde pezzi mentre l’esercito siriano e i suoi alleati -i russi e le varie milizie affiliate all’Iran e a Hizbullah- sembrano avere la meglio e consolidano le posizioni riguadagnate anche a suon di bombardamenti. Per capire ciò che sta accadendo sul terreno, al di sotto del radar della diplomazia e delle negoziazioni, il giornalista Luca Steinmann è stato in Siria nelle aree che il regime ha recentemente strappato ai ribelli -fra cui Homs, città simbolo della rivolta-. L’intervista che segue racconta quindi una versione dei fatti raccolta pochi giorni fa sul campo, dove il reporter ha incontrato sia funzionari del governo e militari, che civili fra le macerie.

Luca Steinmann, si potrebbe obiettare che nel suo viaggio lei abbia sentito una sola campana. Che margini ha avuto per capire cosa succede oggi nel paese?

Per entrare in Siria sono passato dal Libano, dove ho potuto ascoltare e raccogliere anche la versione e il punto di vista dei siriani che vivono all’estero, al di fuori delle terre controllate dal governo. Il 90% dei siriani in Libano si oppone al regime ed è su posizioni contrarie rispetto a quelle di molti siriani che sono rimasti nel paese. All’interno della Siria il consenso per il governo è oggi molto alto. Se all’inizio della rivolta, nel 2011, il popolo chiedeva un cambiamento, le conseguenze della ribellione hanno portato la gente a dover fare una scelta radicale -o con il regime o con i ribelli e i crimini di cui si sono macchiati, con lo stile di vita che i diversi gruppi armati, a prescindere dalle varie sigle, volevano imporre, e che è basato su una rigida interpretazione dell’Islam e spesso anche sulla persecuzione delle minoranze. Posizioni che vanno a minare la convivenza religiosa e quindi l’identità stessa siriana. Molti si sono convinti che solo il governo potrebbe difendere questa coesistenza. Se venissero indette oggi delle elezioni, Assad si imporrebbe con il 70, con l’80% dei consensi.

Ho avuto la fortuna di poter accedere ad aree liberate da pochi giorni e alla periferia di Homs, dove si erano insediati l’Esercito Libero Siriano, il fronte di al-Nusra e altri 15 gruppi non facenti riferimento allo Stato Islamico, l’ispirazione islamista di questi militanti, che andavano per esempio a prendere di mira le comunità cristiane, era altrettanto evidente. Anche siriani sunniti che prima della rivolta avevano sempre convissuto pacificamente con i propri vicini di casa cristiani o sciiti, e che avevano in un primo momento aderito alla ribellione in funzione anti-Assad, preferiscono ora schierarsi con il regime, in quanto permette appunto la convivenza sul territorio.

Il vero nemico dell’ISIS (ma lo stesso vale per gli altri gruppi islamisti) è quindi sul lungo termine l’ISIS stesso, con l’imposizione della sua dottrina e il suo atteggiamento intransigente?

Il vero problema per l’ISIS è che in Siria esiste una civiltà, un mosaico composto da oltre 70 comunità -inclusi i mussulmani radicali-. Voler attaccare la civiltà siriana come successo per esempio a Palmira, dove lo Stato Islamico ha distrutto e vandalizzato le rovine romane, significa attaccare la coesistenza e il miscuglio di culture su cui si fonda la società di oggi. Ma l’obiettivo era proprio questo, distruggere l’archeologia per cancellare non solo il ricordo di una civiltà pre-islamica, ma i valori comuni e la società multiconfessionale. È un obiettivo strategico ben preciso, che rompe la continuità con il passato. Così anche dove l’opposizione ad Assad era stata forte, come nelle aree rurali, chi ha vissuto sotto gli islamisti ha poi spesso cambiato idea.

La stessa cosa vale per il Libano. Sono stato in vari villaggi lungo la frontiera, nei paesini sunniti che prima della guerra cooperavano con quelli siriani dall’altro lato del confine, anche nella gestione del mercato nero. Molti trafficanti siriani hanno aderito alla causa dei ribelli e inizialmente anche i villaggi libanesi di frontiera li sostenevano, perché erano sempre stati in affari insieme, condividevano la stessa fede, e continuavano così ad aiutare, stavolta militarmente, la controparte siriana. È stato quindi particolarmente interessante osservare il mutamento di sensibilità rispetto al conflitto siriano, in un paese come il Libano, dove ci sono comunità sunnite più radicali, perché in uno stato settario si sa che le religioni si estremizzano. Davvero, questo conflitto coinvolge tutte le comunità confessionali della regione.

