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Misure premiali nella lotta al terrorismo internazionale – il progetto di ricerca FIGHTER

a cura di Chiara Sulmoni

L’onda di terrorismo ideologico e religioso con la quale ci stiamo confrontando da 20 anni è un fenomeno che a vari livelli – dalla diffusione della propaganda alla creazione di reti transnazionali, dal finanziamento al reclutamento di militanti, dal ‘passaggio’ di armi alla pianificazione di atti violenti – attraversa i confini degli Stati e richiede uno sforzo coordinato da parte di intelligence, forze di sicurezza e magistrature.

Per combatterla, dal punto di vista giuridico, “l’UE ha da sempre puntato soprattutto su misure penali di natura repressiva, peraltro costantemente oggetto di un processo di armonizzazione verticale”; si cerca, in altre parole, di raggiungere una maggiore uniformità normativa fra gli ordinamenti nazionali e sovranazionali (UE) nella definizione di ciò che costituisce reato e sui provvedimenti da adottare, con il rischio e la tendenza ad ‘esportare’ o prendere ad esempio i modelli più rigidi[1]. A seguito della persistenza del terrorismo di matrice jihadista e del timore di recidiva, in alcuni paesi si assiste ad una progressiva stretta legislativa che mira, fra le altre cose, a comminare pene più lunghe e/o ad adottare misure amministrative più severe.

Sulla base di solide argomentazioni, in genere i giuristi ritengono che tale approccio non sia sufficiente –perfino controproducente, laddove non si intervenga ad esempio anche con un programma strutturato di de-radicalizzazione – e che sia invece opportuno prendere in considerazione l’utilizzo di incentivi che possano favorire la collaborazione con la giustizia da parte di ex-affiliati, militanti e sostenitori di gruppi terroristici, con l’obiettivo di facilitare le indagini e prevenire ulteriori attentati o attività dalla matrice violenta.

In risposta alle minacce interne, alcuni paesi con esperienza nella gestione del terrorismo (ad es. Italia e Spagna) hanno già sperimentato l’applicazione di provvedimenti complementari mediante l’adozione di misure definite ‘premiali’ – come il riconoscimento di circostanze attenuanti, benefici penitenziari e via dicendo. Queste misure hanno rafforzato la risposta giudiziaria in quanto molti estremisti si sono dimostrati sensibili alla perdita della libertà oltre che ampiamente recuperabili”. In ragione dell’efficacia di questo dispositivo, “le misure sono state mantenute anche dopo la cessazione dell’“emergenza terroristica” e perfino estese ad altre forme di criminalità (crimine organizzato, corruzione, etc.)”.

Sulla scorta di queste osservazioni, nel 2019 è stato avviato un progetto di ricerca europeo della durata di due anni denominato FIGHTER Fight Against International Terrorism. Discovering European Models of Rewarding Measures to Prevent Terrorism – coordinato dall’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia (UNIMORE) e che ha coinvolto altri sette atenei ; professori e ricercatori, confrontandosi in corso d’opera con magistrati e altri professionisti ed esperti del settore per un riscontro pratico, hanno studiato la possibilità di utilizzare le misure premiali contro il terrorismo internazionale, indagando dapprima la situazione attuale nell’Unione, per capire “se, come e perché” singoli Stati membri abbiano adottato questo sistema; per arrivare in seguito a proporre “uno o più modelli europei di misure premiali a favore dei terroristi che collaborano con le autorità”, dopo averne verificato la “fattibilità giuridica e culturale”, nonché valutando e monitorando la ‘capacità’ (e le problematiche) di armonizzazione. Come dichiarato dal Prof. Massimo Donini, l’obiettivo va letto nella prospettiva di “una migliore armonizzazione del contrasto al fenomeno mediante strumenti non solo di repressione, ma anche di prevenzione individualizzata e operativa anche prima di una eventuale condanna.”[2]

In attesa di conoscere i risultati di questo progetto, che verranno ufficialmente presentati il 20 maggio, abbiamo posto alcune domande introduttive ai giuristi Francesco Diamanti (UNIMORE), Ludovico Bin (Università del Salento) e Francesco Rossi (UNIMORE) che hanno preso parte allo studio.

