Libia: le ambizioni della Turchia. La competizione tra Ankara, Mosca e il Cairo nel settore Security Force Assistance (SFA)
Lo sforzo militare in Libia: le conseguenze della collaborazione militare turco-libica
di Claudio Bertolotti
Il 15 settembre, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha chiesto al Segretario Generale Antonio Guterres di nominare un inviato speciale per la pace in Libia; in tale occasione Russia e Cina si sono astenute dal voto sulla risoluzione che avrebbe esteso anche la missione Onu nel Paese.
Il giorno successivo, 16 settembre, il primo ministro libico Fayez al-Sarraj, alla guida del governo di accordo nazionale (GNA) di Tripoli – che controlla parte della Libia occidentale –, ha annunciato la sua intenzione di dimettersi; una decisione, le cui ragioni non sono note, che ha lasciato spazio a numerose speculazioni. Molti ritengono che la decisione sia frutto delle forti pressioni internazionali – in particolare da parte statunitense – allo scopo di assecondare i paesi che si sentono più minacciati dagli accordi firmati dalla Libia con la Turchia, in particolare l’accordo di demarcazione del confine marittimo – exclusive economic zone (EEZ) – che più preoccupa gli europei, in primis la Francia e la Grecia. Un accordo che è stato accompagnato dall’aiuto militare della Turchia al GNA e grazie al quale, a giugno, è stato posto termine all’assedio di Tripoli durato oltre un anno da parte delle forze del generale Khalifa Haftar, comandante dell’esercito nazionale libico (Libyan National Army, LNA) del governo della Libia orientale di Tobruk.
Si tratta di un’evoluzione politica significativa e con rilevanti conseguenze strategiche sebbene, ad oggi, la Libia rimanga ancora fortemente divisa sui due principali fronti – Tripoli e Tobruk – in cui più attori perseguono propri obiettivi. Ma le dimissioni di al-Sarraj, se confermate, potrebbero compromettere seriamente i rapporti tra Ankara e Tripoli poiché l’accordo siglato dai ministri della difesa turchi e qatarioti il 17 agosto prevede che i due paesi forniscano assistenza alle forze di sicurezza libiche. E in tale quadro il GNA e la Turchia hanno già avviato una serie di programmi per la ricostruzione delle forze armate libiche: una collaborazione che è stata formalmente confermata il 20 settembre dal ministro della Difesa libico Salah Eddine al-Namrush.
I programmi, che ufficialmente mirano a istituire una forza militare in linea con gli standard internazionali, includono la ristrutturazione delle forze armate di terra, della marina, delle difese aeree, delle unità antiterrorismo e per operazioni speciali. In base all’accordo, i “consiglieri militari” turchi dovrebbero svolgere attività di addestramento e di assistenza logistica in cooperazione con il Qatar. Secondo il quotidiano “Daily Sabah”, l’esercito turco fornirà assistenza (security force assistance, SFA) nella fase di transizione che dovrebbe portare, attraverso un processo di disarmo, smobilitazione e reinserimento (disarmament, demobilisation and reintegration, DDR) all’integrazione delle milizie irregolari in un esercito regolare; un ruolo, quello giocato dalla Turchia, che segue il copione già utilizzato da Ankara nell’addestramento dell’esercito dell’Azerbaijan, dove le forze turche hanno fornito supporto, formazione, assistenza ed equipaggiamenti alle loro controparti azere. Il processo avviato in Libia da Turchia e Qatar, in linea con l’esperienza azera, mira a standardizzare sia l’addestramento che il reclutamento.
Combattenti, istruttori militari ed equipaggiamenti: la competizione tra Ankara, Mosca e il Cairo nel settore Security Force Assistance (SFA)
Come abbiamo visto, dunque, da un lato Ankara sta supportando il GNA con una missione di Security Force Assistance, formalmente attuata mediante accordi bilaterali con Tripoli; una missione supportata dalla fornitura di equipaggiamento militare e dal corredo di armi che Ankara fornisce a Tripoli, con ciò confermando l’inefficacia dell’embargo sulle armi delle Nazioni Unite – autorizzato dalle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (UNSCR) 1970 (2011), 2292 (2016) e 2473 (2019) – , e attuato in maniera non efficace dalla missione EUNAVFORMED “Irini”, il cui compito è quello di prevenire la fornitura di armi alla Libia. Un dispiegamento di personale militare da parte della Turchia che si accompagna al trasferimento di almeno dieci tipi di equipaggiamento militare tra cui sistemi di guerra elettronica, missili guidati anticarro, droni da combattimento, cannoni semoventi di difesa aerea, artiglieria, sistemi missilistici terra-aria, equipaggiamenti di marina e sistemi leggeri anti-aereo.