In base a quali criteri ha scelto le tappe del suo viaggio, perché sono significative?

La prima tappa, Damasco, è la capitale di uno stato in guerra in cui la gente esce e fa festa nel centro città mentre in lontananza si sentono i rumori dei colpi di mortaio che esplodono nelle aree periferiche di Jobbar e Barzeh. È un po’ come se a Milano la gente facesse festa in piazza del Duomo mentre si combatte a Sesto San Giovanni. Ciò mostra come la popolazione sia ormai abituata a convivere con la guerra e che nonostante ciò non si faccia prendere dal panico né ricattare dagli attentati che li colpiscono nello stesso in modo in cui vengono colpite le città europee.

Palmira è l’ultima città importante riconquistata dall’esercito siriano in ordine di tempo, si trova a soli 30 km dalle linee dello Stato Islamico e in un’area centrale che si apre verso la regione dell’Eufrate, in direzione di Raqqa e Deir ez-Zor, che è la zona di faglia.

Homs mi interessava perché fino a tempi molto recenti è stata sotto il controllo di gruppi ribelli in lotta fra loro ma non affiliati al Daesh.

Il quartiere palestinese di Yarmouk, a Damasco, è ancora oggi una linea del fronte in cui mi sono potuto addentrare. Volevo vedere e capire come vivono i palestinesi che vi abitano, suddivisi tra sostenitori del governo, dell’ISIS e di altri gruppi ribelli che hanno cercato di creare una sovrapposizione tra la causa palestinese e la guerra in Siria, sfruttando l’avversione dei leader storici palestinesi nei confronti del regime di Assad. Ma ci sono anche divisioni dell’esercito siriano composte da palestinesi.

Ho poi coperto il confine con il Libano e alcune aree attorno a Damasco, perché la guerra in Siria è a macchia di leopardo e ci sono diverse roccaforti ribelli che resistono attorno alla capitale. Pur essendo in vantaggio, il governo viene così tenuto costantemente sotto scacco. Questa guerra non si estinguerà con la vittoria militare.

A Yarmouk si combatte una guerra dentro la guerra?

No, questo può valere per il Libano, dove i campi sono chiusi e i gruppi all’interno di alcuni di questi si sono combattuti e tuttora si combattono in base a vincoli di fedeltà, riproponendo le dinamiche esterne. Yarmouk prima della guerra era un quartiere aperto, dove si entrava quasi senza accorgersene, e dove vivevano non solo profughi e rappresentanti di movimenti politici palestinesi ma anche siriani poveri e indigenti. Con la guerra, però, Yarmouk è stato raso al suolo e oggi resta solo un infinito cumolo di macerie suddivise in diverse zone di controllo dell’ISIS, di al-Nusra e dei governativi. La popolazione, sia palestinese che siriana, è fuggita. Oggi al suo interno vivono soltanto i miliziani con le rispettive famiglie e qualche famiglia di anziani palestinesi che non hanno avuto forze e mezzi per scappare.

Nelle aree ‘liberate’ che ha potuto visitare, vale a dire nelle zone tornate sotto il controllo di Damasco, che aria si respira?

In generale c’è voglia di ricominciare, di ricostruire. Palmira è fatiscente e totalmente disabitata, non fosse per la presenza di soldati siriani, sciiti afghani, pakistani, libanesi, iraniani e russi -questi ultimi a guardia delle rovine, da quel che si può vedere, il che è poco perché ufficialmente non sono schierati sul terreno e quindi non rilasciano interviste e non si fanno filmare.

Anche a Homs ci sono quartieri rasi al suolo dal governo dopo che i ribelli si erano rifiutati di evacuare la città, ma qui tra le macerie si incontrano alcuni civili, e in tutti ho riscontrato la voglia di tornare a casa, e soprattutto di rimanere in Siria. Un attaccamento alla patria diffuso tanto tra la gente che tra i soldati del regime.

Homs come Dresda nel 1945, ha scritto in un post. La città è stata pesantemente bombardata dagli aerei del regime. La popolazione che come ci ha appena spiegato, desidera ricominciare, accetta di farlo con Assad ancora al potere?

Una terza via al momento non c’è e il governo viene ormai visto come unico garante di una possibile ricostruzione. Poiché la Siria è sempre stato un mosaico di comunità molti pensavano, erroneamente a mio modo di vedere, che il regime non avesse un ruolo effettivo nel garantire la convivenza religiosa, e che si trattasse quindi di una condizione endemica. Poi il regime con la forza sia delle armi che della propaganda, ha assunto il ruolo di protettore delle minoranze e non per nulla oggi la comunità che più decisamente si schiera con Assad è quella cristiana.

