Radicalizzazione jihadista e prevenzione. Aggiornamenti dalla Svizzera. PRIMA PARTE
La Scuola Universitaria di Scienze Applicate di Zurigo (ZHAW) ha pubblicato uno studio aggiornato che fa il punto sui contesti della radicalizzazione jihadista in Svizzera, sulla gestione della situazione nelle carceri e sulla prevenzione, integrando i dati forniti dall’intelligence con una serie di interviste a figure impegnate in vari ruoli -direttori di carcere, responsabili della sicurezza, cappellani e imam, procuratori, unità specialistiche di prevenzione dell’estremismo e forze di polizia attive sul territorio-. Ad emergere è una fotografia delle tendenze e delle misure adottate a livello locale e cantonale per contrastare il fenomeno. In particolare, vengono messe in rilievo le aree e gli approcci che necessitano di maggiore attenzione.
Nel 2017 la Confederazione ha adottato un piano d’azione nazionale per coordinare gran parte delle iniziative e dei progetti di prevenzione, disimpegno dalla violenza e reintegrazione; attività che sostiene con 5 milioni di CHF elargiti su un periodo di 5 anni.
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Contesti della radicalizzazione jhadista in Svizzera – sintesi
autori dello studio: Fabien Merz (CSS – Zurigo) e Johannes Saal (Università di Lucerna)
Ascolta Fabien Merz anche nel reportage radiofonico intitolato
RADICALISMO ISLAMICO, PIANIFICARE ALLA SVIZZERA
trasmesso dalla Rete Due della RSI
L’analisi è basata sulle informazioni relative a 130 casi di cui si sono occupati i servizi nel corso degli ultimi dieci anni, che erano o che sono ancora considerati ad alto rischio per la sicurezza interna o esterna della Svizzera, con una prevalenza di ‘viaggiatori (o aspiranti viaggiatori) con finalità jihadiste’. Questo termine viene preferito al più diffuso ‘foreign terrorist fighter’ poiché fa riferimento alla motivazione ideologica specifica dietro la scelta di raggiungere fronti di guerra. Il campione non include unicamente estremisti violenti ma anche sostenitori di gruppi jihadisti e soggetti dediti alla propaganda. Utile l’approccio comparativo con tre paesi vicini -Germania, Francia, Italia- che permette di inserire la Svizzera nel contesto europeo, soprattutto in considerazione del fatto che la scena radicale jihadista nel paese è caratterizzata da network transnazionali, ovvero collegamenti con reti o persone attive nelle nazioni che confinano con le tre diverse regioni linguistiche del paese. In sintesi, si delineano le seguenti tendenze (al netto di fragilità ed esiguità dei dati quantitativi a disposizione, problema sottolineato più volte dagli autori).
Sesso Il fenomeno della radicalizzazione jihadista in Svizzera coinvolge soprattutto gli uomini (90% circa dei profili forniti). Il numero di donne radicalizzate in Svizzera è più basso rispetto alla media europea. Età La media è di 28 anni, e coincide con le tendenze di Germania e Francia. Il 18% del campione al momento della radicalizzazione aveva un’età inferiore ai 20 anni, con un 6% di minorenni. Gli autori dello studio sottolineano come la radicalizzazione di giovanissimi su cui si sono spesso concentrati i media, in Svizzera possa considerarsi un problema marginale. Stato civile Metà degli individui è single o separata; metà di coloro che hanno una famiglia, si è ‘sistemato/a’ dentro il contesto salafita-jihadista. Metà del campione ha almeno un figlio. Istruzione e lavoro La maggior parte degli individui profilati ha un diploma di scuola media; oltre la metà del campione nel periodo pre-radicalizzazione aveva un lavoro mentre i disoccupati rappresentavano un terzo dei casi. Durante la radicalizzazione, la percentuale di questi ultimi raddoppia fino a raggiungere il 58%. Gli autori invitano a considerare come l’attivismo ideologico-religioso (la dedizione alla causa, in altre parole) possa in parte spiegare questa alta