D’altro lato la Turchia ha svolto e svolgerebbe un ruolo da cui derivano maggiori criticità. È ormai nota la presenza di mercenari siriani inviati dalla Turchia in Libia per combattere a supporto del GNA: almeno 5.000 combattenti siriani, in parte provenienti dalla cosiddetta “Divisione Hamza” e la formazione estremista “Sultan Murad” (tra i gruppi ribelli siriani, sostenuti dalla Turchia, che hanno inviato combattenti in Libia), sono stati inviati in aiuto delle milizie alleate di Tripoli impegnate a contrastare le forze dell’LNA guidato dal generale Khalifa Haftar. Elementi reclutati, addestrate ed equipaggiati dalla Turchia e armati di mezzi corazzati Fnss Acv-15, lancia granate Milkor Mgl e missili anticarro statunitensi Bgm-71 Tow. È probabile che la presenza di jihadisti siriani finanziati dalla Turchia possa peggiorare le condizioni di sicurezza del paese portando a una reazione ostile da parte dell’opinione pubblica libica. Un pericolo di cui lo stesso GNA sarebbe consapevole, tanto da aver favorito il trasferimento da parte della Turchia di alcuni di questi jihadisti-mercenari in Azerbaigian, dove le ostilità contro l’Armenia aumentano al pari delle ambizioni turche nella regione.
Guardando all’altro fronte, quello tenuto dall’LNA e sostenuto da Emirati Arabi Uniti (EAU), Egitto e Russia, è possibile constatare un impegno in termini militari tutt’altro che marginale.
Gli Emirati Arabi Uniti hanno dispiegato personale militare e trasferito in Libia almeno cinque tipi di equipaggiamento, inclusi veicoli corazzati, veicoli da ricognizione aerea e un caccia francese Dassault Mirage 2000-9.
La Russia ha trasferito almeno due tipi di equipaggiamento, tra cui jet da combattimento Mig-29A operativo presso la base aerea di Al Jufra e un aereo d’attacco supersonico Sukhoi SU-24, operativo dalle basi aeree di Al Jufra e Al Khadim. A questi equipaggiamenti si uniscono componenti corazzate a favore della compagnia di sicurezza privata russa “Wagner”, che consente alla Russia di poter operare militarmente nell’area senza essere coinvolta sul piano formale, con ciò potendo negare o minimizzare qualunque coinvolgimento diretto o eventuali perdite russe in Libia. Il gruppo “Wagner” avrebbe trasferito operatori militari privati armati e attrezzature militari in Libia per sostenere le operazioni militari di Haftar, inclusi due mezzi corazzati da trasporto truppe. Gli operatori della “Wagner” risulta abbiano preso parte al ritiro delle forze di Haftar da Bani Walid tra il 27 maggio e il 1 luglio scorsi. Risulta che tali operatori fossero, e in parte ancora siano, dislocati nelle cinque basi aeree di Al Jufra, Brak, Ghardabiya, Sabha e Wadden, e presso l’impianto petrolifero di Sharara, il più grande del paese. Il coinvolgimento della “Wagner” in Libia, con un numero complessivo di circa mille operatori, consiste di fatto nel supporto tecnico per la riparazione di veicoli militari e nella partecipazione diretta a operazioni di combattimento in qualità di tecnici di artiglieria, osservazione aerea, oltre a fornire supporto nelle contromisure elettroniche e a schiera squadre di tiratori scelti. Il personale è principalmente russo, ma tra le fila del gruppo sono presenti anche cittadini di Bielorussia, Moldavia, Serbia e Ucraina.
Il rifornimento aereo di entrambe le parti è un fatto accertato, come dimostra l’intenso traffico aereo dagli Emirati Arabi Uniti all’Egitto occidentale e alla Libia orientale, così come dalla Russia, attraverso la Siria, alla Libia orientale e dalla Turchia alla Libia occidentale. Numerose, in particolare, le compagnie commerciali che, per conto degli attori statali impegnati nel conflitto libico, sono accusate di violare l’embargo sulle armi fornendo supporto logistico alle forze di Haftar; tra queste le compagnie aeree di Kazakistan, Siria, Ucraina e Tagikistan e due compagnie aeree degli Emirati Arabi Uniti. Per quanto riguarda i rifornimenti via mare, cinque navi battenti bandiera di Albania, Libano, Tanzania e Panama e dirette verso i porti libici controllati dal GNA sono state accusate di violazione dell’’embargo sulle armi insieme a due destinate ai porti orientali in mano all’LNA: un bastimento battente bandiera liberiana, ma di proprietà di una compagna emiratina, l’altro battente bandiera delle Bahamas, ma di proprietà giapponese.
BBC (2020), Wagner, shadowy Russian military group fighting in Libya‘, 7 maggio.
Bertolotti, C. (2020, [1]), EUNAVFORMED “Irini” operation: constraints and two critical issues, START InSight
Bertolotti, C. (2020, [2]), La Libia è instabile: nessuna soluzione politica senza impegno militare. La strategia turca indebolisce l’Italia, Osservatorio Strategico Ce.Mi.S.S. N. 1/2020.
Bertolotti, C. (2020, [3]), L’espansione di Mosca in Libia: il ruolo dei contractor russi della Wagner, START InSight e Osservatorio Strategico Ce.Mi.S.S.
Butler, D., Gumrukcu, T. (2020), Turkey signs maritime boundaries deal with Libya amid exploration row, 28 novembre.
Daily Sabah (2020), Libya starts implementing joint military programs with Turkey, defense minister says.
Lederer, E.M. (2020), Experts: Libya rivals UAE, Russia, Turkey violate UN embargo, Associated Press, 9 settembre, 2020.