A Palmira c’è quel che resta delle rovine romane ma c’è anche quel che resta dell’ISIS, che per questa città ha combattuto strenuamente. Cosa si è lasciato indietro lo Stato Islamico, sia in termini materiali che simbolici?  

Innanzitutto la distruzione volontaria del patrimonio architettonico, delle rovine archeologiche, l’abbattimento delle colonne romane, impiccagioni e violenze. E tutto questo per distruggere il valore storico della convivenza tra fedi e il ricordo di una civiltà non solo siriana. Ci sono poi anche segni tangibili dell’attitudine dei militanti dell’ISIS, che hanno lasciato scritte che inneggiano allo Stato Islamico e all’uccisione degli infedeli, con il pennarello indelebile. Questi sono chiaramente atti di vandalismo grezzo. Non emerge certo la figura del combattente coraggioso e istruito che si batte per Allah. Anche se vengono utilizzati termini religiosi, quel che ho potuto osservare è un atteggiamento nichilista, un’assenza totale di progettualità e di senso della vita, proprio da parte di chi dice di cercare un senso nella religione.

A Palmira, nei cosiddetti ‘covi’ dello Stato Islamico, ha trovato materiale interessante che ci rivela qualcosa di nuovo sul movimento?

La cosa più evidente, in base al materiale che ho potuto raccogliere in alcune tipografie dell’ISIS, è la forte propaganda dottrinale e dogmatica. Lo si capisce dal gran numero di giornali, riviste, manuali che fanno riferimento a figure ben precise, il cui pensiero religioso si ritrova non solo in Siria ma accomuna i movimenti radicali anche al di fuori di questo contesto. Mentre i cecchini di Daesh tengono spesso accanto a sè una copia del Corano e dei libri di preghiere, nelle loro scuole i testi che ho notato essere maggiormente presenti erano quelli di Muhammad ibn Abd al-Wahhab, leader religioso i cui insegnamenti non sono mai stati diffusi in Siria, ma piuttosto in Arabia Saudita. Inoltre, si nota una buona capacità organizzativa, che ricalca quella dello stato iracheno. E sottolineerei anche l’attenzione data all’educazione dei giovanissimi, non solo per ciò che concerne l’istruzione teologica, ma anche il comportamento, il modo di vestire e di impugnare le armi. Ho trovato molti opuscoli che trattano questi punti. La dottrina è di contorno.

Le donne, come spose degli jihadisti, madri dei leoncini, reclutatrici, o schiave, ricoprono un ruolo importante nello Stato Islamico. Nessun materiale rivolto a loro, o su di loro?  

A dire il vero no, non ho notato nulla indirizzato a loro. C’è tanto materiale, pubblicazioni che trattano anche di politica estera, che parlano di Stati Uniti, Israele, Russia, oppure degli sciiti, degli infedeli, e come si vive sotto l’Islam ma non ho trovato riferimenti alle donne.

Nelle zone riconquistate dall’esercito siriano si muovono le numerose milizie sciite alleate del regime. Chi ha incontrato sulla sua strada?   

C’è di tutto. Afghani, pakistani, libanesi, iraniani, siriani, ragazzi che combattono al servizio dell’Iran e di Hizbullah. Va detto che le comunità sciite siriane hanno sempre sentito un forte vincolo di fedeltà nei confronti di Hizbullah, che anche prima della guerra garantiva loro assistenza, welfare, istruzione religiosa. Quando nel 2012 i miliziani dell’ISIS si avvicinarono al santuario della Sayyeda Zeinab, uno dei santuari più sacri per gli sciiti, si iniziò a parlare dell’arrivo delle truppe di Hizbullah. In realtà a sollevarsi e armarsi furono cittadini siriani sciiti già presenti nel paese. Non si trattò quindi dell’arrivo di massa di combattenti libanesi o iraniani. Hizbullah fa già parte del tessuto sociale siriano e quando ho chiesto ai miei interlocutori se pensassero di lasciare il paese dopo la guerra, mi hanno risposto che sarebbero rimasti. Perché semplicemente si tratta di siriani di confessione sciita.

Hizbullah paga i propri miliziani più di quanto il governo siriano paghi i suoi soldati? Si, nove volte tanto.

In questa situazione, il governo siriano può ancora dire di essere sovrano?