A complemento di informazione, segnaliamo che anche in Svizzera in occasione di una revisione del Codice di Procedura Penale (2016/2017) si è discusso attorno all’opportunità di introdurre una normativa sui pentiti o collaboratori di giustizia, ritenendo alla fine di non procedere, non da ultimo in ragione del vigente art. 260ter che permetterebbe già ai giudici, a determinate condizioni – ma unicamente a inchiesta conclusa – di valutare un’attenuazione della pena. È stata invece approvata l’estensione di quest’ultima eventualità anche ai membri dei gruppi terroristici al-Qaeda, Stato Islamico e organizzazioni associate. 

  • il servizio di Gian Paolo Driussi (Radio Svizzera di Lingua Italiana) che include un’intervista all’allora On. Giovanni Merlini, relatore della Commissione degli affari giuridici del Consiglio Nazionale  

Seguiranno approfondimenti.  

Progetto FIGHTER – Le misure premiali nella lotta al terrorismo internazionale 

  1. Francesco Diamanti, Ludovico Bin e Francesco Rossi, a quali esigenze risponde questo progetto di ricerca europeo e perché vale la pena studiare e prendere in considerazione la questione delle misure premiali applicate al terrorismo internazionale?

Il terrorismo internazionale è purtroppo un’emergenza ancora molto diffusa nel mondo e, nello specifico, anche all’interno dell’Unione Europea. Gli ultimi dati a disposizione parlano di centodiciannove attentati falliti, diciannove persone decedute e ventisette gravemente lesionate; più di mille persone, infine, sono state arrestate per reati di terrorismo solo nell’anno 2019. La maggior parte di questi ultimi arresti sono avvenuti in Belgio, Francia, Italia e Spagna (cfr. il report reperibile qui).

Non a caso uno dei due gruppi di ricerca italiani è il team trainante – il cosiddetto principal investigator – della ricerca FIGHTER, coordinato dal prof. Massimo Donini; così come non è un caso che tra i Paesi partner spicchino il Belgio, la Francia e la Spagna, oltre al Lussemburgo, alla Germania e alla Croazia. Possiamo senz’altro dire di aver scelto bene “con chi” collaborare, sia per l’indubbia qualità dei ricercatori e dei coordinatori dei vari team, sia per la centralità delle culture e dei Paesi che rappresentano.

Le misure premiali possono essere descritte come strumenti coi quali l’autorità giudiziaria può tentare di trasformare un criminale (un terrorista o un mafioso) in un collaboratore

Occorre sapere che per combattere il terrorismo internazionale l’UE ha da sempre puntato soprattutto – anzi, potrei quasi dire “unicamente” – su misure penali di natura repressiva, peraltro costantemente oggetto di un processo di armonizzazione “verticale”. Il punto, però, è che così facendo la risposta giudiziaria sembra uscirne fortemente limitata: sarebbe bene affiancare all’approccio repressivo anche quel particolare metodo preventivo che si attua efficacemente – o, almeno, questa è stata la nostra “intuizione” iniziale – anche con l’utilizzo di misure cosiddette “premiali”.

In estrema sintesi, e utilizzando un linguaggio volutamente a-tecnico, le misure cosiddette “premiali” possono essere descritte come strumenti coi quali l’autorità giudiziaria può tentare di trasformare un criminale (es. un terrorista o un mafioso) in un “collaboratore” capace di fare i nomi dei correi, dei depositi di armi, dei successivi obiettivi, dei metodi adottati, ecc.