Magdy, S. (2020), US: Turkey-sent Syrian fighters generate backlash in Libya, The Washington Post, 2 settembre.
GUERRA E PACE NEL MEDITERRANEO: capire l’escalation turca tra l’espansionismo cinese e il riassetto degli equilibri mediorientali
di Andrea Molle
La rinnovata importanza del Mediterraneo, spesso ritenuto un teatro secondario nell’ambito dell’analisi delle Relazioni Internazionali, deriva da diversi processi di medio e lungo periodo che oggi scuotono gli equilibri geopolitici mondiali. In particolare, è la conseguenza dell’aggressiva politica commerciale cinese in Africa Subsahariana, intensificatasi nell’ultimo decennio, che vede gli stati africani, come ad esempio il Kenya e il Congo, ridotti a colonie oppure in una situazione di subordinazione de facto agli interessi del Gigante Asiatico.
A questa dinamica fa eco la volontà di Beijin di completare il progetto della Belt and Road Initiative, imponendosi come partner commerciale privilegiato delle principali potenze europee nel tentativo di creare un rapporto non di sudditanza, ma certamente di forte dipendenza, per l’Unione Europea. Ciò è reso possibile, in primo luogo, dal vuoto lasciato dalla deriva protezionista ed isolazionista dell’America guidata da Donald J. Trump che sembra priva di una strategia internazionale, ma anche dall’assenza di una direzione comune europea in politica estera come dimostra il recente smarcamento dell’Italia in favore della Cina.
L’intensificarsi dei flussi migratori, aggravati anche dai mutamenti climatici, dalla corruzione e dalla presenza di processi di radicalizzazione nel continente africano, è il sintomo più evidente della destabilizzazione, politica ed economica, risultante dalla politica espansionista cinese che ha consegnato al governo di Beijin il controllo di importanti rotte e hub commerciali. A fronte di una sostanziale erosione del tessuto economico, causata dal monopolio attuato dagli operatori economici cinesi, e dell’instaurarsi di drammatici squilibri sociali, sempre più persone abbandonano il loro paese e cercano fortuna in Europa accentuando così la crisi del continente. L’alleggerirsi della pressione demografica contribuisce, paradossalmente, a perpetuare il controllo cinese sui governi africani ed accuire la crisi e le divisioni all’interno dell’Unione Europea.
La situazione è infine acuita dall’insieme delle recenti iniziative messe in campo dalla Turchia al fine di conquistare un ruolo egemonico nel Maghreb e nel Mediterraneo orientale, apparentemente facilitato dalla comune cultura islamica di cui il paese si propone come difensore in competizione con paesi come l’Arabia Saudita, ma che è soprattutto una conseguenza del ritiro americano e dell’assenza di una voce unica europea. Nell’attesa delle dimissioni previste a fine ottobre di Fayez al-Sarraj, fino ad oggi alla guida del Governo di Accordo Nazionale (GNA) riconosciuto dalle Nazioni Unite, resta da capire quali saranno le conseguenze sulle attività Turche in Libia, ma rimane inalterata la volontà di Ankara di farsi avanti come principale interlocutore cinese approfittando della particolare congiuntura politica.
Per comprenderne meglio la strategia e non sottovalutarne le probabilità di successo, è importante considerare l’insieme delle relazioni sino-turche. I segnali in questo senso sono molteplici. Un ammorbidimento delle politiche dei visti tra le due potenze è in corso da anni e, in aggiunta agli intensificati scambi culturali, la Cina ha recentemente provveduto a trasferire ingenti risorse economiche destinate a supportare i piani di sviluppo industriale e soprattutto militare del governo guidato da Erdogan. Per venire meno alla sua strutturale inadeguatezza militare, pare che la Turchia stia oggi valutando l’acquisto di velivoli da combattimento stealth di quinta generazione Shenyang J-31. Si tratta di una conseguenza diretta dell’esclusione dal progetto Lockheed Martin F-35 voluta dagli USA, ma rappresenta un passo ulteriore verso l’uscita della Turchia dalla NATO. Qualora dovesse avvenire, la perdita del partner turco provocherebbe di certo una crisi dell’Alleanza Altantica che già per molti osservatori internazionali è in uno stato di animazione sospesa. Un eventuale indebolimento della NATO piace molto anche alla Russia di Putin che, nonostante le aperte tensioni geopolitche con la Turchia, fornisce già al paese sistemi antiaerei e spinge per l’acquisto dei caccia stealth Sukhoi Su-57.
In questo quadro non deve sorprendere la normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Israele e alcune delle medie potenze mediorientali come gli Emirati Arabi e il Baharain, e soprattutto le voci non confermate di possibili futuri accordi per lo sviluppo di assetti militari comuni. Questo processo non può essere considerato il mero risultato dell’azione politica di Trump per portare stabilità in Medio Oriente, a detta di molti insufficiente se non di fatto inestistente. Deve invece essere interpretata come un segnale di conferma di come il mondo arabo, in crisi per la futura inevitabile perdita di rilevanza, è consapevole dei profondi cambiamenti degli equilibri geopolitici del Mediterraneo orientale e sta cercando di guadagnare la posizione più vantaggiosa. Quello che si sta formando può apparire come un fronte anti-Turco, ma a ben vedere è più probabilmente un tentativo di opporsi alle mire neocoloniali cinesi in Africa o quantomeno contenerle, riducendo allo stesso tempo la dipendenza dall’Occidente.
