L’uccisione del leader del Movimento per il Jihad islamico palestinese Baha Abu al-Ata: un anno dopo
di Claudio Bertolotti
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L’uccisione di Baha Abu al-Ata, il senior leader del movimento per il jihad islamico palestinese considerato responsabile dei lanci di razzi contro Israele, può essere considerata un successo per Gerusalemme, sebbene abbia cambiato di poco il livello di conflitto tra Israele e i gruppi terroristici palestinesi: a più di un anno dalla sua uccisione, Israele continua a subire gli attacchi dei gruppi militanti palestinesi operativi nella Striscia di Gaza.
L’11 novembre 2019 un’operazione congiunta condotta dalle forze di difesa israeliane (IDF) e dallo Shin Bet portava all’uccisione, attraverso un attacco aereo mirato nella Striscia di Gaza, Bahaa Abu al-Ata, del leader del gruppo terrorista palestinese Movimento per il Jihad islamico (Bertolotti, 2019)
L’uccisione di Bahaa Abu al-Ata, ritenuto responsabile dell’organizzazione e condotta di diversi lanci di razzi, può essere considerata un successo per Israele sebbene abbia influito in maniera irrilevante sul livello generale del conflitto tra Israele e i gruppi terroristici palestinesi a Gaza. A più di un anno dalla sua uccisione, Israele continua ad essere sotto attacco da parte di gruppi militanti palestinesi come confermato dal lancio di razzi dalla Striscia di Gaza – non rivendicato – quattro giorni dopo l’anniversario dell’assassinio di Bahaa Abu al-Ata. Attacco a cui è seguita la rappresaglia israeliana: l’IDF ha comunicato, attraverso un tweet del 15 novembre 2020, di aver “colpito le infrastrutture sotterranee di Hamas e le sue postazioni militari a Gaza” – utilizzando aerei da combattimento, elicotteri e carri armati – e che “sta conducendo una valutazione della situazione in corso… pronto a operare contro qualsiasi attività terroristica”.
Va evidenziato, pur a fronte dell’intensità degli attacchi contro Israele, che Gerusalemme e Hamas hanno comunque raggiunto diversi accordi senza che queste azioni offensive potessero interferire in maniera rilevante sul dialogo tra le parti.
L’esito del “targeting” israeliano
Considerando il livello di conflitto tra i due fronti, Israele e i gruppi militanti palestinesi, possiamo davvero ritenere che l’uccisione di Bahaa al-Ata abbia rafforzato la capacità di deterrenza israeliana?
Gli accordi raggiunti da Gerusalemme e Hamas sono stati di breve durata: non sono trascorsi più di tre mesi prima che i militanti delle varie fazioni palestinesi riprendessero gli attacchi; le diverse campagne di attacchi con palloni incendiari contro le comunità nel sud di Israele, inclusi gli sporadici lanci di razzi, tendono a confermare che l’uccisione di Abu al-Ata non avrebbe prodotto risultati significativi. In effetti, l’uscita di scena di Abu al-Ata, pur avendo agevolato le intese tra le due parti attraverso la mediazione dall’Egitto, non ha però portato alla riduzione dell’intensità offensiva da Gaza (Truzman, 2020).
L’uso da parte israeliana del “targeting” – le uccisioni mirate – avrebbe sì portato a risultati di rilievo sul piano negoziale, ma non ha scoraggiato i gruppi jihadisti militanti dall’agire o dal mutare la loro strategia. E inoltre, se è vero che Israele è stato in grado di rimuovere una minaccia che percepiva come imminente, non è però riuscito a dissuadere il Movimento per il jihad islamico e gli altri gruppi palestinesi dal perseguire i propri obiettivi attraverso la stessa tipologia di attacchi privilegiata da Bahaa Abu al-Ata.
Hamas e il Movimento per il Jihad islamico in Palestina: tra tolleranza e concorrenza
Il Movimento per il Jihad islamico in Palestina è un’organizzazione radicale – designata come terrorista dal Consiglio europeo, dagli Stati Uniti e Canada, oltre che da Israele –, la seconda più grande organizzazione militante palestinese a Gaza dopo Hamas, al governo della Striscia. Da quando è stato fondato, nel 1981, il Movimento per il Jihad islamico ha lanciato migliaia di razzi e ha tentato in innumerevoli modi di danneggiare e uccidere i civili israeliani. Fondato da islamisti intransigenti, il gruppo affonda le sue radici nei campi profughi palestinesi e si ritiene che sia composto oggi da alcune migliaia di combattenti. Considerata una forza “per procura” iraniana, la sua leadership ha sede nella capitale siriana, Damasco: secondo Israele il gruppo riceverebbe milioni di dollari in finanziamenti iraniani ogni anno. Nel 2019 e nel 2020 il movimento si è reso responsabile del lancio di centinaia di razzi contro obiettivi civili israeliani, ha tentato di infiltrarsi in Israele scavando tunnel sotterranei per attacchi e ha sparato ai soldati dell’IDF al confine israeliano.
Hamas e il Movimento per il Jihad islamico sono accomunati dall’obiettivo strategico della distruzione di Israele, dalle tecniche e tattiche d’azione contro obiettivi civili israeliani e dall’essere entrambi designati come gruppi terroristici. Tra i due, il Movimento per il Jihad islamico è considerato più aggressivo e audace, soprattutto perché può concentrarsi su attività militari, al contrario di Hamas che invece è impegnato nel governo di un territorio con 2 milioni di persone. Hamas e il Movimento per il Jihad islamico mantengono un rapporto che può essere definito di “cauta alleanza”, si valuta che il secondo sia particolarmente frustrato dalle tregue non ufficiali tra Hamas e Israele (Holmes, 2019).
Israele e Hamas hanno combattuto tre guerre dal 2007, a cui si sommano le scaramucce secondarie. Egitto e Qatar hanno mediato un cessate il fuoco informale negli ultimi anni, durante il quale Hamas ha ridotto gli attacchi con i razzi in cambio di aiuti economici e dell’allentamento del blocco israelo-egiziano, sebbene l’accordo si sia interrotto in più occasioni. Israele ed Egitto hanno mantenuto un forte blocco su Gaza, sin da quando Hamas ha preso il controllo del territorio nel 2007 (Al Jazeera, 2020).
Foto: Hosny Salah
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