Per combattere il terrorismo internazionale l’UE ha puntato soprattutto su misure penali di natura repressiva

Esistono fenomeni criminali piuttosto complessi, ben organizzati e diffusi, che basano parte della loro forza soprattutto sul vincolo di appartenenza al gruppo (es. organizzazione terroristica) e sulla segretezza delle informazioni che circolano al suo interno (es. obiettivi, rifornitori di armi, pubblici ufficiali corrotti, ecc.). Ebbene, disponendo di un apparato repressivo serio, contro fenomeni di questo tipo è possibile prospettare al criminale alcuni importanti “vantaggi” (es. diminuzione di pena, accesso ad alcuni benefici in fase di esecuzione, ecc.) in cambio, laddove possibile, di un suo sforzo collaborativo.

  1. Possiamo definire il vostro approccio come ‘pionieristico’? Quali sono (state) le sfide, le ‘conquiste’ e i limiti, dal punto di vista metodologico?

Sì, il nostro approccio può essere definito pionieristico, ma con alcune precisazioni.

La novità non sta nell’aver “scoperto” l’utilità di mettere in campo misure cosiddette “premiali” nella lotta contro fenomeni criminali complessi da debellare, come le associazioni per delinquere di stampo mafioso o alcune forme più o meno estese e pericolose di terrorismo interno. Tant’è che in passato molti Paesi membri hanno adottato una serie di misure complementari, ma non “alternative”, in grado di consentire ai giudici non solo di punire i reati commessi, ma anche di prevenire quelli che devono ancora essere realizzati tramite “premi” (es. forme di riduzione delle sanzioni, non punibilità, benefici penitenziari etc.) capaci di indurre i terroristi a cooperare con le autorità. Ciò è stato fatto soprattutto per far fronte alle passate minacce terroristiche nazionali (es. Italia, Germania e Spagna, in relazione a BR, RAF e ETA). Ebbene, queste particolari misure hanno rafforzato la risposta giudiziaria al fenomeno del terrorismo interno, rivelandosi talmente efficaci da essere poi mantenute nel corso del tempo, anche dopo la cessazione della “emergenza” ed estese ad altre forme di criminalità (crimine organizzato, corruzione, etc.).

Molti Paesi hanno adottato misure complementari in grado di consentire ai giudici non solo di punire i reati commessi ma anche di prevenire quelli che devono ancora essere realizzati tramite “premi” capaci di indurre i terroristi a cooperare. L’obiettivo che avevamo in mente non era dimostrare l’infallibilità delle misure premiali, ma che non sono affatto inutili nella lotta contro il terrorismo internazionale di matrice islamista

La “novità”, quella che potremmo definire la vera conquista, sta più nell’aver ipotizzato per la prima volta nel panorama europeo – e, forse, anche mondiale – che queste misure cosiddette “premiali” potessero essere utili anche nella lotta contro il terrorismo internazionale di matrice islamica. L’obiettivo che avevamo in mente non era, e non è nemmeno oggi, dimostrare l’infallibilità delle misure cosiddette “premiali”, ma di dimostrare che non sono affatto inutili nella lotta contro il terrorismo internazionale di matrice cosiddetta “islamista”.

  1. Qual è lo ‘stato dell’arte’ in Europa per ciò che riguarda la legislazione e l’applicazione di misure premiali contro il terrorismo internazionale, ci può anticipare il quadro che emerge dalla vostra indagine comparativa?

Lo stato dell’arte, purtroppo, non è molto confortante. Nella prima fase della ricerca FIGHTER ogni gruppo ha realizzato un primo elaborato – il National Report – all’interno del quale sono state analizzate le normative premiali esistenti da diversi punti di vista: dalle leggi sostanziali a quelle processuali eventualmente esistenti all’evoluzione della giurisprudenza, e così oltre. Questi preziosi sforzi ci hanno messo nelle condizioni di avere un quadro piuttosto dettagliato, anche se limitato ad alcuni Paesi membri della ricerca e non a tutti i Paesi membri dell’UE, nello specifico all’Italia, al Belgio, alla Spagna, alla Francia, alla Germania, al Lussemburgo e alla Croazia. L’armonizzazione in materia è risultata insoddisfacente: le differenze tra i singoli stati rimangono molte e profonde.