La partita con il Gigante Asiatico vede dunque oggi coinvolti quei paesi del Golfo, una volta nemici dello Stato Ebraico, che oggi pensano ad Israele come alleato naturale. D’altronde Tel Aviv rappresenta non solo un forte partner militare, ma anche un polo economico e tecnologico in grado di rivaleggiare con Beijin. Ciò auspicabilmente potrebbe portare anche ad una soluzione duratura al lungo conflitto Israelo-palestinese. Tale risultato non sarà però dovuto all’azione mediatrice americana ne agli sforzi congiunti di diversi paesi e organismi internazionali degli ultimi decenni, ma piuttosto alla presenza di un comune nemico all’orizzonte. Se una soluzione verrà dunque raggiunta, essa sarà a discapito degli interessi dei palestinesi che, ancorati a retoriche ormai desuete e sempre più marginalizzati dagli alleati di un tempo, non sembrano intenzionati a recepire il cambiamento ed adattare di conseguenza sia i loro obiettivi di lungo periodo che la loro strategia politica.
Se le tensioni con la Cina sono in aumento, di fronte all’aggressività turca gli Stati Uniti hanno alzato la voce solo di recente, provocando il temporaneo ritiro della missione esplorativa di Ankara nelle acque territoriali controllate da Atene, ma senza segnalare alcuna volontà esplicita di coninvolgimento americano nel teatro operativo. Si è trattato insomma di un atto dovuto che arriva, come si dice in America, “too late and one dollar short”. In risposta alla mossa americana e all’annuncio dell’intensificarsi delle esercitazioni delle forze armate greche nell’Egeo settentrionale la Turchia ha nuovamente accusato la Grecia di violare il Trattato di Losanna del 1923, che ha posto fine all guerra greco-turca (1919-1923) ridisegnando le nuove frontiere tra i due paesi, militarizzando l’isola di Chio. Non si tratta della prima volta che la Turchia accusa la Grecia di violare il Trattato. La prima volta è stata nel Giugno 1964, a seguito del dispiegamento di una brigata motorizzata ellenica sull’isola, ma questa volta la Turchia sembra non escludere una reazione militare alle esercitazioni annunciate da Atene.
Sulla sponda Nord del mare nostrum le cose non vanno certo meglio. Sebbene sia palese che la partita che si sta giocando nel Mediterraneo, e che vede coinvolti Grecia e Cipro, abbia come posta in gioco la sopravvivenza stessa degli interessi europei e occidentali, per non dire anche la tenuta della stessa Unione Europea, sono in pochi ad averlo pienamente compreso. Nelle capitali europee, il mutamento degli equilibri che per anni hanno accompagnato la politica mediterranea dell’Unione sembrano essere compresi solo a Parigi. Accusata di voler unicamente acquisire il controllo di marginali risorse energetiche, la seconda potenza dell’Unione Europea preme da sempre per un ruolo più incisivo dell’Europa e per la sua oggi imprescindibile integrazione militare. Questo mentre Berlino ragiona ancora troppo spesso come un trading state, interessato unicamente ai guadagni economici di breve periodo e a non turbare il precario equilibrio raggiunto con la Turchia sul tema dei migranti provenienti dalla rotta balcanica.
Quanto all’Italia, Roma pensa ingenuamente di poter ancora attuare la stessa politica dell’equidistanza e della neutralità che l’ha ridotta negli anni al ruolo di mera comparsa sulla scena degli affari internazionali e sul versante cinese ha una posizione per lo meno ambigua. E tuttavia la Francia, che appare come il candidato naturale a guidare la politica estera dell’Unione, non può pensare di riuscire a vincere questa partita da sola. La geografia non è un’opinione: senza l’Italia, che tra l’altro è la seconda potenza navale del continente, l’Unione Europea non ha nessuna possibilità di contare qualcosa e finirà, inevitabilmente, per essere relegata ad una umiliante posizione di sudditanza.
Crisi del Mar Nero. Il contesto regionale e internazionale
di Gregorio Baggiani
Negli ultimi anni la situazione nel Mare d’Azov, un mare collegato al Mar Nero attraverso lo Stretto di Kerch che ne regola l’entrata a navi civili e militari, regolata da un trattato bilaterale tra Russia ed Ucraina del 2003, è andata progressivamente peggiorando, anche in seguito alla costruzione da parte russa di un ponte ferroviario che ne limita fortemente l’accesso, mediante estenuanti controlli, alle navi civili e militari di nazionalità ucraina.
