L’impatto dello Stato Islamico nel Grande Sahara sulla sicurezza nel Sahel
di Marco Cochi
articolo originale pubblicato sull’Osservatorio strategico – Ce.Mi.S.S.: vai al Report
Nel primo giorno di Ramadan del 2014, lo sceicco Abu Bakr al-Baghdadi, leader dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIL), annunciò la restaurazione del Califfato e decise di cambiare il nome del gruppo in Stato Islamico. Il proclama indusse migliaia di combattenti stranieri a decidere di partire alla volta della Siria e dell’Iraq per unirsi alle milizie del nuovo Califfato.
Quattro mesi più tardi, attraverso i suoi organi di propaganda: al-Furqan e Dabiq, l’organizzazione terroristica annunciò che altri gruppi jihadisti avevano dichiarato la loro affiliazione al Califfato, assumendo la denominazione di province (wilayat) dello Stato Islamico. Tuttavia, prima di giurare fedeltà al califfo al-Baghdadi, questi gruppi avrebbero dovuto mettere in atto la strategia militare e il sistema di governo del nucleo centrale.
Nel tempo, le wilayat si sono rivelate fondamentali per portare avanti l’apocalittico progetto di egemonia fondamentalista salafita di al-Baghdadi, poiché la loro fedeltà si è rivelata di enorme aiuto per consentire allo Stato Islamico di continuare a esercitare la propria valenza, anche dopo la perdita dei territori siro-iracheni. Mentre è sempre più evidente che se nel 2018 le province avessero deciso di abbandonare l’organizzazione, l’avrebbero totalmente delegittimata e dimostrato che in realtà era solo uno Stato sulla carta.
Invece, negli anni, le filiali dello Stato Islamico sono significativamente aumentate di numero consentendo all’entità jihadista di poter contare su una consistente e articolata rete, anche dopo la sua deterritorializzazione. Tutto questo, tenendo presente che ogni branca dell’organizzazione è operativamente indipendente e non vi sono collegamenti diretti tra i vari gruppi affiliati, a parte il brand ISIS.
Le wilayat continuano ad operare in diverse parti del mondo, anche in Africa sub-sahariana, dove la povertà unita alla marginalizzazione socio-economica delle comunità locali hanno favorito il processo di radicalizzazione di molti giovani e lo sviluppo del terrorismo jihadista in diverse aree della macro-regione.
In Africa, l’ISIS ha decentralizzato le sue province in Egitto e Libia, ma anche nella fascia sub-sahariana e nel Sahel, dove il gruppo si sta espandendo approfittando delle particolari difficoltà per mettere in sicurezza quelle vaste aree desertiche. Un’ulteriore conferma dell’importanza che l’Africa riveste per lo Stato Islamico arriva dal video messaggio di al-Baghdadi, diffuso da al-Furqan lo scorso 29 aprile, in cui il Califfo si è rivolto ai mujaheddin in Sahel, incitandoli al jihad contro gli eserciti occidentali e a vendicare gli attacchi subiti dallo Stato Islamico in Siria e Iraq.
Nello stesso comunicato, pubblicato sulla rete pochi giorni dopo la rivendicazione di un attentato nella regione nord-orientale della Repubblica Democratica del Congo (RDC), il leader dell’ISIS ha confermato l’istituzione dell’ISCAP (Islamic State Central Africa Province), la nuova provincia dell’organizzazione jihadista in Africa Centrale. Inoltre, al-Baghdadi ha avvallato il riconoscimento formale del giuramento di fedeltà dell’emiro dello Stato Islamico nel Grande Sahara (ISGS – Islamic State in the Greater Sahara), formazione jihadista che merita di essere oggetto di un’attenta disamina per la sua elevata letalità, che l’ha resa tra le più pericolose della regione.