In estrema sintesi, la discrepanza più seria concerne l’azione penale da parte delle Procure: in alcuni Stati (es. Belgio, Francia, Germania e Lussemburgo) è discrezionale, sicché gli scenari premiali che, volendo, si aprono per il pubblico ministero sono pressoché illimitati. In questi casi sono possibili vere e proprie “trattative” fino all’archiviazione o al trasferimento del caso in un altro Paese. In altre realtà, però, l’esercizio dell’azione penale non è affatto discrezionale, così come l’utilizzo delle misure premiali risulta sottoposto a rigidi requisiti formali e sostanziali: in questi casi esistono grandi differenze interne ai paesi vincolati all’esercizio dell’azione penale, e ciò accade sia in ordine alle “tipologie” di misure messe a disposizione dai vari Codici, sia nei confronti delle condizioni minime per la loro operatività. Alcuni ordinamenti giuridici non le mettono in campo solo nella lotta contro il terrorismo internazionale, altri sì; alcuni richiedono la dissociazione del terrorista che intende collaborare per ricevere il “premio”, altri vogliono addirittura l’effettiva disgregazione dell’intera associazione criminale, altri richiedono entrambe le condizioni, e così molto oltre.

  1. Quali sono le premesse alla base dell’applicazione di misure premiali e quanto può essere complesso estendere tali provvedimenti a reati collegati al terrorismo o all’estremismo di matrice islamista / jihadista?

La premessa fondamentale è la possibile sensibilità del terrorista internazionale di matrice cosiddetta jihadista ai “premi” (es. riduzione o esclusione integrale della pena) che l’autorità giudiziaria potrebbe offrirgli in cambio di una seria ed efficace attività di collaborazione. Da un lato, questa tipologia di autore – spesso, purtroppo, disposto a sacrificare la propria vita – appare, già a livello concettuale, ben poco propenso all’offerta di “premi”. Anche se il parallelismo necessiterebbe di altri approfondimenti qui impossibili da riassumere integralmente, i membri delle organizzazioni terroristiche interne – es. le Brigate Rosse – erano anch’essi disposti a mettere in pericolo le loro vite per la realizzazione di frequenti rapine a mano armata, complessi sequestri di persona a scopo di estorsione, ecc. Sicché, sebbene i due autori-tipo rimangano piuttosto diversi, esistono molte più similitudini di quelle che di primo acchito si potrebbero ipotizzare.

È del tutto probabile che il terrorismo jihadista non sia popolato da esseri umani troppo diversi da quelli che hanno ceduto, e cedono ancora oggi, alle lusinghe della criminalità organizzata o dei terrorismi interni di matrice politica

A ciò può essere aggiunto il fatto che ultimamente stanno nascendo dubbi in ordine all’assenza nel corpo dei terroristi, nella fase che precede l’attacco, di droghe pesanti come il Captagon, perfetto per inibire la paura. Se ciò fosse confermato in futuro, si aprirebbero scenari piuttosto interessanti: non più uomini e donne spinti solo da una “credenza” – che, peraltro, nulla ha a che vedere con la fede musulmana vera – o da un ideale, ma aiutati dalle sostanze stupefacenti; quindi ci si troverebbe davanti a persone che, senza questi “aiuti”, non si sarebbero forse spinti fino al sacrificio supremo. È del tutto probabile che il terrorismo di matrice cosiddetto jihadista non sia popolato da esseri umani troppo diversi da quelli che hanno ceduto, e cedono ancora oggi, alle lusinghe della criminalità organizzata o dei terrorismi interni di matrice politica.