Le conseguenze diplomatiche, politiche ed economiche di un eventuale conflitto nel Mar Nero
Nonostante la considerevole superiorità militare della Russia in campo navale, l’ipotesi di un conflitto aperto nel Mar Nero appare alquanto improbabile. Un conflitto militare solleverebbe la protesta diplomatica degli Stati occidentali e comporterebbe l’ulteriore inasprimento delle sanzioni contro la Federazione Russa, il possibile intervento della NATO e l’interruzione del traffico marittimo della Federazione Russa attraverso l’intero Mar Nero e la Crimea, a seguito della sua condanna dalle Nazioni Unite come stato aggressore. Tutto ciò sarebbe estremamente controproducente per le esportazioni commerciali russe verso il Medio Oriente e Mediterraneo orientale ma anche per gli importanti flussi di denaro, più o meno opachi, verso l’isola di Cipro, che vengono considerati un settore importante dell’attività economica russa; flusso di denaro che trova poi anche diverse modalità di impiego, lecite o non lecite, anche in Europa.
L’inasprimento delle tensioni è principalmente dovuto alla necessità di vigilare sul funzionamento delle condotte energetiche e di quelle relative alle infrastrutture di comunicazioni sottostanti il bacino
A questo già complesso scenario si aggiunge la questione dei gasdotti e delle reti di comunicazioni che passano sotto il Mar Nero, i primi, fondamentali per le esportazioni russe, le seconde per tutti gli stakeholders di questa complessa questione geopolitica. L’inasprimento delle tensioni, infatti, è principalmente dovuto alla necessità di vigilare sul funzionamento delle condotte energetiche e di quelle relative alle infrastrutture di comunicazioni sottostanti il bacino. L’ostacolo, il danneggiamento grave o addirittura l’interruzione di queste forniture o comunicazioni in caso di conflitto provocherebbe un danno sostanziale all’economia o alla sicurezza della Federazione Russa ed anche degli Stati europei, la prima già fortemente indebolita dalle sanzioni. Ne consegue che lo scoppio di un conflitto aperto nel Mar Nero non appare come la scelta più probabile a causa delle gravi ripercussioni sulle forniture energetiche e sulla stessa sicurezza degli stakeholder, eventualità cui la Federazione Russa ha recentemente cercato di porre rimedio attraverso l’isolamento della propria infrastruttura informatica, in parte dipendente dalle connessioni estere, comprese quelle legate alle infrastrutture di tipo sottomarino presenti sotto la superficie del Mar Nero. L’opzione che quindi molto probabilmente sarà adottata, è quella meglio descritta come “l’invasione silenziosa e strisciante” del Mar Nero che, azzerando il commercio necessario alla sopravvivenza dell’Ucraina e trasformando i suoi porti in una terra desolata, porterebbe alla depressione economica e all’impotenza di Kiev, rafforzando la fazione filo-russa nell’area sudorientale.
La grande strategia geopolitica russa in Ucraina
L’obiettivo primario di questa strategia è quello di respingere le aspirazioni della NATO in Ucraina e soffocare l’aspirazione del Paese a diventare una piena democrazia sul modello occidentale eliminando al contempo un potenziale concorrente commerciale nel Mar Nero. L’apparato politico e militare russo e il sistema economico sono, ovviamente, ben consapevoli di questo stato di cose. È pertanto improbabile che la Russia scelga una risposta militare per contrastare la presenza ucraina nel Mar Nero. I commerci russi sarebbero, infatti, i primi a soffrire del blocco causato da eventuali operazioni belliche e delle inevitabili ricadute derivanti dalle misure politiche e giuridiche che la comunità internazionale adotterebbe nei confronti della Federazione Russa.
Il fattore turco e la Convenzione di Montreux
Inoltre, in caso di un attacco militare russo a strutture militari, civili o petrolifere ucraine, la Turchia sarebbe costretta, a norma delle disposizioni legali contenute nell’accordo di Montreux del 1936, a chiudere gli Stretti Turchi alle navi militari russe e forse anche alle navi civili russe. L’atteggiamento turco si rivelerà quindi determinante nel caso di una crisi nel Mar Nero e della sua possibile evoluzione che al momento appare difficile prevedere con assoluta esattezza perché lo scenario appare particolarmente complesso. L’eventuale chiusura degli Stretti Turchi danneggerebbe gravemente le esportazioni e le fiorenti relazioni politiche con l’area del Mediterraneo orientale e del Medio Oriente in cui la Russia intende invece assumere un ruolo più rilevante rispetto al passato riempiendo, in una certa misura, il vuoto lasciato dagli interessi USA in arretramento da questa zona altamente lacerata da gravi e crescenti tensioni internazionali.
Controllando gli Stretti, la Turchia si rivela un attore essenziale per l’equilibrio strategico del Mar Nero, del Mediterraneo in senso lato e, infine, del Medio Oriente e del Mar Caspio
In quest’ottica, le relazioni politico-diplomatiche che saranno instaurate tra la Russia e la Turchia e tra la Turchia e la NATO giocheranno un ruolo fondamentale. In caso di conflitto nel Mar Nero e in particolare nel Mar d’Azov, se il Trattato bilaterale del 2003 dovesse venir meno e le restrizioni in esso sancite dovessero decadere, la Turchia – secondo stato militarmente più forte del Mar Nero dopo la Russia e, soprattutto, Stato NATO, almeno formalmente – potrebbe diventare decisiva.