Una letalità dimostrata dal fatto che nel 2018 l’ISGS è stato collegato al 26% di tutti gli eventi violenti e al 42% di tutti i decessi avvenuti nel corso di attacchi associati ai gruppi estremisti islamici attivi nel Sahel. E se sarà confermato il trend di attacchi dei primi sei mesi dell’anno in corso, l’ISGS sarà il gruppo che nel 2019 avrà causato più vittime rispetto alle altre formazioni jihadiste che operano nella vasta regione desertica.
Il gruppo estremista saheliano è diventato tristemente noto a livello internazionale per un attentato compiuto in Niger il 4 ottobre 2017, nel villaggio di Tongo Tongo. In questo remoto sobborgo, a una ventina di chilometri dal confine con il Mali, furono uccisi cinque soldati nigerini e quattro militari statunitensi: il sergente di prima classe Jeremiah W. Johnson, il sergente La David Johnson e i due sergenti maggiori dei berretti verdi Bryan Black e Dustin Wright.
L’atto terroristico ha suscitato l’indignazione dell’opinione pubblica americana, soprattutto per il fatto che prima di fuggire le milizie jihadiste saheliane fedeli allo Stato Islamico hanno tolto le armi e le attrezzature militari ai quattro americani caduti, tentando di portare via almeno due dei corpi dal campo di battaglia… (vai al report)
Lo Stato islamico oltre la sua natura territoriale
di Francesca Citossi
articolo originale pubblicato sull’Osservatorio Strategico del Ce.Mi.S.S. 1/2018
We don’t see things as they are. Each of us see things as we are. We are captive of our own particular experience. So when you deal with people there isn’t one reality. What seems obvious to you is not obvious to the other party. If you get into the other persons world it makes you so much more effective. You are able to virtually predict their behavior… power is based upon perception.
Herb Cohen in Ep. 33 Negotiations Ninja Podcast, May 28, 2018.
Lo Stato Islamico uno stato non lo è mai stato, e questa è la sua forza. Il terrorismo si espande fino a riempire ogni spazio lasciato disponibile: se prospera è perché il territorio è ingovernato, alle volte ingovernabile, e finché non saranno modificate le condizioni che hanno permesso e favorito il suo emergere si ripeterà il ciclo. Le vittorie militari sono temporanee, ed estemporanee. La narrativa del gruppo si basa sul “tradimento” del 1919 da parte delle potenze occidentali che avevano promesso un grande stato arabo, l’ordine mondiale stabilito è, quindi, illegittimo e va distrutto: è un obiettivo di lungo termine che non si incrina per la semplice perdita di territorio. Molti stati in quest’area soffrono di un deficit di legittimità che li indebolisce profondamente.
Stato islamico: vendetta per le umiliazioni subite con l’accordo Sykes-Picot e il crollo dell’Impero Ottomano
Indebolito ma non sconfitto, il Califfato reclama(va) le terre “illegalmente” espropriate ai musulmani dai crociati, si proclama l’unico governo legittimo sulla terra e i fedeli hanno l’obbligo divino di vivere nell’area riconquistata. La comunità è immaginata e immaginaria, condivide un territorio storico prima che reale, miti, memoria ancestrale ineludibile, una cultura pubblica di massa che ispirano coscienza e azione collettiva. L’appartenenza a questa entità, che va ben oltre i concetti classici e occidentali di stato-nazione, procura agli individui la redenzione dall’oblio del singolo, la speranza della rigenerazione, la salvezza da alienazione, solitudine, anonimità, è fonte di orgoglio collettivo e personale, rivendicazione e vendetta per le umiliazioni subite con l’accordo Sykes-Picot e il crollo dell’Impero Ottomano. La narrativa si basa sul rifiuto dell’ordine mondiale stato-nazionale inventato e imposto dall’Occidente, aspira al predominio musulmano in Asia e Medio Oriente: le frustrazioni personali confluiscono nella persecuzione universale di tutti i musulmani, che va vendicata e rettificata in un futuro permanente, prescinde da temporanee sconfitte, è una missione che cambierà e salverà il mondo.
entità, che va ben oltre i concetti classici e occidentali di stato-nazione
Il Primo Ministro al Abadi nel dicembre 2017, così come il Presidente Trump a gennaio 2018, aveva dichiarato la vittoria finale: il gruppo aveva perso il 96% del proprio territorio – ma la strada tra Baghdad e Kirkuk durante l’estate è stata impraticabile a causa degli attacchi. IS sta ripiegando verso il deserto di Anbar – inhiyaz ila al-sahra come l’ha chiamata il portavoce Abu Mohammad al Adnani– per riorganizzarsi: la sconfitta è solo militare, l’organizzazione si sta rimodulando per adattarsi al contesto e continuare a promuovere l’obiettivo finale, la realizzazione del Califfato.