Su tutti questi punti – e anche su molti altri – si sono concentrati gli sforzi del gruppo di ricerca belga, coordinato dal prof. Yves Cartuyvels. Gli esiti di questa ampia ricerca sono più che interessanti: da un lato si mette in rilievo l’esigenza di valutare anche altri strumenti – ad esempio l’amnistia –, dall’altro lato, però, sono emersi molti fattori che possono rendere il terrorista incline a collaborare con l’autorità giudiziaria.

  1. Di fronte alla persistenza del terrorismo e alla maggiore frequenza di atti violenti di matrice islamista portati avanti da parte di individui già condannati o noti ai servizi di intelligence, in Europa si assiste ad una progressiva stretta legislativa che può includere pene più lunghe o misure amministrative extra-giudiziali più severe; queste tendenze giustificano oppure ostacolano le argomentazioni a favore di misure premiali?

In linea di principio serve grande equilibrio nella predisposizione degli strumenti repressivi e preventivi; questa è una regola che vale sempre quando si discute di diritto penale, dunque anche nei confronti della lotta contro fenomeni criminali gravi e complessi. Detto questo, è chiaro che l’esistenza di una risposta sanzionatoria particolarmente severa semplifica in qualche modo il ruolo dell’autorità giudiziaria che decidesse di puntare sulle misure cosiddette “premiali”: più il terrorista rischia più sarà attratto dai “premi”, anche al prezzo della collaborazione.

  1. In genere, le misure premiali vengono applicate a livello nazionale per rispondere a esigenze di sicurezza interna e per questa ragione, la loro diffusione non è uniforme. In base alle vostre valutazioni e risultati, è possibile delineare dei modelli europei ed è auspicabile promuovere una maggiore armonizzazione in questo ambito? Quali sono eventuali ostacoli?

Assolutamente sì. Anzi, gli esiti delle nostre ricerche ci portano a credere che questo sia un passaggio obbligato. Il guaio più serio, osservando le discipline nazionali, è proprio che le differenze non solo esistono, ma sono molte e molto profonde, sono strutturali; sicché, appare assolutamente necessaria una complessa opera di armonizzazione, capace di conseguire un vero avvicinamento delle normative nazionali esistenti, sulla base di “modelli europei di misure premiali” pensati per contribuire alla lotta contro il terrorismo internazionale di matrice jihadista.

Questi “modelli europei” si possono costruire.

Il riferimento è al plurale, non al singolare; ciò dipende dal fatto che, a nostro avviso, i “modelli” dipendono dalla fase processuale nella quale le misure premiali dovranno o potranno effettivamente operare. In questo senso si può distinguere tra misure premiali da utilizzare prima e durante il processo vero e proprio, e misure premiali da poter utilizzare dopo la sentenza di condanna.

Anche se questo tema coinvolge l’ultima fase della ricerca, che proprio in questo momento si trova in via di ultimo perfezionamento, possiamo dire che siamo giunti alle seguenti constatazioni (che, però, potranno in futuro essere lievemente affinate). Nel caso delle misure premiali pre-processuali e di quelle operative durante il processo, una futura direttiva dell’Unione europea dovrebbe contemplare un articolo concernente il tema della “Attenuazione ed esenzione della pena”. In esso dovrebbe essere inserito un testo di questo tenore: «Gli stati membri adottano le misure necessarie per garantire che la pena per i reati connessi al terrorismo possa essere ridotta se l’autore del reato: 1) confessa integralmente il reato o i tentativi di reato commessi; 2) fornisce alle autorità amministrative o giudiziarie informazioni che aiutino a identificare o consegnare alla giustizia gli altri autori del reato, trovare prove, prevenire o attenuare gli affetti del reato o, da ultimo, prevenire ulteriori reati terroristici».

