L’impatto del coronavirus sulla minaccia jihadista in Africa sub-sahariana
di Marco Cochi
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Dalla metà del febbraio dello scorso anno, la pandemia di Covid-19 ha raggiunto l’Africa con il primo caso registrato in Egitto per poi espandersi tredici giorni più tardi in Africa sub-sahariana colpendo la Nigeria. Nelle settimane successive, il virus ha esteso la sua letale presenza in tutti i 54 Stati del continente, come attestano le rilevazioni quotidiane che giungono dall’agenzia di sanità pubblica dell’Unione africana, il Centro africano di controllo delle malattie (Africa Cdc) con sede ad Addis Abeba. Nel complesso, nella prima decade di marzo 2021, i casi confermati in tutta l’Africa avevano superato quota 3 milioni e 975mila, e i decessi hanno superato i 106mila. Un numero di contagi molto più contenuto rispetto agli Stati Uniti, all’America Latina e anche all’Europa, che finora ha reso l’Africa la regione del pianeta con la minore diffusione del virus, dove non si è ancora registrata alcuna crescita esponenziale.
Tuttavia, è altamente probabile che il numero dei contagiati sia molto più alto di quelli finora accertati, anche perché in molti giovani, che costituiscono la maggior parte della popolazione africana, il virus si trasmette in maniera asintomatica. Allo stesso modo, è possibile che la diffusione del virus nel continente africano resti in larga parte sottostimata, perché le strutture sanitarie non dispongono dell’elevata capacità di effettuare tamponi o test sierologici che hanno i paesi più sviluppati.
Di conseguenza, è ancora presto per affermare che l’Africa sia riuscita a contenere la trasmissione del Sars-CoV-2; quello che invece appare certo è che per il continente le conseguenze economiche della pandemia Covid-19 saranno gravi e di lunga durata. Come attestato dalle proiezioni della Banca Mondiale, l’impatto della crisi sanitaria nei paesi sub-sahariani produrrà in media un calo del Pil tra il 2,1% e il 5,1%, configurando la peggiore recessione dell’ultimo quarto di secolo: queste stime evidenziano il rischio che la crisi economica rappresenti una minaccia più temibile della stessa malattia.
In questo possibile allarmante scenario futuro, si potrebbe innestare una diffusa crisi di legittimità governativa in Africa, che andrebbe a rafforzare la capacità di proselitismo dei movimenti estremisti presenti in diverse aree del continente, specialmente nelle regioni del Corno d’Africa e del Sahel. La doppia crisi, sanitaria ed economica, minaccia di ridurre alla fame vaste fasce di popolazione, mentre la produzione e la distribuzione di cibo è in sempre più vistosa diminuzione. Lo confermano le ultime valutazioni del Programma alimentare mondiale, che mostrano un drammatico aumento dell’insicurezza alimentare acuta in tutto il mondo, ma soprattutto in Africa sub-sahariana. Nella sola Repubblica democratica del Congo, quasi 22 milioni di persone stanno affrontando livelli di crisi di insicurezza alimentare, mentre in Burkina Faso è triplicato il numero di persone che versano in una situazione di grave insicurezza alimentare rispetto allo stesso periodo del 2019 e in Sud Sudan, nella regione del Sahel e nella Nigeria nord-orientale, l’emergenza alimentare si è associata ai conflitti e agli shock climatici. A ciò si aggiunge la peggiore piaga di locuste degli ultimi 70 anni, che va diffondendosi in tutta la regione orientale del continente, costituendo un grave rischio per l’approvvigionamento alimentare di decine di milioni di persone.
La crisi economico-sanitaria sta anche mettendo in serio pericolo la già fragile stabilità che caratterizza molti Stati africani, come rileva l’Indice degli Stati fragili del 2020, pubblicato da Fund For Peace (Ffp), organizzazione non governativa con base a Washington che dal 2005 monitora annualmente la stabilità politica e sociale di 178 Paesi nel mondo:ben 15 paesi africani sono compresi nei 22 classificati nella categoria “allerta”, 4 su 5 compaiono in quella di “elevata allerta”, e tra i quattro paesi che figurano nella categoria di massima allerta ci sono Somalia e Sud Sudan.
Di questa serie di criticità potrebbero avvalersi i gruppi jihadisti, che già prima dell’emergenza epidemiologica stavano tentando di sostituirsi alle autorità locali nelle aree rurali del Mali centrale, del nord del Burkina Faso e del Niger sud-orientale beneficiando del malcontento di larghe fasce della popolazione. Una governance considerata illegittima da alcuni segmenti della popolazione è spesso foriera di molte minacce, tra cui la violenza di origine etnica, le guerre civili, la frammentazione o il collasso dello stato, la cooptazione dei conflitti da parte di poteri esterni e l’ascesa di gruppi armati non statali, in primis i gruppi estremisti. La pandemia sta invertendo i fragili progressi di consolidamento nel garantire alle popolazioni la sicurezza alimentare in modo sostenibile, lo sviluppo rurale e l’accesso all’istruzione, che erano stati portati avanti in Mali e in Burkina Faso. Questa involuzione sta creando condizioni favorevoli per l’espansione della minaccia dei gruppi estremisti islamici, che potrebbero sfruttare la crisi sanitaria da Covid-19 per rafforzare la loro presa sulle popolazioni locali, sfruttando i vuoti creati da politiche fallimentari per presentarsi come attori credibili.