Nel mese di agosto 2018 in Iraq, lo Stato Islamico ha ripreso attacchi, omicidi, rapimenti, finti check-point per sequestrare materiali, sabotaggi alle linee elettriche e agli oleodotti, in particolar modo nelle zone di Diyala, Kirkuk e Salahuddin, complice, o causa, la mancanza di effettivo controllo da parte del governo centrale che, dopo le elezioni di maggio, deve ancora completare e stabilizzare nomine ed equilibri istituzionali. I partiti stanno ancora negoziando per formare il nuovo governo e cercano un accordo sul power sharing dopo le pesanti accuse di frodi e lo scoppio di proteste anti-governative nelle province del sud, in particolare a Bassora.
L’attacco in Iran ad Ahvaz il 22 settembre è stato rivendicato – pur lasciando dei dubbi – anche da IS, la Guardia Rivoluzionaria ha risposto il 1° ottobre con un lancio di missili in Siria. Già nel giugno 2017 un gruppo di curdi iraniani jihadisti aveva attaccato il parlamento e il mausoleo dell’Ayatollah Khomeini: per ritorsione era seguito un lancio di sei missili in territorio siriano e a luglio 2018 otto esecuzioni capitali. L’Iran rifiuta di collaborare con Washington in questo ambito poiché ritiene che sia un pretesto per intervenire nella regione. Ha preferito, invece, fornire supporto all’Iraq sin dal 2014 in funzione anti-IS: consiglieri militari a Baghdad e armi ai Peshmerga, facendo attenzione a non polarizzare mai le divergenze con la minoranza sunnita, suscitare proteste da parte degli Iracheni o aggravare tensioni settarie. Ha favorito invece una strategia di inclusività: sia il Primo Ministro al-Abadi che al-Amiri riconobbero l’importanza del supporto iraniano in un’ottica di unità del paese, fino a siglare un apposito accordo.
L’Arabia Saudita ha subito diversi attacchi sul suo territorio nel 2015 (moschee di Qatife e Dammam, area di Asir e un’auto bomba a Riyadh). La risposta saudita ha assunto diverse forme: l’addestramento ed equipaggiamento di combattenti in Siria (ma si stima che circa 2.500 sauditi si siano uniti allo Stato Islamico15); Riyadh ha anche prodotto una serie televisiva (“Security for the Kingdom”) per combattere la propaganda del gruppo ed è attiva nel controllo dei fondi come co-presidente del CIFG, Counter-ISIL Finance Group, il meccanismo della Coalizione per monitorare i finanziamenti a IS. Inoltre ha tagliato fuori il gruppo dal sistema finanziario internazionale applicando le UNSCR 2253/2015 e 1267/1999 riguardo individui ed entità associate ISIL e Al-Qaeda e per questo sulla lista dei sanzionati. I sauditi hanno aumentato i contributi alle agenzie umanitarie che operano in Iraq.
Le reazioni internazionali per contrastare l’estremismo violento sono quasi sempre reattive invece che preventive.
Sinora la risposta a IS è stata prevalentemente di tipo militare-securitaria: ne hanno un’esperienza diretta i Peshmerga e le forze guidate da gruppi sciiti supportati dall’Iran in Iraq, con il supporto aereo di Stati Uniti e Francia. Le reazioni internazionali per contrastare l’estremismo violento sono quasi sempre reattive invece che preventive: queste strategie di breve termine hanno una portata limitata poiché non implicano lo sradicamento ideologico.