Dopo la sentenza di condanna, invece, occorrerebbe aggiungere alla medesima direttiva un articolo inerente alle “Misure in fase esecutiva”, specificando che «Gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che la pena per i reati connessi al terrorismo sia concretamente eseguita in modo da limitare la pericolosità del condannato, escludendo il godimento di misure che comportino l’accesso alla libertà e, nei casi più gravi, i contatti con altre persone, fuori o anche all’interno del luogo di detenzione». Al contrario, gli Stati membri sarebbero liberi di applicare misure premiali post-condanna laddove le seguenti condizioni siano cumulativamente soddisfatte: « i) la cooperazione è impossibile o irrilevante a causa della limitata partecipazione al fatto criminoso, accertata nella sentenza di condanna o, comunque, alla luce dell’accertamento dei fatti e delle responsabilità stabilite da sentenze irrevocabili; ii) sussistono sufficienti e certi elementi che attestano l’assenza di legami con organizzazioni terroristiche».

L’esistenza di una risposta sanzionatoria particolarmente severa semplifica in qualche modo il ruolo dell’autorità giudiziaria: più il terrorista rischia, più sarà attratto dai premi, anche al prezzo della collaborazione

  1. Ritenete che ci siano le premesse per poter dare continuità al tema, sia dal punto di vista della ricerca che per ciò che concerne il dibattito politico e pubblico?

La risposta alla prima domanda è senz’altro affermativa. Da un lato, e parliamo per ora del profilo strettamente scientifico, siamo convinti che le misure premiali siano un mezzo efficace – anche se non l’unico – da impiegare nella lotta al terrorismo internazionale e che la ricerca debba continuare anche su altri fronti. Uno di questi, emerso durante quest’ultima fase, concerne l’esigenza di conoscere più a fondo la cultura islamica e comprendere, da un punto di vista sociologico oltre che giuridico, le dinamiche che la caratterizzano. Posto che il terrorismo internazionale è, e rimane, un tipo di criminalità che contrassegna una piccolissima minoranza del mondo musulmano, sarà fondamentale in futuro conoscere meglio la loro cultura di appartenenza, la quale, pur non avendo nulla a che fare con quella deviazione criminale, può risultare utile per il trattamento dei terroristi arrestati (es. de-radicalizzazione), nonché per un approfondimento ulteriore, di natura socio-criminologica, sulla vera efficacia del “premio” sul singolo soggetto.

Il successo politico di questo progetto dipenderà dalla capacità dei nostri rappresentanti di comprendere l’importanza delle grandi ricerche giuridico-criminologiche già compiute sul tema, proprio come FIGHTER

Dall’altro lato, però, siamo ben consapevoli del fatto che la nostra ricerca, per quanto ampia e importante, non può in alcun modo sostituirsi a un serio dibattito politico. Il punto, però, è che, spesso il dibattito è piuttosto duro e sospettoso verso soluzioni di accordo coi terroristi: spesso, tutti noi lo ricordiamo, è stata pronunciata pubblicamente la frase: «… we don’t negotiate with terrorists!», e questo la dice lunga sul clima che si respira in Europa e nel mondo. Il tema delle misure cosiddette “premiali” contro il terrorismo internazionale è un argomento delicato, è evidente, perché si propone il potenziamento di logiche utilitaristiche nel loro genere, che ben poco hanno a che fare col giustizialismo puro. Il successo “politico” di questo progetto dipenderà con ogni probabilità dalla capacità dei nostri rappresentanti di comprendere l’importanza delle grandi ricerche giuridico-criminologiche già compiute sul tema, proprio come FIGHTER. Il 20 maggio 2021 si svolgerà il convegno finale e, subito dopo, i risultati saranno pubblicati e messi a disposizione dei tecnici e degli attori politici. Il testo sarà in lingua inglese, ma per garantirne una ancora maggiore diffusione, provvederemo alla sua traduzione integrale anche in lingua francese.

Note

[1]  Per un approfondimento, v. La direzione delle normative anti-terrorismo in Europa. Intervista al giurista Francesco Rossi, START InSight, 2020

[2] Intervista a Massimo Donini, Professore ordinario di diritto penale e responsabile del progetto FIGHTER, Magazine UNIMORE