La Turchia quale gestore della Convenzione di Montreux e degli Stretti Turchi
Alla Turchia è infatti affidato il controllo e la gestione della navigazione, sia civile che militare, negli Stretti e in caso di conflitto, conformemente alla Convenzione di Montreux, sarebbe autorizzata a precluderne l’accesso. Controllando gli Stretti, la Turchia si rivela un attore essenziale per l’equilibrio strategico del Mar Nero, del Mediterraneo in senso lato e, infine, del Medio Oriente e del Mar Caspio il cui accesso a potenze straniere viene progressivamente ridotto dalla Russia e dagli altri Stati che si affacciano sul Mar Caspio mediante un Trattato firmato nel 2016 che proibisce l’installazione o comunque la presenza di basi militari straniere. La Cina, a sua volta, agisce in modo implicito od esplicito nel contenimento dell’avanzata USA e NATO verso il bacino del Caspio, di cui il Mar Nero appare strategicamente il retroterra. Anche l’Iran, a sua volta, ha instradato un progetto energetico che dovrà collegare il Golfo Persico con il Mar Nero, fatto che gli fa assumere un’importanza geopolitica ancora maggiore per tutti gli stakeholder regionali ed extraregionali. E questo spiega anche perché per gli USA è importante o fondamentale assumere o almeno mantenere il controllo strategico del Mar Nero. Chi controlla il Mar Nero, controlla il potenziale accesso al Mar Caspio, al Medio Oriente, al Golfo Persico ed al Mediterraneo.
La Turchia quale “honest broker” della Convenzione di Montreux e degli Stretti Turchi. La posizione della Turchia in caso di tensioni o di conflitto.
Sulla base di un ravvicinamento stabile tra la Turchia e la Russia, come quello osservato nei mesi scorsi, l’ipotesi di un ruolo di “onesto intermediario” della Turchia nella questione del Mar Nero appare sempre meno credibile. La Turchia probabilmente rafforzerà la sua cooperazione con Mosca ma non reciderà completamente il legame transatlantico con Washington e con l’UE per potere ottenere il prezzo migliore da entrambi i contendenti ed anche per non privarsi completamente dello “scudo” NATO di fronte alla Russia. Restando quindi in bilico tra i due contendenti la Turchia si troverà nella posizione di poter gestire al meglio per sé il suo ruolo geopolitico nel Mar Nero ed in Medio Oriente, qualunque siano i suoi partner.
Il grande problema è come attenuare le dissonanze o addirittura ricucire il divario e la freddezza crescenti tra UE, USA e Turchia. Tutto ciò si ripercuoterà, più o meno direttamente, sugli equilibri di potere in gioco nell’attuale disputa tra Ucraina e Russia nel Mar d’Azov
Conseguentemente, in caso di conflitto o gravi tensioni nel Mar Nero, è prevedibile che la Turchia aumenti la posta in gioco in cambio del suo sostegno politico all’uno o all’altro contendente o della sua neutralità. Invero, sulle basi giuridiche della Convenzione di Montreux, la Turchia dovrebbe agire in modo neutrale nei confronti di qualsiasi contendente ma, molto probabilmente, non terrà fede agli accordi.
Ciò è probabilmente vero anche nel caso del sempre più discutibile trattato NATO che lega la Turchia all’Alleanza Atlantica. Il grande problema è come riuscire ad attenuare le dissonanze o addirittura a ricucire il divario e la freddezza crescenti tra UE, USA e Turchia. Chiaramente, tutto ciò si ripercuoterà, più o meno direttamente, sugli equilibri di potere in gioco nell’attuale disputa tra Ucraina e Russia nel Mar d’Azov.
Le regole imposte dal Trattato di Montreux
Le rigide regole del Trattato di Montreux del 1936 oggi limitano l’accesso delle navi militari degli Stati non rivieraschi a una permanenza massima di 3 settimane. In caso di gravi tensioni, se gli Stati Uniti saranno in grado di ottenere un allentamento di queste regole con la modifica della Convenzione di Montreux, il rapporto tra le forze potrebbe cambiare notevolmente determinando una alterazione sostanziale dell’equilibrio di potere nel Mar Nero grazie alla grande capacità di proiezione militare statunitense (fatto che rimanda immediatamente al concetto strategico- militare, ma anche economico, di “profondità strategica” o strategic depth o стратегическая глубина in russo), giustamente temuta da Mosca e, di conseguenza, nel Mar d’Azov, che è ben collegato con la regione circostante per mezzo di collegamenti fluviali, fatto che lo rende particolarmente strategico per la Federazione Russa. Il Mare d’Azov serve evidentemente anche da retroterra strategico a protezione della Crimea.
Ciò dipenderà dal modo in cui, in caso di crisi o di conflitto, la Turchia gestirà l’accesso delle navi militari attraverso gli Stretti Turchi e dalla permanenza in vigore delle disposizioni sul Mar d’Azov regolate dal trattato del 2003 tra Russia e Ucraina che si configura come un trattato di tipo bilaterale e non risponde alla normativa sul diritto internazionale del mare fissata dalle Nazioni Unite a Bodega Bay del 1982 e che risponde al nome di UNCLOS.