L’attuale sconfitta territoriale del gruppo non scalfisce in alcun modo le potenzialità di questo fenomeno, in quanto la sola valutazione della dimensione fisica è limitata, insufficiente per misurarsi e misurare una rivoluzione mediatica, comunicativa, religiosa e sociale. La mappa non è il territorio, una sconfitta militare è marginale se l’idea, un sogno di Califfato, permane.
La sconfitta militare è solo un aspetto della questione, e neanche il più importante. Quando persiste l’instabilità, il terreno è fertile. I combattenti non sono scomparsi, e anche se così fosse ce ne sarebbero molti pronti a rimpiazzarli. Il Califfato non è sconfitto poiché le aspirazioni e le condizioni che hanno portato alla formulazione del progetto persistono, sono impermeabili e superiori a valutazioni temporanee. La scomparsa completa è lontana, poiché l’organizzazione è semplicemente entrata in clandestinità: è un processo ciclico, non lineare. Dalla modalità di “governo” del territorio è passata all’insurgency. Non c’è un legame diretto tra la perdita del territorio in Siria ed Iraq e la sua capacità di continuare a reclutare adepti coltivando le divisioni di vario genere tra le popolazioni di quest’area. Il collasso territoriale ha creato una diaspora che ora sfugge a qualsiasi misurazione territoriale – così come è successo ad Al Qaeda che è sopravvissuta in Iraq ritirandosi per poi ripresentarsi in Siria nel 2011.
lo Stato Islamico è ancora forte di circa 30,000 combattenti e si è evoluto in una rete clandestina globale
Secondo l’ultimo rapporto presentato al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, lo Stato Islamico è ancora forte di circa 30,000 combattenti ripartiti tra Iraq e Siria, ma soprattutto si è evoluto, in particolar modo sul territorio iracheno, in una rete clandestina globale: la disciplina, le finanze e la sicurezza sono intatte, l’ufficio di coordinamento per la logistica e l’immigrazione funzionano, continua lo sfruttamento delle risorse petrolifere, i superstiti seguono le indicazioni del portavoce Abu al-Hassan al-Muhajir e Abu Bakr al-Baghdadi rimane alla guida. Il comando e il controllo sono stati danneggiati, molti pianificatori e leader sono rimasti uccisi, il flusso dei foreign fighters si è arrestato, ma il Generale dell’Esercito statunitense Paul Funk ritiene che le condizioni per il ritorno del gruppo persistano, anzi siano acuite: la riduzione degli attacchi terroristici è temporanea, una pausa di riorganizzazione.
Non è da sottovalutare, inoltre, la questione irrisolta delle famiglie dei combattenti che sopravvivono in molti campi profughi in Siria e Iraq: una situazione molto favorevole per portare alla creazione in pochi anni di nuove cellule, una generazione alimentata dal risentimento per l’ostracismo e la marginalizzazione che stanno subendo. Sono migliaia di donne e bambini rifiutati dai loro stati nazionali, o apolidi, detestati dalle comunità che vogliono vendicarsi su di loro o, più semplicemente, non vogliono occuparsene, e di ambasciate che fanno resistenza alle loro richieste di rientro.
IS ha, sin dagli albori, specificamente orchestrato la propaganda per attirare i giovani, sfruttando la naturale ricerca di identità, la ricorrente ribellione nei confronti delle famiglie e la frustrazione tra le classi sociali più disagiate. Nonostante i report e le informazioni inviate a Baghdad sulle migliaia di famiglie in grave difficoltà, il governo centrale non ha risposto, lasciando la gestione alle autorità locali.
E’ necessaria una reale stabilizzazione politica di Siria e Iraq, e in particolare un accordo con le popolazioni sunnite
Il contrasto a IS è efficace attraverso un migliore coordinamento di intelligence tra i vari sistemi a livello nazionale ed internazionale, la stabilizzazione politica, il contrasto all’ideologia estremista e con un taglio netto al supporto finanziario e alla fornitura di armi.