È una grande domanda che ho posto spesso ai funzionari che ho incontrato. La Siria sta utilizzando alcuni valori come strumento di soft power presso la comunità internazionale. Mi riferisco in particolare alla protezione delle minoranze, alla laicità dello stato, alla secolarizzazione. Certo, dove risiede la sovranità con   tante truppe straniere presenti sul territorio, per esempio i russi oppure il movimento di Hizbullah che si prende cura dei cittadini sciiti siriani con programmi di welfare, soldi, addestramento militare, e il sostegno di tanti enti caritatevoli iraniani che aiutano i profughi sperando di incrementare la presenza sciita in Siria? Anche la rete TV del partito di Dio, al-Manar, ha molto seguito. In questo senso, tutte le dimensioni dello stato sono fortemente influenzate da attori esterni. La risposta dei funzionari è sempre stata la seguente: stiamo parlando di attori rispettabili e fedeli e non mettiamo in dubbio che vogliano il bene della Siria. Ma il bene della Siria, mi chiedo, è di lasciare che altri estendano il proprio controllo e la propria influenza sul suo stesso territorio?

La Siria potrebbe trasformarsi in un nuovo Libano, con Hizbullah saldamente ancorato a un ruolo politico e dal quale il governo non può prescindere?

Non credo. In Libano vige un sistema confessionale dove il principale vincolo di fedeltà del cittadino è sempre stato verso la comunità religiosa di appartenenza, anche per ragioni pratiche, perché al di fuori di questa non hai diritto per esempio alla sanità, alla pensione, all’istruzione. In Siria il governo cerca fortemente di promuovere un’identità che spinga la dimensione religiosa in secondo piano. Punta sul sincretismo, sulla convivenza, sulla difesa dei luoghi di preghiera comune. A Homs come a Damasco ho visto tanti mussulmani andare in chiesa, le moschee sono aperte ai cristiani, chiedere a quale confessione si appartenga viene considerato atto di maleducazione. Il governo si sta muovendo anche da un punto di vista amministrativo e legislativo, ha messo per esempio ufficialmente fuori legge ogni partito di ispirazione religiosa. Un partito islamico o una democrazia cristiana non potrebbero oggi esistere, e questo è in controtendenza rispetto a quanto avviene in Europa. Per garantire la convivenza multiconfessionale in Siria vengono vietati i partiti di ispirazione confessionale. In tutto questo, il governo ritiene che Hizbullah possa essere un elemento di difesa dell’identità siriana ma naturalmente non sappiamo ancora quali saranno gli sviluppi futuri del movimento. Non credo a una libanizzazione della Siria ma senz’altro vi sarà una crescente dipendenza dall’asse sciita.

Ci può essere una riconciliazione nazionale in Siria, e chi può promuoverla?

Dal punto di vista pratico, dipende dal popolo. Dal punto di vista burocratico, per adesso la può promuovere solo il regime. A questo proposito, è stato aperto un Ministero che attualmente gestisce le trattative con capi di gruppi ribelli che vogliono arrendersi. Naturalmente non stiano parlando di negoziazioni con movimenti come ISIS e al-Nusra. Ma in tanti altri gruppi, molti combattenti si sono arruolati solo perché veniva loro offerto uno stipendio. Io stesso ne ho incontrati diversi. A questi il governo dice di voler garantire l’amnistia e l’immediato reinserimento sociale e lavorativo.

C’è poi anche un piano per reintegrare i profughi siriani. In tante zone mancano infatti giovani uomini, ed è un fatto che molte tra le migliori energie della Siria siano ormai fuori dal paese. I funzionari del Ministero per la Riconciliazione Nazionale con cui ho parlato sono fortemente critici nei confronti dell’apertura ai profughi annunciata nel 2015 da Angela Merkel, una misura che ha favorito l’esodo di siriani che Damasco considera migranti economici. I funzionari con cui ho parlato accusano l’occidente anche di voler boicottare il tentativo di rimpatrio, in quanto non riuscirebbero a coordinare programmi comuni in tal senso. A dire il vero hanno puntato il dito anche contro la Giordania e la Turchia, che da un lato utilizzerebbero i siriani per ricattare l’Europa con i flussi migratori e dall’altro impedirebbero alla Siria di riportare a casa i propri cittadini.

Qual è l’ostacolo principale alla fine della guerra?

I vari attori coinvolti a livello regionale. Tutti rivendicano una propria fetta di potere. E neppure la pace potrà eliminare la tensione esistente tra asse sciita e Arabia Saudita.