percentuale. Indirettamente, il ragionamento sottolinea come la radicalizzazione sia appunto spesso causa, piuttosto che effetto, di un’esclusione sociale o dal mondo del lavoro. Altro dato rilevante: il 41% dei soggetti è in assistenza (cioè beneficia di sostegno finanziario da parte dello Stato). Geografia del fenomeno I radicalizzati tendono a vivere in aree urbane. Oltre la metà nella Svizzera tedesca, più del 40% nella Svizzera francese e poco meno del 4% nel Canton Ticino. Messi in relazione con il totale della popolazione (NON della popolazione di fede islamica) nelle tre diverse aree linguistiche, i dati segnalano una prevalenza del fenomeno nella Svizzera francese. La regione di Ginevra è quella più interessata. Nazionalità L’intelligence ha recentemente indicato come solo un terzo dei viaggiatori con finalità jihadiste detenga la nazionalità svizzera. Il 35% circa del campione analizzato dai ricercatori Merz e Saal è nato in Svizzera, mentre più del 30% aveva meno di 18 anni quando è giunto nel paese. Per questo motivo, anche i radicalizzati svizzeri possono considerarsi a pieno titolo ‘homegrown’ (cioè autoctoni). In oltre il 30% dei casi, le famiglie sono originarie dei Balcani (il che riflette i trend migratori in Svizzera). Contesti sociali I problemi personali dei singoli individui -famiglie spezzate, lutti, episodi di discriminazione, uso di droghe, problemi psichiatrici, identità fragile etc.- fanno spesso da sfondo. I dati a disposizione non confermano la teoria del ‘crime-terror nexus’ -cioè il rapporto fra radicalizzazione jihadista e passato criminale-; poche indicazioni anche riguardo a processi di radicalizzazione iniziati dentro il carcere. I casi di reati precedenti legati alla violenza fisica (aggressioni) sono predominanti. Fattori di radicalizzazione I ricercatori tengono a precisare che anche sulla base dei dati empirici svizzeri non si può affermare, come avviene invece spesso nel dibattito pubblico, che l’Islam ‘per se’ rappresenti un fattore di radicalizzazione. La religiosità -intesa come osservanza più o meno stretta- ricopre un ruolo secondario. Se ben il 20% del campione preso in esame è rappresentato da convertiti, su 59 individui di cui si hanno informazioni al riguardo, solo 7 hanno seguito una qualche forma di istruzione teologica islamica. Su 34 famiglie d’origine di cui si conoscono tali sfumature, 19 sono di orientamento liberale o secolare, 15 osservanti o fondamentaliste. E se il ‘consumo’ di contenuti jihadisti in internet ha un ruolo importante nel processo di radicalizzazione, gli analisti ribadiscono, in linea con quanto osservato anche da altri studiosi, che la visione, per esempio, di video di propaganda dell’ISIS o di sermoni estremisti, non è un elemento che da solo può condurre alla radicalizzazione: sono invece le relazioni personali a fare la differenza e a rappresentare un fattore decisivo, in particolare quelle fra compagni della stessa età oppure con il partner, nel caso delle donne. Solo 35 le persone di cui si hanno informazioni circa i contatti con predicatori salafiti; tuttavia emerge un aspetto interessante, e cioè che gran parte di questi predicatori (fra cui anche reclutatori) proviene dall’estero. Il che per gli analisti sta ad indicare come la scena jihadista svizzera non abbia figure di riferimento al suo interno. La conferma dei legami transnazionali menzionati a inizio articolo, viene anche da attività di proselitismo condivise, come la distribuzione pubblica del Corano da parte di militanti del gruppo ‘Lies!’, diffuso in Germania e anche in Svizzera. Tempistica La radicalizzazione lampo rappresenta l’eccezione; nel 72% dei casi il processo ha avuto una durata di oltre un anno. Natura dell’attività jihadista Due terzi degli individui presi in esame sono entrati nel radar della sicurezza fra il 2013 e il 2015 ed erano impegnati principalmente in attività di propaganda.