E’ necessaria una reale stabilizzazione politica di Siria e Iraq, e in particolare un accordo con le popolazioni sunnite: il nuovo governo iracheno, dominato da Al Sadr anche se non ha ottenuto una piena vittoria in termini di seggi, se non farà passi avanti nel power sharing rispetto alla politica settaria del predecessore al Maliki si troverà con gli stessi problemi. Ristabilire l’effettiva sicurezza per tutte le popolazioni, al di là delle divisioni settarie, richiede un forte impegno in materia di sicurezza rispettando i raggruppamenti etnici.
La battaglia ideologica può essere vittoriosa solo se investe direttamente nelle giovani generazioni di estremisti, attraverso una strategia educativa di lungo termine che attacchi alle radici l’ideologia radicale, con programmi di recupero e reinserimento nelle comunità: debellare ideologie tossiche per la società può richiedere molto tempo, come ha provato il caso tedesco dopo la Seconda Guerra Mondiale, ma è l’unica strategia durevole. Quella contro IS è, essenzialmente, una battle for minds, non uno scontro di civiltà o una contesa territoriale.
Il ritorno dell’ISIS? Iraq a rischio (ISPI Commentary)
Il 31 agosto 2010 l’allora presidente degli Stati Uniti Barack Obama dichiarava la fine della missione di combattimento in Iraq, chiudendo il capitolo della guerra americana iniziato nel 2003 con l’invasione statunitense a cui è seguita la caduta di Saddam Hussein e il periodo di violenza ininterrotta che ne è derivato. La sconfitta dello Stato islamico nella sua natura territoriale e statuale annunciata nel dicembre del 2017 ha indotto l’opinione pubblica internazionale a considerare chiusa la partita con quello che viene considerato il principale gruppo terrorista jihadista contemporaneo. Nel 2018 gli attacchi violenti portati recentemente a termine dallo Stato islamico nella provincia di Anbar e a Kirkuk, e la stessa permanenza di gruppi affiliati allo Stato islamico in Siria, mostrano quanto sia difficile e ancora lontana la stabilizzazione regionale. Il problema è che la stessa esistenza e la presenza residuale dello Stato islamico rendono e renderanno impossibile stabilizzare le aree centrali, settentrionali e occidentali dell’Iraq se non verranno adottate soluzioni politiche volte a coinvolgere le comunità locali consentendo loro di accedere a forme di potere e rappresentanza.
Un recente report pubblicato a fine luglio dall’Analytical Support and Sanctions Monitoring Team dell’ONU, riporta la presenza di circa 20-30.000 miliziani dello Stato islamico tra Siria e Iraq. Notizia che ha allarmato molti e attirato l’attenzione mediatica su un fenomeno in fase di ridimensionamento ma ancora molto pericoloso.
da 15.000 a 17.000 soggetti affiliati allo Stato islamico sarebbero ancora in Iraq, altri 14.000 invece in Siria
Una prima considerazione: i numeri sembrano alti, ma è praticamente impossibile poter verificare la corrispondenza dei dati riportati con la situazione sul terreno. Una conferma in questo senso proviene dal 14° report del Lead Inspector General al Congresso degli Stati Uniti sull’Operazione militare anti-ISIS Inherent Resolve (OIR). Attenendoci a questi dati, 15/17.000 soggetti affiliati allo Stato islamico sarebbero in Iraq, altri 14.000 in Siria. Numeri verosimili in linea con i 100.000 combattenti stimati totali dello Stato islamico nel suo momento di maggior espansione nel 2015-16, dei quali 30.000 stranieri.
la natura sociale dello Stato islamico è alimentata dalla marginalizzazione delle comunità sunnite irachene attuata dal governo centrale a prevalenza sciita
È però necessario partire da un punto cardine, che spesso passa in secondo piano nelle analisi generaliste: la natura sociale dello Stato islamico, che nasce nella seconda metà degli anni Duemila alimentato dalla marginalizzazione delle comunità sunnite irachene, in particolare quelle periferiche, attuata dal governo centrale a prevalenza sciita. Proprio dalla reazione di quelle comunità è nata prima la resistenza, poi l’opposizione armata insurrezionale e infine il proto-stato islamico di cui Abu-Bakr al-Baghdadi si è proclamato califfo nel 2014.