La Russia è sicuramente interessata ad ottenere vantaggi concreti dalla parte settentrionale del Mar Nero e nel Mar d’Azov; il deterioramento delle condizioni economiche potrebbe condurre a un calo di popolarità, cosa che Vladimir Putin teme al di sopra di ogni cosa
Il calcolo geopolitico ed economico della Russia
In linea generale, la Russia è sicuramente interessata ad ottenere vantaggi concreti e spinta propulsiva dalla parte settentrionale del Mar Nero e nel Mar d’Azov, ma non è insensibile al rischio di perdite economiche e dell’improvviso aumento dei prezzi che le inevitabili tensioni politiche dovute al conflitto potrebbero comportare o, peggio, alle gravi ripercussioni che un serio stallo militare potrebbe provocare, anche in termine di vite umane. Il possibile deterioramento delle condizioni economiche potrebbe inoltre condurre a un calo di popolarità, cosa che Vladimir Putin teme al di sopra di ogni cosa.
Siria: dopo gli accordi per Idlib la Russia è in vantaggio sulla Turchia
La partecipazione di 38 compagnie russe alla fiera internazionale di Damasco conferma che l’attività economico-commerciale sarà un passe-partout della Russia in Medioriente
L’analisi di C. Bertolotti per l’Osservatorio Strategico del Ce.Mi.S.S. n. 1/2018
di Claudio Bertolotti
scarica l’intero contributo pubblicato sull’Osservatorio Strategico Ce.Mi.S.S. 1/2018
Il 17 settembre scorso, Russia e Turchia hanno concordato di istituire una zona demilitarizzata nella regione della Siria nord-occidentale di Idlib, ultima grande roccaforte dei circa 60.000 componenti i gruppi di opposizione armata e ribelli anti-governativi, tra questi anche le formazioni jihadiste di area qaedista Hayat Tahrir al-Sham (Levant Liberation Committee) e Jabhat Fateh al-Sham che controllano due terzi della cosiddetta area cuscinetto e più di metà di Idlib.
Accordi di Sochi: Naji al-Mustafa, portavoce dei quindici gruppi componenti il Fronte nazionale per la liberazione, ha confermato l’adesione all’iniziativa russo-turca
L’area demilitarizzata, in base agli accordi, avrebbe dovuto essere definita entro il 15 ottobre e avere una profondità variabile di 15-20 chilometri prevedendo, al suo interno, la condotta di pattugliamenti coordinati di unità russe, turche e della Nato; l’accordo prevede che i gruppi radicali debbano lasciare l’area, al contrario dei gruppi ribelli non inseriti nell’elenco dei gruppi terroristi che però si sono impegnati a trasferire fuori dall’area demilitarizzata gli armamenti pesanti e a consegnarne una parte alle forze governative siriane. Questo l’esito dell’incontro di Sochi tra il presidente Vladimir Putin e l’omologo turco Recep Tayyip Erdogan. Un accordo che alla fine di ottobre non ha visto la realizzazione della zona cuscinetto ma ha comunque evitato di provocare una crisi umanitaria che avrebbe interessato circa tre milioni di abitanti nel caso fosse stata avviata la prevista e annunciata offensiva militare: Naji al-Mustafa, portavoce dei quindici gruppi componenti il Fronte nazionale per la liberazione, il 6 ottobre ha confermato l’adesione all’iniziativa russo-turca mentre il giorno seguente il Free Idlib Army ha iniziato la smobilitazione degli schieramenti di artiglieria in prossimità dell’abitato di Maaret al-Numan, benché sia possibile immaginare che parte degli armamenti possa essere stata più opportunamente nascosta; anche il National Liberation Front, sostenuto dalla Turchia, ha aderito all’accordo. Tra i gruppi qaedisti, Horas al-Din, (i “guardiani della religione”) e Ansar al-Din (“Partigiani della religione”) hanno da subito rifiutato la soluzione negoziale proposta, mentre Hayat Tahrir al-Sham solamente il 14 ottobre ha comunicato il proprio apprezzamento per il cessate il fuoco, ma ha ribadito la propria volontà di continuare a combattere il jihad fino all’estremo sacrificio.
Gli accordi preannunciano che la campagna per Idlib seguirà la linea tracciata dalle precedenti campagne: dividere il fronte insurrezionale
In pratica i termini dell’accordo aggiungono sostanza all’idea che la campagna per Idlib seguirà la linea tracciata dalle precedenti campagne, come quella per Daraa, riuscendo a dividere il fronte ribelle-jihadista con conseguente riduzione della capacità operativa del nemico sul campo; una mossa a conferma della visione strategica del regime siriano e dei suoi alleati che, in maniera sistematica, ha portato gli esitanti gruppi di opposizione armata a dividersi in più parti distribuite sul territorio, così da essere combattute senza un eccessivo dispendio di forze e limitando gli effetti collaterali in termini di danni alle popolazioni civili. La prossima mossa da parte siriana, una volta conclusa la liberazione dell’area di Idlib, sarà il controllo dell’area a est dell’Eufrate, strappata lo scorso anno al gruppo Stato islamico da parte dalle milizie curde che compongono le Syrian Democratic Forces sostenute dagli Stati Uniti.