Confronto europeo (Germania, Francia, Italia) Nel rapporto fra popolazione totale e numero di viaggiatori con finalità jihadiste la Svizzera supera l’Italia ed è preceduta, ma di poco, dalla Germania. La maggior parte delle 77 persone che hanno raggiunto la Siria e l’Iraq, è partita nel lasso di tempo che va dal 2013 al 2016 per unirsi allo Stato Islamico. Fra le altre destinazioni, l’Afghanistan e la Somalia (in 8 per al-Shabaab). A tornare sono stati finora in 16. La varia natura dei dati a disposizione e delle metodologie di analisi rendono difficile un confronto; tuttavia, l’insieme dei numeri permette di individuare tendenze e tratti comuni. Per la Germania, lo studio ha preso come punto di riferimento l’‘Analyse der Radikalisierungshintergründe und -verläufe der Personen, die aus Islamistischer Motivation aus Deutschland in Richtung Syrien oder Irak ausgereist sind’ (2016). Il campione era in questo caso rappresentato da 784 individui che hanno cercato di raggiungere la Siria e l’Iraq. Ecco le caratteristiche principali: prevalenza di uomini (79%), età media 25 anni, la metà con diploma di scuola media o di grado inferiore, 166 senza lavoro, 89% residente in aree urbane e oltre la metà proveniente da sole 13 città. 81% con passato migratorio, il 61% nato in Germania, poco meno del 40% cresciuto in Germania. 17% di convertiti. 2/3 circa noti alla polizia a causa di reati precedenti (prevalentemente recidivi). La durata del processo di radicalizzazione ha superato l’anno nella maggior parte dei casi. Per ciò che riguarda il paragone con la Francia, i ricercatori svizzeri si sono basati sullo studio di Marc Hecker intitolato ‘137 nuances de terrorisme. Les djihadistes de France face à la justice’ (2018), che ha preso in esame le informazioni disponibili relative a 137 individui condannati per terrorismo fra il 2004 e il 2017. L’analisi rileva un’età media di 26 anni al momento del reato, un basso livello di istruzione, scarsa integrazione nel mercato del lavoro e anche qui, aree geografiche di provenienza ben precise; gran parte dei condannati nata e cresciuta in Francia ma con passato migratorio (origini in prevalenza sub-sahariane e nordafricane), 26% di convertiti. Molti già noti alla giustizia per reati minori. Le dinamiche di gruppo sono fondamentali e la durata del processo di radicalizzazione si estende anche sul lungo periodo (diversi anni).
Ascolta Mark Hecker anche nel reportage intitolato
‘REPUBBLICA E JIHAD. IL CASO DELLA FRANCIA’
trasmesso dalla Rete Due della RSI
L’identikit italiano è stato tracciato da Francesco Marone e Lorenzo Vidino per il dossier ISPI ‘Destinazione Jihad: i Foreign Fighters d’Italia’ (2019). I ricercatori hanno esaminato le informazioni relative a 125 foreign fighters, delineando un quadro che a tratti si discosta anche sensibilmente da quanto osservato in altri paesi europei. In sintesi, il campione ‘disegna’ le seguenti caratteristiche: prevalenza di uomini (oltre il 90%); età media di 30 anni alla partenza; oltre la metà rappresentata da immigrati di prima generazione con solo un 8% di radicalizzati nati dentro i confini nazionali e un esiguo 19.2% in possesso di cittadinanza italiana; l’area geografica maggiormente interessata dalla scena radicale e dall’attivismo jihadista è la Lombardia. Il 44.8% svolgeva lavori non qualificati, un basso livello di istruzione per l’88% circa degli individui, 11% di convertiti, il 44% con precedenti penali. Il 42% almeno in contatto con altri foreign fighters provenienti dall’Italia, il 24% collegato a network estremisti in Italia o in Europa.