Quando noi oggi parliamo di 30.000 soggetti, è a quella tipologia di individui che rivolgiamo le nostre attenzioni, non una massa combattente, un’armata strutturata e monolitica. Ma individui e gruppi, più o meno organizzati, di cui una componente in aderenza agli ordini dei vertici dello Stato islamico, che fanno parte o che combattono anche per la difesa dei propri villaggi e delle proprie comunità e che, con entusiasmo o meno, hanno aderito al primo modello di opposizione armata. E non è un caso che lo Stato islamico, che oggi ha perso mordente tra le popolazioni irachene stia procedendo a eliminare le autorità tribali che si oppongono al progetto del califfato dove le forze regolari irachene non sono in grado di garantire la sicurezza, come testimoniano le poco meno di duecento uccisioni registrate negli ultimi sei mesi nelle aree periferiche dell’Iraq.
Una massa eterogenea, di cui fanno parti correnti qaediste e dello Stato islamico – teoricamente in competizione tra di loro – che è composta da una parte di soggetti oggi priva di una guida militare, politica, ideologica strutturata e unitaria ma che è in grado di operare in cellule e nuclei in linea con la strategia jihadista. Questo potrebbe fare la differenza, poiché la debolezza di singoli gruppi, o soggetti isolati, potrebbe trasformarsi in punto di forza qualora si creassero le giuste condizioni: la prima è una guida autorevole, la seconda è il favore delle popolazioni locali.
Abu Bakr al-Baghdadi, o il suo successore, potrebbero occupare il vertice di una nuova organizzazione armata
Per la prima, è una questione di tempo, e al-Baghdadi, o il suo successore, potrebbero occupare il vertice di una nuova organizzazione armata. La seconda dipende invece da come il governo iracheno, più che quello siriano, saprà coinvolgere tutte le componenti sociali del paese senza correre il rischio di emarginare, o escludere da forme di potere, la forte componente sunnita che ha sostenuto l’emergere dello Stato islamico.
Inoltre va considerata la massa della componente autoctona, locale, al fianco della residua componente straniera, quella dei foreign fighters, che in parte è rientrata nei paesi di origine, alcuni anche europei, in parte è invece emigrata in altre aree di crisi, come l’Asia meridionale e in particolare l’Afghanistan.
Lo Stato islamico, di necessità virtù, ha fatto un passo indietro – ridimensione territoriale a cui non poteva opporsi – per farne due in avanti: espansione ideologica e presenza puntiforme in tutto l’arco grande mediorientale e dell’est asiatico.
Una nuova fase dunque: sul piano operativo e organizzativo le capacità dello Stato islamico sono ridimensionate ma comunque funzionali, la logistica è in grado di svolgere il proprio compito, la capacità comunicativa non è stata intaccata. Anche la capacità finanziaria ha mantenuto livelli significativi.
Lo Stato islamico si è così ridimensionato nei numeri ma non nelle capacità in proporzione a quei numeri e si sta così riorganizzando in senso insurrezionale, in maniera analoga allo Stato islamico d’Iraq del periodo 2006/2013.
Oggi però si impone la crescente presenza di un nuovo fronte, che potrebbe unire parte delle diverse correnti dell’insurrezione armata jihadista che ha combattuto in Siria e Iraq: dallo Stato islamico propriamente detto, agli jihadisti dell’ex Jabat al-Nusrah, all’Hay’at Tahir al Sham, ai gruppi turcofoni del Fursan al-Imam e del Turkestan Islamic Party, ad Ansar al Islam.
Insomma una galassia jihadista, di cui fa parte, in cerca di un nuovo obiettivo comune e pronta a radicarsi su quello stesso terreno fertile in cui il fenomeno post-Stato islamico ha le sue radici più profonde.
* Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni dell’ISPI.