Il movimento salafita è sempre pronto a sferrare attacchi per raggiungere il suo obiettivo generale: rimuovere i governi attuali e instaurare con ogni mezzo l’interpretazione letterale della legge coranica. E infatti gli attacchi, come certificato dall’Africa Center for Strategic Studies (ACSS)di Washington, si sono intensificati nei dodici mesi che vanno dal 1° luglio 2019 al 30 giugno 2020, registrando un incremento del 31%, per un totale di 4.161 attacchi registrati nel periodo preso in esame; un dato preoccupante, poiché per la prima volta in dieci anni gli eventi violenti hanno superato quota quattromila. E mentre la pandemia sembra aver rallentato l’attività terroristica in molti paesi del mondo, in Africa l’insorgenza jihadista al tempo del Covid-19 è invece in aumento.
Un effetto collaterale della diffusione del virus potrebbe riguardare i Paesi che attualmente forniscono supporto e competenze per affrontare la crescente violenza negli Stati africani, i quali potrebbero spostare la loro attenzione e le loro risorse verso le esigenze domestiche dettate dalla diffusione del contagio. Il sostegno delle missioni militari (europee e delle Nazioni Unite) per contrastare il terrorismo nella regione, pur non avendo sradicato il fenomeno, finora è risultato importante per affrontare quei fattori, come la marginalizzazione e il sottosviluppo, che possono creare un ambiente che porta alla radicalizzazione e al reclutamento nelle file del terrorismo. Di conseguenza, senza un continuo sostegno esterno i paesi africani interessati dalla minaccia sarebbero ancora più vulnerabili nei confronti dei gruppi estremisti, che hanno già dimostrato la capacità di riscuotere il favore e la legittimazione delle comunità locali. Come avvenuto con il Fronte di liberazione del Macina, uno dei gruppi confluiti nel cartello saheliano di al-Qaeda, che nell’ottobre 2019, per opera del suo leader Amadou Koufa, ha raggiunto un cessate il fuoco con la milizia di autodifesa dogon Dan Na Ambassagou, dettando condizioni che hanno incluso la fine dell’ostilità verso la vessata comunità fulani e il riconoscimento dell’autorità del gruppo.
In quest’ottica, si deve anche considerare che le risorse dei governi africani sono sempre più gravate dalla lotta per contrastare il Covid-19, con il rischio di minare ulteriormente la loro capacità di fornire servizi di base alle popolazioni locali; le opportunità che un simile scenario potrebbe fornire ai gruppi estremisti non vanno dunque sottovalutate. Questo può essere particolarmente vero nella regione del Sahel, dove l’appoggio a gruppi come lo Stato Islamico nel Grande Sahara (ISGS) e al Gruppo per il sostegno all’Islam e ai musulmani (GSIM), che costituisce la più recente evoluzione della rete di al-Qaeda nella regione, è spesso separato dalle prospettive ideologiche e legato piuttosto a fattori economici, come la capacità di fornire incentivi finanziari al momento dell’adesione.
Un altro fattore di criticità da monitorare è rappresentato dall’impatto del Covid-19 sulle carceri in tutti i Paesi africani interessati dalla minaccia terroristica, che spesso versano in condizioni di sovraffollamento con il rischio latente della diffusione di malattie contagiose come la tubercolosi. Questi istituti penitenziari ospitano un numero sempre maggiore di detenuti accusati o condannati per reati di terrorismo, e hanno bisogno di un sostegno particolare per prevenire la diffusione del Covid-19 tra la popolazione carceraria. Per ridurre il sovraffollamento che accelera la diffusione del coronavirus, la Nigeria ha liberato i detenuti con basse pene residue da scontare, mentre ha lasciato in cella quelli accusati o condannati per reati gravi, come il terrorismo, che con l’emergenza causata dal coronavirus necessitano di maggiore sorveglianza per evitare lo scoppio di eventuali rivolte o fughe di massa. È quindi assai probabile che con l’aumento della diffusione della pandemia, per i gruppi terroristici aumenterà la possibilità di ottenere maggior sostegno. Di conseguenza, è fondamentale che né i governi nazionali della regione, né la comunità internazionale distolgano la loro attenzione dal contrastare la minaccia rappresentata dai gruppi militanti islamici che operano nella macroregione sub-sahariana attraverso una cooperazione continua e un approccio allargato, che affronti i fattori alla base della radicalizzazione. Senza di esso, la diffusione di Covid-19 servirà a rafforzare le frustrazioni e le lamentele delle popolazioni locali, che hanno permesso ai gruppi islamisti di affermarsi. Già prima della pandemia il network jihadista africano aveva dato vita a diverse attività di insorgenza soprattutto nell’Africa occidentale e orientale, dove da tempo sta espandendo e intensificando la propria presenza.
In conclusione, la pandemia potrà favorire i gruppi jihadisti attivi in Africa sub-sahariana solo se i governi locali e gli attori internazionali non riusciranno ad affrontare alle sfide poste dalla pandemia, ma anche alla più ampia crisi della sicurezza e dalla scarsa fiducia delle popolazioni nelle autorità locali e nazionali.
Foto di Brijesh Nirmal
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