L’accordo offre vantaggi significativi per i firmatari, ma ad avvantaggiarsene sarà la Russia
Nel complesso l’accordo offre vantaggi significativi per i firmatari. Ma se per la Turchia il vantaggio principale è stato quello di evitare che nella zona si concentrassero le truppe governative siriane, è però vero che Ankara dovrà far fronte al mantenimento di una sorta di protettorato turco su forze ribelli che sono sempre più in difficoltà; e se quella contro Jabhat Fateh al-Sham e gli altri gruppi jihadisti sarà una campagna di successo, la Turchia avrà un ulteriore onere poiché dovrà trovare il modo di garantire loro una via d’uscita dalla Siria. In tale quadro non stupisce la dichiarazione di Erdogan del 4 ottobre, in cui il presidente turco ha annunciato la propria intenzione di non voler lasciare il territorio siriano finché non saranno svolte le elezioni.
Per la Russia e per la Siria, l’accordo offre invece la possibilità di mettere in sicurezza l’autostrada strategica che attraversa Idlib e collega la Siria settentrionale con le altre città; è previsto che il transito lungo le autostrade Aleppo-Latakia e Aleppo-Hama debba essere ripristinato entro la fine del 2018. Inoltre, il 15 ottobre, la Siria ha confermato la progressiva capacità di controllo del territorio riaprendo i passaggi di frontiera con Israele (Queneitra, chiuso dall’inizio della guerra nel 2011) e con la Giordania (Nassib, chiuso nel 2015); in particolare il passaggio di Nassib attraverso la Giordania rappresenta un importante passo per il ripristino delle attività commerciali con le ricche nazioni del Golfo.
Ma è la Russia che esce ulteriormente avvantaggiata da questo accordo, in particolare sul piano operativo, poiché le sue forze non solo possono continuare a combattere gli jihadisti e gli altri gruppi ribelli, ma ha pure la possibilità di schierare le sue truppe, insieme a quelle turche, nelle zone demilitarizzate per ridurre la presenza e gli arsenali di quelle forze ribelli che, fino a ora, sono state supportate da Ankara.
Stati Uniti: ai margini sia della guerra che della sua soluzione
Infine gli Stati Uniti, che rimangono ai margini sia della guerra che della sua soluzione. Come già avvenuto nel sud, a Daraa, il sostegno statunitense ai gruppi di opposizione nella provincia di Idlib appare limitato al fattore deterrenza contro un ipotetico utilizzo di armi chimiche al quale l’amministrazione americana potrebbe rispondere, sia pur in maniera limitata e a livello tattico. Nella sostanza, un aiuto poco più che simbolico a quei ribelli che anche Ankara vorrebbe poter continuare a sostenere.
Nella sostanza la guerra siriana continua, ma con l’accordo tra Putin ed Erdogan la spinta data al conflitto tende sempre più verso un vantaggioso consolidamento russo nell’area a favore di Damasco e di Teheran.
Analisi, valutazioni e previsioni
La Russia guarda con interesse a un nuovo ordine di sicurezza in Medio Oriente. Qualunque cosa accada ai ribelli nella provincia di Idlib, Mosca è determinata a mantenere la Siria saldamente ancorata all’interno della sua sfera di influenza – sia come punto d’appoggio nel Medio Oriente sia in un’ottica di contenimento statunitense (e dei suoi alleati): il vice ministro della Difesa della Russia, Alexander Fomin, nel suo intervento del 25 ottobre all’8° Beijing Xiangshan Forum di Pechino, ha posto particolare accento sulla situazione in Siria in termini di volontà russa di essere presente sino a quando la situazione non sarà stabilizzata e il terrorismo sconfitto. A conferma di tale approccio è il fatto che lo stesso giorno in cui i diplomatici russi firmavano l’accordo con la Turchia per l’istituzione della zona smilitarizzata nell’area di Idlib, decine di uomini d’affari russi siglavano a Damasco contratti commerciali per il dopoguerra siriano.
Russia: rimarremo sino a quando la situazione non sarà stabilizzata e il terrorismo sconfitto e saremo impegnati nel processo di ricostruzione
Il contributo delle forze armate russe, decisive nella lotta contro l’opposizione al governo di Bashar al-Assad e al gruppo Stato islamico, ha dato a Mosca un peso ben superiore a quello delle potenze occidentali. Russia che è stata così capace di imporsi sul piano diplomatico e delle relazioni internazionali come su quello militare, come dimostrato dalla recente vendita dei sistemi missilistici S-300 alla Siria, che vanno ad affiancarsi agli S-400 schierati dalle forze russe; un accordo che preoccupa l’altro importante attore regionale, Israele, da tempo impegnato in azioni di bombardamento aereo su territorio siriano in funzione di contenimento anti-iraniano e di contrasto al libanese Hezbollah.
E se sul fronte militare il ruolo russo è di primo piano, non è certo secondario l’impegno su quello della ricostruzione post-bellica, dove Mosca sarà impegnata nella riattivazione di strade e la ricostruzione di condutture strategiche e di beni immobiliari distrutti nei sette anni di guerra appena trascorsi.
Come dimostrato dalla partecipazione di 38 compagnie russe alla fiera internazionale di Damasco all’inizio di settembre, l’attività economico-commerciale sarà uno dei principali passe-partout della strategia di influenza russa nell’area mediorientale.
scarica l’intero contributo pubblicato sull’Osservatorio Strategico Ce.Mi.S.S. 1/2018